L’incremento delle spese
militari è una vergogna, ha detto Papa
Francesco. Tanto più intollerabile perché nel 2022 il governo ha previsto
un taglio di 6 miliardi di spesa in
ambito di sanità pubblica, dopo due anni di
pandemia che hanno sconquassato il servizio sanitario e lasciato un’eredità di
disuguaglianze profonde.
Il 24 febbraio 2022 l’esercito russo ha violato il diritto
internazionale invadendo l’Ucraina e scatenando una devastante guerra di
aggressione che perdura da oltre un mese. La responsabilità dell’invasione e
del brutale conflitto armato che ne consegue ricade unicamente sul presidente Putin, il
quale persegue da due decenni una politica imperialista ultrareazionaria. La
nostra solidarietà va al paese aggredito e alla sua popolazione profondamente
violata dalla guerra, senza dimenticare però la solidarietà a quanti in Russia
si sono opposti finora alla politica bellicista del proprio governo, pagando un
prezzo altissimo per il loro esplicito dissenso. Neppure questa cosa possiamo
dimenticare: che anche la Nato e
diversi Paesi occidentali che la compongono perseguono a loro volta una
politica imperialista che, nella storia recente, non ha esitato a più riprese
a ricorrere all’uso della guerra, in
violazione del diritto internazionale, provocando stragi tra la popolazione
civile. Questo fatto storico, incontestabile, non può essere addotto però come
attenuante della scellerata strategia di Vladimir Putin.
Fatta questa premessa, il nostro obiettivo qui è
dimostrare come uno sguardo sanitario sull’attuale scenario ucraino, vale a
dire uno sguardo rivolto alla promozione e alla tutela della salute, possa
fornire una bussola per tracciare un posizionamento genuinamente politico e
umanitario rispetto al conflitto che infiamma l’Europa, e per intravedere un
percorso di fuoriuscita dall’attuale disordine globale. Sono decine gli scenari
di guerra oscurati e tuttora in corso che incendiano il pianeta; una lente
sanitaria può tornare molto utile dunque a sospingere il
dibattito e la azione politica verso un mondo meno vocato alla belligeranza. Lo
segnalava opportunamente lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, in uno
dei suoi libri sulla storia della medicina, in riferimento alle prime due
guerre mondiali:
“Il fatto che nessuno – o pochissimi – tra i
protagonisti della medicina (…) si sia posto il problema della prevenzione di
una tra le più micidiali pandemie della storia delle società umane deve far
riflettere sull’effettiva coerenza di una scienza medica che, nel mentre si
professa al servizio della vita, rifiuti di accamparsi e si dichiari neutrale.
(…) Se l’ideologia e la politica al potere portano seco, o non contrastano
efficacemente, una calamità sociale e biologica come la guerra, la medicina, se
non vuol essere «un modo del potere», deve esercitare una critica coraggiosa
del calamitoso contesto ideologico-politico. (…) I medici devono esplorare una
nuova provincia della medicina preventiva: la
prevenzione della guerra”.
Per assumere il punto di vista sanitario non occorre
essere medici o infermieri, ovviamente. Chi esercita una professione sanitaria
ha qualche scusa in meno per non farlo, però.
Guerre moderne e impatto sulla salute
La narrazione mediatica della guerra in Ucraina, con
le sue inevitabili forzature emotive, sembra talvolta costruita in modo da aver
scoperto per la prima volta l’orrore della guerra. Purtroppo, la conduzione di
una guerra moderna prevede da
decenni oramai la distruzione di dighe, centrali elettriche, sistemi di
approvvigionamento idrico, ospedali, scuole, strade, ponti, ferrovie, aeroporti.
Da questo punto di vista, l’attuale conflitto in Ucraina non si distingue
affatto da quanto è stato documentato negli interventi di alleanze ONU (Golfo
1991) o della NATO (Repubblica Federale di Jugoslavia, 1999), della coalizione
angloamericana (Afghanistan 2002, Iraq 2003) o della Russia in Cecenia (1999) e
in Siria (2015). Si tratta del resto della stessa modalità militare usata da
Israele nelle sue “operazioni speciali” in Libano (2006) e a Gaza (2009).
Sempre, l’obiettivo finale è quello di distruggere
deliberatamente l’ambiente fisico e la fibra sociale di
un intero paese e del suo territorio. Sempre, l’esito è la devastazione di un
trauma che raramente trova una sua ricomposizione.
La guerra fa male alla salute. Molto male. La
constatazione è banale. Nel caso dell’Ucraina, i dati riportati dall’Oms dopo
un mese di combattimenti (al 31 marzo) parlano di 18
milioni di persone colpite dalla guerra, 4 milioni di
rifugiati, 6,4 milioni di sfollati interni, 1935 civili feriti e 1232 civili
uccisi. Sono dati parziali e non del tutto attendibili su morti e feriti, vista
l’impossibilità di accesso umanitario ai siti degli attacchi – Mariupol è la
città più devastata, ma non l’unica sotto assedio. Sono numeri destinati ad
aumentare, drammaticamente.
A un mese dall’inizio dell’invasione, l’Oms ha
identificato specifiche aree di significativo rischio
sanitario – oltre ai traumi e alle ferite, la salute
materna e neonatale, l’insicurezza alimentare e la malnutrizione, l’insorgenza
di malattie infettive e la impossibile gestione delle malattie croniche, i
rischi legati ad azzardi tecnologici nella conduzione della guerra, la salute
mentale, il traffico di esseri umani e l’escalation della violenza sessuale e
di genere. Ha inoltre verificato attacchi diretti a
18 strutture sanitarie, bersagli d’elezione delle guerre
moderne, come già visto in Afghanistan, o in Yemen. In Siria, Physicians
for Human Rights è riuscita a documentare 601 attacchi su 400 diverse
strutture sanitarie da marzo 2011 – inizio della guerra – a febbraio 2022. 942
persone, tra medici e infermieri, sono stati uccise.
La guerra produce sempre un asfittico blackout
di informazioni e si possono fare con estrema difficoltà stime
da prendere per quello che sono: stime appunto. Ma la letteratura scientifica
che si è cimentata sulla conta dei morti ha calcolato che, anche soltanto per
gli effetti diretti, si computa solitamente almeno un
morto civile per ogni soldato ucciso. Da tenere sempre
presente che i morti e i feriti per gli effetti indiretti, ancora meno
documentati e documentabili, rappresentano un multiplo di quelli diretti.
I meccanismi che generano gli effetti indiretti di una
guerra sulla salute sono molteplici. Non sempre analizzati con sufficiente
attenzione. Possono essere provocati dalla distruzione o dai danneggiamenti
appunto delle strutture sanitarie, delle fonti di rifornimento di energia
elettrica, dell’approvvigionamento idrico/alimentare, dall’impossibilità dello
smaltimento dei liquami. Sono dovuti alla sistematica sottrazione di
risorse a favore dell’investimento militare, ovvero all’aumento
delle diseguaglianze sociali e all’erosione dei diritti che
invariabilmente si producono sia nel paese aggredito sia in quello aggressore.
I bombardamenti di industrie (chimiche e non solo) scatenano conseguenze
rilevanti e di lunga durata sull’ambiente, e
sulla salute. Ci sono poi gli effetti a lunga latenza delle
armi (mine, bombe a grappolo e altri ordigni non esplosi, armi chimiche).
Nel caso dell’Ucraina, per la prima volta, siamo
direttamente esposti al pericolo di incidentale attivazione delle centrali
nucleari, ciò che comporterebbe un netto sconfinamento degli
effetti indiretti della guerra ben oltre i territori direttamente interessati
al conflitto. Infine, come documentato dal New York Times, gli
analisti non escludono il ricorso russo ad ordigni
nucleari tattici. Ma tra gli effetti indiretti e di lunga gittata
sulla salute vanno annoverati l’interruzione di ogni attività culturale e
dell’istruzione, il caos generale che la
guerra produce, le migrazioni forzate e
la precarizzazione di popolazione avviate a una vita sospesa, in assenza di un
progetto migratorio. Le priorità cambiano, le persone si concentrano sulla
sopravvivenza immediata e tutto il resto non conta più.
Le caratteristiche dei conflitti armati moderni – l’assenza
di limiti spaziali e temporali; la privatizzazione e digitalizzazione del
conflitto; la non discriminazione tra obiettivi militari e civili; la
normalizzazione di uno “stato di eccezione” sul piano del diritto
internazionale; gli effetti di lungo periodo e la sempre possibile escalation in
guerra atomica – sono tali per cui nessun fine
solidaristico nei confronti del paese sotto assedio può,
oggi, giustificare il ricorso al mezzo della guerra, che rappresenta un
indiscusso fattore di rischio per la salute pubblica mondiale.
Militarismo e guerra vanno considerati alla stessa
stregua di altre cause prevenibili di
malattie e morte. La richiesta di armi o di altro sostegno militare da parte di
chi è impegnato in una lotta armata di difesa rispetto all’aggressione subita è
legittima. Ma altrettanto legittimo va considerato il rifiuto di tale
richiesta, in relazione alla necessità di
prevenzione di un’ulteriore escalation del conflitto. Lo
scrive con implacabile lucidità Hannah Arendt nel
suo saggio sulla violenza: “Dato che il fine dell’azione umana, a differenza
dei prodotti finali della manifattura, non può mai essere previsto in modo
attendibile, i mezzi usati per
raggiungere degli obiettivi politici il più delle volte risultano più
importanti, per il mondo futuro, degli obiettivi perseguiti”. Non
si difende un popolo aggredito con più violenza e più guerra. L’atteggiamento
alternativo possibile, senza voltarsi dall’altra parte, è il sostegno
alla resistenza nonviolenta, è
il ricorso a forze di interposizione, senza timidezza nel far valere il diritto
internazionale e la tenacia della diplomazia. Per la costruzione della pace,
quasi ad ogni costo.
La minaccia atomica: un’apocalisse
possibile
Le recenti dichiarazioni sia del presidente russo che
del presidente americano di essere disposti a considerare l’utilizzo di
armamentario nucleare a loro disposizione palesano la coltre minacciosa sotto
la quale l’umanità si trova a vivere, finché queste armi continuano ad esistere.
Più che di armi bisognerebbe parlare di “campi di sterminio
montati su missili”, con la definizione di Michael Christ di International
Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW), associazione
fondata nel 1980 da medici statunitensi e sovietici per la prevenzione della
guerra nucleare, premio Nobel per la Pace nel 1985. Anche nel 2017 il comitato
del Nobel ha puntato alla abolizione delle armi nucleari assegnando il premio
per la Pace a ICAN, la campagna nata per far avanzare il trattato internazionale
sulla messa al bando delle armi
nucleari (UN Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons, TPNW).
Crediamo sia importante sottolineare come qualsiasi ragionamento sulla “guerra
giusta” perda ogni senso residuale se confrontato con il
potenziale distruttivo della moderna tecnologia nucleare, realtà più che mai
plausibile nella vicenda ucraina: ciò non equivale ad
assumere una posizione di equidistanza o a negare la
legittimità di una resistenza, anche armata, di fronte ad una aggressione.
Siamo ciechi di fronte all’apocalisse, non
riusciamo ad immaginarci che possa capitare davvero, diceva Günther Anders. Può
esistere una iusta causa per legittimare il sostegno a una
guerra in cui il ricorso allo strumento nucleare viene anche solo contemplato?
Meglio farebbe l’Italia, in questa situazione di tensioni senza limiti, a
prendersi la briga di firmare repentinamente
il trattato di messa al bando delle armi nucleari entrato in vigore il 22
gennaio 2021, e partecipare al primo incontro degli Stati-Parte in programma a
Vienna dal 21 al 23 giugno. Altro che l’aumento al 2% del bilancio delle spese
militari!
L’alternativa esiste
Difficile negare che la militarizzazione del discorso
politico, la servitù militare con la presenza di armi nucleari sul suolo
italiano (si stimano da 70 a 90 ordigni), l’incondizionato sostegno finanziario
all’industria bellica (il cui lavoro è stato considerato essenziale persino
in tempo di pandemia) e lo scriteriato commercio delle armi – anche in
violazione della legge 185/90 per regolamentarlo – facciano parte di quello che
Giorgio Cosmacini definirebbe un “calamitoso contesto ideologico-politico” in
cui le soluzioni militari possono apparire le uniche possibili. Certo, è molto
più facile stare dalla parte di chi proclama di voler difendere il popolo
ucraino mandando armi.
Ma non è vero che non esista una alternativa a questa
distruzione. Solo che l’Europa deve apparecchiarla con lena, con un’opzione
incondizionata per la diplomazia. Lo sostiene
coraggiosamente anche il movimento pacifista
ucraino. Dalla brutalità di quest’ultima tragedia bellica,
che non sappiamo quando finirà, occorre trarre la spinta per un nuovo
disegno di sicurezza europea, e per la
trasformazione dell’esercito in una organizzazione di interposizione e
protezione, anche tramite i corpi civili. La comunità di sanità pubblica
deve sentirsi chiamata in causa in questo momento di dialogo pubblico e
attivarsi senza nascondimenti, anche con l’impegno di società scientifiche e
dell’associazionismo sanitario e sociale, non facendosi tentare da capziose
forme di pacifismo belligerante. L’incremento delle spese militari è una
vergogna, ha detto Papa Francesco. Tanto più intollerabile perché nel 2022
il governo ha previsto un taglio di 6 miliardi di spesa in ambito di sanità
pubblica, dopo due anni di pandemia che hanno sconquassato il servizio
sanitario e lasciato un’eredità di disuguaglianze profondissime nella società.
Anche questa, una guerra ai diritti fondamentali.
Nicoletta Dentico e Pirous Fateh Moghadam
Il testo di questo articolo è stato pubblicato da
“Sbilanciamoci”. Nicoletta Dentico, esperta di cooperazione internazionale e
diritti umani, dirige il programma di salute globale di Society for
International Development (Sid); Pirous Fateh Moghadam è responsabile del
servizio di osservazione epidemiologica della Apss di Trento.
da qui
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