venerdì 29 agosto 2014
mercoledì 27 agosto 2014
Ulisse, quel micio migrante sbarcato insieme ai profughi - Silvia Ferraris
Per Gianluca Brafa, 30 anni, veterinario a Pozzallo, è stata «la prima volta». Stanotte alle 23 gli è arrivata una «strana» telefonata dalla Polizia: «Venga subito al porto, c’è bisogno della sua assistenza». Sull’ultimo barcone di immigrati, in tutto 500 giunti per lo più da Egitto e Siria, c’era anche Ulisse (n.b., il nome è di fantasia), un gatto, grande e bianco, piuttosto denutrito come tutti gli altri compagni di viaggio, e bisognoso di cure. «Quando ho sentito la telefonata» racconta Gianluca Brafa «ho creduto a uno scherzo. Spesso, al numero del pronto soccorso, arrivano le chiamate dei ragazzini». Invece era tutto vero.
Il gatto era di una donna siriana di 35 anni e del fratello di quest’ultima, gravemente disabile. «Il felino era il compagno di giochi del ragazzo. I due fratelli, in fuga dalla Siria, lo avevano messo dentro un trasportino, e avevano preteso di portarselo appresso, nonostante le condizioni disagiate del viaggio» dice il veterinario di Pozzallo. «Sono salito sul rimorchiatore, tra centinaia di persone, e altri medici» - racconta Brafa, «e me lo sono trovato davanti. Sporco, spaventato, smagrito… Io e la mia ragazza avevamo portato qualcosa da dargli, una o due confezioni di mangime, e lo abbiamo sfamato così, con quel poco che avevamo. Poi l’ho visitato, sembrava sanissimo. Però, siccome tutti gli animali che arrivano dall’estero devono fare un periodo di isolamento, lo abbiamo mandato in quarantena in una struttura della Azienda Sanitaria Provinciale di Vittoria».
Gianluca non si ricorda né come si chiamasse la ragazza, né come si chiamasse il gatto. «Era quasi mezzanotte. Il clima a bordo del rimorchiatore era piuttosto agitato. Non ho pensato a certi dettagli». Ma si ricorda molto bene la disperazione della donna nel momento in cui l’interprete le ha comunicato che avrebbe dovuto separarsi dall’animale, per via della quarantena. «Quando gliel’abbiamo detto, è scoppiata in un pianto disperato, e non riuscivamo a consolarla in nessun modo». Qualcuno le ha promesso che avrebbe rivisto l’animale alla fine dell’isolamento necessario a stabilire che non è portatore di gravi malattie o infezioni. «Spero davvero che alla fine della quarantena i due fratelli possano riavere il loro gatto. Se lo meritano. In fondo, non abbandonandolo prima di fuggire dal loro Paese, hanno compiuto un grande atto d’amore». Ma è la prima volta che sui barconi arrivano anche animali, al seguito degli immigrati clandestini? «No no, c’è stata anche una capretta», dice Brafa. «Una capra, sì. Ma non è arrivata qui, mi sembra che l’abbiano portata a Lampedusa».
Quanti si liberano dei loro cani e gatti come se fossero sacchetti di spazzatura, per andarsene poi sereni in vacanza. E questi due ragazzi, certo con altri problemi rispetto a quello di una villeggiatura tranquilla, se lo sono portato su un barcone dalla Siria (MerideGreis).
Il gatto era di una donna siriana di 35 anni e del fratello di quest’ultima, gravemente disabile. «Il felino era il compagno di giochi del ragazzo. I due fratelli, in fuga dalla Siria, lo avevano messo dentro un trasportino, e avevano preteso di portarselo appresso, nonostante le condizioni disagiate del viaggio» dice il veterinario di Pozzallo. «Sono salito sul rimorchiatore, tra centinaia di persone, e altri medici» - racconta Brafa, «e me lo sono trovato davanti. Sporco, spaventato, smagrito… Io e la mia ragazza avevamo portato qualcosa da dargli, una o due confezioni di mangime, e lo abbiamo sfamato così, con quel poco che avevamo. Poi l’ho visitato, sembrava sanissimo. Però, siccome tutti gli animali che arrivano dall’estero devono fare un periodo di isolamento, lo abbiamo mandato in quarantena in una struttura della Azienda Sanitaria Provinciale di Vittoria».
Gianluca non si ricorda né come si chiamasse la ragazza, né come si chiamasse il gatto. «Era quasi mezzanotte. Il clima a bordo del rimorchiatore era piuttosto agitato. Non ho pensato a certi dettagli». Ma si ricorda molto bene la disperazione della donna nel momento in cui l’interprete le ha comunicato che avrebbe dovuto separarsi dall’animale, per via della quarantena. «Quando gliel’abbiamo detto, è scoppiata in un pianto disperato, e non riuscivamo a consolarla in nessun modo». Qualcuno le ha promesso che avrebbe rivisto l’animale alla fine dell’isolamento necessario a stabilire che non è portatore di gravi malattie o infezioni. «Spero davvero che alla fine della quarantena i due fratelli possano riavere il loro gatto. Se lo meritano. In fondo, non abbandonandolo prima di fuggire dal loro Paese, hanno compiuto un grande atto d’amore». Ma è la prima volta che sui barconi arrivano anche animali, al seguito degli immigrati clandestini? «No no, c’è stata anche una capretta», dice Brafa. «Una capra, sì. Ma non è arrivata qui, mi sembra che l’abbiano portata a Lampedusa».
Quanti si liberano dei loro cani e gatti come se fossero sacchetti di spazzatura, per andarsene poi sereni in vacanza. E questi due ragazzi, certo con altri problemi rispetto a quello di una villeggiatura tranquilla, se lo sono portato su un barcone dalla Siria (MerideGreis).
lunedì 25 agosto 2014
Rosa Luxemburg incontra un bufalo
“Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’
esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con
macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e
quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato
un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto
questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto
ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è
più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi
mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono
il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi,
e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà.
Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il
detto “vae victis”…
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una
tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta
carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a
batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la
guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di
compassione per gli animali. “Neanche per uomini c’è compassione” rispose
quello con un sorriso maligno, e batté ancora più forte… gli animali
infine si mossero e superarono l’ostacolo ma uno di loro sanguinava… Sonicka,
la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era
lacerata.
Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti,
completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé
e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a
quella di una bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’ espressione di
una bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa
come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale
mi guardava, mi scesero le lacrime – erano le sue lacrime; per il fratello più
amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io,
inerme davanti a quella silenziosa sofferenza.
Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli,
liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore
del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli
uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e
abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di
paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che
scorre giù dalla ferita aperta.
Oh, mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui
entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza,
nella nostalgia… Intanto i carcerati correvano operosi qua e là intorno al
carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il
soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per
il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una
canzonaccia…”
domenica 24 agosto 2014
sabato 23 agosto 2014
Amore: la gentilezza conta più di fato e passione - Anna Meldolesi
L’ amore è
la più inafferrabile delle idee. È la luce bianca delle emozioni, perché
racchiude tanti sentimenti in un’unica, piccola parola (Diane Ackerman). È una
nebbia che si dissolve ai primi raggi della realtà (Charles Bukowski). Una
follia temporanea curabile con il matrimonio (Ambrose Bierce).
Romantici e disincantati, ciascuno scelga la sua
definizione. Di sicuro vivere insieme felicemente tutta la vita è un impegno
che riesce bene a pochi. Lo confermano i dati. Oggi in Italia si contano 311
separazioni e 182 divorzi ogni mille matrimoni, queste cifre nel 1995 erano
grosso modo la metà, e comunque non tengono conto delle unioni protratte e
infelici. Cosa distingue gli amori che funzionano da quelli che
falliscono? Ce lo siamo chiesti tutti, almeno una volta, osservando le
alterne fortune delle nostre e delle altrui relazioni. Chi cerca ancora una
risposta potrebbe trovarla negli studi decennali di John Gottman e nella
parabola del cardellino.
«Tutte le famiglie felici sono simili; ogni famiglia
infelice lo è a modo suo», ha scritto Tolstoj. Lo psicologo dell’Università di
Washington però la pensa un po’ diversamente. I virtuosi della buona convivenza
hanno tutti qualcosa in comune, che ai rimandati e ai bocciati dell’amore
manca. Master e Disaster, maestri e disastri, sono le etichette che assegna
scherzosamente alle due categorie. Nel suo «laboratorio dell’amore» ne
sono passati a migliaia e una buona parte di loro è stata seguita con
uno studio longitudinale per anni. Nel 1986 Gottman e il suo collega Robert
Levenson hanno iniziato a osservare le interazioni dei neosposi, facendoli
parlare del primo incontro, del peggior litigio e del ricordo più bello. Non si
sono accontentati delle parole, hanno ascoltato anche il linguaggio del corpo.
A volte le persone sembravano tranquille, gli elettrodi però raccontavano
un’altra storia. Il cuore pompava forte, il sangue scorreva in fretta,
sudavano. Anche quando ricordavano episodi piacevoli, vivevano uno stato di
preallarme, come se fossero pronte a essere attaccate e attaccare. E in ogni
momento potevano uscirsene fuori con battute sgarbate che rivelavano il
nervosismo sommerso. Sono proprio queste le persone che poi, a distanza di
tempo, hanno visto le loro unioni naufragare.
Una ricerca di Levenson del 2013 suggerisce che quando
il matrimonio diventa un terreno di battaglia è soprattutto lo stato d’animo
delle donne a determinare se si farà o meno la pace. Altri tasselli del
puzzle sono stati sistemati con uno studio avviato nel 1990, in cui 130 coppie
fresche di matrimonio sono state osservate in un set sperimentale così ricco da
assomigliare a una casa per le vacanze. I ricercatori li hanno osservati mentre
cucinavano, parlavano, passavano il tempo. Ed è qui che Gottman ha messo a
fuoco il segreto dell’amore durevole, secondo il resoconto affidato all’ultimo
numero della rivista The Atlantic . Immaginate un marito appassionato di bird
watching, l’osservazione degli uccelli. Vede un cardellino che attraversa in
volo il cortile e chiama la moglie. «Guarda che bello!». Lei può correre alla
finestra e condividere quell’emozione. Oppure può limitarsi ad annuire
distrattamente. La scena, naturalmente, può presentarsi anche al contrario: lei
chiama lui, magari per dirgli che ha ricevuto una bella notizia; lui può cogliere
o lasciar fuggire via l’attimo. Per coltivare un amore bisogna saper stare
insieme nella cattiva sorte, ma anche in quella buona. Quello che conta non è
l’uccellino, e anche la lieta novella può essere più o meno importante. C’è in
gioco altro: la disponibilità a prestare attenzione a chi abbiamo di
fianco, a condividere i suoi stati d’animo.
Far cadere le «offerte di interazione» è come un
veleno distillato quotidianamente alla felicità coniugale. Sei anni dopo
l’esperimento, lo psicologo e i suoi colleghi hanno scoperto che a divorziare
erano state le coppie in cui questi piccoli bisogni emozionali del partner
erano stati soddisfatti solo tre volte su dieci nel periodo di osservazione. Le
coppie che avevano retto, invece, avevano superato la prova nove volte su
dieci. Lo spartiacque tra Master e Disaster, insomma, non è segnato dalle
fiamme della passione, né dalla magia rara di un incontro predestinato. La
differenza la fanno la generosità e, soprattutto, la gentilezza. Gentili ed
empatici forse in parte si nasce, ma soprattutto lo si diventa allenandosi a
vedere la parte migliore dell’altro e a essere dei buoni compagni di vita. È
questa l’arte dei Master.
Non arriva a conclusioni molto diverse Ty Tashiro,
autore del libro The science of happily ever after, ovvero la
scienza del vissero tutti felici e contenti. Lo psicologo di New York si
concentra sul momento della scelta del partner e sostiene che l’amore
assomiglia alla lampada di Aladino: non possiamo sperare che soddisfi più di
tre desideri. Chi va alla ricerca di un partner dotato di molti talenti è
statisticamente destinato alla frustrazione. Essere particolarmente attraenti
non migliora, anzi può peggiorare, le chance di felicità coniugale. La
ricchezza aiuta, ma oltre la soglia dei settantacinquemila dollari l’anno è
ininfluente. L’unica caratteristica che sembra alzare le probabilità di
successo di un’unione è quel tratto della personalità che viene chiamato
amicalità, sostiene Tashiro. È il buon carattere del linguaggio comune ed è
probabile che aiuti a superare anche la «prova del cardellino».
lunedì 11 agosto 2014
un cane contento
Dopo due anni di assenza, Rebecca ritorna a casa in Pennsylvania e incontra il suo schnauzer. In questo video le immagini raccontano la gioia incontenibile del cane nel rivedere la sua padrone. E' tale l'emozione, che per pochi secondi e senza conseguenze, il cucciolo perde i sensi.
domenica 10 agosto 2014
un inchino a Liang Yaoyi, un grande bambino
Una madre impietrita dal dolore,
sullo sfondo. Al centro una portantina ferma in corridoio d’ospedale. Intorno
medici e infermieri si inchinano con rispetto. Un gesto ribadito tre volte, un
gesto che nella tradizione cinese - si chiama koutou - viene ripetuto ai
funerali, in senso di profondo dolore e affetto per lo scomparso. Perché, la
foto, che ha suscitato impressione in tutta la Repubblica Popolare, è quella di
una tragedia umana come tante, dove però il protagonista, un bambino di undici
anni, è emerso come un gigante per la sua forza d’animo e la sua generosità,
espressa fino a un istante prima
di chiudere per sempre gli occhi.
Questa è la storia di Liang Yaoyi, uno scolaro di Shenzhen,
città i cui confini costeggiano quelli di Hong Kong, colpito da un destino
senza vie d’uscita: un tumore al cervello inoperabile. Yaoyi era al corrente
della verità, sapeva di non avere molto tempo da vivere. Tutte le cure senza speranza,
la malattia non poteva che avere un esito. Yaoyi, tuttavia, sorprendendo la sua
stessa famiglia e i medici che lo avevano seguito all’Ospedale universitario
Zhongshan, aveva sin dall’inizio espresso la volontà di donare i suoi organi
«per salvare altre vite»…
continua
qui
mercoledì 6 agosto 2014
Il primo contatto con la "civiltà"
Nudi, armati di archi e frecce, molto lontani dal mondo conosciuto, fischiando ed emettendo suoni come animali. Questa è stata la reazione di una tribù indigena che non aveva mai avuto contatti con la civiltà. Per la prima volta lo scorso 26 giugno un gruppo di questi indigeni apparve come per magia dalla foresta amazzonica entrando in contatto con indigeni ashaninkas del nord del Brasile, probabilmente in fuga dal Perù.
La Fundación Nacional del Indígena de Brasil (Funai) ha diffuso un video che documenta il momento del contatto sulle rive del río Envira, nello stato brasiliano di Acre, ai confini col Perù.
Nella scena si può vedere il momento nel quale un ashaninka con i pantaloncini consegna un grande grappolo di banane a due indigeni identificati come 'el pueblo del Rio Xinane', appartenente al gruppo linguistico "pano"
"Il video è una delle scene registrate nel momento in cui indigeni isolati entrano in contatto con un gruppo della Funai e gli ashaninkas. Fu il secondo giorno di contatto, il 30 giugno", spiegò lunedì Carlos Travassos, direttore del dipartamento degli indígeni isolati della FUNAI, alla tv G1 della rete Globo.
Il primo contatto con questa tribù di indigeni risale al 26 giugno, Stavano cercando di attraversare il fiume Envira, sulle cui rive si trova il villaggio Simpatia degli indíos ashaninkas.
"Fischiavano e facevano versi di animali", raccontó Travassos.
Questo esperto di indigeni isolati spiegò che i contatti furono brevi e che gli indigeni tornarono rapidamente nella selva.
Ci furono nuovi avvistamenti i giorni seguenti, fino al contatto diretto e pacifico, che fu facilitato dalla presenza di due interpreti indigeni che parlano la lingua "pano" e che stabilirono con essi una relazione di fiducia.
Esperti brasiliani pensano che questi indigeni attraversarono la frontiera dal Perù verso il Brasile a causa delle pressioni esercitate dai tagliatori di legna clandestini e dai narcotrafficanti nei loro territori ancestrali. Secondo l'antropologo Terri Aquino della Funai, il contatto è avvenuto probabilmente per cercare asce, coltelli e casseruole.
"Quella tribù stava cercando tecnologia. E' importante per la loro vita perché c'è una guerra interna fra loro a causa del contatto con gruppi non indigeni", ha detto a G1.
Secondo l'indio jaminawa José Correia, una delle persone che ha comunicato con gli indigeni isolati, venivano in cerca di armi e alleati. "Raccontarono che furono attaccati da non indigeni e che molti morirono di influenza e difterite", aggiunse Correia.
La Funai ha affermato che il gruppo di indigeni isolati è ritornato alla selva, ma si è riavvicinato al villaggio Simpatia in cerca di contatto con la civiltà tre settimane fa, poiché alcuni erano ammalati di influenza. Una squadra medica del governo fu mandata nella zona e curò sette di loro che erano ammalati, per evitare il contagio nella tribù, composta da circa cinquanta persone.
Nella Amazzonia brasiliana vive il maggior numero di tribù isolate del mondo. La Funai ne stima 77, in gruppi che vanno da cinque ad un centinaio di individui.
martedì 5 agosto 2014
due bambini col babbo sulla strada di Santiago di Compostela
Quei 113 chilometri percorsi a piedi hanno molti significati. Contengono la voglia di vedere applicata la Carta dei diritti per le persone autistiche, in particolare l'articolo 11 (il diritto a mezzi di trasporto accessibili e alla libertà di movimento) e l'articolo 12 (l'accesso ad attività culturali, ricreative e sportive e a goderne pienamente). E contengono il desiderio di sfidare i pregiudizi e di dimostrare che le condizioni di disabilità non possono impedire qualsiasi attività. Penso proprio che Pierangelo Cappai sia partito da Cagliari con uno zaino pieno di aspettative, il 2 Luglio, dando il via al progetto “In cammino con l’autismo”, patrocinato dall’associazione Diversamente Onlus, lungo un percorso sufficientemente collaudato: Santiago de Compostela. Per cercare di capire il senso di questa impresa Linguaggio Macchina ha intervistato Pierangelo Cappai, insegnante, Presidente e socio fondatore dell’Associazione Diversamente Onlus, sposato con Alessandra, Assistente Sociale, è papà di Federico, 13 anni e di Karola Teresina, 8 anni.
Com'è nato questo progetto?
«Premetto che sin dal momento della diagnosi ho sempre sentito l’esigenza di fare rete, di unirmi ad altri genitori per condividere l’esperienza, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti e sulle particolari esigenze delle persone con autismo e proprio per questo motivo sin dal 2007 ho contribuito a fondare, con altri genitori, l’Associazione Diversamente Onlus che ho l’onore di rappresentare essendo il Presidente. Con l’Associazione ci siamo spesso mossi in gruppo, sia per escursioni di una giornata che per veri e propri viaggi di più giorni anche all’estero. L’idea del viaggio è nata almeno un anno fa, doveva essere almeno inizialmente un’esperienza personale. Ho pensato poi di condividerla con uno scopo ben preciso o meglio con due obiettivi, il primo quello di far conoscere il più possibile la Carta dei Diritti delle Persone con Autismo, in particolare gli articoli riguardanti la mobilità e il secondo quello di dimostrare che anche nei casi di autismo a basso funzionamento o comunque con maggiori compromissioni non bisogna arrendersi, non bisogna fermarsi ma al contrario cercare di garantire loro il maggior numero di opportunità. Terminata la scuola le occasioni di socializzazione e integrazione si riducono notevolmente e se sin da piccoli non abituiamo i nostri figli e non ci abituiamo noi genitori ad affrontare anche situazioni in ambienti non strutturati e non protetti, il rischio dell’autoghettizzazione è molto alto.»
Come vi siete preparati?
«Federico sapeva da mesi della partenza, ha imparato a riconoscere alcune delle immagini tipiche del Cammino quali la Freccia Gialla, la conchiglia e alcuni pittogrammi che poi si trovano lungo il percorso. Questo lo ha aiutato molto. Per quanto riguarda la preparazione fisica, in realtà sarebbe dovuta essere maggiore, anche perché Federico è un ragazzo abbastanza pigro, che tende a non voler camminare e che molto spesso se decide di fermarsi e non proseguire è irremovibile. Durante tutto il cammino in ogni caso sono stati rispettati i tempi e le esigenze dettate principalmente da Federico, con frequenti pause e soprattutto nei primi giorni terminando il cammino dopo pochi chilometri.»…
Com'è nato questo progetto?
«Premetto che sin dal momento della diagnosi ho sempre sentito l’esigenza di fare rete, di unirmi ad altri genitori per condividere l’esperienza, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti e sulle particolari esigenze delle persone con autismo e proprio per questo motivo sin dal 2007 ho contribuito a fondare, con altri genitori, l’Associazione Diversamente Onlus che ho l’onore di rappresentare essendo il Presidente. Con l’Associazione ci siamo spesso mossi in gruppo, sia per escursioni di una giornata che per veri e propri viaggi di più giorni anche all’estero. L’idea del viaggio è nata almeno un anno fa, doveva essere almeno inizialmente un’esperienza personale. Ho pensato poi di condividerla con uno scopo ben preciso o meglio con due obiettivi, il primo quello di far conoscere il più possibile la Carta dei Diritti delle Persone con Autismo, in particolare gli articoli riguardanti la mobilità e il secondo quello di dimostrare che anche nei casi di autismo a basso funzionamento o comunque con maggiori compromissioni non bisogna arrendersi, non bisogna fermarsi ma al contrario cercare di garantire loro il maggior numero di opportunità. Terminata la scuola le occasioni di socializzazione e integrazione si riducono notevolmente e se sin da piccoli non abituiamo i nostri figli e non ci abituiamo noi genitori ad affrontare anche situazioni in ambienti non strutturati e non protetti, il rischio dell’autoghettizzazione è molto alto.»
Come vi siete preparati?
«Federico sapeva da mesi della partenza, ha imparato a riconoscere alcune delle immagini tipiche del Cammino quali la Freccia Gialla, la conchiglia e alcuni pittogrammi che poi si trovano lungo il percorso. Questo lo ha aiutato molto. Per quanto riguarda la preparazione fisica, in realtà sarebbe dovuta essere maggiore, anche perché Federico è un ragazzo abbastanza pigro, che tende a non voler camminare e che molto spesso se decide di fermarsi e non proseguire è irremovibile. Durante tutto il cammino in ogni caso sono stati rispettati i tempi e le esigenze dettate principalmente da Federico, con frequenti pause e soprattutto nei primi giorni terminando il cammino dopo pochi chilometri.»…
venerdì 1 agosto 2014
paese che vai spiagge che trovi
…Ed eccoci qui sopravvissuti a una mini
aggressione xeno-omo - o semplicemente fobica. A Minorca, gioiello delle
Baleari, orgoglio accogliente di una Spagna che qui cerca di dimenticare
l'atmosfera deprimente della crisi, c'è tempo per l'odio. Chissà forse perché
nudi - in una spiaggia naturista - forse perché autoctoni solo a metà o forse
perché colpevoli di essere due uomini chiaramente felici della reciproca compagnia.
Ma eccolo lì un bestione a minacciarci con il bastone di un ombrellone,
gridando il suo disgusto, a cercare una provocazione per darci addosso. L'amico
cerca di calmarlo, e si scusa con uno sguardo, la moglie (dell'amico),
vergognandosi, come una ladra lascia la spiaggia e poco dopo la segue il resto
della famiglia. Lui resta e due belle signore si scagliano in nostra difesa
gridandogli "sin verguenza" (sei senza vergogna). Noi rispondiamo,
fermi - paralizzati più dall'incredulità che dalla paura - ma senza cedere alla
provocazione. Lasciato solo dalla famiglia (resta l'amico a calmarlo ancora
"ya está, ya está) e accerchiato dalla disapprovazione di tutti alla fine,
pur borbottando "a me nessuno mi caccia da qui", se ne va. In quel
momento tutta la spiaggia applaude in nostro sostegno, tutti felici che quel
grumo di intolleranza insensata lasci uno spazio condiviso serenamente fino a
quel momento. Non mi era mai successo e, nonostante anni a denunciare,
manifestare, richiamare l'attenzione sui soliti temi a suon di "che palle
'sti froci", mi scopro a rimuginare ancora una volta che la violenza
ferisce ma la violenza discriminante avvelena perché semina il dubbio di
sentirsi sbagliati e lascia una rabbia brutta, la rabbia di un cazzotto che
avrei voluto dare ma che ora sento di aver preso nello stomaco. E non posso
fare a meno di pensare a chi non ha le risorse per capire, farsi capire o
difendersi dentro e fuori. A chi quella spiaggia che si alza piedi e applaude
non l'ha avuta mai o non ce l'avrà mai. E mi spezza il cuore.
Se nell'almodovariana e post zapateriana Spagna questo può ancora accadere, che cosa può e deve ancora accadere nell'Italia di Giovanardi, della Binetti, dei Dico mai fatti, per capire che uno straccio di legge contro l'omofobia - che non è una riforma costituzionale - è urgente, non tanto per le pene che comminerà, ma per unire quella spiaggia, per sentire più forte quell'applauso che in parte oggi ci ha salvati…
Se nell'almodovariana e post zapateriana Spagna questo può ancora accadere, che cosa può e deve ancora accadere nell'Italia di Giovanardi, della Binetti, dei Dico mai fatti, per capire che uno straccio di legge contro l'omofobia - che non è una riforma costituzionale - è urgente, non tanto per le pene che comminerà, ma per unire quella spiaggia, per sentire più forte quell'applauso che in parte oggi ci ha salvati…
la malattia dello stare seduti
…La cosiddetta "Sitting Disease", la 'Malattia
dello stare seduti', è stata collegata ad un deciso aumento dei rischi di ben
34 diverse patologie: dal diabete del tipo II al declino cognitivo, dal cancro
agli ictus, alle cardiopatie. Una recente indagine - ha spiegato ai media
americani Levine - ha osservato che le persone che stanno meno sedute vivono
più a lungo.
I suggerimenti contenuti nel libro di Levine si rivolgono a tutta la popolazione adulta, ma in particolare agli anziani: "Fare attività fisica 30 minuti al giorno va bene - ha osservato l'endocrinologo - ma non può certo contrastare gli effetti negativi dello stare seduti tutto il giorno. Ciò che bisogna fare è alzarsi dalla sedia, dalla poltrona o dal sofà almeno 10 minuti ogni ora e muoversi. E questo è particolarmente importante per i pensionati che vogliono vivere una esistenza piena dopo una vita di lavoro" Secondo gli studi di Levine, la maggior parte della gente siede 10-15 ore al giorno, mentre il corpo è disegnato per il movimento.
Tra i consigli dati dal medico figurano: fare brevi camminate a intervalli di mezz'ora o massimo un'ora, andare in giardino, piegare la biancheria stando in piedi, pedalare sulla cyclette guardando la Tv, parlare al telefono passeggiando per casa. Fare shopping andando nei negozi e non tramite Internet. E per gli anziani disabili, magari in sedia a rotelle? "Uno dei miei pazienti è in effetti in sedia a rotelle, ogni ora facciamo una serie di esercizi con le braccia, dai push-up a una sorta di danza delle mani". Il mantra di Levine è quindi, non limitarsi alla mezzora di esercizio quotidiano raccomandato, ma muoversi a intervalli regolari: i dati mostrano il beneficio di questo regime fisico a intermittenza contro la sedenterietà.
I suggerimenti contenuti nel libro di Levine si rivolgono a tutta la popolazione adulta, ma in particolare agli anziani: "Fare attività fisica 30 minuti al giorno va bene - ha osservato l'endocrinologo - ma non può certo contrastare gli effetti negativi dello stare seduti tutto il giorno. Ciò che bisogna fare è alzarsi dalla sedia, dalla poltrona o dal sofà almeno 10 minuti ogni ora e muoversi. E questo è particolarmente importante per i pensionati che vogliono vivere una esistenza piena dopo una vita di lavoro" Secondo gli studi di Levine, la maggior parte della gente siede 10-15 ore al giorno, mentre il corpo è disegnato per il movimento.
Tra i consigli dati dal medico figurano: fare brevi camminate a intervalli di mezz'ora o massimo un'ora, andare in giardino, piegare la biancheria stando in piedi, pedalare sulla cyclette guardando la Tv, parlare al telefono passeggiando per casa. Fare shopping andando nei negozi e non tramite Internet. E per gli anziani disabili, magari in sedia a rotelle? "Uno dei miei pazienti è in effetti in sedia a rotelle, ogni ora facciamo una serie di esercizi con le braccia, dai push-up a una sorta di danza delle mani". Il mantra di Levine è quindi, non limitarsi alla mezzora di esercizio quotidiano raccomandato, ma muoversi a intervalli regolari: i dati mostrano il beneficio di questo regime fisico a intermittenza contro la sedenterietà.
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