giovedì 30 giugno 2022

La crisi climatica è una forma di violenza strutturale? - Katerina Exarchou

  

Quando esaminano il nesso tra crisi climatica e violenza, molti ricercatori, giornalisti, analisti politici e ambientalisti tendono a concentrarsi esclusivamente sul potenziale legame tra riscaldamento globale e aumento dei conflitti: il mondo diventerà più violento? La distruzione del clima innescherà rivolte ed esacerberà le minacce alla pace e alla stabilità? Gli Stati fragili e quelli che subiscono i maggiori effetti della crisi climatica sono più inclini al conflitto?

Sebbene la crisi climatica, insieme ad altri fattori significativi, di fatto intensificherà i problemi sociali, politici ed economici esistenti e aumenterà le disuguaglianze, se vogliamo davvero affrontare la minaccia e, di conseguenza, raggiungere la giustizia climatica, dovremmo prima determinarne le cause radicali: vale a dire, le strutture che (ri)producono le condizioni che portano alla crisi climatica.

Il rapporto recentemente pubblicato dalla Rete Europea contro il Razzismo [1] evidenzia che le comunità che subiscono razzismo ed emarginazione sono sproporzionatamente esposte agli effetti della distruzione del clima, soprattutto a causa del (neo)capitalismo coloniale, ossia “l’ideologia e la pratica di massimizzare i profitti e la ricchezza per i pochi all’apice di una gerarchia razziale, estraendo questa ricchezza dalla terra, dalla forza lavoro e dalle risorse altrui; se non possono essere fonte di ricchezza, le comunità spesso subiscono un’assimilazione forzata, oppure vengono completamente escluse dalla ricchezza accumulata e dai servizi correlati.”

Ad esempio, le terre indigene delle popolazioni Saami e Inuit nell’Artico vengono sfruttate dai progetti estrattivisti, che rimuovono grandi quantità di risorse naturali per guadagnare capitale. In Francia, i siti pericolosi, come gli inceneritori e le strutture per la gestione dei rifiuti, hanno maggiori probabilità di essere situate vicino a città con un maggior numero di immigrati, mentre le comunità delle isole caraibiche francesi della Martinica e della Guadalupa sono esposte a un pesticida tossico, il clordecone, il cui uso è invece illegale negli Stati Uniti e nella Francia metropolitana. Inoltre, le comunità rom della Romania sono costrette a vivere vicino alle discariche, dove l’inquinamento atmosferico e gli odori emessi peggiorano man mano che l’ambiente diventa sempre più caldo.

La profonda sproporzione tra i minori responsabili della crisi climatica, che ne sono i più colpiti e, dall’altra parte, i maggiori responsabili, che sono più protetti e le cui azioni sono solitamente prive di restrizioni, dà luogo a una situazione di ingiustizia di base e a un’evidente violenza sistemica, non solo a livello locale, ma anche su scala globale.

Storicamente, fino a oggi gli Stati Uniti hanno emesso più CO2 di qualsiasi altro paese [2]: sono responsabili del 25% delle emissioni globali. Anche i ventotto paesi dell’Unione Europea contribuiscono notevolmente, con il 22%. Oltre ai paesi ricchi e sviluppati, altri elementi significativi, come i grandi colossi dei combustibili fossili, svolgono un ruolo importante nel degrado ambientale, dal quale traggono un beneficio economico sproporzionato. È stato ampiamente trascurato il fatto che le comunità che vivono vicino alle riserve di combustibili fossili estratte dalle aziende di combustibili fossili vengano private della ricchezza generata.

Allo stesso tempo, queste aziende hanno acquisito una grande influenza politica, che consente loro di opporsi alla cessazione della dipendenza dai combustibili fossili e di preservare un modello aziendale di estrazione e combustione dei combustibili fossili solo parzialmente limitato. Nel primo trimestre del 2022, Occidental Petroleum, Exxon Mobil e Koch Industries hanno speso più di 12,4 milioni di dollari per fare pressione sul Congresso degli Stati Uniti [3] – circa un milione di dollari in più rispetto a quanto speso nel primo trimestre del 2021 – dato che l’invasione russa dell’Ucraina ha alterato gli equilibri del mercato globale dell’energia.

Le strutture giuridiche, politiche ed economiche prevalenti forniscono un terreno fertile per l’espansione delle pratiche delle società del petrolio, del gas e del carbone. La crisi climatica si sta evolvendo come una caratteristica critica delle strutture menzionate in precedenza, che perpetuano la violenza, aggravando le disuguaglianze già esistenti e creando nuove forme di oppressione.

Per fornire un quadro più completo di come potremmo osservare la connessione tra violenza strutturale e degrado ambientale, quest’ ultimo può essere effettivamente descritto come una forma della prima. Affermare che la crisi climatica potrebbe potenzialmente causare violenza sarebbe semplicemente fuorviante. La crisi climatica è essa stessa violenza e, pertanto, non dovremmo concentrarci esclusivamente sul suo impatto finale, ma comprendere il contesto storico del sistema e delle istituzioni che sono alla base della distruzione del clima.

Pertanto, anche se stiamo cercando di trovare la nostra strada verso la vera giustizia climatica, non si può semplicemente porre rimedio agli errori fatti. È opportuno mettere il dibattito sul potere, il razzismo e la disuguaglianza (inclusa la disuguaglianza sociale, economica, razziale e di genere) al centro del movimento per la giustizia climatica e creare una connessione tra la violenza istituzionalizzata e la crisi climatica, portando visibilità a coloro che ne sono e ne saranno più colpiti; i colloqui sul clima con un’adeguata rappresentanza delle comunità vittime di razzismo sono più che fondamentali. Nel complesso, è necessaria un’azione climatica decolonizzata e antirazzista, al fine di affrontare la crisi climatica al di là della dimensione puramente ambientale.

[1] https://www.enar-eu.org/racialised-communities-in-europe-hit-hardest-by-the-climate-crisis-new-enar-report/
[2] https://ourworldindata.org/contributed-most-global-co2

[3] https://www.opensecrets.org/news/2022/04/top-oil-gas-companies-increase-lobbying-spending-amid-global-energy-crisis/

 

Traduzione dall’inglese di Simona Trapani. Revisione di Thomas Schmid

 

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mercoledì 29 giugno 2022

La convivialità che rivela Essaouira - Annamaria Rivera


È da quasi un trentennio, cioè da quando ho iniziato a integrare nelle mie ricerche, conseguentemente in saggi e articoli, ciò che viene detto impropriamente “la questione animale” (o “dei non-umani”), che il pensiero e le opere di Philippe Descola mi sono diventati indispensabili, tanto da citarlo assai frequentemente.

Tra l’altro, è anche grazie alle sue ricerche e al suo pensiero che ho trovato il coraggio di condurre una più che decennale ricerca di campo a Essaouira: una cittadina del Sud-Ovest del Marocco, esemplare per la sua storia di mixité e in particolare per la lunga convivenza tra arabo-musulmani ed ebrei, per non dire di altre minoranze. En passant, ricordo solo che negli anni ’20 del Novecento la popolazione ebraica era superiore a quella musulmana.  

 

La mia è una ricerca – come dicevo – ispirata da ciò che oggi viene detta “etnografia multispecie”, che poi, nel mio caso, si è concretizzata in un saggio, pubblicato nel 2016: La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira. In questo saggio assume un ruolo rilevante il tema della convivialità interspecifica: con gatti, gabbiani e perfino cani. Dico “perfino” perché per lungo tempo questi ultimi sono stati considerati esseri impuri, com’è ben noto. Va precisato, tuttavia, che la distinzione fra animali puri e impuri non è affatto peculiare del solo mondo musulmano.

Ancora a proposito della convivialità interspecifica, conviene aggiungere che essa è stata per me non solo oggetto di osservazione, ma anche e soprattutto vissuto personale relazionale: diretto e duraturo.

Secondo la mia esperienza di campo, l’agency animale, se non permette di collocare il non-umano nel ruolo classico dell’“informatore”, lo posiziona comunque in quello di attore e testimone di un contesto che favorisce incontri, relazioni, perfino lunghe amicizie transpecifiche. Tutto ciò ho potuto sperimentarlo personalmente, soprattutto con alcuni gabbiani e gatti, ai quali da non pochi anni mi lega un’amicizia fedele e costante.

V’è un altro aspetto da sottolineare: a Essaouira a prendersi cura di animali liberi quali gabbiani, gatti e perfino cani sono anche, se non soprattutto, le persone più diseredate, le quali praticano una comune etica della compassione e della solidarietà, estesa oltre la specie umana. Esse, concedendosi il “lusso” del senso e del dono, dellʼaffettività e della cura più gratuite, si sottraggono alla ragione economica e utilitaria che le ha condannate. E in tal modo spezzano la catena dell’obbligata dipendenza dal bisogno a cui la società le ha legate e le immagina schiave.

Nondimeno, l’amore e la cura verso i gatti, in particolare, non riguardano solo i diseredati, ma anche bottegai, commessi, camerieri. Tant’è vero che soprattutto i felini – ma anche non pochi cani – gironzolano abitualmente fra i tavoli di caffè e ristoranti, all’aperto e all’interno; dormono indisturbati sulla soglia o dentro le botteghe di quell’ininterrotto bazar che è la città entro le mura: comodamente acciambellati su divani, tappeti, coperte, mobili di tuia e altri pregiati oggetti artigianali in vendita.

Ovviamente la “zoofilia spontanea”, praticata da molti/e abitanti di Essaouira, si arresta sulla soglia della ritualità religiosaA tal proposito conviene soffermarsi sull’inclinazione assunta da una certa etnografia socio-antropologica a proposito della “festa del sacrificio” musulmana. Si tratta di un’inclinazione che, pur con l’intento apprezzabile di contrastare lʼislamofobia, rischia di tradursi in un’apologia del sacrificio cruento. E comunque non s’interroga affatto sui soggetti non-umani, sulla loro sofferenza e la loro morte. Ciò accade, paradossalmente, proprio quando una parte niente affatto irrilevante della stessa cultura musulmana si pone criticamente il problema di talune pratiche rituali cruente. E ciò sulla base del principio religioso per cui tutti gli animali sarebbero puri in quanto creati dalla divinità, al pari degli esseri umani. 

Quell’etnografia del sacrificio cui ho fatto cenno non considera a sufficienza quanto parziale sia il modello occidentale-moderno che tende a pensare secondo polarità contrapposte il rapporto fra natura e cultura, che separa culturalmente e moralmente gli umani dai non-umani, che istituisce una frattura insanabile fra soggetti umani e oggetti animali, negando a questi ultimi la qualità di esseri dotati di sensibilità, biografie, mondi, culture, storie.

Come scriveva Philippe Descola nel 2005 (nella prima edizione di Par-delà nature et cultureè necessario che l’antropologia si liberi del proprio dualismo costitutivo, per divenire pienamente monista.   

Per sovvertire un tale modello occorre anzitutto mostrarne la parzialità: per quanto si sia diffuso in aree disparate, esso è nato da una piccola frazione di pensiero filosofico, cioè l’occidentale-moderno.

Questa frazione di pensiero ha prodotto – come giustamente sostiene Descola – un’ontologia del tutto particolare, che a sua volta ha generato una cosmologia e un’etica fra le tante. Per coglierne appieno l’arbitrarietà, la peculiarità, dunque la non-universalità, basta considerare che questo modello dualistico è privo di senso per buona parte delle tradizioni culturali non occidentali. Delle quali numerose hanno fatto proprio della continuità fra i viventi il paradigma costitutivo delle proprie ontologie e cosmologie, come Descola illustra perfettamente nel saggio che ho citato.

 

Del resto, già nel 1967, Claude Lévi-Strauss, nella prefazione alla seconda edizione di Structures élémentaires de la parenté, scriveva di una “linea di demarcazione” fra natura e cultura “tenue e tortuosa”. E si domandava se, lungi dall’essere un dato oggettivo dell’ordine del mondo, quella linea di demarcazione non sia altro che “una creazione artificiale della cultura umana, un’opera difensiva”, messa in atto dall’umanità allo scopo di affermare la propria esistenza, fondare la propria identità di specie e rivendicare la propria originalità (1967:20).

Ancor prima, cioè nel discorso pronunciato nel 1962 per commemorare Rousseau, Lévi-Strauss (1973: 45-56) aveva evocato il “ciclo maledetto” inaugurato dall’uomo occidentale con la separazione radicale fra umanità e animalità, il quale poi sarebbe servito a escludere dagli umani altri umani e a costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre più ristrette.

E, più tardi, riprendendo lo stesso tema nella famosa e controversa conferenza presentata all’Unesco nel 1971 (“Race et culture”), ripubblicata in Le régard éloigné (1983), egli rimarcava che questa radicale separazione compiuta dall’umanesimo occidentale “ha consentito che frazioni sempre più vicine di umanità fossero respinte al di fuori di frontiere arbitrariamente tracciate” (ivi: 46).

Ben prima, nel 1951, l’altrettanto grande Theodor W. Adorno aveva scritto in Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (trad. ital.: Einaudi, 1979) che “Quella che i borghesi – nel loro accecamento ideologico – chiamano natura non è che la cicatrice di una mutilazione sociale (…). Ciò che, nella civiltà, appare come natura è, in realtà, agli antipodi della natura: è pura e semplice oggettivazione” (1979: 105).

È una tale ideologia e pratica di reificazione dei non umani che ho cercato di contrastare nel corso della mia lunga ricerca di campo a Essaouira. Le relazioni interspecifiche che la hanno contraddistinta e l’estensione dello status di soggetto ad alcune categorie di non umani, come lì accade comunemente, tutto ciò mostra che la netta distinzione umano/non umano non ha alcunché di “naturale”.

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martedì 28 giugno 2022

E’ arrivato il degrado turistico sull’Isola dei Cavoli?

 

L’Isola dei Cavoli, nel mare sud-orientale della Sardegna, è un piccolo gioiello naturalistico del Mediterraneo.

Granitica, è sede di nidificazione dell’avifauna marina ed è ricca di endemismi botanici, fra cui la Brassica insularis, il Verbascum conocarpum, il Limonium retirameum, la Bryonia marmorata, l’Helicodiceros muscivorus.

Per il suo eccezionale valore naturalistico, l’Isola dei Cavoli, oltre a esser tutelata con vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), fa parte del sito di importanza comunitaria (S.I.C.) “Isola dei Cavoli, Serpentara, Punta Molentis e Campulongu”(direttiva n. 92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat naturali e semi-naturali) e della zona di protezione speciale (Z.P.S.) “Isola dei Cavoli (direttiva n. 09/147/CE sulla salvaguardia dell’avifauna selvatica). Rientra anche nell’area marina protetta “Capo Carbonara” (leggi nn. 979/1982 e s.m.i. e 394/1991 e s.m.i.), istituita con D.M. 15 settembre 1998 e s.m.i.

Sull’Isola sorge il Faro, ottocentesco e realizzato su una preesistente torre costiera cinquecentesca. E’ bene culturale (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), individuato con decreto Segretariato BCA Sardegna n. 71 del 3 novembre 2009.

All’Isola e al Faro si può accedere a fini turistici, tuttavia può essere intuibile la sorpresa di chi, in questi caldi giorni di fine giugno 2022, vi ha visto un quad, mezzo meccanico da trasporto che notoriamente beneficia della massima attenzione nidificazione dell’avifauna e, soprattutto, endemismi botanici.  

Chi ne ha autorizzato la presenza? Qual è il suo utilizzo?   Quali sono le modalità di fruizione turistica di questo vero e proprio gioiello naturalistico super-tutelato del Mediterraneo?

In proposito, il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) ha inoltrato (27 giugno 2022) una specifica istanza di accesso civico, informazioni ambientali e adozione degli opportuni provvedimenti ai Ministeri della Cultura e della Transizione Ecologica, alla Soprintendenza per Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari, alla Guardia costiera, all’A.M.P. “Capo Carbonara”, al Comune di Villasimius, ai Carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale, al Corpo forestale e di vigilanza ambientale.

Basta poco per perdere eccezionali valori naturalistici, qualsiasi fruizione turistica va controllata con grande attenzione.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

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lunedì 27 giugno 2022

Morire di dolore o di vergogna - Mauro Armanino

Era il 16 giugno del 1976, a Soweto, nell’allora regime di apartheid del Sudafrica. Durante una manifestazione di protesta di studenti e scolari più piccoli la polizia aprì il fuoco uccidendo 4 bambini. La foto del tredicenne Hector Pietersen ucciso divenne un simbolo della violenza della polizia sudafricana. Nella giornata furono uccise altre 23 persone. La giornata del bambino africano è stata celebrata per la prima volta dall’Organizzazione per l’Unità Africana il 16 giugno di ogni anno dal 1991Da morire di dolore.

Il sistema scolastico nigerino e l’intera società sono stati sconvolti dall’uccisione, all’arma bianca, di un insegnante da parte di uno dei suoi alunni. Fine scuola ‘primaria’, un ragazzo neppure quindicenne, si rivela in modo drammatico lo stato di violenza strutturale della scuola nigerina. Si chiama esclusione, impreparazione, commercio educativo, estroversione valoriale, isolamento dalla vita reale della società, assenteismo proverbiale dei genitori e liquidazione vocazionale degli insegnanti. Da morire di vergogna.

Come accade in altre aree del Sahel, il Niger si bagna in un clima quotidiano di violenza. Non passa giorno che non piovano i comunicati di attacchi contro militari, civili e beni primari della gente. La parola che rassume tutto  ciò sarebbe ‘desolazione’, che evidentemente tocca anche e soprattutto gli scolari e gli studenti delle zone rurali, i più poveri, mentre le scuole dei ricchi possono continuare, ben difese, in città. Una violenza capillare che chiude per sempre il futuro di migliaia di bambini. Da morire di vergogna.

Nel vicino Burkina Faso, a causa degli attacchi dei gruppi armati terroristi, si registrano 3280 scuole chiuse, cosa che implica l’abbandono scolastico di 511.221 allievi e di 14.901 insegnanti. Nel Mali, per lo stesso motivo, sono 150mila i giovani e bambini estromessi dal processo scolastico. Nel Niger le scuole chiuse, non lontano dalla capitale Niamey, sono 791 e gli scolari estromessi dalla scuola 63.306, la metà dei quali sono ragazze. Nel Sahel sono circa 11 milioni le persone hanno bisogno di assistenza alimentare. Da morire di dolore.

Nel Niger le cifre della fragilità alimentare sono ricorrenti e variano secondo il momento e le fonti. C’è chi parla di 4 milioni e mezzo di persone in stato di insufficienza alimentare e due milioni e mezzo in quasi carestia. Altrove e in altri momenti, a partire da molto poco, c’è chi ha moltiplicato i pani perché tutti fossero sazi. Per questo e per altro ha ragione il poeta dell’Uruguay Mario Benedetti: una cosa è morire di dolore e un’altra è morire di vergogna. Lo scrisse a suo figlio ricordandogli che è meglio piangere che tradirsi.


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sabato 25 giugno 2022

Eni svilupperà la peggiore “bomba climatica” al mondo - Andrea Barolini

Si tratta del progetto considerato “la peggiore bomba climatica al mondo”. E l’italiana Eni non poteva di certo farsi sfuggire l’occasione. Si chiama North Field East ed è un giacimento di gas naturale immenso, in Qatar, che si stima possa contenere il 10% delle riserve mondiali. Un autentico disastro in termini di contribuito al riscaldamento globale, nonostante le rassicurazioni dei vertici dell’azienda, che insiste sull’utilizzo di tecnologie che sarebbero in grado di limitare i danni al clima

 

Il progetto nell’elenco dei più dannosi in assoluto per il clima

Ma il gas in questione, anche ammesso che fosse estratto con tutte le accortezze, viene recuperato e venduto allo scopo di essere bruciato. E la scienza ha spiegato che se vogliamo centrare il più ambizioso degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, ovvero limitare la crescita della temperatura media globale a 1,5 gradi centigradi alla fine del secolo, dobbiamo lasciare sottoterra tutti i combustibili fossili che ancora l’umanità non ha estratto.

Un’inchiesta pubblicata nello scorso mese di maggio dal quotidiano The Guardian ha elencato i progetti di sfruttamento di petrolio e gas più dannosi in assoluto. Delle “bombe climatiche”, appunto, suscettibili di provocare emissioni per più di un miliardo di tonnellate di CO2 sull’insieme del loro ciclo di vita. 

 

Oltre a Eni anche Total (e una terza compagnia)

Ma per Eni il punto è un altro. È entrare in una joint-venture con la compagnia Qatar Energy, diretta dal ministro dell’Energia Saad Sherida al-Kaabi. È un affare da 28 miliardi di dollari. Che permetterà alla compagnia italiana di partecipare ad un progetto mastodontico. Si prevede infatti che aumenterà del 60% la produzione di gas naturale liquefatto della nazione del Golfo. E sul quale ha già messo le mani la francese TotalEnergies

Quest’ultima aveva annunciato un accordo con Qatar Energy lo scorso 12 giugno. Il terzo grande nome che parteciperà allo sfruttamento del giacimento è ConocoPhillips, multinazionale americana. Così, nelle intenzioni del governo di Doha, la produzione al North Field East – giacimento offshore che si estende nei fondali fino alle acque territoriali iraniane – dovrebbe poter cominciare già nel 2026

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Pace: cosa possiamo imparare dai popoli indigeni? - Markus Schombel

  

Qualche tempo fa ho visto un video in cui una persona indigena rifletteva su questo tema. Diceva che spesso gli viene chiesto cosa possiamo fare per rispondere alle sfide di oggi. In risposta, riunì un gruppo di indigeni che deliberarono. La loro conclusione unanime è stata: “Chiedi al tuo cuore”. Chiedete al vostro cuore, da lì viene la risposta.

 

Oggi si potrebbe forse ancora distinguere tra indigeni adattati o civilizzati e indigeni originari o liberi. In realtà ci sono stati così tante migrazioni tra i popoli in passato che nessuno può dire chi sia sempre stato indigeno da qualche parte. I Gaudiya Vaishnava, ad esempio, affermano che gli Arya sono sempre stati di casa nei luoghi sacri dell’India. Secondo la storiografia occidentale, tempo fa in India vivevano i Dravidi che in un secondo momento furono soppiantati dagli Indo-Ariani provenienti dalla Persia, che si appropriarono della cultura vedica.

Dipende anche se lo guardiamo dall’esterno, fisicamente, o dal punto di vista della coscienza e dello stato d’animo. Anche a Tenerife, prima degli spagnoli, c’erano i Guanci, un popolo berbero. Nessuno sa perché siano arrivati lì o chi ci vivesse prima. In Sud America, i portoghesi e gli spagnoli si sono mescolati con gli Inca, i Maya e gli Aztechi.

Il vero punto è lo stato d’animo interiore e la connessione con la natura e l’assoluto. Finora la nostra civiltà ha seguito la strada della distruzione di tutto ciò che era indigeno, per poi lamentarsi di ciò che avremmo potuto imparare. È quello che è successo in America, in Africa e in Australia. Credo che ancora oggi si parli di pensiero postcoloniale. Stiamo ormai cercando luoghi vitali e risorse nello spazio mentre non abbiamo ancora rinunciato a questo pensiero coloniale e probabilmente continueremmo a comportarci allo stesso modo, sempre e ovunque. Così trascuriamo e distruggiamo l’essenziale, sognando già i corpi macchina.

Sarà quindi difficile trovare e interpellare dei popoli indigeni veramente originali e liberi. O sono popoli non contattati che si ammalano e muoiono al solo incontro con noi. Oppure hanno deciso così consapevolmente di opporsi alla nostra civiltà che si sono volontariamente ritirati o addirittura estinti. In Australia, ad esempio, si dice che ci fosse un popolo che viveva nudo sulle fredde e rocciose isole della Tasmania. Sono stati i primi a estinguersi con l’arrivo dei colonialisti. Ci sono storie di persone che hanno lasciato volontariamente la terra in pace nel momento giusto e quando le circostanze erano diventate troppo avverse.

La ricerca dell’indigeno è quindi la ricerca di noi stessi, del nostro essere e della nostra connessione, del nostro senso di ciò che sta succedendo. Tutti i cambiamenti iniziano con una scelta chiara: adattarsi, resistere o morire. Senza questa decisione non si può parlare di libertà e di pace. Ciò si riflette anche nella domanda di Socrate su cosa sia più importante: una lunga vita o una buona vita. Anche il Signor Schäuble (ex-presidente del Bundestag tedesco, N.d.T.) ha affrontato la questione chiedendo cosa sia la dignità umana: preservare ogni vita il più a lungo possibile o vivere e morire nel modo più autodeterminato possibile.

Se vogliamo migliorare qualcosa, è la consapevolezza di questo. Perdere la paura della morte, distruzione, sofferenza e miseria. Finché questo eserciterà un fascino troppo forte su di noi, continueremo a giocare con il fuoco e a bruciarci gravemente. Poi cerchiamo colpevoli e capri espiatori come Putin o i non vaccinati e ci sentiamo ancora nel giusto. Nella misura in cui rinunciamo a questo comportamento avverso e illogico, arriverà la pace.

 

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid. Revisione di Filomena Santoro

 

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venerdì 24 giugno 2022

Disastri naturali - Paolo Cacciari


A ben pensarci, chi ha stabilito che un barile di petrolio vale oggi 114,89 dollari e una tonnellata di C02 emessa in atmosfera 83,08 euro? Il mercato, direte voi, secondo la regola della domanda e dell’offerta, più le “tasse” che per un motivo o un altro vengono imposte dai decisori pubblici. E se invece stabilissimo, molto semplicemente, un tetto netto annuo (Cap senza possibilità di Trade) in diminuzione delle emissioni (modulato come meglio si crede, tra i settori e le attività) oltre il quale si spengono le ciminiere, si tappano i tubi di scarico, si azzerano le emissioni dagli allevamenti, si chiudono i condizionatori e così via? Niente da fare, mi direste subito. Si provocherebbe una fuga di imprese in paesi più tolleranti, ovvero diminuirebbe l’occupazione, quindi i redditi, quindi… si verificherebbe quel “bagno di sangue” che il nostro ministro contro la transizione ecologica continua a paventare. Meglio rischiare una siccità ogni estate e una alluvione ogni cambio di stagione. Tanto più che il caldo fa aumentare gli acquisti di bibite gasate e le alluvioni fanno crescere la spesa pubblica per riparare i danni. Il Pil aumenta anche grazie ai disastri. E alle guerre.

Ma – ipotizzo io, da economista con le scarpe grosse del contadino – stabilire una tabella di marcia rigorosa alla decarbonizzazione dell’economia farebbe salirebbe di molto il valore dei beni e dei servizi alternativi (utili ad aumentare l’efficienza degli impianti esistenti, necessari per ricavare energie da fonti rinnovabili, per spostare i consumi e così via), poiché – secondo le leggi del mercato – salirebbe la loro richiesta. Quindi il bilancio complessivo del monte valore economico perduto sul versante dei fossili verrebbe rimpiazzato da quello creato sul versante della sostenibilità. Così come il bilancio statale che potrebbe liberare parte delle spese oggi impegnate per riparazioni, risarcimenti, incentivi.

Troppo semplice, direte ancora voi. Le merci che incorporano un alto contenuto di carbonio (a causa del loro processo produttivo e di trasporto) potrebbero rientrare dalla finestra con le importazioni. Dal collasso climatico non ci si salva da soli. Cina, India, Brasile, Turchia… chi li ferma? Potremmo farlo noi, paesi ricchi, imponendo una tassa sul carbonio a quei prodotti importati che non soddisfano determinati standard climatici nella produzione. Ma nemmeno questa ragionevole proposta della Commissione europea (Carbon Border Adjustment Mechanism, si chiama) è stata approvata dal parlamento di Bruxelles. Il rischio è che i prodotti di importazione, notoriamente più economici (e sappiamo perché) possano subire forti aumenti di prezzo e sarebbero proprio i consumatori più poveri a subirne le conseguenze in termini di minore capacità di acquisto.

Non c’è scampo: per spezzare il circolo vizioso: più crescita, più disastri ambientali, più povertà, bisognerebbe riuscire a immaginare un nuovo sistema sociale fondato su valori non economici, su sistemi di scambio non finanziarizzati (evitando l’emissione di monta creata come debito), su relazioni internazionali non egemoniche (demilitarizzando gli stati) e competitive, sulla diffusione gratuita dei ritrovati tecnologici (limitando diritti d’autore e brevetti), su modi di produzione cooperativi e democratici (liberando il reddito dalla prestazione di lavoro salariato), su stili di vita non consumistici (mettendo al bando l’obsolescenza programmata e la pubblicità ingannevole).

Insomma, dovemmo riuscire a immaginare un modello di società postcapitalista. Questione tanto epocale, quanto urgente.

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giovedì 23 giugno 2022

L’invasione delle Cavallette nel Sardistàn

 

Assistita e supportata dal vuoto pneumatico di qualsiasi efficace politica di contrasto da parte della Giunta della Regione autonoma della Sardegna, soprattutto le strutture rette o vigilate (ben tre Agenzie in campo agricolo) dagli Assessori dell’Agricoltura e della Difesa dell’Ambiente.

Quest’ultimo, in particolare, assegna il pericolo del turbamento dell’ordine pubblico a qualche supposto Cervo sardo in più in alcune zone (fatto non accertato da censimenti, danni verificati e quant’altro possa certificarlo al di là dell’occhiometro) piuttosto che a più di 50 mila ettari ormai devastati dalle Cavallette nella Sardegna centrale.

La Coldiretti, fucina di conoscenze, lamenta giustamente i ritardi, ma propone – a pagamento – l’aratura dei terreni. Oppure “l’impiego del fuoco controllato, da utilizzare col monitoraggio di Corpo forestale, Protezione civile e Compagnia barracellari. O anche l’Esercito, visto che siamo nel pieno di una calamità naturale”.

In realtà, secondo la stampa specializzata, “la lotta alle cavallette è essenzialmente meccanica e si basa sull’aratura anche superficiale dei terreni da realizzare nel periodo autunno-invernale”.

Non avrebbe senso un’aratura in estate, a invasione in corso, né sarebbe auspicabile un bombardamento con il napalm.

Come nella Filistea biblica, come nel Far West, ognuno deve sperare di cavarsela, in qualche modo.

La gestione della res publica è appannaggio del nulla clientelarmente certificato.

E non sono ancora piovute le rane velenose.

Ancora qualche vertice di maggioranza, qualche tavolo tecnico, qualche pranzo assessoriale, e magari arriveranno.

Tuttavia, non creeranno alcun turbamento dell’ordine pubblico, fermo appannaggio di qualche esemplare di Cervo sardo nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Stefano DeliperiGruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

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mercoledì 22 giugno 2022

Simona Gabriela Kossak, un’ecologista “strega”

 

La figura di un’ecologista strega dei nostri tempi, la polacca Simona Gabriela Kossak.

Scienziata e non solo.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

Al confine tra la Polonia e la Bielorussia, esiste un’antica foresta ancora incontaminata, divenuta Patrimonio dell’Umanità. Qui, negli anni ’70 del secolo scorso, una biologa decise di stabilirvisi per vivere e condurre i suoi studi.

Questa è la storia della vita di Simona Gabriela Kossak, un esempio di vita fuori dal comune e davvero eccezionale. Il ritorno alla natura Non sono molte le storie straordinarie di chi sceglie di tornare a uno stile di vita antico e ormai dai più abbandonato.

Eppure, in quegli anni, Simona Kossak prese una decisione radicale: condurre la propria vita abitando nella foresta di Bialowieza.

Innamoratasi di questo magico luogo e ostinata a difenderlo, la scienziata lo scelse come luogo per la sua umile dimora. Infatti, non parliamo di una contadina, di una donna che per questioni caratteriali o artistiche, né tantomeno familiari, si ritirò ad una vita il più naturale possibile.

Nata a Cracovia nel 1943, in una famiglia di artisti e noti pittori, Simona crebbe assecondando le proprie passioni.

Donna di cultura, laureata in Scienze Forestali, appassionata di moto e conduttrice radiofonica, nonostante fosse all’avanguardia e moderna, scelse di vivere nei boschi e da ecologista fortemente convinta si batté per la salvaguardia delle più antiche foreste europee. Vivendo in mezzo alla natura, ebbe modo di sviluppare diversi documentari per i quali ricevette svariati premi e riconoscimenti.

La capanna dove visse, era priva di elettricità e acqua corrente e ben presto divenne rifugio per gli animali del bosco.

Per il suo stile di vita stravagante e la sua sbalorditiva capacità di comunicare con gli animali, qualcuno la etichettò col facile appellativo di “strega”. Un termine cui, a volte, diedero connotazione spregiativa, ma dovuto anche ad un particolare rapporto che ebbe con un corvo che visse con lei per molti anni e che a lei soltanto portava rispetto.

La sua speciale sensibilità da “fata buona”, la portarono a vivere a stretto contatto con gli animali della foresta, a prendersi cura di loro e a realizzare appositamente anche un ambulatorio veterinario.

Con lei abitò per 17 anni Zabka, una femmina di Cinghiale, ritratta in alcune foto in sua compagnia; Korasek, un Corvo nero e dispettoso, definito “terrorista” da chi avesse avuto la sventura di incrociarlo; e sua compagna notturna fu per molto tempo una Lince.

Negli anni, ospitò nella sua stanza anche una Cicogna nera per cui aveva costruito un nido, un Bassotto e alcuni Pavoni.

La sua casa ormai era nota anche tra gli animali del bosco come punto di riferimento, tanto che una Cerva la scelse proprio come luogo sicuro per partorire i suoi cuccioli.

Indubbiamente coraggiosa e appassionatamente naturalista, ebbe l’onore di essere riconosciuta, anni dopo, come loro madre dalla cucciolata di Cervi che aveva allattato e allevato con amore e cura.

Alla luce di queste esperienze, venne definita poi, più appropriatamente, zoopsicologa.

Nessuno, nessun animale poteva da lei essere discriminato per alcuna ragione al mondo: ospitava Grilli in barattoli di vetro, pare girasse con un timoroso Ratto femmina nella manica, di nome Kanalia, e fosse in grado di prevedere il clima osservando il comportamento dei Pipistrelli nella sua cantina. Due Alci orfani completarono l’accoglienza del suo rifugio.

Simona non fu mai davvero sola in quest’esperienza.

La accompagnava spesso la madre e in seguito al primo incontro nel Parco Nazionale di Bialowieza, divenne suo compagno e testimone di queste avventure, il fotografo naturalista Lech Wilczek, a cui dobbiamo molte delle foto in cui Simona Kossak è ritratta in compagnia dei suoi amici pelosi (e non).

Una delle ultime sue battaglie, cominciò nel 1993, con l’obiettivo di salvare Lupi e Linci dall’estinzione. All’epoca i ricercatori, avrebbero voluto condurre degli studi, monitorando gli animali attraverso dei collari. Il problema nacque quando, per installarglieli, fu necessario catturarli e furono predisposte delle tremende trappole.

Simona, appena si rese conto della crudeltà e inutilità di questi metodi, denunciò il tutto ai giornali e al Governo che già le proibiva.

Secondo una testimonianza rilasciata dalla biologa stessa, poco tempo dopo la rimozione delle trappole, un branco di Lupi si radunò intorno alla sua capanna ululando in segno di gratitudine. Simona morì nel 2007 in seguito ad una grave malattia.

Nel 2000, le era stata conferita la Croce d’Oro al Merito come riconoscimento dei suoi servizi nel campo della divulgazione scientifica e della salvaguardia della natura. Servizi che non sospese neppure durante il ricovero nel 2003, quando nonostante la malattia, condusse trasmissioni radiofoniche dal letto d’ospedale.

 

qui una serie di fotografie sulla vita di Simona Kossak.

(da La donna che parlava con gli animali, 2022)    

                                     

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martedì 21 giugno 2022

il gas cancella la giusta transizione della Sardegna

 

ReCommon pubblica oggi “Snam, giù le mani dalla Sardegna”, un’analisi di come gli interessi di una delle più importanti aziende italiane, fortemente spalleggiata dal governo, stiano penalizzando in maniera molto pesante il percorso di giusta transizione energetica che invece avrebbe potuto intraprendere una delle regioni italiane più segnate in passato da un processo di industrializzazione dannoso per l’ambiente e le comunità.

 

Snam, giù le mani dalla Sardegna

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Il “DPCM Energia” datato inizio maggio, infatti, conferma che il futuro dell’isola sarà incentrato sul gas. Fuori tempo massimo, visto che mai questo combustibile fossile era stato utilizzato in Sardegna, dove si auspicava una reale transizione energetica basata sulle fonti alternative, una volta abbandonato definitivamente il carbone.

Sono anni che Snam spinge per la metanizzazione della Sardegna. Tramite la controllata Enura, la multinazionale ha trasformato il progetto della “ dorsale”, ovvero un gasdotto che avrebbe dovuto attraversare l’isola da nord a sud, in tre “mini-dorsali”, ossia delle reti di distribuzione concentrate nei tre poli dell’isola dove sono presenti le grandi industrie e i centri abitati più grandi, collocati a nord-ovest nell’area di Porto Torres, nell’oristanese, nel sud-ovest nell’area del Sulcis Iglesiente e nel cagliaritano nella zona di Sarroch.

I punti di rifornimento saranno due nuovi rigassificatori, uno a nord e uno a sud, per l’importazione di gas fossile via nave.

L’emergenza guerra ha contribuito a creare la basi per legittimare un piano a dire poco anacronistico, che mette una pesante ipoteca sul futuro della Sardegna. Il “DPCM Energia” rilancia la costruzione di terminali di rigassificazione e stoccaggio come alternativa all’importazione di gas russo, non solo in Sardegna, ma anche sulle coste della penisola italica e alla necessità di trovare altri fornitori principalmente di gas liquido trasportato via nave.

“La Sardegna non merita continue promesse di sviluppo, illusorie e fuori dal tempo. Meriterebbe invece le bonifiche attese da anni, una pianificazione energetica radicata nei territori, basata sulle comunità energetiche di iniziativa locale e la partecipazione della popolazione. Purtroppo come stiamo vedendo il gas è una dipendenza che ha delle conseguenze non solo sui cambiamenti climatici. Snam sembra far finta di niente per non mettere in discussione i propri piani di sviluppo futuro, in cui la Sardegna è solo una mappa da colorare” ha dichiarato Filippo Taglieri di ReCommon, autore del rapporto.

“Non è accettabile mettere un’ipoteca così pesante sul futuro di una terra che da decenni è sacrificata a servitù militari e a un modello industriale che ha inquinato e minato la salute delle persone. Con il prezzo del gas alle stelle, e l’evidenza degli impatti del modello economico in cui si fonda, la Sardegna dovrebbe cogliere l’opportunità per voltare pagina dall’economia delle fossili, e pianificare dal basso il proprio futuro energetico, fuori dal modello estrattivista e a partire dai territori” ha affermato Elena Gerebizza, anche lei autrice del rapporto.

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lunedì 20 giugno 2022

I diritti della natura in Cile: abbattere i pregiudizi, fare la storia - Alberto Acosta

 

“Qualsiasi cosa è contraria alla natura è anche contraria alla ragione, e qualsiasi cosa è contraria alla ragione è assurda».
Baruch Spinoza (1632-1677)

 

Nel mondo prosegue la discussione sui Diritti della Natura. Il motivo è semplice, la realtà non si può più nascondere. Il collasso ecologico è innegabile. Nessuna regione, nessuna popolazione, nessun mare sulla Terra è ora al sicuro dai danni attualmente causati da tale crollo, ci dice il Report del Climate Change Panel delle Nazioni Unite (IPCC). L'umanità si confronta brutalmente e globalmente con la vera possibilità della fine della sua esistenza. Dobbiamo agire. Questo ovviamente spiega perché questo dibattito trova un punto rilevante in Cile, un paese colpito da molteplici danni socio-ecologici.
Nei dibattiti della Convenzione costituzionale cilena si è aperta la porta a questioni fondamentali, come sono i diritti della Natura. Il tema risveglia un crescente interesse. E si scontra anche con la mancanza di conoscenza del suo significato e con la paura di perdere privilegi a causa della sua applicazione. È stato sollevato un argomento che afferma l'inutilità di detti diritti, riferendosi all'esperienza ecuadoriana. Si è detto addirittura che i Diritti Umani sarebbero subordinati ai Diritti della Natura e andrebbero ad incidere negativamente sul modello di sviluppo. 
Chiariamo alcuni dubbi.
Nonostante le molteplici incomprensioni in vari casi e le limitazioni che vengono poste per impedire la validità di questi diritti in Ecuador, a partire dai suoi stessi governanti, c'è comunque spazio per l'ottimismo. In questo piccolo paese andino, i Diritti della Natura si stanno gradualmente consolidando. Una serie di processi giudiziari - ad oggi quasi 60 - lo ratificano. Si tratta di portare avanti un lavoro arduo in un paese intrappolato in un estrattivismo sfrenato.
Senza minimizzare la necessità di accelerare il passo per un suo maggiore radicamento, teniamo presente che la Costituzione è in vigore da poco: meno di 14 anni. E che la sua applicazione sta sconquassando le opinioni conservatrici. Inoltre, potremmo chiederci quanto tempo ci sia voluto per l'accettazione dei Diritti Umani, il cui rispetto in molti luoghi è come minimo carente. Lo stesso si potrebbe dire dei diritti degli afrodiscendenti ridotti in schiavitù: la schiavitù è stata abolita, ma il razzismo non è stato superato; i diritti delle donne avanzano, ma il patriarcato è ancora presente; riflessioni simili si adatterebbero ai popoli indigeni. Accettare queste carenze non dovrebbe portarci alla bizzarra conclusione che questi diritti siano inutili.
L'importante quindi è che, nonostante le molteplici reticenze e ignoranze, i diritti conquistati dai gruppi tradizionalmente emarginati permeino sempre più rapidamente la società. A poco a poco, i diritti provocano una maggiore sensibilità sociale; sensibilizzazione molte volte più efficace di semplici cambiamenti istituzionali.
Per quanto riguarda la giustizia ecuadoriana, il riconoscimento dei Diritti della Natura non ha risolto il conflitto tra Natura-oggetto e Natura-soggetto. Registriamo persino manipolazioni di questi diritti da parte dello Stato quando vengono sfoggiati al fine di espellere attività minerarie irregolari in determinati territori per poi aprire il campo alle grandi compagnie minerarie. L'indignazione che queste aberrazioni possono suscitare non può scoraggiarci. Teniamo sempre presente che una Costituzione da sola non cambia la realtà, ma può aiutare affinché la società stessa possa farsi forza di ciò che ha a disposizione come strumenti efficaci per far cristallizzare i cambiamenti indispensabili.
In Ecuador infatti, per molte organizzazioni della società civile questi diritti rappresentano un importante cambiamento di visione, sono uno strumento di lotta. Ciò non sorprende dal momento che diversi movimenti sociali, in particolare i movimenti indigeni e contadini, molto prima dell'emanazione costituzionale di questi diritti, hanno difeso la Natura nelle lotte per i loro territori. Ciò che è interessante ora è che questi diritti rafforzano i meccanismi di protezione dei loro territori e anche dei difensori della Pachamama, spesso criminalizzati per le loro lotte.
Al di là dell'Ecuador, ci sono progressi nel mondo. Secondo le Nazioni Unite, sono già 37 i Paesi che hanno recepito in qualche modo questo tema a livello ufficiale e istituzionale. Citiamo alcuni esempi. Nel novembre 2016, in Colombia, il fiume Atrato e il suo bacino hanno ottenuto i diritti dalla Corte Costituzionale; così com'è successo nel 2018 con l'Amazzonia colombiana. Nel 2016, la Corte Suprema dell'Uttarakhand in Naintal, nell'India settentrionale, ha stabilito che i fiumi Gange e Yumana sono esseri viventi. Nel 2017 il fiume Whanganui in Nuova Zelanda è stato riconosciuto come soggetto di diritti: anche lì, nel 2013, il Parco Nazionale Te Urewera è stato considerato persona giuridica con diritti di una persona. A Toledo, Ohio, USA, alle urne del 26 febbraio 2019 si è deciso che il lago Erie, l'undicesimo più grande del mondo e che fornisce acqua potabile a 12 milioni di americani e canadesi, ha diritti. Panama ha recentemente segnato una pietra miliare notevole con una importante Legge sui Diritti della Natura. Inoltre, ci sono altre proposte in corso per accettare costituzionalmente la Natura come soggetto di diritto: in Messico e nello Stato Libero di Baviera, in Germania, per citare solo due casi.
Questa eco internazionale si allarga. Trattandosi di una questione di ripercussioni globali, è quindi urgente per noi che sempre più paesi costituzionalizzino questi diritti e che si compiano progressi nella costruzione della Dichiarazione Universale dei Diritti della Natura, come proposto a Tiquipaya, in Bolivia, nell'anno 2010; riunione è stata il detonante per l'emergere del Tribunale Internazionale per i Diritti della Natura, formato dalla società civile di tutti i continenti, come passaggio preliminare a un tribunale formale nell'ambito delle Nazioni Unite per sanzionare i crimini contro la Madre Terra.
Dice bene Eduardo Gudynas quando afferma: “il riconoscimento dei valori intrinseci della Natura impone mandati universali, poiché la vita deve essere protetta in tutti gli angoli del pianeta. I problemi ambientali globali, come il cambiamento climatico o l'acidificazione degli oceani, rafforzano sempre più questa etica come valore essenziale”. E così, prima o poi, la globalizzazione di questi diritti seguirà la strada dei diritti umani, che è servita ad avviare il dittatore cileno Augusto Pinochet verso l'arresto in Europa per i suoi crimini contro l'umanità. Un'iniziativa in questa direzione era già stata espressa un paio di anni fa nell'azione pubblica per impedire la costruzione della Centrale Idroelettrica di Bello Monte, in Brasile, che mirava a difendere il fiume Xingu e i suoi abitanti lungo il fiume, facendo riferimento ai Diritti della Natura della Costituzione ecuadoriana.
Nonostante l'ignoranza di alcuni e la difesa dei loro privilegi da parte di altri, l'accettazione dei Diritti della Natura è inequivocabilmente una questione globale e inarrestabile. Il Cile ha ora l'opportunità storica di essere il secondo paese al mondo a liberare costituzionalmente la Natura dal suo status di oggetto, così come quando emancipò gli schiavi nel 1823. E di essere, tra l'altro, un grande esempio a livello mondiale.
Infine, l'affermazione che i diritti umani sarebbero limitati assumendo la Natura come soggetto di diritti è insostenibile. I Diritti della Natura non si oppongono affatto ai Diritti Umani. E ciò se non si possono tollerare modelli di sviluppo che saccheggiano la vita degli esseri umani e non. Pertanto, entrambi i gruppi di diritti si completano e si rafforzano a vicenda. Inoltre, accettiamo che senza i Diritti della Natura non ci saranno pieni Diritti Umani.


Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network

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domenica 19 giugno 2022

Se ne va un “Po”della nostra vita - Marco Bersani

 

«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro». Cosi disse nel 1876 Toro Seduto, capo tribù dei nativi americani Sioux Hunkpapa, qualche mese prima della leggendaria battaglia del Little Bighorn.

Toro seduto non era uno scienziato dell’Ipcc dell’Onu, ma la sua sintesi meriterebbe di essere scritta in tutti gli edifici pubblici del Paese, in questo inizio estate che ci costringerà a fare davvero i conti con la profondità della crisi eco-climatica.

Paradigmatica è la situazione del Po, il più grande fiume italiano, il cui bacino attraversa la pianura padana e l’intera Italia del Nord. Sono le regioni in cui si sono storicamente concentrate un’agricoltura e un allevamento intensivi, una massiccia industrializzazione, la grande industria energetica, nonché grandi concentrati di popolazione urbana e metropolitana.

Tutte figlie del medesimo paradigma, che è la cifra del modello capitalistico: l’idea della crescita economica come termometro del benessere della società, accompagnata dall’uso di beni comuni presenti in natura dei quali si presuppone l’illimitata disponibilità.

Una situazione accelerata dal modello liberista e dal preponderante ruolo assunto dalla finanza, che ha visto il progressivo ritiro delle istituzioni pubbliche tanto dall’intervento diretto in campo economico, quanto da qualunque idea di programmazione e pianificazione dello stesso, delegate alla ‘autoregolazione dei mercati’.

Peccato che esista una contraddizione strutturale fra come la vita delle persone si organizza nello spazio e nel tempo rispetto a come si declina l’economia di mercato.

La vita delle persone si svolge dentro uno spazio limitato, la comunità di riferimento, e si dipana dentro un tempo lungo che attraversa l’intera esistenza.

Al contrario del mercato che si organizza in uno spazio potenzialmente infinito, l’intero pianeta, ma declina le proprie scelte dentro un tempo estremamente ridotto, l’indice di Borsa del giorno successivo. E’ questa differenza a far sì che gli interessi di mercato siano quasi sempre in diretto contrasto con i bisogni della vita delle persone.

L’economia della pianura padana lasciata al mercato, oltre ad aver prodotto pesanti livelli di inquinamento complessivo che hanno trasformato il serio problema sanitario prodotto dalla pandemia da Covid19 in una tragedia di massa, ha messo in campo un’idea di agricoltura, allevamento, industria e produzione energetica vocate al massimo rendimento nel minimo arco temporale.

Una relazione predatoria nei confronti del suolo, dell’aria, dell’acqua, dell’energia e della salute delle persone che ha prodotto grandi risultati di fatturato per le industrie dell’agro-business e di utili in Borsa per le multiutility dell’acqua e dell’energia.

Permettendo alle stesse di comportarsi come quell’uomo del film “L’odio” che, cadendo da un palazzo di 50 piani, man mano che passa da un piano all’altro continua ripetersi «fino a qui, tutto bene», misurando il ‘qui ed ora’ della caduta e non l’esito dell’atterraggio.

Esito che nella pianura padana è arrivato con la più grave crisi idrica degli ultimi 70 anni e il Po ridotto a un rigagnolo circondato da distese di sabbia.

Prima che gli interessi delle grandi lobby scendano in campo per far ricadere la crisi ancora una volta sulle spalle degli abitanti, è il momento che le comunità locali insorgano per prendersi cura del ramo su cui siamo seduti contro chi continua a segarlo.

Magari rivendicando che i soldi del Pnrr vadano alla cura e alla manutenzione dei territori invece che a nuove basi militari dentro parchi naturali.

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sabato 18 giugno 2022

Tanzania: decine di Masai feriti e arrestati, a migliaia in fuga. Li vogliono sfrattare per far spazio a safari, caccia sportiva e ‘conservazione’

 

Migliaia di Masai sono scappati dalle loro case per rifugiarsi nel bush e sfuggire a una brutale repressione da parte della polizia: i Masai protestavano contro i tentativi del governo di sfrattarli per far spazio alla caccia da trofeo e alla conservazione.

L’8 giugno, decine di veicoli della polizia e circa 700 funzionari sono arrivati a Loliondo – nella Tanzania settentrionale, vicino al famoso Parco Nazionale del Serengeti – per demarcare un’area di 1.500 kmq di terra masai e trasformarla in un’Area Protetta. Il 10 giugno hanno sparato ai Masai che protestavano contro i tentativi di sfratto: almeno 18 uomini e 13 donne sono stati colpiti con armi da fuoco, mentre 13 persone sono state ferite con i machete. È stata confermata la morte di una persona.

Video e foto diffusi ampiamente sui social media mostrano un attacco indiscriminato e letale su coloro che protestavano.

Adesso la polizia sta andando casa per casa nei villaggi masai, picchiando e arrestando chi ritiene abbia diffuso le immagini delle violenze o abbia preso parte alle proteste. Un uomo di 90 anni è stato picchiato dalla polizia perché il figlio era accusato di aver filmato la sparatoria. In uno solo dei villaggi, almeno 300 persone, compresi bambini, sarebbero scappati nel bush. Una decina di persone sono state arrestate.

Le violenze degli ultimi giorni sono solo l’ultimo di una lunga serie di tentativi fatti precedentemente dalle autorità della Tanzania per sfrattare i Masai dalla loro terra, a Loliondo, e far spazio al turismo dei safari e alla caccia da trofeo. A ottenere il controllo e la gestione della caccia commerciale nell’area sarebbe la Otterlo Business Company (OBC, basata negli Emirati Arabi) – che organizza spedizioni di caccia per la famiglia reale degli Emirati e i suoi ospiti.

“Il nostro governo ha deciso di sguinzagliare tutta la potenza dei militari per cacciarci dalla nostra terra, lasciando molti feriti per i colpi di arma da fuoco e i bambini a vagare nel bush. Noi ci siamo spostati a dormire nel bush” ha spiegato un leader masai, che resta anonimo per motivi di sicurezza. “Il governo rifiuta di curare i feriti. Molte persone sono senza cibo. E questa è la nostra terra ancestrale. Prendere la nostra terra per far spazio alla caccia da trofeo di lusso dei leader degli Emirati Arabi, è una cosa barbara.”

“Amo questo luogo perché è la mia casa…” ha detto un altro uomo masai. “Vogliono la nostra terra perché abbiamo fonti d’acqua, e le abbiamo perché le proteggiamo. Conviviamo con la fauna da generazioni.”

“Non vogliono i Masai perché le persone che vengono qui non vogliono vedere i Masai. Prima non pensavamo molto al turismo (o comunque non in senso negativo), ma ora abbiamo capito che turismo significa che arrivano persone con i soldi, il che induce il governo a concludere che ‘Se spostiamo i Masai, di persone con i soldi ne verranno di più’.”

La Germania è un’importante finanziatrice di progetti di conservazione in Tanzania ed è ampiamente coinvolta nella definizione delle politiche di conservazione nel paese, che hanno già causato lo sfratto di migliaia di indigeni. La Frankfurt Zoological Society finanzia guardaparco e funzionari, alcuni dei quali – secondo i Masai – hanno preso parte agli ultimi sfratti.

“Ciò che è in corso a Loliondo si sta rapidamente trasformando in una catastrofe umanitaria, che rivela il vero volto della conservazione" ha detto oggi Fiore Longo di Survival International. “Sparano contro i Masai solo perché loro vogliono vivere in pace nelle loro terre ancestrali, li attaccano per far spazio alla caccia da trofeo e alla ‘conservazione’. Molti dei Masai che oggi subiscono violenze erano già stati sfrattati nel 1959 dal Serengeti, dai funzionari coloniali britannici: di fatto, quella di oggi non è altro che una continuazione del passato coloniale.”

“La violenza che vediamo in Tanzania è la realtà della conservazione in Africa e Asia: violazioni quotidiane dei diritti umani dei popoli indigeni e delle comunità locali per permettere ai ‘ricchi’ di cacciare e fare safari” ha continuato Fiore Longo. “Questi abusi sono sistematici e sono il risultato di un modello di conservazione dominante, che ha le sue radici nel razzismo e nel colonialismo. L’idea che vi sta dietro è che all’interno delle Aree Protette gli umani – e in soprattutto i non bianchi – siano una minaccia per l’ambiente. Ma i popoli indigeni vivono in queste aree da generazioni: quei territori oggi sono aree importanti per la conservazione proprio perché i suoi abitanti originari si sono presi cura così bene di fauna e flora. Non possiamo più chiudere un occhio di fronte alle violazioni dei diritti umani commesse nel nome della ‘conservazione’. Questo modello di conservazione è profondamente disumano e inefficace, e deve cambiare immediatamente.”

Note dei redattori:
- Il governo della Tanzania sta cercando di creare un’Area Protetta di 1.500 kmq nelle terre masai. Sarà destinata a caccia sportiva (sotto il controllo della Otterlo Business Corporation), conservazione e turismo dei safari.
- La nostra ricercatrice Fiore Longo è appena rientrata da una missione su campo ed è disponibile per approfondimenti o interviste in italiano.

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giovedì 16 giugno 2022

Guerra intensiva per mangiare gli animali? - Doriana Goracci

 

Dapprima dico subito grazie a tutti coloro che salvano gli animali dalla guerra, anche quella di ogni giorno, che fa il mondo a loro.

 

“L’allevamento degli animali contribuisce al riscaldamento globale per un 40% in più rispetto a tutto il settore mondiale dei trasporti nel suo complesso; è la causa numero uno dei cambiamenti climatici” scrive ripetutamente Jonathan Safran Foer, scrittore e saggista statunitense che nel 1999 andò in Ucraina  per fare ricerche sulla vita di suo nonno ebreo.

In Italia siamo passati dai 20/21 kg degli anni Sessanta e una media di 79 chili, di carne di animali ammazzati, da mangiare. Non esiste, secondo le analisi di Greenpeace, un modo sostenibile per continuare a nutrire gli animali allevati oggi in Europa. È piuttosto considerata necessaria una riduzione del 70% del consumo di carne e latticini in Ue entro il 2030, accompagnata da una normativa comunitaria rigorosa, per smettere di importare beni prodotti attraverso la deforestazione. Intanto, in occasione della guerra in Ucraina, ci troviamo di fronte a un deficit mondiale di cereali. Per compensarlo, ricordano le associazioni ambientaliste, basterebbe una riduzione dell’8% dei cereali usati nell’Ue per l’alimentazione animale.

C'è un monumento dedicato agli animali caduti in guerra: è un memoriale “Animals in War Memorial Found” in cui, con sculture ed epitaffi, sono ricordati tutte le vittime animali del conflitto mondiale , inaugurato nel 2004. L’epitaffio più significativo: “They had no choice”…”Essi non ebbero scelta”.

McDonald's ha lasciato la Russia a maggio scorso con la vendita completa delle sue attività (850 ristoranti) a un acquirente locale, in seguito all'invasione dell' Ucraina da parte di Mosca. McDonald's ha sottolineato che la crisi umanitaria causata dalla guerra ha reso di fatto "insostenibile, né coerente con i nostri valori" mantenere le attività in Russia....e ci vuole una faccia a dire certe cose vantandosi...

 

Nella foto che ho messo si vede un allevamento intensivo di maiali, molte femmine allattano, sono tutti chiusi serrati in gabbia, è anche un allevamento "pulito". Viene da un articolo del 2019, titolatoLa Svizzera pensa di abolire gli allevamenti intensivi di animali: “Dannosi anche per l’ambiente”.Chissa come è finita, c'è sempre una buona ragione per aggirare gli ostacoli posti dagli "ambientalisti", vero? Umberto Veronesi a febbraio del 2011,sosteneva che “soprattutto il consumo eccessivo di carne va evitato. Per alimentare i 3 miliardi e mezzo di animali d’allevamento destinati a soddisfare il palato dei carnivori viene utilizzato un terzo dei prodotti agricoli mondiali, che potrebbero sfamare intere popolazioni e l’assurdo è che i carnivori si ammalano di più, e spesso muoiono a causa del loro tipo di alimentazione"

In Italia la grande maggioranza degli animali allevati non ha accesso al pascolo e trascorre tutta la vita in capannoni chiusi. Questo vale anche per le eccellenze del Made in Italy e persino per una parte dei prodotti certificati “bio”. Che ne è stato delle petizioni inviate ai vari Ministeri dell' Agricoltura nel corso di questi anni?

Giugno 2021"Cosa succede negli allevamenti intensivi di mucche?Le mucche che vengono sfruttate per la produzione di latte sono destinate a una vita di dolore fisico ed emotivo. Entrano giovanissime in un ciclo di inseminazione artificiale sfiancante e frenetico che le porta a partorire 3 o 4 volte prima di essere, attorno ai 5 anni di età, mandate al macello perché non più produttive. Non sono rari i casi in cui questo avviene mentre sono ancora incinte.Le gravidanze continue servono a far sì che producano latte in quantità massicce a ritmi innaturali, fino a 30 litri al giorno.Le mungiture si susseguono a ritmi incessanti: due al giorno per 300 giorni all’anno. Una volta macellata, la loro carne verrà venduta come prodotto di seconda scelta.Una volta nati i cuccioli delle mucche da latte vengono separati dalla madre a poche ore dal parto, causando forte stress e dolore a entrambi. Sono poi smistati in base al genere: se sono femmine verranno introdotte nel ciclo della produzione di latte, rimpiazzando, di fatto, le loro stesse madri. Anche loro, dopo 4 o 5 anni, non riusciranno a mantenere i ritmi di produzione e verranno messe su un camion diretto al macello.Se maschi saranno rinchiusi in piccoli box e allevati per pochi mesi. Qui saranno nutriti con un surrogato del latte volutamente mancante di fibre e ferro che li farà crescere anemici, così da ottenere una carne più tenera e apprezzata dai consumatori. Intorno al sesto mese di età anche loro finiranno al macello per essere venduti come “carne bianca di vitello”."

E' invece del maggio 2022 l'articolo che racconta degli attivisti di Greenpeace provenienti da tutta Europa che hanno bloccato nel porto di Amsterdam una nave cargo con 60 milioni di chili di soia. "...Ma perché l’Europa importa tanta soia? Sarebbe un errore attribuire questo commercio al consumo di tofu, burger vegetali e sostituti del latte. Lo scopo di queste importazioni non è infatti quello di alimentare il crescente mercato vegano, ma è piuttosto quello di sfamare i nostri animali, in particolare polli e maiali, ma anche bovini, soprattutto quelli rinchiusi negli allevamenti intensivi. Infatti, nonostante due terzi dei terreni agricoli europei siano già destinati alla produzione di mangimistica, almeno l’85% della la soia importata viene utilizzata come mangime ed è proprio per sostenere questo tipo di impiego che, negli ultimi 25 anni, la produzione mondiale di soia è più che raddoppiata.Con quest’iniziativa, l’organizzazione ambientalista vuole portare ancora una volta alla pubblica attenzione il contributo dell’Europa alla deforestazione globale. Le importazioni di prodotti a base di soia nel nostro continente (circa 33 milioni di tonnellate all’anno), provenienti per il 65% dal Brasile e dall’Argentina, sono infatti così massicce da rappresentare il principale contributo dell’Unione europea alla distruzione globale delle foreste a cui, secondo un recente rapporto del WWF, l’Europa contribuisce complessivamente per il 16%.In questo mercato, i Paesi Bassi sono la principale destinazione delle importazioni, mentre l’Italia, con il 10% della soia importata, è il quarto importatore europeo. In particolare nel 2021, nonostante i gravi attacchi all’ambiente e ai diritti umani perpetrati dal governo brasiliano di Jair Bolsonaro, il nostro import di soia dal Brasile è aumentato ulteriormente. Eppure, secondo un articolo pubblicato nel 2020 da Science, circa il 20% delle esportazioni di soia dall’Amazzonia e dal Cerrado brasiliano potrebbe derivare da deforestazione illegale persino secondo le normative ambientali brasiliane che, in particolare nel Cerrado, sono decisamente di ‘manica larga’. Inoltre, in Brasile e in Argentina la soia è per il 95% geneticamente modificata e la sua coltivazione implica un uso massiccio di erbicidi, pesticidi e agenti chimici potenzialmente pericolosi."

A marzo del 2022 veniva scritto: "...l’Associazione Nazionale tra i Produttori di Alimenti Zootecnici, parla di “conseguenze devastanti per gli allevamenti” se non si troverà un canale alternativo per importare i mangimi dopo che il conflitto ha bloccato le esportazioni di mais dell’Est Europa."

Concludo con un pensiero dello scrittore Jonathan Safran Foercitato all'inizio “Manipoliamo i geni di questi animali e poi gli diamo gli ormoni della crescita e ogni genere di farmaci di cui non sappiamo abbastanza. E poi ce li mangiamo. I bambini di oggi sono la prima generazione che cresce con questa roba, e noi li usiamo come cavie. Non è strano quanto si arrabbi la gente per qualche giocatore di baseball che prende gli ormoni della crescita, quando facciamo queste cose agli animali che mangiamo e poi li diamo ai nostri figli?"

Il bello, si fà per dire, è che si dice di una persona rilassata che è stravaccata e di uno che non ha limiti nel mangiare e in certi abitudini che è un porco, di chi ci casca in un tranello che è un pollo...Neanche la guerra in corso cambia dunque le nostre abitudini? Tanto per partire dal piccolo piccolo,quel piccolo noi, che abbia a cuore non solo cani e gatti.

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