È da quasi un trentennio, cioè da quando ho iniziato a integrare nelle mie
ricerche, conseguentemente in saggi e articoli, ciò che viene detto
impropriamente “la questione animale” (o “dei non-umani”), che il
pensiero e le opere di Philippe Descola mi sono diventati indispensabili,
tanto da citarlo assai frequentemente.
Tra l’altro, è anche grazie alle sue ricerche e al suo pensiero che
ho trovato il coraggio di condurre una più che decennale ricerca di campo a
Essaouira: una cittadina del Sud-Ovest del Marocco, esemplare per la sua
storia di mixité e in particolare per la lunga convivenza tra
arabo-musulmani ed ebrei, per non dire di altre minoranze. En passant,
ricordo solo che negli anni ’20 del Novecento la popolazione ebraica era
superiore a quella musulmana.
La mia è una ricerca – come dicevo – ispirata da ciò che oggi viene detta
“etnografia multispecie”, che poi, nel mio caso, si è concretizzata in un
saggio, pubblicato nel 2016: La città dei gatti. Antropologia
animalista di Essaouira. In questo saggio assume un ruolo rilevante
il tema della convivialità interspecifica: con gatti, gabbiani e perfino
cani. Dico “perfino” perché per lungo tempo questi ultimi sono stati
considerati esseri impuri, com’è ben noto. Va precisato, tuttavia, che la
distinzione fra animali puri e impuri non è affatto peculiare del solo mondo
musulmano.
Ancora a proposito della convivialità interspecifica, conviene aggiungere
che essa è stata per me non solo oggetto di osservazione, ma anche e soprattutto
vissuto personale relazionale: diretto e duraturo.
Secondo la mia esperienza di campo, l’agency animale, se non
permette di collocare il non-umano nel ruolo classico dell’“informatore”,
lo posiziona comunque in quello di attore e testimone di un contesto che
favorisce incontri, relazioni, perfino lunghe amicizie transpecifiche. Tutto ciò ho potuto
sperimentarlo personalmente, soprattutto con alcuni gabbiani e gatti, ai quali
da non pochi anni mi lega un’amicizia fedele e costante.
V’è un altro aspetto da sottolineare: a Essaouira a prendersi cura
di animali liberi quali gabbiani, gatti e perfino cani sono anche, se non
soprattutto, le persone più diseredate, le quali praticano una comune etica
della compassione e della solidarietà, estesa oltre la specie umana. Esse,
concedendosi il “lusso” del senso e del dono, dellʼaffettività e della cura più
gratuite, si sottraggono alla ragione economica e utilitaria che le ha
condannate. E in tal modo spezzano la catena dell’obbligata dipendenza
dal bisogno a cui la società le ha legate e le immagina schiave.
Nondimeno, l’amore e la cura verso i gatti, in particolare, non riguardano
solo i diseredati, ma anche bottegai, commessi, camerieri. Tant’è vero che
soprattutto i felini – ma anche non pochi cani – gironzolano abitualmente fra i
tavoli di caffè e ristoranti, all’aperto e all’interno; dormono indisturbati
sulla soglia o dentro le botteghe di quell’ininterrotto bazar che è la città
entro le mura: comodamente acciambellati su divani, tappeti, coperte, mobili di
tuia e altri pregiati oggetti artigianali in vendita.
Ovviamente la “zoofilia spontanea”, praticata da molti/e abitanti
di Essaouira, si arresta sulla soglia della ritualità religiosa. A
tal proposito conviene soffermarsi sull’inclinazione assunta da una certa
etnografia socio-antropologica a proposito della “festa del sacrificio”
musulmana. Si tratta di un’inclinazione che, pur con l’intento apprezzabile
di contrastare lʼislamofobia, rischia di tradursi in un’apologia del sacrificio
cruento. E comunque non s’interroga affatto sui soggetti non-umani, sulla loro
sofferenza e la loro morte. Ciò accade, paradossalmente, proprio quando una
parte niente affatto irrilevante della stessa cultura musulmana si pone
criticamente il problema di talune pratiche rituali cruente. E ciò sulla base
del principio religioso per cui tutti gli animali sarebbero puri in quanto
creati dalla divinità, al pari degli esseri umani.
Quell’etnografia del sacrificio cui ho fatto cenno non considera a
sufficienza quanto parziale sia il modello occidentale-moderno che tende
a pensare secondo polarità contrapposte il rapporto fra natura e cultura, che
separa culturalmente e moralmente gli umani dai non-umani, che
istituisce una frattura insanabile fra soggetti umani e oggetti animali,
negando a questi ultimi la qualità di esseri dotati di sensibilità, biografie,
mondi, culture, storie.
Come scriveva Philippe Descola nel 2005 (nella prima edizione di Par-delà
nature et culture) è necessario che l’antropologia si liberi del
proprio dualismo costitutivo, per divenire pienamente monista.
Per sovvertire un tale modello occorre anzitutto mostrarne la
parzialità: per quanto si sia diffuso in aree disparate, esso è nato
da una piccola frazione di pensiero filosofico, cioè l’occidentale-moderno.
Questa frazione di pensiero ha prodotto – come giustamente sostiene Descola
– un’ontologia del tutto particolare, che a sua volta ha generato
una cosmologia e un’etica fra le tante. Per coglierne appieno
l’arbitrarietà, la peculiarità, dunque la non-universalità, basta
considerare che questo modello dualistico è privo di senso per buona parte
delle tradizioni culturali non occidentali. Delle quali numerose hanno fatto
proprio della continuità fra i viventi il paradigma costitutivo delle proprie
ontologie e cosmologie, come Descola illustra perfettamente nel saggio che
ho citato.
Del resto, già nel 1967, Claude Lévi-Strauss, nella
prefazione alla seconda edizione di Structures élémentaires de la
parenté, scriveva di una “linea di demarcazione” fra natura e
cultura “tenue e tortuosa”. E si domandava se, lungi dall’essere un dato
oggettivo dell’ordine del mondo, quella linea di demarcazione non sia altro che
“una creazione artificiale della cultura umana, un’opera difensiva”, messa in
atto dall’umanità allo scopo di affermare la propria esistenza, fondare la
propria identità di specie e rivendicare la propria originalità (1967:20).
Ancor prima, cioè nel discorso pronunciato nel 1962 per commemorare
Rousseau, Lévi-Strauss (1973: 45-56) aveva evocato il “ciclo maledetto”
inaugurato dall’uomo occidentale con la separazione radicale fra umanità e
animalità, il quale poi sarebbe servito a escludere dagli umani altri umani e a
costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre più ristrette.
E, più tardi, riprendendo lo stesso tema nella famosa e controversa
conferenza presentata all’Unesco nel 1971 (“Race et culture”),
ripubblicata in Le régard éloigné (1983), egli rimarcava che
questa radicale separazione compiuta dall’umanesimo occidentale “ha consentito
che frazioni sempre più vicine di umanità fossero respinte al di fuori di
frontiere arbitrariamente tracciate” (ivi: 46).
Ben prima, nel 1951, l’altrettanto grande Theodor W. Adorno aveva
scritto in Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa (trad.
ital.: Einaudi, 1979) che “Quella che i borghesi – nel loro
accecamento ideologico – chiamano natura non è che la cicatrice di una
mutilazione sociale (…). Ciò che, nella civiltà, appare come natura è, in
realtà, agli antipodi della natura: è pura e semplice oggettivazione”
(1979: 105).
È una tale ideologia e pratica di reificazione dei non
umani che ho cercato di contrastare nel corso della mia lunga ricerca di campo
a Essaouira. Le relazioni interspecifiche che la hanno contraddistinta e
l’estensione dello status di soggetto ad alcune categorie di
non umani, come lì accade comunemente, tutto ciò mostra che la netta
distinzione umano/non umano non ha alcunché di “naturale”.
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