giovedì 2 giugno 2022

La scuola fossile - Andrea Turco

 

Un progetto sperimentale per ora avviato in 28 scuole propone un percorso di formazione sulla transizione ecologica. Tra i partner: Eni

L’ossessione delle aziende verso le scuole, viste sempre più come luoghi in cui reperire manodopera, è nota. In tal senso è paradigmatico il caso dei dei nuovi licei Ted (Transizione Ecologica e Digitale). Si tratta di un progetto sperimentale, per ora avviato in 28 scuole, che propone un percorso di formazione di quattro anni, al posto dei soliti cinque, incentrato sulla transizione ecologica e digitale. Più precisamente in questi nuovi istituti saranno fondamentali le discipline Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics), in cui il ruolo centrale sarà svolto dal consorzio Elis, composto da oltre cento imprese che collaboreranno attivamente nell’ideazione e nella realizzazione dei programmi d’insegnamento. 

Un ulteriore passo verso l’aziendalizzazione del percorso scolastico, che ha creato polemiche soprattutto per via della presenza di alcune note e chiacchierate imprese. Tra queste non poteva mancare Eni, che in realtà ha una lunga tradizione di presenza nei comprensori di ogni ordine e grado. Proprio la multinazionale energetica è in questo senso il miglior caso di studio. Per capire gli effetti di questa compenetrazione tra precetti aziendali ed educazione pubblica bisogna andare in due luoghi simbolo: Gela, la prossima capitale italiana del gas, e Viggiano, l’attuale capitale italiana del petrolio. Entrambe fonti fossili, entrambe a sei zampe.

Il problema di Gela? Il traffico

Enrico Mattei non fece in tempo ad assistere all’inaugurazione del petrolchimico di Gela, che così fortemente aveva voluto. Il fondatore di Eni, come è noto, morì sui cieli di Bascapè il 27 ottobre 1962 a causa di una carica di tritolo che esplose in volo – fatto ormai acclarato dal punto di vista giudiziario. Ora, a distanza di sessant’anni da quei tragici avvenimenti, la cittadina siciliana scelta da Mattei è la preferita dal governo Draghi, che punta sul copioso giacimento di metano a mare (più precisamente tra Gela e Licata) per aumentare la produzione nazionale di gas, uno dei perni strategici per affrancare l’Italia dal gas russo. Entro il 2024 Eni ha promesso che il gasdotto Argo-Cassiopea sarà pronto. Insieme a quest’opera, dal 2004 a Gela è già attivo il gasdotto GreenStream, che conduce il gas dalla costa libica di Mellitah alla Sicilia e poi alla rete nazionale. E anche se il gasdotto libico non ha mai marciato a pieno regime, per via della guerra civile che ha dilaniato lo Stato nordafricano sin dalla destituzione di Gheddafi voluta dall’Europa nel 2011, le due infrastrutture a sei zampe fanno di Gela la capitale italiana del gas. Basti pensare che nel 2021 GreenStream ha portato in Italia 3,2 miliardi di metri cubi di gas (a fronte di una capacità di 10 miliardi) e Argo-Cassiopea dovrebbe aggiungerne fino a 1,4 miliardi di metri cubi di gas all’anno. 

A fronte di tali portate il risvolto occupazionale è molto modesto. Su Argo-Cassiopea è previsto sì l’impiego di 870 persone (600 provenienti dall’indotto locale, 100 di Eni e 170 contrattisti) ma giusto per il tempo di realizzazione (un anno, un anno e mezzo al massimo), poi a regime saranno necessari un centinaio di lavoratori. Probabilmente anche meno. Sul GreenStream, ad esempio, le ultime cifre fornite da Eni parlano di appena 12 lavoratori. Questi i numeri e i dati più concreti. 

Ma qual è la percezione della presenza e del ruolo di Eni in città? E soprattutto: qual è la percezione delle nuove generazioni, così attente alla questione climatica e alle connessioni con le fonti fossili?  È la domanda che si è posta l’associazione A Sud e a cui ha provato a rispondere attraverso un questionario posto all’interno del progetto Fossil Free School. A porre le domande agli studenti e alle studentesse di Gela sono stati i e le docenti delle scuole di secondo grado della città. Il campione della ricerca è costituito da 160 persone, in età compresa tra i 14 e i 20 anni, di cui la quasi totalità (il 97%) vive all’interno del perimetro urbano. A far riflettere sono soprattutto due dati. Da una parte l’80% delle persone intervistate dichiara che è disposta a cambiare abitudini e/o a tutelare l’ambiente. Dall’altra quando viene chiesto di indicare eventuali attività inquinanti nel territorio, l’80% delle persone intervistate mette al primo posto i rifiuti e il 59% il traffico. Fra le sei categorie proposte nel questionario, la categoria «energie fossili» arriva soltanto in quarta posizione, con una percentuale del 17%. 

 

Possibile? Nella città in cui Eni ha realizzato uno dei più grandi petrolchimici d’Europa, grande 700 ettari; nella città dichiarata dallo Stato nel 1998 Sito di Interesse Nazionale per la bonifica e in cui a oggi le bonifiche completate sono pari allo 0%; nella città in cui oltre al gas ancora oggi esistono nella piana di Gela 72 impianti di perforazione a terra e 4 piattaforme petrolifere a mare; nella città in cui Eni è sotto processo per disastro ambientale; nella città che secondo l’ultimo rapporto Sentieri – lo studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a rischio da inquinamento – vanta il terribile primato nazionale delle malformazioni neonatali; nella città in cui la bioraffineria è stata alimentata dal 2019 con olio di palma indonesiano e dal 2023 sarà alimentata con olio di ricino africano? Davvero gli studenti e le studentesse di Gela sottovalutano così tanto l’impatto ambientale del cane a sei zampe?

Spiace ripetere sempre le stesse citazioni, ma non viene in mente nient’altro se non la famosa scena deI film Johnny Stecchino in cui a uno stralunato Roberto Benigni, appena giunto in una Palermo sconvolta dalla mafia agli inizi degli anni Novanta, viene spiegato che il vero problema del capoluogo siciliano è il traffico.

Si potrebbe discutere per ore dei motivi che portano a risposte del genere. C’è però un altro quesito che suggerisce una possibile direzione.

 

Come si nota, le energie fossili a Gela vengono recepite dal campione sottoposto al questionario ideato dall’associazione A Sud come qualcosa di passato o, perlomeno, come qualcosa di difficile da identificare a livello temporale. Il 29% crede che le attività di Eni siano terminate, il 25% le colloca tra passato e presente, solo il 16% le identifica esclusivamente come attuali. In breve, dalla chiusura della raffineria – l’ultima eredità di Mattei, perché il petrolio estratto veniva lavorato in loco – sono passati otto anni. Quel che è rimasto – bioraffineria e, a breve, gasdotto – viene percepito come qualcosa di distante, neppure esistente, sul quale non è utile puntare per un possibile impiego. Dovrebbe essere questo un dato da cui ripartire per smontare la narrazione di Eni, avallata dalle istituzioni locali, secondo cui il cane a sei zampe è ancora un attore fondamentale del territorio. Non è così, almeno nella percezione, per gli studenti e le studentesse di Gela. 

In Basilicata

«Non sono previsti nuovi sviluppi a gas in Basilicata. Il gas prodotto attualmente da Eni proviene esclusivamente dal giacimento della Val d‘Agri»: così il cane a sei zampe ha risposto, durante l’assemblea degli azionisti di metà maggio, ai timori delle associazioni che, consultando il Pitesai (il piano del governo che fa riprendere le esplorazioni di idrocarburi), avevano scoperto che praticamente l’intera regione era stata indicata come idonea per nuove possibili perforazioni. In compenso in Basilicata resta il petrolio, in quello che è il giacimento a terra più copioso dell’Europa occidentale. Tanto che le estrazioni del greggio, nel Centro Oli di Viggiano, andranno avanti a lungo. 

Anche in Basilicata, così come a Gela, l’arrivo dell’azienda di Stato negli anni Novanta avrebbe dovuto portare lavoro e progresso. Perché le storie a sei zampe si somigliano tutte. L’inganno del petrolio, come fonte di arricchimento per il territorio, in Basilicata si è palesato presto. E viene confermato ogni anno dai dati. L’ultimo Rapporto Istat sulla povertà del nostro paese, relativo al 2020, vede, ancora una volta, al primo posto proprio la Basilicata, con un’incidenza relativa familiare pari al 23.4%. Un primato che si ripete nel tempo, nonostante l’aumento delle estrazioni e l’arricchimento delle grandi compagnie petrolifere, Eni e Total in testa, ma non di chi subisce quelle estrazioni. 

Non sorprende dunque se la gente sceglie di, o meglio è costretta a, andar via dalla Basilicata. Come certifica il Censis, la regione registra una perdita di popolazione del 0,97%: vale a dire uno dei «decrementi più significativi» che riguarda proprio le «le aree interne di Molise, Campania e Basilicata». Insomma: la Basilicata è quella terra dove se ne vanno le persone e resta il petrolio. Ma per chi? Inevitabilmente sono i giovani coloro che più facilmente tendono ad abbandonare la regione. Per capire i loro bisogni e i loro desideri, anche in Basilicata l’associazione A Sud ha promosso il progetto Fossil Free School. In questo caso gli studenti e le studentesse delle scuole medie e superiori della Val D’Agri hanno partecipato a un’escursione guidata, organizzata insieme all’Osservatorio Popolare Val D’Agri che monitora ogni giorno le azioni di Eni nel territorio. Con l’obiettivo di (ri)scoprire le bellezze naturalistiche della Basilicata e, allo stesso tempo, verificare la presenza petrolifera all’interno di parchi e aree tutelate. Un mix che ha sorpreso tanto gli studenti quanto i professori. Che poi si sono confrontati apertamente in un dibattito che ha messo in luce come l’alternativa a Eni passa proprio dai territori, a patto che acquisiscano maggiore consapevolezza e volontà di  autodeterminazione. 

«I giovani di oggi puntano a lavorare al Centro Oli – dice una ragazza. Quasi tutti hanno parenti e amici che lavorano a Viggiano. Questa può essere una cosa positiva ma anche negativa perché esclude altre possibilità». Una docente spiega che «i ragazzi e le ragazze stanno partecipando a un progetto Wto, che io preferisco chiamare con la prima denominazione alternanza scuola/lavoro, che mira alla conoscenza del territorio dal punto di vista storico, culturale e ambientale». A un certo punto di fronte all’appassionato e competente racconto del territorio da parte di Isabella Abate, attivista dell’Osservatorio e guida ambientale-escursionistica, una ragazza ammette che «nessuno ci ha parlato di queste cose». Alle testimonianze di itinerari naturalistici e siti archeologici Abate accompagna le storie delle contaminazioni, il resoconto delle battaglie vinte e perse, le rivendicazioni su salute e ambiente. Lo storytelling di Eni, invece, è a senso unico. 

Anche quando pubblicizza panorami e tradizioni lo fa in maniera scissa, separata dalle proprie attività. Perché natura e industria viaggiano su binari separati e non paralleli. Può essere la scuola il luogo da cui far deflagrare questo assunto?

Per una scuola libera dalle fonti fossili

Si può avere una scuola defossilizzata? È la domanda che da anni si pongono gli attivisti e le attiviste dell’associazione A Sud, attiva da vent’anni sui temi della giustizia ambientale. L’occasione che ha rappresentato la classica goccia è arrivata a gennaio 2021 quando Eni ha firmato una convenzione con l’Associazione nazionale presidi per portare avanti attività di formazione sui cambiamenti climatici nelle scuole italiane. Sebbene tale notizia abbia creato una notevole mobilitazione per contestare l’iniziativa, in realtà non ha stupito chi da anni ha a che fare con Eni soprattutto nei luoghi in cui l’impresa svolge attività industriali. La multinazionale energetica infatti non solo promuove attività di alternanza scuola lavoro ma opera anche attività di formazione sui temi ambientali. In altre parole, dice Maura Peca, referente del progetto per l’associazione A Sud, «la stessa azienda che nei territori ha effettuato contaminazioni ambientali e ha alimentato la crisi climatica, di fatto si è arrogata la competenza di svolgere lezioni ai giovani su questi temi. Proprio al fine di creare un’alternativa e proporre lezioni di educazione ambientale che non abbiano nessun doppio fine, abbiamo deciso di promuovere il progetto Fossil Free School. Con questo progetto vogliamo dare la possibilità agli e alle insegnanti di proporre percorsi formativi alternativi, che stimolino i ragazzi a identificare e analizzare oggettivamente le criticità e le sfide ambientali del territorio».

I docenti che hanno partecipato all’iniziativa hanno acquisito strumenti metodologici e conoscitivi per formare i giovani sulle questioni ambientali, sulla valorizzazione del patrimonio naturale e ricevuto spunti per offrire rappresentazioni attuali della crisi climatica e ambientale. Le storie provenienti da Gela e dalla Val D’Agri hanno svelato che il lavoro da fare è tanto. «Sono emerse alcune questioni interessanti – osserva Maura Peca – In primis l’importanza che i giovani rivolgono alle questioni ambientali e climatiche, che però tuttavia non è connessa alle questioni locali. Sembra come se non ci fosse la capacità di connettere tali fenomeni globali alle vertenze locali. In secondo luogo è emersa con forza, per lo meno in Basilicata, la mancata capacità di vedere un futuro senza Eni a livello locale. Tutti hanno un amico o un parente che lavora in Eni, e prima o poi toccherà anche a loro. E se non saranno loro, sarà un loro compagno di classe. A Gela, invece, tutte le idee di futuro riguardanti la città hanno escluso la presenza di Eni, ritenuto un soggetto non più credibile. Resta però il problema inevaso di come liberarsi da questa ingombrante presenza industriale, su cui la popolazione non ha accesso né voce in capitolo. Le attività di Fossil Free School hanno proprio l’obiettivo di allargare la visione, mostrare come il futuro delle fonti fossili sia in declino e che è arrivato il momento di immaginare nuovi percorsi, che siano anche lavorativi. Si tratta di un lavoro di ricerca importante che occorre approfondire ma che dà un’idea della situazione davvero preziosa». 

da qui

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