Un progetto sperimentale per ora avviato in 28 scuole propone un percorso di formazione sulla transizione ecologica. Tra i partner: Eni
L’ossessione delle aziende verso le scuole, viste sempre più come luoghi in
cui reperire manodopera, è nota. In tal senso è paradigmatico il caso dei dei
nuovi licei Ted (Transizione Ecologica e Digitale). Si tratta di un progetto
sperimentale, per ora avviato in 28 scuole, che propone un percorso di
formazione di quattro anni, al posto dei soliti cinque, incentrato sulla
transizione ecologica e digitale. Più precisamente in questi nuovi istituti
saranno fondamentali le discipline Stem (Science, Technology, Engineering,
Mathematics), in cui il ruolo centrale sarà svolto dal consorzio Elis, composto
da oltre cento imprese che collaboreranno attivamente nell’ideazione e nella
realizzazione dei programmi d’insegnamento.
Un ulteriore passo verso l’aziendalizzazione del percorso scolastico, che
ha creato polemiche soprattutto per via della presenza di alcune note e
chiacchierate imprese. Tra queste non poteva mancare Eni, che in realtà ha
una lunga tradizione di presenza nei comprensori di ogni
ordine e grado. Proprio la multinazionale energetica è in questo senso il
miglior caso di studio. Per capire gli effetti di questa compenetrazione tra
precetti aziendali ed educazione pubblica bisogna andare in due luoghi simbolo:
Gela, la prossima capitale italiana del gas, e Viggiano, l’attuale capitale
italiana del petrolio. Entrambe fonti fossili, entrambe a sei zampe.
Il problema di Gela? Il traffico
Enrico Mattei non fece in tempo ad assistere all’inaugurazione del
petrolchimico di Gela, che così fortemente aveva voluto. Il fondatore di Eni,
come è noto, morì sui cieli di Bascapè il 27 ottobre 1962 a causa di una carica
di tritolo che esplose in volo – fatto ormai acclarato dal punto di vista
giudiziario. Ora, a distanza di sessant’anni da quei tragici avvenimenti, la
cittadina siciliana scelta da Mattei è la preferita dal governo Draghi, che
punta sul copioso giacimento di metano a mare (più precisamente tra Gela e
Licata) per aumentare la produzione nazionale di gas, uno dei perni strategici
per affrancare l’Italia dal gas russo. Entro il 2024 Eni ha promesso che il
gasdotto Argo-Cassiopea sarà pronto. Insieme a quest’opera, dal 2004 a Gela è
già attivo il gasdotto GreenStream, che conduce il gas dalla costa libica di
Mellitah alla Sicilia e poi alla rete nazionale. E anche se il gasdotto libico
non ha mai marciato a pieno regime, per via della guerra civile che ha
dilaniato lo Stato nordafricano sin dalla destituzione di Gheddafi voluta
dall’Europa nel 2011, le due infrastrutture a sei zampe fanno di Gela la
capitale italiana del gas. Basti pensare che nel 2021 GreenStream ha portato in
Italia 3,2 miliardi di metri cubi di gas (a fronte di una capacità di 10
miliardi) e Argo-Cassiopea dovrebbe aggiungerne fino a 1,4 miliardi di metri
cubi di gas all’anno.
A fronte di tali portate il risvolto occupazionale è molto modesto. Su
Argo-Cassiopea è previsto sì l’impiego di 870 persone (600 provenienti
dall’indotto locale, 100 di Eni e 170 contrattisti) ma giusto per il tempo di
realizzazione (un anno, un anno e mezzo al massimo), poi a regime saranno
necessari un centinaio di lavoratori. Probabilmente anche meno. Sul
GreenStream, ad esempio, le ultime cifre fornite da Eni parlano di appena 12
lavoratori. Questi i numeri e i dati più concreti.
Ma qual è la percezione della presenza e del ruolo di Eni in città? E
soprattutto: qual è la percezione delle nuove generazioni, così attente alla
questione climatica e alle connessioni con le fonti fossili? È la domanda
che si è posta l’associazione A Sud e a cui ha provato a rispondere attraverso
un questionario posto all’interno del progetto Fossil Free School. A porre le
domande agli studenti e alle studentesse di Gela sono stati i e le docenti
delle scuole di secondo grado della città. Il campione della ricerca è
costituito da 160 persone, in età compresa tra i 14 e i 20 anni, di cui la
quasi totalità (il 97%) vive all’interno del perimetro urbano. A far riflettere
sono soprattutto due dati. Da una parte l’80% delle persone intervistate
dichiara che è disposta a cambiare abitudini e/o a tutelare l’ambiente.
Dall’altra quando viene chiesto di indicare eventuali attività inquinanti nel
territorio, l’80% delle persone intervistate mette al primo posto i rifiuti e
il 59% il traffico. Fra le sei categorie proposte nel questionario, la
categoria «energie fossili» arriva soltanto in quarta posizione, con una
percentuale del 17%.
Possibile? Nella città in cui Eni ha realizzato uno dei più grandi
petrolchimici d’Europa, grande 700 ettari; nella città dichiarata dallo Stato
nel 1998 Sito di Interesse Nazionale per la bonifica e in cui a oggi le
bonifiche completate sono pari allo 0%; nella città in cui oltre al gas ancora
oggi esistono nella piana di Gela 72 impianti di perforazione a terra e 4
piattaforme petrolifere a mare; nella città in cui Eni è sotto processo per
disastro ambientale; nella città che secondo l’ultimo rapporto Sentieri – lo
studio epidemiologico nazionale dei territori e degli insediamenti esposti a
rischio da inquinamento – vanta il terribile primato nazionale delle
malformazioni neonatali; nella città in cui la bioraffineria è stata alimentata
dal 2019 con olio di palma indonesiano e dal 2023 sarà alimentata con olio di
ricino africano? Davvero gli studenti e le studentesse di Gela sottovalutano
così tanto l’impatto ambientale del cane a sei zampe?
Spiace ripetere sempre le stesse citazioni, ma non viene in mente
nient’altro se non la famosa scena deI film Johnny Stecchino in
cui a uno stralunato Roberto Benigni, appena giunto in una Palermo sconvolta
dalla mafia agli inizi degli anni Novanta, viene spiegato che il vero problema del capoluogo
siciliano è il traffico.
Si potrebbe discutere per ore dei motivi che portano a risposte del genere.
C’è però un altro quesito che suggerisce una possibile direzione.
Come si nota, le energie fossili a Gela vengono recepite dal campione
sottoposto al questionario ideato dall’associazione A Sud come qualcosa di
passato o, perlomeno, come qualcosa di difficile da identificare a livello
temporale. Il 29% crede che le attività di Eni siano terminate, il 25% le
colloca tra passato e presente, solo il 16% le identifica esclusivamente come
attuali. In breve, dalla chiusura della raffineria – l’ultima eredità di
Mattei, perché il petrolio estratto veniva lavorato in loco – sono passati otto
anni. Quel che è rimasto – bioraffineria e, a breve, gasdotto – viene percepito
come qualcosa di distante, neppure esistente, sul quale non è utile puntare per
un possibile impiego. Dovrebbe essere questo un dato da cui ripartire per
smontare la narrazione di Eni, avallata dalle istituzioni locali, secondo cui
il cane a sei zampe è ancora un attore fondamentale del territorio. Non è così,
almeno nella percezione, per gli studenti e le studentesse di Gela.
In Basilicata
«Non sono previsti nuovi sviluppi a gas in Basilicata. Il gas prodotto
attualmente da Eni proviene esclusivamente dal giacimento della Val d‘Agri»:
così il cane a sei zampe ha risposto, durante l’assemblea degli azionisti di
metà maggio, ai timori delle associazioni che, consultando il Pitesai (il piano
del governo che fa riprendere le esplorazioni di idrocarburi), avevano scoperto
che praticamente l’intera regione era stata indicata come idonea per nuove
possibili perforazioni. In compenso in Basilicata resta il petrolio, in quello
che è il giacimento a terra più copioso dell’Europa occidentale. Tanto che le
estrazioni del greggio, nel Centro Oli di Viggiano, andranno avanti a
lungo.
Anche in Basilicata, così come a Gela, l’arrivo dell’azienda di Stato negli
anni Novanta avrebbe dovuto portare lavoro e progresso. Perché le storie a sei
zampe si somigliano tutte. L’inganno del petrolio, come fonte di arricchimento
per il territorio, in Basilicata si è palesato presto. E viene confermato ogni
anno dai dati. L’ultimo Rapporto Istat sulla povertà del
nostro paese, relativo al 2020, vede, ancora una volta, al primo posto proprio
la Basilicata, con un’incidenza relativa familiare pari al 23.4%. Un primato
che si ripete nel tempo, nonostante l’aumento delle estrazioni e
l’arricchimento delle grandi compagnie petrolifere, Eni e Total in testa, ma
non di chi subisce quelle estrazioni.
Non sorprende dunque se la gente sceglie di, o meglio è costretta a, andar
via dalla Basilicata. Come certifica il Censis, la regione registra una perdita
di popolazione del 0,97%: vale a dire uno dei «decrementi più significativi»
che riguarda proprio le «le aree interne di Molise, Campania e Basilicata».
Insomma: la Basilicata è quella terra dove se ne vanno le persone e resta il
petrolio. Ma per chi? Inevitabilmente sono i giovani coloro che più facilmente
tendono ad abbandonare la regione. Per capire i loro bisogni e i loro desideri,
anche in Basilicata l’associazione A Sud ha promosso il progetto Fossil Free
School. In questo caso gli studenti e le studentesse delle scuole medie e
superiori della Val D’Agri hanno partecipato a un’escursione guidata,
organizzata insieme all’Osservatorio Popolare Val D’Agri che monitora ogni
giorno le azioni di Eni nel territorio. Con l’obiettivo di (ri)scoprire le
bellezze naturalistiche della Basilicata e, allo stesso tempo, verificare la
presenza petrolifera all’interno di parchi e aree tutelate. Un mix che ha
sorpreso tanto gli studenti quanto i professori. Che poi si sono confrontati apertamente
in un dibattito che ha messo in luce come l’alternativa a Eni passa proprio dai
territori, a patto che acquisiscano maggiore consapevolezza e volontà di
autodeterminazione.
«I giovani di oggi puntano a lavorare al Centro Oli – dice una ragazza.
Quasi tutti hanno parenti e amici che lavorano a Viggiano. Questa può essere
una cosa positiva ma anche negativa perché esclude altre possibilità». Una
docente spiega che «i ragazzi e le ragazze stanno partecipando a un progetto
Wto, che io preferisco chiamare con la prima denominazione alternanza
scuola/lavoro, che mira alla conoscenza del territorio dal punto di vista
storico, culturale e ambientale». A un certo punto di fronte all’appassionato e
competente racconto del territorio da parte di Isabella Abate, attivista
dell’Osservatorio e guida ambientale-escursionistica, una ragazza ammette che
«nessuno ci ha parlato di queste cose». Alle testimonianze di itinerari
naturalistici e siti archeologici Abate accompagna le storie delle
contaminazioni, il resoconto delle battaglie vinte e perse, le rivendicazioni
su salute e ambiente. Lo storytelling di Eni, invece, è a senso unico.
Anche quando pubblicizza panorami e tradizioni lo fa in maniera scissa,
separata dalle proprie attività. Perché natura e industria viaggiano su binari
separati e non paralleli. Può essere la scuola il luogo da cui far deflagrare
questo assunto?
Per una scuola libera dalle fonti
fossili
Si può avere una scuola defossilizzata? È la domanda che da anni si pongono
gli attivisti e le attiviste dell’associazione A Sud, attiva da vent’anni sui
temi della giustizia ambientale. L’occasione che ha rappresentato la classica
goccia è arrivata a gennaio 2021 quando Eni ha firmato una convenzione con
l’Associazione nazionale presidi per portare avanti attività di formazione sui
cambiamenti climatici nelle scuole italiane. Sebbene tale notizia abbia creato
una notevole mobilitazione per contestare l’iniziativa, in realtà non ha stupito
chi da anni ha a che fare con Eni soprattutto nei luoghi in cui l’impresa
svolge attività industriali. La multinazionale energetica infatti non solo
promuove attività di alternanza scuola lavoro ma opera anche attività di
formazione sui temi ambientali. In altre parole, dice Maura Peca, referente del
progetto per l’associazione A Sud, «la stessa azienda che nei territori ha
effettuato contaminazioni ambientali e ha alimentato la crisi climatica, di
fatto si è arrogata la competenza di svolgere lezioni ai giovani su questi
temi. Proprio al fine di creare un’alternativa e proporre lezioni di educazione
ambientale che non abbiano nessun doppio fine, abbiamo deciso di promuovere
il progetto Fossil Free School. Con questo progetto vogliamo dare la
possibilità agli e alle insegnanti di proporre percorsi formativi alternativi,
che stimolino i ragazzi a identificare e analizzare oggettivamente le criticità
e le sfide ambientali del territorio».
I docenti che hanno partecipato all’iniziativa hanno acquisito strumenti
metodologici e conoscitivi per formare i giovani sulle questioni ambientali,
sulla valorizzazione del patrimonio naturale e ricevuto spunti per offrire
rappresentazioni attuali della crisi climatica e ambientale. Le storie
provenienti da Gela e dalla Val D’Agri hanno svelato che il lavoro da fare è
tanto. «Sono emerse alcune questioni interessanti – osserva Maura Peca – In
primis l’importanza che i giovani rivolgono alle questioni ambientali e
climatiche, che però tuttavia non è connessa alle questioni locali. Sembra come
se non ci fosse la capacità di connettere tali fenomeni globali alle vertenze
locali. In secondo luogo è emersa con forza, per lo meno in Basilicata, la
mancata capacità di vedere un futuro senza Eni a livello locale. Tutti hanno un
amico o un parente che lavora in Eni, e prima o poi toccherà anche a loro. E se
non saranno loro, sarà un loro compagno di classe. A Gela, invece, tutte le
idee di futuro riguardanti la città hanno escluso la presenza di Eni, ritenuto
un soggetto non più credibile. Resta però il problema inevaso di come liberarsi
da questa ingombrante presenza industriale, su cui la popolazione non ha
accesso né voce in capitolo. Le attività di Fossil Free School hanno proprio
l’obiettivo di allargare la visione, mostrare come il futuro delle fonti
fossili sia in declino e che è arrivato il momento di immaginare nuovi
percorsi, che siano anche lavorativi. Si tratta di un lavoro di ricerca importante
che occorre approfondire ma che dà un’idea della situazione davvero
preziosa».
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