[La “turistificazione” è un processo
radicale di cambio di destinazione d’uso di piccoli comuni e quartieri
(storici, in primo luogo) delle città, in funzione della valorizzazione della
proprietà immobiliare privata. Favorito dall’enorme crescita di scala delle
connessioni e degli spostamenti globali, questo processo ha conosciuto
un’ulteriore accelerazione con le leggi che hanno liberalizzato gli affitti
brevi (in Italia nel 2017) e la conseguente proliferazione delle attività
ricettive extra-alberghiere, grazie anche a piattaforme online, come Airbnb o
Booking, che facilitano l’incontro di domanda e offerta. La turistificazione è,
nei fatti, un’ideologia totalitaria: nessun aspetto della vita sociale,
economica e culturale della città o dei quartieri coinvolti ne resta fuori. La
brusca battuta d’arresto che questo processo ha subìto con i mesi del
confinamento per l’emergenza sanitaria da Covid-19, da tragedia per ampi
settori del mondo del lavoro (spesso a nero, o comunque precario o
intermittente: dagli operatori della cultura e dello spettacolo a quelli delle
attività ricettive e della ristorazione), potrebbe trasformarsi in opportunità
per una politica che fosse decisa a superare il dogma (neoliberista) del
turismo come unica opportunità di sviluppo economico per le regioni interne e
meridionali del nostro paese. Questi problemi sono al centro dell’ebook
gratuito Dopo il turismo di Lucia Tozzi, pubblicato da
Nottetempo e scaricabile gratuitamente dal sito dell’editore. I brani
seguenti sono tratti dai capitoli Il turismo sostenibile non esiste, e
comunque non è un’opzione e La pianificazione pigra. Si ringraziano
l’editore e l’autrice. (Antonio Del Castello)]
Le soluzioni che emergono dai convegni e
dalle ricerche sul turismo sostenibile poggiano invariabilmente
sull’organizzazione di un virtuosissimo management del
territorio che dovrebbe essere in grado di scaglionare uniformemente nel tempo
gli arrivi e dirottare i turisti dalle mete classiche verso itinerari secondari
densi di eccellenze enogastronomiche e artigiane. Ammesso che polacchi o cinesi
si lascino convincere a rinunciare alla Venere di Botticelli
per essere scarrozzati sull’Appennino Tosco-Emiliano, questa idea di
sostenibilità assomiglia piú a un piano di mercificazione progressiva del
territorio intero che a un progetto di equilibrio.
Un’altra ipotesi di gestione dei flussi,
meno politically correct ma ben piú diffusa tra la gente comune, gli operatori
del settore, i politici e il sistema mediatico, è fondata su una pura e
semplice distinzione di classe: incentivare il turismo ricco, colto e
rispettoso dell’ambiente, e respingere quello straccione. Sí alle camicie in
jersey riciclato, le canotte a casa loro.
Archiviate come meritano queste idee, è
invece di cruciale importanza osservare la situazione delle città e dei
territori che ancora conservano un’economia mista, non totalmente dominata dal
turismo, perché è da quei luoghi dal destino piú aperto che può partire un
ripensamento radicale delle politiche urbane e territoriali. A partire da città
come Barcellona, Amsterdam, Berlino, Napoli, Roma, New York, San Francisco,
Parigi, che, pur essendo al centro di flussi turistici immensi, sono tuttavia
densamente abitate e hanno per prime visto nascere movimenti di resistenza,
come per esempio SET – rete di città del Sud d’Europa che si oppongono alla
Turistificazione.[1]
Tutte queste città sono state investite
da piú cicli di gentrificazione,[2] e
hanno subito alterazioni fortissime del mercato immobiliare a causa di Airbnb e
delle altre piattaforme per gli affitti brevi.[3] I
loro abitanti diffidano oramai di ogni piccola modifica dello spazio pubblico,
di ogni intervento di abbellimento e manutenzione, di ogni nuovo centro
culturale, di ogni impreziosimento del tessuto urbano proposto dai loro
governi, perché hanno imparato sulla propria pelle che non solo quei progetti
non sono rivolti a loro, ma che non fanno altro che accelerare proprio la loro
espulsione dai quartieri che abitano. E hanno intrapreso battaglie a volte
vittoriose, come quelle per l’imposizione di vincoli agli affitti su Airbnb e
quella, epica, che è riuscita a impedire l’insediamento di un headquarter
Amazon nel Queens di New York.
La pianificazione pigra
Battaglie come queste, purtroppo, in
Italia corrono ancora spesso il rischio di essere classificate come
conservatrici, Nimby. Esse mostrano invece una comprensione profonda della
natura delle politiche urbane dettate dall’ideologia del turismo. Se l’unico
scopo è attrarre viaggiatori in cerca di esperienze, studenti e creativi,
manager in trasferta, malati e parenti di malati, lo spazio urbano e i servizi
vengono rimodellati pensando ai potenziali clienti, non al benessere dei
cittadini. A dominare è il profitto, non la pubblica utilità.
Parchi, piazze, strade, spazi pubblici,
distretti dello shopping e del food acquistano un’aura cool e green,
mentre clochard, migranti, presenze poco rassicuranti e segni di indigenza
devono sparire dalla vista. Viene data priorità alle linee di bus e metropolitana
che collegano l’aeroporto al centro, e non ai collegamenti con le periferie. I
soldi vengono allocati per tirare a lucido i monumenti e non per le case
popolari e le scuole, si creano squadre per la comunicazione e si taglia il
personale degli uffici pubblici, si costruiscono edifici iconici e case di
lusso. Musei e palazzi affittano sale per feste private. Manifatture,
magazzini, luoghi di produzione continuano a chiudere o ad allontanarsi dalle
città, e le strutture diventano invariabilmente location per eventi temporanei.
Stadi e università non hanno piú lo scopo democratico di formare o divertire i
cittadini, ma diventano poli di eccellenza o lusso per platee selezionate e
internazionali. La macchina degli eventi assorbe i fondi destinati alla cultura,
sgretolandone le istituzioni. Persino gli ospedali, come ben si è visto nella
Lombardia della crisi Covid, piú che a curare pare che servano ad alimentare
miti di eccellenza, a sviluppare progetti immobiliari e a erogare a pagamento
prestazioni di screening, a tutto danno di chi non se le può permettere.
Samuel Stein, uno dei piú acuti studiosi
della città contemporanea, autore di Capital City,[4] definisce
icasticamente “pigro” questo modello di sviluppo:
Progettare un futuro equo significa
contrastare gli interessi dei potenti e ridistribuire le risorse, togliendole a
coloro che hanno beneficiato del sistema per generazioni; il perseguimento di
un modello di crescita economica guidata del turismo è, al contrario, il
percorso che offre minore resistenza, e permette ai potenti di mantenere i
propri privilegi. Infatti la pianificazione turistica tende a rafforzare
proprio queste diseguaglianze.[5]
Ma che cosa succede a queste città in
bilico, appesantite dalla conversione turistica ma ancora parzialmente
produttive, se i flussi in entrata e in uscita si fermano? Quali settori
entrano in sofferenza?
Città come Milano, Roma, Londra, Madrid,
Parigi, Berlino o Barcellona non si sono desertificate: molte attività
produttive non sono state bloccate o sospese neanche durante il lockdown. Sono
stati spazzati via gli eventi, e questo ha avuto un impatto terribile sulla
massa di lavoratori precari, decontrattualizzati, a volte in nero, che si sono
trovati da un giorno all’altro senza un soldo, e sulla gloriosa filiera degli
allestitori. Ma ha anche rivelato, a chi ha occhi per vedere, che il settore
dell’arte e dell’editoria possono fare a meno senza rimpianti del 90% dei
festival, delle fiere e degli incontri, che non hanno come vero scopo la
promozione della cultura ma dell’immagine cool della città che
li ospita.[6] Moltissime
voci si sono levate nel mondo della cultura per sollecitare una riconversione
del sistema sul piano qualitativo.[7] Si
invoca un ritorno alla gestione pubblica della cultura; un freno all’assalto
dei privati; un allontanamento dai metodi neoliberisti di valorizzazione dei
siti culturali, fondati come sempre sui numeri costi quel che costi, e dalla
retorica del patrimonio culturale come “petrolio” da sfruttare in chiave
turistica; una regolamentazione, infine, ma non da ultimo, del mondo del
lavoro, di tutto il mondo del lavoro.[8] Chi
soffre molto invece è ovviamente il settore dello spettacolo (cinema, teatri,
musica dal vivo), che si sta interrogando su come trasformare temporaneamente
la fruizione senza aumentare i prezzi. Soffrono naturalmente gli alberghi. E
sono molto colpiti i ristoranti e i bar, anche se parecchi hanno retto meglio
di altri con il delivery e hanno davanti mesi in cui potranno occupare grandi
spazi all’aperto a basso costo (a seconda della liberalità delle
amministrazioni locali).
Ma è sul fronte dell’abitare e del
mercato immobiliare che si aprono gli scenari piú interessanti: oltre alle
crisi di inquilini e proprietari in difficoltà, l’assenza di turisti rimette
necessariamente sul mercato dell’affitto almeno una quota consistente di
appartamenti destinati ad affitti brevi. In città non del tutto turistiche,
dove la domanda è sempre viva, questo si traduce in un’opportunità − anche
politica – di calmierare i prezzi del mercato e di ridimensionare l’ingerenza
delle piattaforme negli equilibri abitativi. Una situazione analoga si osserva
anche dentro al grande mercato temporaneo delle location: magazzini, showroom,
ex garage, palazzi d’epoca si ritrovano improvvisamente a languire insieme alle
altre migliaia di spazi vuoti di cui abbondano le città. In un momento storico
che ha fame di spazi ampi per scuole, uffici pubblici, ristoranti, ambulatori,
per attività sportive, potranno le location riconvertirsi in spazi per la
collettività?
Sono interrogativi che aprono una grande
sfida politica. Possiamo spezzare la dipendenza da una domanda esterna volubile
e precaria e riorganizzare i territori, gli spazi, i servizi in funzione degli
abitanti. Si può investire su un ritorno alla produzione. Si possono ripensare
i progetti urbani che rispondono a esigenze di pura “immagine” o di attrazione
di capitali che non atterrano mai veramente sui cittadini: basta case di lusso
e stadi per vip, centri commerciali e uffici monumentali. Si può scegliere di
non cedere alla tentazione del ritorno all’auto e di investire sul trasporto
pubblico, anche convertendo temporaneamente i bus turistici in mezzi di linea.
Si può scegliere di non puntare sulle linee low cost. Si possono assumere
medici e infermieri per ristabilire un servizio sanitario pubblico diffuso sul
territorio, insegnanti per coprire le esigenze di tutti i bambini, e studiosi,
archeologi, storici dell’arte, restauratori per tutelare il patrimonio
culturale. Si possono ricondurre gli atenei alla loro funzione originaria,
elaborare e trasmettere saperi, distogliendoli dal ruolo di attori sul mercato
del real estate cittadino. Si può rimettere al centro la questione della casa,
riprendendo in mano il patrimonio di edilizia pubblica semiabbandonata e
inducendo i proprietari di edifici vuoti a riempirli. Si può avviare un
gigantesco piano di manutenzione di spazi ed edifici pubblici. Si possono
revocare le concessioni sulle spiagge, sulle biglietterie dei musei, sulla
gestione dei servizi. Infine, si può anche ripudiare la rincorsa ai grandi
eventi − e lasciare estinguere una buona percentuale di quelli minori.
Oppure, si può continuare a privatizzare
quel che resta della società in nome del feticcio del dinamismo. Almeno fino
alla prossima crisi, che come tutte le precedenti non sarà tale per chiunque −
ma opportunità per i piú ricchi, ulteriore sprofondamento per i piú poveri.
Chissà se almeno stavolta anche il ceto medio − posto che esista ancora
qualcosa del genere − se ne accorgerà, o se continuerà a riporre il proprio
declinante benessere nelle mani di chi ha manifestato in ogni modo l’intenzione
di sottrarglielo, subdolamente − come ha fatto finora − o, se necessario, anche
con la forza. Una volta si diceva che la Cina è vicina. Oggi (a parte il fatto
che è molto piú vicina di allora), sarebbe forse il caso di iniziare a pensare
che anche il Brasile è meno lontano di quanto sembri.
Note
[1] SET − Sud Europa
di fronte alla Turistificazione è una rete nata nel 2018 per contrastare i
processi di conversione al turismo che investono moltissime città mediterranee
e della fascia meridionale del continente. Ad aprile 2020 ha elaborato una
riflessione molto importante sul cambio di paradigma imposto dalla crisi Covid:
“La rete set: il Covid-19 e le sue conseguenze”, su Emergenza cultura: https://emergenzacultura.org/2020/04/29/la-rete-set-il-covid-19-e-le-sue-conseguenze/.
[2] Nell’ormai
sterminata letteratura sul tema è imprescindibile la lettura di Giovanni
Semi, Gentrification. Tutte le citta come Disneyland?, il Mulino,
Bologna 2015.
[3] Il libro piú
chiaro e documentato in Italia sul fenomeno Airbnb è quello di Sarah
Gainsforth, Airbnb citta merce. Storie di resistenza alla
gentrificazione digitale, DeriveApprodi, Roma 2020. In un articolo
pubblicato su Internazionale il 07/05/2020, “L’effimera
rigenerazione di Roma”, analizza l’effetto degli affitti a breve termine sulla
città di Roma: https://www.internazionale.it/reportage/sarah-gainsforth/2020/05/07/roma-rigenerazione-effimera?fbclid=IwAR3JBAkP5xbsTUtjobXgsj966prK2FRuoVUKVRIo-c7gjdZkszwAv1sCQsk.
[4] Samuel
Stein, Capital City. Gentrification and the Real Estate State,
Verso Books, London 2019.
[5] Samuel Stein,
“Il turismo. Un’ideologia e una strategia di accumulazione”, in Lucia Tozzi (a
cura di), City killers. Per una critica del turismo, Casa Editrice
Libria, Melfi (pz) 2020.
[6] Lucia Tozzi, “La
cultura senza eventi”, su Zero, 01-05/05/2020: https://zero.eu/it/news/la-cultura-senza-eventi/.
[7] Il sito Emergenza
cultura in particolare raccoglie moltissimi appelli, articoli e
analisi sul tema.
[8] Vitangelo
Moscarda, “Peste nera, lavoro nero: le tinte scure del turismo all’italiana”,
su Jacobin Italia, 16/03/2020: https://jacobinitalia.it/peste-nera-lavoro-nero-le-tinte-scure-del-turismo-allitaliana/?fbclid=IwAR3iZUVkhPJd0Uwxf7ZfXs3M8z2LpXzYCHBiTu17AewgCAgyBURFXRhWHM.
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