venerdì 31 maggio 2019

Diventando vegani, gli Israeliani possono evitare di parlare dei diritti umani - Rachel Shenhav-Goldberg



Gli Israeliani hanno aderito al movimento vegetariano e vegano forse più che in qualsiasi altro Paese nel mondo sviluppato. Questa è una buona cosa; se considerate la durata della sofferenza e il numero di vittime, è giusto dire che gli animali sono le principali vittime della Storia.
Credo che i vegani israeliani si preoccupino veramente degli animali. Non c’è dubbio che molti di loro combattono anche per altre cause: nel 2011, centinaia di migliaia di Israeliani sono scesi in piazza per protestare contro le crescenti disparità economiche, dando vita a uno dei movimenti sociali più forti nella storia del Paese. La tragedia delle proteste sociali in Israele, tuttavia, è che sottolineano quanto gli Israeliani siano disposti a chiudere un occhio su una delle più immorali violazioni dei diritti umani: l’oppressione e l’occupazione decennale di milioni di Palestinesi da parte di Israele.
Scegliendo di combattere per cause più popolari, molti Ebrei israeliani accettano di continuare a vivere in una sorta di dissociazione. Serve come mezzo per liberare le loro coscienze dall’indifferenza e dalla passività di fronte alle violazioni dei diritti umani nei Territori Occupati.
Vorrei  suggerire alcune spiegazioni accademiche socio-psicologiche  sui motivi per cui molti Ebrei israeliani evitano di protestare contro l’occupazione, mentre sono molto espliciti e a proprio agio rispetto ad altre cause.
Una prima spiegazione sono i molti muri sociali e fisici esistenti tra Israeliani e Palestinesi. Questi muri si manifestano fisicamente con la barriera di separazione, ma anche con le scuole separate, con i quartieri e le istituzioni che fungono da barriere emotive, cognitive e culturali. Il risultato è una distorsione della realtà che ha lo scopo di giustificare l’occupazione e di disumanizzare i Palestinesi.
Da uno studio del 2010 sulle implicazioni dell’occupazione nella società occupante, sappiamo  che molti Israeliani usano vari meccanismi di difesa per smorzare i sensi di colpa riguardo l’oppressione dei Palestinesi. I meccanismi di difesa psicologica li aiutano a mantenere la propria percezione di sé come ” esseri umani buoni “, mentre nelle vicinanze  avvengono azioni ed eventi terribili.
Quando le persone sono esposte a informazioni che sanno di non poter sopportare, se ne allontanano . Questo stato di negazione può essere un’auto-bugia involontaria. È  un sapere e contemporaneamente un non sapere.
In “States of Denial: Knowing about Atrocities and Suffering”, uno studio esauriente sulla sociologia della negazione, Stanley Cohen si riferisce a questo tipo di negazione come un modo per tenere nascoste a noi stessi quelle verità  da cui ci sentiamo sfidare e su cui chiudiamo gli occhi. In quanto tale, la negazione funge da protezione dai costi morali provocati da un nostro riconoscimento e da una nostra assunzione di responsabilità.
L’occupazione è incompatibile con l’uguaglianza. Di fronte ai gravi abusi e alle violazioni dei diritti umani come quelli documentati da Breaking the Silence, B’Tselem e altri, il fatto di comprendere che  nella nostra società  gli esseri umani possano agire in modo così crudele agendo  nel nostro nome,  può provocare un  dolore significativo. Come sostengono Feagin e Vera nella loro teoria sulle emozioni di un  gruppo privilegiato in una società razzista, ciò crea confusione morale e vergogna. Cercare di affrontare la contraddizione tra ciò in cui la gente crede – l’uguaglianza, l’amore e la gentilezza – e quello che ci si aspetta che facciano (lottare per questo) può avere un pesante effetto psicologico, che è ciò  che le persone cercano di evitare.

Soldati israeliani arrestano Avner Gvaryahu, direttore di Breaking the Silence, in un tour delle colline di South Hebron, il 31 agosto 2018. (Nasser Nawaja, B’Tselem)
Più si diventa consapevoli dell’ingiustizia, più è difficile ignorare le conseguenti  questioni e sentimenti morali e politici. La dissonanza cresce. I membri di gruppi privilegiati possono sentirsi in colpa sapendo di non stare agendo per cambiare la realtà ingiusta, e spesso usano la negazione come meccanismo di difesa. Come tali, cause popolari come il veganismo possono agire come sostituto di una vera resa morale; così facendo le persone si anestetizzano contro il dolore causato dalla colpa di fronte all’occupazione.
Secondo Cohen, una realtà sociale in cui un gruppo è in conflitto con un altro gruppo, in cui Israele controlla militarmente milioni di Palestinesi, necessita di  consenso sui sentimenti personali. Quando un membro del gruppo solleva punti interrogativi sullo status quo, lui o lei rischia la condanna, l’allontanamento sociale e, eventualmente, anche l’ostracismo o il boicottaggio sociale. Per evitare questo risultato, la ricerca ha scoperto che alcuni cercheranno di evitare di esprimere questi sentimenti e altri attiveranno un meccanismo per prevenire lo sviluppo di sensi di colpa. Protestare, o anche parlare contro l’occupazione, può metterci a rischio di bullismo da parte dei nostri amici e della società.
Scegliendo una causa “più facile” per cui lottare, alcuni Israeliani hanno deciso di poter avere tutto. Mostrando compassione per gli animali e le loro sofferenze,  possiamo vivere restando ciechi al dolore degli umani. Aderendo a una causa più popolare, decine di Israeliani sono in grado di non sentirsi responsabili e in colpa per non fare nulla sull’occupazione, di evitare di pagare un prezzo nella vita sociale e familiare e soprattutto di evitare di vivere in uno stato emotivo-cognitivo di sofferenza.

Rachel Shenhav-Goldberg è una israeliana che vive in Nord America. Ha un dottorato in scienze sociali presso l’Università di Tel Aviv e un post-dottorato presso l’Università di Toronto. La sua ricerca si concentra sull’antirazzismo in Israele e sull’antisemitismo nel Nord America. È anche facilitatrice di gruppo ed è volontaria presso il New Israel Fund in Canada.

Trad: Grazia Parolari “contro  ogni specismo, contro ogni schiavitù”  – Invictapalestina.org

giovedì 30 maggio 2019

Auto elettrica, impatto ambientale, caso italiano



Un mondo in continuo cambiamento
Il mondo cambia, cambiano i valori, le sensibilità, le tecnologie  e, di conseguenza gli strumenti che ci circondano, grandi e piccoli. Qualche giorno mettendo in ordine la cantina, mi è venuta sotto mano una scatola contenente floppy disk, un walkman e alcune audio  cassette, vent’anni fa erano oggetti comunissimi, oggi sono pezzi d’antiquariato. Dopo la rivoluzione nelle telecomunicazioni e nel web, sembra che dopo un secolo  sia giunto il momento dei mezzi di trasporto. Tra gli attori principali in questo campo vi sono i costruttori di autoveicoli. Si dà il caso che Torino, pur avendo drasticamente ridotto la produzione di auto, e di conseguenza di occupati in questo settore, sia ancora un polo importante dell’Automotive. Magari si produce poco, tuttavia si continua a studiare e a osservare cosa avviene negli altri paesi.

La questione ambientale
Nell’immaginario collettivo le emissioni inquinanti si associano quasi sempre ai tubi di scarico delle automobili. Tant’è vero che quando nelle grandi città si superano le soglie delle polveri sottili e di ossido di azoto, i sindaci ricorrono alla riduzione o al blocco parziale del traffico veicolare. I legislatori di gran parte del mondo industrializzato hanno reso operative restrizioni, nelle emissioni delle autovetture, tali  da incentivare sempre di più i costruttori di queste a percorrere soluzioni alternative e ad abbandonare alcuni idrocarburi come, ad esempio, il gasolio. La panacea risulta essere la propulsione elettrica e, in un contesto così consolidato come il settore automotive, che da più di cent’anni ha adottato universalmente il motore a scoppio a quattro tempi, si tratta indubbiamente di una rivoluzione epocale.

Ritorno alle origini
In realtà di nuovo, a parte i materiali in gioco, c’è ben poco, perché l’industria automobilistica all’inizio del XX secolo era soprattutto orientata verso la propulsione elettrica. La stessa Ford ha realizzato i suoi primi modelli con questo tipo di motori. Il bassissimo costo della benzina, unito alla facilità del  trasporto e della distribuzione, ha determinato l’affermazione dei motori che, per funzionare, bruciano combustibili fossili. In momenti diversi, anche a causa di crisi petrolifere e allarmi dell’imminente fine della sua disponibilità, l’industria automobilistica ha proposto vetture elettriche, non riuscendo però mai a far eclissare il dominio delle altre. Anche perché alla presentazione di queste alternative non si attuavano politiche e riorganizzazioni di distribuzione e fruizione di corrente elettrica a buon mercato per l’autotrazione, nelle città e nelle reti stradali.

La volta buona?
L’emergenza ambientale e la necessità di concretizzare qualcosa per attenuare almeno in parte le emissioni di CO2 nell’atmosfera hanno determinato politiche che potrebbero far affermare l’auto elettrica. Utilizziamo il condizionale perché, stando ai dati riportati dall’European Automobile Manufacturers Association (ACEA), nell’Unione Europea nel 2018 la vendita di vetture elettriche e ibride ha raggiunto appena il 2% del mercato.

Tipologie
A parte le auto ibride (HEV) che, accoppiando all’elettrico un motore a scoppio convenzionale, continuano, anche se in misura minore, a inquinare, le vetture elettriche sono tutte equipaggiate da uno o più motori elettrici, composti da una parte fissa (statore) e una rotante (rotore); questi hanno dimensioni di ingombro decisamente inferiori rispetto ai motori endotermici e un’efficienza molto più alta, possono essere alimentate da corrente fornita o da batterie presenti a bordo (BEV) o da una reazione chimica di ossidazione dell’idrogeno, celle a combustibile (Fuel Cell). Tra le prime troviamo vetture come le Tesla, e la più economica Nissan Leaf. Tra le seconde la Toyota Mirai. Le prime sono concettualmente più semplici, anche se l’insieme delle batterie montate in auto hanno un’ architettura molto complessa, ben distante da quella presente nei telefoni cellulari. Le seconde richiedono un dispositivo (cella) che ,ossidando l’idrogeno presente in un serbatoio con l’ossigeno presente nell’atmosfera, produce corrente elettrica e, come prodotto di scarto, acqua calda. Le batterie a ioni di litio, molto performanti, trovano una larga applicazione sulle auto elettriche; una volta esaurite diventano un rifiuto tossico di complessa gestione. Ciò rappresenta la loro criticità maggiore. Le vetture BEV sono caratterizzate da un elevato numero di batterie a ioni di lito nel loro interno, queste possono arrivare a pesare fino alla tonnellata, per essere ricaricate possono occorrere più di otto ore, inoltre si possono manifestare fenomeni di autocombustione che non è possibile spegnere. Quelle a “fuel cell” dipendono dall’idrogeno, che non è presente in natura sulla superficie terrestre, ed è difficile da stoccare, trasportare e anche mantenere in vettura.

Occhio agli annunci sensazionali
Ci sono produttori che catturano l’attenzione grazie ad annunci sensazionali, promettendo ricariche in tempi brevissimi, e autonomie prossime ai seicento chilometri, mantenendo velocità sostenute. Peccato che manchi una effettiva verifica o un contraddittorio. Le ricariche rapide possono essere una soluzione una tantum ma, se effettuate con continuità, riducono drammaticamente il ciclo vitale delle batterie, il costo di acquisto di una vettura elettrica continua ad essere superiore del doppio rispetto a quelle tradizionali, quando una vettura a batterie si incendia, bisogna aspettare che l’incendio si esaurisca. Ma soprattutto non si sa ancora come gestire le batterie esauste, in ultimo non si capisce perché anche se si è in riserva si debba andare in giro con un peso di diversi quintali determinato dal pacco batterie.

L’esempio del Giappone e Corea
La giapponese Toyota negli anni ’90 realizzò prima la tecnologia delle celle a combustibile (1992) e poi quella ibrida. Vista la complessità della gestione dell’idrogeno, concentrò i suoi sforzi sull’ibrido, intuendone il successo commerciale, ma continuando a sviluppare quella dell’idrogeno. Gli altri costruttori del Sol Levante e della vicina Corea hanno seguito la stessa via. Attualmente Toyota è il leader delle vetture ibride e ha dirottato sulla nuova vettura Mirai, a fuel cell, quasi tutti i componenti impiegati sull’ibrido. Dal momento che la criticità è rappresentata dal contenimento dell’idrogeno, la Toyota si è focalizzata trasferendo ad altri partner lo sviluppo dei componenti già maturi. Siccome lo stoccaggio e la distribuzione dell’idrogeno rappresentano sfide e un impegno vitale per l’affermazione di questo tipo di automobili (e non sostenibili da un unico soggetto), l’intera industria automobilistica giapponese si è assunta l’onere di farsene carico, finanziandola. Nel 2020 si svolgeranno a Tokyo i prossimi Giochi Olimpici, e molti sguardi saranno rivolti lì. Per quell’occasione, tutto ciò che sarà coinvolto nelle Olimpiadi sarà movimentato con auto, bus e camion, alimentati a idrogeno, e questo influenzerà il mondo.

E quello degli USA e dell’Europa
Gli Stati Uniti sono il Paese del fenomeno Tesla, un’azienda giovanissima, che non ha nulla in comune con gli storici marchi automobilistici. Il fondatore è Elon Musk,  proprietario inoltre della Space X, azienda produttrice dei missili per la NASA. Entrambe sono state create dal nulla e sono diventate fin da subito un esempio da emulare. In particolare, Tesla ha l’obiettivo di diventare leader mondiale dell’auto elettrica. Anni fa presentò la Model 3,annunciandola in vendita per trentamila dollari, l’equivalente di una qualsiasi vettura media convenzionale. Ha raccolto più di quattrocentomila ordini, ciascun interessato ha versato anticipatamente 1000 $. Purtroppo l’azienda ha incontrato enormi problemi sul fronte produttivo e in tempi brevi il prezzo è stato corretto verso l’alto: attualmente in USA è in vendita a partire da 45 mila dollari. In Europa si è aspettato molto prima di fare le cose seriamente; i tedeschi e i francesi sono quelli meglio attrezzati, perché se Renault grazie all’alleanza con la giapponese Nissan disponeva da subito delle tecnologie sull’elettrico, le aziende come Siemens, Bosch, Bollorè e Peugeot si davano da fare sull’altra mobilità sostenibile, quella delle biciclette e degli scooter elettrici, acquisendo quelle competenze che sarebbero state utili anche sulle auto del futuro.

Cosa succede in Italia (FCA)
Negli anni novanta oltre alla Toyota c’era anche la Fiat che sperimentava auto elettriche; addirittura, la Panda Elettra fu la prima auto elettrica ad essere commercializzata al grande pubblico, ad essa fece seguito la Seicento che adottava architetture e soluzioni che si trovano anche su quelle attuali. Nel 2000 venne inoltre presentata la Multipla Ibrida, che contrariamente a quanto annunciato non venne messa in vendita. Poi arrivò la crisi del nuovo millennio, la Fiat rischiò seriamente il fallimento, e a salvarla fu chiamato Sergio Marchionne che, influenzato dai numeri, considerava la trazione elettrica  un inutile sperpero di denaro. La successiva messa al bando del diesel, motorizzazione regina della Fiat, imponeva però rapidi cambi di strategie. Per ora siamo solo agli annunci, a differenza della concorrenza non ha alcuna vettura in listino, né ibrida né elettrica. I piani prevedono entro il 2020 la commercializzazione delle attuali Jeep Renegade e Compass in versione ibride e, come soluzione totalmente elettrica, la sola 500, di prossima produzione nello storico stabilimento torinese di Mirafiori, attualmente sotto utilizzato. Come accennato in precedenza, le auto con batterie azzerano le emissioni di CO2, aspetto niente affatto irrilevante; tuttavia generano l’imminente problema della gestione delle batterie esauste e, intanto, il numero delle colonnine pubbliche per la ricarica presenti su strada è ancora piuttosto esiguo.


Il crac dei ristoranti "finto italiani" di Jamie Oliver: chiudono 25 locali - ENRICO FRANCESCHINI




È il più italiano dei cuochi inglesi, ma la sua catena di ristoranti all’italiana è fallita. Jamie Oliver ha annunciato il collasso dei suoi 25 locali, lasciando senza lavoro 1.000 dipendenti. Si chiamavano Jamie’s Italian ed erano disseminati per Londra: il più grande dei 23 (altri due ristoranti hanno un altro marchio) è all’angolo di Piccadilly Circus, nel cuore della capitale.

«Sono distrutto», dichiara il 44enne celebrity-chef, come viene denominata qui la sua categoria, ascesa allo status delle star del calcio e del cinema.

La decisione era nell’aria: all’inizio del 2019 aveva già dovuto chiudere mezza dozzina di ristoranti e iniettare 4 milioni di sterline nell’attività per fare fronte ai debiti. «Eravamo partiti dieci anni fa con l’intenzione di rivoluzionare il mercato dei ristoranti di medio livello, puntando su un miglior rapporto qualità-prezzo ed è esattamente quello che abbiamo fatto», afferma Oliver. E allora perché è andato in crisi? «Momento difficile», dice lui. «Colpa dell’incertezza economica », commentano i sindacati, alludendo alla Brexit.

In realtà è una vittima del proprio successo: ormai a Londra esistono ristoranti italiani per tutte le tasche, dalla pizzeria alla trattoria regionale allo stellato Michelin, in cui si mangia bene come in Italia, se non meglio.

L’inglese Jamie, invece, era cresciuto alla scuola dei Carluccio Cafe’s, i ristoranti aperti da un immigrato della prima ora, Antonio Carluccio: la sua catena ne rappresentava l’evoluzione.

Il limite è in fondo lo stesso: sono ristoranti "all’italiana", come le caffetterie che servono "latte" (abbreviazione di latte macchiato) e frappuccino (frappé cappuccino), ma non genuinamente italiani e un pubblico sempre più sofisticato coglie la differenza.

Così, nonostante i libri di ricette, i corsi di cucina in tivù, i menù per le scuole con la apprezzabile campagna per spingere il suo popolo a nutrirsi meglio, alla fine Jamie Oliver non ce l’ha fatta. È stato uno dei discepoli della cucina Mediterranea e della cultura dell’olio dell’oliva nell’ex-terra del fish and chips e del roastbeef. Ma nell’odierna Inghilterra globalizzata si può mangiare una pizza buona come a Napoli oppure scegliere tra un ristorante pugliese e uno calabrese: era inevitabile che si restringesse lo spazio per un ristorante meramente "all’italiana". Dove negli ultimi tempi, per di più, si mangiava maluccio e si spendeva troppo.

mercoledì 29 maggio 2019

Dopo lo Sciopero per il Clima e le Europee: ricominciamo dalla … carne - Natale Salvo




Il risultato, quello nazionale almeno, delle elezioni europee disegna un’Italia distante dai temi ambientali e, sopratutto del cambiamento climatico. E’ inutile scoraggiarsi. Bisogna solo comprendere che non dobbiamo attenderci nulla dai partiti di massa e dai mezzi di comunicazione confindustriali che li sostengono. Loro guardano all’oggi, non al futuro come invece fa la nostra Greta Thunberg.
Dobbiamo comprendere, in definitiva, che, se vogliamo cambiare il mondo, dobbiamo rimboccarci le maniche e attivarci in prima persona. L’ampia partecipazione, lo scorso marzo e poi il 24 maggio, ai cortei per la difesa del Clima evidenzia che non siamo poi così in pochi.
Che fare quindi? Dobbiamo, semplicemente, impegnarci tutti quanti, singolarmente, ad attivare quei percorsi virtuosi che servono a difendere l’ambiente. Dobbiamo farlo noi, non aspettare che giunga un improbabile leggina del governo che ce l’imponga.
Ridurre i consumi di energia a casa, per esempio. Usare i mezzi pubblici piuttosto che l’auto privata. Ridurre i consumi di carne. Comprare a “chilometro zero”. Ridurre, più in generale, i consumi (che vuol dire poi creare rifiuti, da differenziare o meno).
Occorre realizzare un bilancio delle nostre attuale spese, della nostra “impronta ecologica”, darsi un obiettivo di riduzione (10-20%?) e monitorarlo mensilmente.
Cambiare stile di alimentazione: un bene per la salute e il clima
Il numero febbraio-marzo del magazine edito dall’Ordine dei Biologi (Bio’s), nella rubrica Atlante (pag. 4), riporta la sintesi di un interessante rapporto pubblicato dalla rivista inglese The Lancet: “Food in the Anthropocene”, Cibo nell’antropocene. Si tratta del risultato di uno studio che ha coinvolto una trentina di scienziati di sedici Paesi.
Secondo gli studiosi, «raddoppiando il consumo di noci, frutta, verdura e legumi e dimezzando quello di carne e zuccheriogni anno sarebbe possibile prevenire milioni di morti prematuri, ridurre sensibilmente le emissioni di gas serra e proteggere la biodiversità ambientale». Non a caso loro hanno chiamato questa dieta “planetary health”, la salute del pianeta: «altrimenti nutrire 10 miliardi di persone entro il 2050 con una dieta sana e sostenibile sarà impossibile», sostengono.
Nulla di nuovo. Una brochure della LAV, la Lega antivivisezione, precisa come «gli allevamenti intensivi siano responsabili dell’emissione in atmosfera di ben il 51% dei gas serra (GHG)soprattutto di anidride carbonica, metano e protossido d’azoto e quindi possano essere annoverati tra i maggiori responsabili del riscaldamento globale». La LAV fa riferimento ad un rapporto FAO del 2006, poi aggiornato.
In particolare, la LAV riporta come «nel caso del metano: il 72 % del metano totale derivante da attività umane emesso in atmosfera proviene sia direttamente dai processi digestivi dei ruminanti (bovini, ovini, caprini) che dall’evaporazione dei composti presenti nel letame […] L’evaporazione dei composti azotati dai fertilizzanti e dal letame, che ne è la seconda fonte, è responsabile della formazione di monossido di azoto, il più potente dei tre GHG per effetto riscaldante».
In definitiva, spiega la LAV, «sostituire 1 kg di carne a settimana fa risparmiare 1872 CO2 equivalenti in un anno, mentre sostituire una lampadina da 60 W con una a basso consumo 26».
Non consumare carne (e quindi anche salumi), o comunque consumarla solo una volta la settimana, propagandare tale stile di vita ai nostri amici e parenti, è un’azione concreta che possiamo fare per difendere il Clima del nostro Pianeta.
Al di là di cosa faccia e decida chi sta a Palazzo Chigi.

martedì 28 maggio 2019

L'arrivo del 5G mette a rischio le previsioni meteo, salto indietro di 40 anni




L'avvento della tecnologia 5G potrebbe mettere a rischio l'accuratezza delle previsioni meteo, riportandole addirittura indietro di 40 anni. L'allarme arriva nel croso di un'audizione al Congresso Usa del direttore del Noaa, la National Oceanic and Atmospheric Administration, che ha fatto eco a diversi ricercatori anche in Europa.
Il problema, ha spiegato Neil Jacobs a una commissione sull'ambiente, è che la frequenza a 23 Gigahertz fondamentale per il 5G è pericolosamente vicina a quelle usate dai microsatelliti per misurare la quantità di vapore acqueo nell'atmosfera, e potrebbe quindi interferire. "In base ai piani attuali per l'implementazione del 5G i nostri satelliti potrebbero perdere approssimativamente il 77% dei dati - ha sottolineato, riporta il Washington Post - riducendo la capacità di previsione del 30%. se si guarda indietro nel tempo a quando le nostre previsioni erano il 30% meno accurate di oggi si arriva intorno al 1980. Questo porterebbe ad una diminuzione delle previsioni sull'andamento degli uragani di due o tre giorni".

Qualche giorno fa, riporta il Guardian, una preoccupazione simile è stata espressa da Tony McNally of the European Centre for Medium-Range Weather Forecast. "Il modo in cui stiamo introducendo il 5G potrebbe compromettere seriamente la nostra abilità di prevedere le grandi tempeste - spiega e questo può fare la differenza tra la vita e la morte. Siamo molto preoccupati". Negli Usa la frequenza è già stata messa all'asta, e anche altre molto importanti per le previsioni dovrebbero finire agli operatori del settore, che finora hanno sempre respinto le accuse. "Gli operatori stanno saccheggiando lo spettro delle frequenze, e i regolatori stanno fallendo nel proteggere quelle vitali - scrive su Nature Jordan Gerth, of the University of Wisconsin-Madison - più ne perdiamo e maggiore sarà l'impatto".

E' morta Nicoletta, cane super fedele: vegliò per dieci anni sulla tomba del proprietario a Ischia - PASQUALE RAICALDO


















Dal 29 gennaio 2009 a pochi giorni fa aveva vegliato sulla tomba del suo proprietario Alfred, scomparso poco più di dieci anni fa, nel piccolo cimitero della frazione di Panza, sull’isola d’Ischia. Una storia a tratti commovente, raccontata da Repubblica nei mesi scorsi e divenuta virale.

Oggi Ischia piange Nicoletta, il bellissimo meticcio che aveva eletto a sua dimora il cimitero sin dai giorni successivi alla dipartita del suo proprietario, intenerendo custodi e residenti, che avevano finito con l’adottarla e darle da mangiare per anni, anche nei lunghi inverni. Nelle ultime settimane, le condizioni di salute del cane – che spesso restava per ore accucciata proprio ai piedi della tomba del suo proprietario, di origini tedesche - erano diventate precarie. “Per noi Nicoletta era diventata un’amica, siamo costernati ma siamo convinti che ora raggiungerà il suo proprietario, che non aveva mai dimenticato”, commenta Enrico, che gestisce una pensione a pochi metri dal cimitero e che non le aveva lesinato attenzioni e cure, soprattutto negli ultimi anni.
E ora la sua storia, che ricordava da vicino quella del cane giapponese Hachiko (che -  alla morte del padrone - per dieci anni continuò ad attenderlo invano alla stazione giapponese di Shibuya), potrebbe essere sintetizzata in una targa o addirittura in una statua. “Qualcosa che renda immortale il suo esempio e la sua fedeltà”, auspicano i custodi, che da oggi saranno un pochino più soli, senza l’allegro scodinzolare di Nicoletta.

lunedì 27 maggio 2019

scena del caffè - Eduardo de Filippo

Gli Illuminati, i Savi di Sion, teorie della congiura, ora i Suprematisti - Giovanni Punzo




Nasce la teoria della congiura
Gli Illuminati, i Savi di Sion, teorie della congiura, ora i Suprematisti
Il 1° maggio 1776 un professore di filosofia tedesco, Adam Weishaupt, fondava l’ordine degli Illuminati. Ispirato sul piano organizzativo alla massoneria inglese che operava già da decenni, lo scopo principale del sodalizio tedesco era contrastare l’influenza religiosa su scuole ed università e prima fra tutte quella esercitata dal potente ordine dei Gesuiti da cui dipendevano vari istituti educativi europei tra i quali perfino accademie militari. Dodici anni dopo l’ordine contava circa duemila aderenti un terzo dei quali appartenenti alla nobiltà, ma in stragrande maggioranza intellettuali come Goethe o Herder e non oscuri cospiratori o rivoluzionari sanguinari. L’ordine fu tuttavia sciolto dalle autorità e gli aderenti perseguitati senza che avessero provocato disordini o tantomeno rivoluzioni, eppure la sua breve esistenza ha dato origine ad un fenomeno conosciuto ancora oggi come ‘la teoria della congiura’, ovvero quando – in assenza di una spiegazione razionale di grandi eventi sociali – se ne attribuisce la responsabilità a forze oscure e soprattutto sconosciute.

I protocolli dei Savi di Sion
Il punto più alto si ebbe alla fine della rivoluzione francese, quando si tornò a parlare delle responsabilità degli Illuminati, cospiratori e rivoluzionari. Un colto abate francese, Augustin Barruel, scrisse un’opera in otto volumi per spiegare tutta la vicenda della cospirazione sfociata in rivoluzione giacobina: fu un successo soprattutto nel clima repressivo della Restaurazione, ma alla fine quasi dimenticato. Nel primo decennio del Novecento la teoria della cospirazione o della congiura ricomparve invece in Russia. Questa volta non si trattava della ricostruzione di eventi fatta in maniera tendenziosa, ma di un vero e proprio falso diffuso dalla polizia segreta zarista che attribuiva agli ebrei una cospirazione per il domino del mondo: “I protocolli dei Savi di Sion”, opera famigerata, quanto citata ancora oggi, è letta e considerata al contrario attendibile in certi paesi dell’Europa orientale o soprattutto in Medio Oriente.

Altri emulatori
Il ricorso alla teoria della congiura non si limitò solo ai casi raccontati. Mentre gli storici stavano dimostrando le manipolazioni di Barruel e i falsi russi, nel 1921 in Inghilterra apparve un libro inquietante che fondeva insieme i due principali filoni della teoria giungendo all’età contemporanea: la scrittrice inglese Nesta Webster, che in seguito sarebbe diventata amica di Oswald Mosley, fondatore del movimento fascista inglese, pubblicò “Società segrete e movimenti sovversivi” che estendeva anche ai movimenti socialisti il disegno della cospirazione mondiale. A parte alcuni ambienti specifici il libro non fu un best seller: probabilmente il fatto che l’autrice in passato avesse parlato delle proprie esperienze mistiche, sostenendo di essere la reincarnazione di una nobildonna francese ghigliottinata durante la rivoluzione, non si rivelò un fattore di successo. Tuttavia, alla fine della guerra, mentre in Gran Bretagna si scoprivano i sentimenti antisemiti dell’autrice, il libro invece attraversò l’Atlantico fornendo nuova linfa alle teorie razziste del Ku Klux Klan e soprattutto alla John Birch Society, organizzazione politica americana di estrema destra sorta nel 1958 e da allora strettamente sorvegliata dalle autorità federali.

Contro la globalizzazione
Il momento di massima influenza del movimento si ebbe all’inizio degli anni Sessanta, quando il numero degli aderenti – i cui nomi non sono mai stati rivelati – fu stimato in circa sessantamila. Una battuta d’arresto si ebbe tuttavia con la sconfitta del candidato repubblicano Barry Goldwater da parte del democratico Lindon Johnson nel 1964 e da allora l’attività è proseguita ricorrendo ad altre denominazioni attraverso campagne pubblicitarie epistolari (e oggi su internet). La John Birch Society, soprattutto a partire dagli anni successivi alla Caduta del muro, ha svolto intensa attività di propaganda per mettere in guardia dai pericoli della globalizzazione, del ‘grande governo’ (una sorta di governo mondiale occulto) e della decadenza dei costumi e – ovviamente – in tempi più recenti ha lanciato campagne contro la riforma sanitaria di Obama, contro le eventuali limitazioni al possesso di armi e a favore di una politica estera isolazionista da parte degli Stati Uniti.

domenica 26 maggio 2019

Australia: salviamo il koala. "Non c'è più tempo: è funzionalmente estinto" - ANNA LISA BONFRANCESCHI



È TEMPO di fare qualcosa per i koala, e di farlo con una certa urgenza. La situazione dell'animale simbolo dell'Australia è critica: il koala potrebbe essere ormai funzionalmente estinto nell'intero paesaggio australiano. È questo l'allarme lanciato nei giorni scorsi dall'Australian Koala Foundation (Akf) che torna a chiedere azioni per proteggere il marsupiale (Phascolarctos cinereus). "Chiamerò il nuovo primo ministro dopo le elezioni di maggio perché venga adottato il Koala Protection Act, che è stato scritto e che pronto dal 2016. La situazione critica in cui versa il koala ricade sulle sue spalle", ha annunciatoDeborah Tabart, a capo dell'Afk.
L'appello dell'Australian Koala Foundation
Secondo quanto riferito da Tabart, in Australia rimarrebbero circa 80mila koala. Ben lontano, ha ricordato, dagli otto milioni che popolavano il Paese negli anni a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, cacciati per farne pellicce da spedire nella lontana Londra. In un terzo del loro areale non si trovano ormai più esemplari, e la riduzione dei loro habitat è notevole come mostrano le mappe dell'Akf.

Che i koala fossero in pericolo è noto da tempo e malgrado questo nessun passo è stato fatto dalla politica per proteggere i loro habitat, concentrati soprattutto nell'Australia orientale. Il Koala Protection Act, pensato per proteggere non solo i koala ma anche i loro alberi, gli eucalipti – le foreste in cui vivono gli animali coprono il 20% del territorio australiano - funzionerebbe ed è pronto per essere messo in pratica, afferma Tabart. Gli zoo non sono la risposta, la protezione degli habitat dei koala lo è, ribadiscono dalla Akf: "Se sei un koala e perdi la tua casa, non hai nulla da mangiare, sei perso, e questo ti rende più suscettibile a minacce come automobili o cani".
Cosa significa 'funzionalmente estinto'
L'Unione internazionale per la conservazione della natura (Iunc) classifica l'animale come vulnerabile, con la popolazione in diminuzione. Il numero di esemplari, scrivono, oscilla tra i 100mila e i 500mila. Ma si tratta di dati non aggiornati, che si riferiscono al 2014. Se vulnerabile, secondo le definizioni della Iunc, significa che la specie è ad alto rischio di estinzione in natura nell'immediato futuro, cosa si intende con funzionalmente estinta? Può indicare diverse cose, riassume Christine Adams-Hosking della University of Queensland su The Conversation, ricordando anche la minaccia che il cambiamento climatico e gli eventi meteorologici estremi rappresentano per i koala. Potrebbe dire, per esempio, che le popolazioni sono così diminuite da considerare trascurabile il loro ruolo all'interno dell'ecosistema. Nel caso del koala vorrebbe dire che non possono dirsi significative le loro attività di mangiatori di foglie di eucalipto o di fertilizzanti viventi delle terre in cui vivono. Funzionalmente estinto però, continua la ricercatrice, potrebbe lasciar intendere anche che i koala siano ormai così pochi che riprodursi è diventato difficile o ancora che il rischio di riproduzione tra consanguinei possa mettere a repentaglio la futura sopravvivenza della specie.
La situazione dei koala in alcune aree è più critica che altrove, con ingenti cali nelle popolazioni o riduzioni delle variabilità genetiche, tanto da poter pensare ai koala davvero come ad animali già funzionalmente estinti, lascia intendere la ricercatrice. L'appello, ancora una volta, è che la casa di questi animali venga messa al riparo. "Gli habitat dei koala, soprattutto i boschi di eucalipto e le foreste, continuano a diminuire rapidamente – conclude Adams-Hosking – a meno di interventi di protezione, ripristino e ampliamento, vedremo effettivamente le popolazioni di koala in natura diventare funzionalmente estinti. E sappiamo cosa viene dopo".

sabato 25 maggio 2019

Everest sovraffollato, dieci morti in una settimana da tragico record - Ferruccio Pinotti



Scalatori in coda sull’Everest

Altri due alpinisti — un irlandese e un britannico — sono morti oggi su un Everest sempre più sovraffollato e pericoloso: si sommano alle tre precedenti perdite di due giorni fa, le due di mercoledì e ad altre tre morti nei giorni precedenti, portando a dieci il bilancio di una folle settimana mortale sulla vetta più alta del mondo. «Un alpinista britannico è arrivato sulla vetta, ma è collassato dopo 150 metri di discesa», ha detto Murari Sharma, della Everest Parivar Expedition. «Giovedì sono morti altri due scalatori indiani sull’Everest», aveva riferito venerdì all’agenzia Afp Mira Acharya, portavoce del Dipartimento del turismo del Nepal. L’indiano Kalpana Das, 52 anni, aveva raggiunto la vetta, ma è morto ieri pomeriggio mentre scendeva, mentre un numero enorme di scalatori si era messo in coda in prossimità della cima. Anche un altro scalatore indiano, il 27enne Nihal Bagwan, è morto sulla strada del ritorno dalla cima. «Era bloccato nel traffico per più di 12 ore ed era esausto. Le guide Sherpa lo hanno portato al Campo 4 ma è spirato là», ha spiegato Keshav Paudel di Peak Promotion.

Bloccati dal «traffico»
Mercoledì l’esperta scalatrice indiana Anjali Kulkarni, 55 anni, è morta sulla via del ritorno dall’arrampicata alla vetta, ha confermato il figlio Shantanu Kulkarni alla Cnn. Era rimasta bloccata nel “traffico” sopra il campo quattro, che a 8.000 metri è il campo finale prima della vetta. Anche l’alpinista americano Donald Lynn Cash, 55 anni, è deceduto mercoledì dopo essere svenuto a causa di un malessere dovuto all’alta quota mentre discendeva dalla vetta, riferisce la compagnia di spedizione nepalese Pioneer Adventure Pvt. Ltd. Un alpinista austriaco è invece morto sul lato settentrionale del Tibet, ha confermato l’organizzatore della spedizione: il 65enne è deceduto vicino al vertice della montagna, durante la discesa. La scorsa settimana, un alpinista indiano è morto e un alpinista irlandese è morto dopo essere scivolato e caduto, sempre nei pressi della cima.

11.000 dollari di permesso a persona: un affare per il Nepal
Molti alpinisti, non professionisti, salgono con le bombole di ossigeno che rischiano di consumarsi nell’attesa che «ingorghi» e rallentamenti si risolvano: le riserve qui ndi si esauriscono nel momento più critico, cioè nelle ultime fasi della discesa, quando la stanchezza fa aumentare in modo esponenziale il rischio di incidenti. L’alpinismo in Nepal è diventato un affare redditizio rispetto ai tempi in cui Edmund Hillary e Tenzing Norgay hanno compiuto la prima ascesa dell’Everest, nel 1953. La nazione himalayana ha emesso finora, per la stagione primaverile di quest’anno, 381 permessi che costano 11.000 dollari ciascuno. Ciò ha innescato i «colli di bottiglia» nel percorso verso la vetta dopo che il cattivo tempo ha ridotto il numero di giorni disponibili per l’arrampicata. La maggior parte degli scalatori dell’Everest è scortata da una guida nepalese, il che significa che più di 750 persone devono percorrere la stessa strada fino alla cima della stagione in corso. Almeno altri 140 hanno ottenuto permessi per scalare l’Everest dal fianco settentrionale in Tibet. Questi numeri potrebbe far superare il record dello scorso anno, ovvero le 807 persone che hanno raggiunto la vetta. Altri sette alpinisti sono morti su cime himalayane di 8.000 metri in questa stagione, mentre restano dispersi sul Nanga Parbat i corpi di Daniele Nardi e Tom Ballard.

Cambiamenti climatici: l’urlo delle giovani generazioni - Carlo Bellisai



La giornata del 15 marzo 2019 potrebbe diventare una data di partenza per la nascita di un movimento che ci rimette con i piedi per terra, tutti responsabili del futuro del pianeta e delle specie viventi che ospita, fra le quali anche noi umani.

E non possiamo che essere tutti d’accordo, anche quei sindacati che difendono fabbriche inqualificabili pur di preservare posti di lavoro, anche se tossici; anche i politici che hanno approvato l’installazione di aziende inquinanti, non possono che far finta di applaudire tutti questi ragazzi che improvvisamente sembrano essere diventati molto più coscienti dei loro padri e dei loro nonni sul pericolo incombente di una catastrofe climatico-ambientale. Catastrofe da mezzo secolo annunciata e ignorata, causata dalle emissioni degli idrocarburi in massima parte e da altri inquinanti responsabili dell’effetto serra, del conseguente costante aumento delle temperature medie sul globo e dello scioglimento dei ghiacciai che, a loro volta, provocano l’innalzamento del livello dei mari e l’erosione progressiva dei litorali, con la scomparsa di zone costiere e addirittura di piccole isole. Le terre e i mari sono inondati dalla plastica e da altri rifiuti. Ma se il mare non respira soffochiamo anche noi.
Sembra si sia innescata una catena inarrestabile, i cui effetti stanno già iniziando a verificarsi un po’ in tutto il pianeta, col moltiplicarsi dei fenomeni metereologici bizzarri e violenti, periodi di siccità alternati a catastrofiche alluvioni, cicloni e trombe d’aria. I giovani interrogano i potenti della Terra, ma anche ognuno di noi : quanto abbiamo fatto prima per evitare questa situazione drammatica?
Ma l’insorgere sul piano dell’impegno globale dei giovani e dei ragazzi è anche un avviso ai naviganti. Non si possono più eludere questi temi: il tema dei cambiamenti climatici è connesso alle guerre e alle migrazioni, alle fabbriche di armi e agli esperimenti distruttivi, alla robotizzazione del lavoro e al controllo sempre più capillare della vita delle persone, attraverso le telecamere diffuse, le nuove tecnologie, l’automazione e il rapporto che si trasferisce: non più da persona a persona , ma da persona a robot. Il tutto ad opera di una macchina capitalistico-finanziaria che, pur corrispondendo ai cognomi di poche decine di migliaia di famiglie in tutto il mondo, riesce a rastrellare oltre la metà dei possedimenti e del denaro di una popolazione di otto miliardi. E’ come se volessero continuare fino all’ultimo a spremere il pianeta, a sondarlo, trivellarlo, sconquassarlo, pur di aumentare la corsa al profitto, alla potenza finanziaria che diventa potenza politica e, in breve, rischia di diventare un potere assoluto. A quale folle scopo, se poi l’umanità si estingue? Ma chi insegue il profitto è dentro una macchina-azienda che produce un vortice inarrestabile e, come un militare in battaglia, si lava il cervello da ogni dubbio. Storie di ordinaria follia, come avrebbe detto Charles Bukowski. Ma purtroppo assai più drammatiche di quelle che ci raccontava lo scrittore.
C’è un filo conduttore che ci sta portando a questa sempre più probabile catastrofe planetaria. E’ quello della predazione delle risorse della Terra, comprendendo fra queste anche quelle vegetali e animali e perfino quelle dei propri simili. La guerra, orrida opera che solo la specie umana è riuscita a mettere in scena, ha il marchio biblico dei discendenti di Caino e Abele, mentre la violenza in natura è lasciata alla catena alimentare, dove il carnivoro preda l’erbivoro, che a sua volta consuma i vegetali, ma pur sempre in un equilibrio, che significa sopravvivenza per ciascuna vita. Le lotte per il possesso del territorio, fra gli animali della stessa specie, hanno per lo più un carattere simbolico e raramente sfociano nel sangue.
L’uomo ha creduto, lungo l’asse della sua Storia, ma soprattutto nell’ultimo secolo e ancor più platealmente negli ultimi vent’anni, di potersi affrancare dall’abbraccio di una Natura che sentiva matrigna. Una ribellione esistenziale, intellettuale, artistica, con l’impeto di dimostrare che la casa Terra ci è stretta, che le potenzialità della nostra immaginazione sono infinite. Coi nostri veri drammi e le nostre vere passioni di esseri alla ricerca di se stessi. L’uomo ha creduto ciecamente nel progresso delle scienze e delle tecnologie, non tanto per quella passione di scoperta che accomuna ogni bambino, ma soprattutto perché ciò gli ha fatto credere di essere padrone della Terra e ha potuto utilizzare ogni nuova conoscenza applicata per accrescere la propria potenza, incurante del resto.
Quel che l’umanità, a partire da ciascun essere, è chiamata a superare e a trascendere, non è solo il sistema capitalistico che porta all’accumulazione della ricchezza in poche mani e allo sfruttamento di moltitudini, ma lo stesso sistema predatorio adottato dalla specie umana nei confronti della Natura, nell’assurdo rimosso collettivo di non esserne intima parte.

giovedì 23 maggio 2019

Succede solo una volta l'anno nel deserto!

L'intelligenza fa ammalare di meno. Ecco perché - Simone Valesini



È il caso di dirlo: piove sempre sul bagnato. Un'intelligenza superiore alla media non aiuta solamente ad eccellere negli studi, a trovare un lavoro migliore e, di conseguenza, guadagnare di più. A quanto pare, assicura anche una vita più lunga, e una salute di ferro. Un corpus crescente di ricerche sta rivelando un legame tra abilità cognitive nella prima infanzia, longevità, e minor rischio di contrarre patologie cardiovascolari, tumori e altre gravi patologie. Si tratta della cosiddetta epidemiologia cognitiva. Un termine coniato dallo psicologo scozzese Ian Deary, direttore del Centro per l’invecchiamento cognitivo dell’Università di Edimburgo, che oggi è in Italia, ospite del Festival della Scienza Medica di Bologna, per illustrare i risultati delle sue ricerche, e spiegare in che modo studiare abitudini e genetica delle persone più intelligenti potrebbe aiutare tutti noi a invecchiare in salute.

“L'epidemiologia cognitiva è un campo di studi che indaga come, e perché, le capacità cognitive mostrate durante l'infanzia siano associate alla salute e alla mortalità durante la vecchiaia”, spiega Deary. “Nel mio intervento di oggi presenterò alcuni dati che provengono dallo Scottish Mental Survey 1947. Un sondaggio condotto il 4 giugno del 1947 in cui quasi tutti i bambini scozzesi nati nel 1936 sono stati sottoposti agli stessi test cognitivi esattamente nello stesso giorno. In totale, il sondaggio ha coinvolto oltre 70mila bambini, e con quei dati io e il mio gruppo abbiamo svolto una ricerca, pubblicata un paio di anni fa sul British Medical Journal, in cui abbiamo messo in relazione i risultati dei test cognitivi con la mortalità dei partecipanti nei successivi 68 anni”.
La ricerca ha permesso a Deary di sondare il legame tra i livelli di intelligenza registrati a 11 anni nei bambini scozzesi, e il rischio di morte fino all'età di 79 anni. “I nostri risultati, confermati anche da quelli di altri gruppi di ricercatori, dimostrano che esiste un'associazione, se pur modesta, tra un punteggio alto nei test cognitivi durante l'infanzia e il rischio di morire a causa di malattie cardiovascolari, respiratorie, tumori legati al fumo di sigaretta, e diverse altre patologie. In parte, queste associazioni statistiche sono legate al livello di educazione e allo status lavorativo, così come dall'adozione di comportamenti salutari come non fumare. Ma in parte esiste anche una piccola sovrapposizione sul piano genetico tra intelligenza e una salute migliore”

Se la salute delle persone intelligenti è legata evidentemente a scelte più “furbe”, come quella di adottare abitudini salutari, a lavori meno duri e una vita più agiata, almeno in parte sembra esistere anche un collegamento sul piano genetico. Alcuni geni che rendono intelligenti – insomma – potrebbero anche rendere più resistente il nostro organismo nei confronti di diverse, gravi, patologie. O, ancora, l'intelligenza potrebbe essere il riflesso di un cervello più sano, di una sorta di “salute” neuronale: in questo caso, salute fisica e neurale (intesa cosa migliori capacità cognitive) potrebbero essere le due facce di una stessa medaglia, ed essere quindi scritte negli stessi geni. Come è normale per un campo tutto sommato giovane, sono molte le domande ancora aperte. Ed è per questo che l'epidemiologia cognitiva continua ad affascinare gli esperti.

“In Danimarca hanno effettuato una ricerca di epidemiologia cognitiva su un milione di persone, in Israele su due milioni”, conDeary. “Lo scopo è identificare questa associazione tra intelligenza e salute, e penso che sia una linea di ricerca che regala grande ottimismo: guardare a come si comportano le persone più intelligenti ci darà qualche indizio per difenderci dalle malattie e per vivere più a lungo, e ci permetterà di ridurre le disuguaglianze nel campo della salute”.

mercoledì 22 maggio 2019

I MARATONETI COME I MIGRANTI - ALESSANDRO PORTELLI




Tutto il giorno di ieri sui media rimbalzava una notizia sconvolgente: gli organizzatori del “cosiddetto “Running festival” (ma che razza di nome!) di Trieste avevano deciso, “per il loro bene,” di non invitare atleti africani alla mezza maratona in programma ai primi di maggio e di “prendere soltanto atleti europei”.
Mi era parso un altro terribile segno dei tempi, e avevo mandato qualche riga di sconsolato commento al giornale.
All’ultimo momento, dopo un paradossale tira e molla fra istituzioni, forze politiche, federazioni sportive e altri ancora (gli unici di cui non abbiamo sentito la voce sono gli atleti africani, non invitati neanche alla conversazione), gli organizzatori hanno fatto marcia indietro.
È una cosa buona – l’ipocrisia, diceva Umberto Eco, è un omaggio del vizio alla virtù – ma il fatto che ci si fosse pensato, e che fossero state addotte delle «ragioni», resta comunque un segnale a dir poco allarmante su cui riflettere. Perché?
Perché in questo nostro ipocrita paese, esclusioni e discriminazioni si praticano sempre e soltanto – cosi dichiarano – per fare il bene dei i discriminati e degli esclusi: il mancato invito agli atleti africani, che questa gara rischiavano di vincerla, era infatti dovuto alla benevola volontà di impedire «un mercimonio di atleti africani di altissimo valore, che vengono semplicemente sfruttati» da manager cinici e disonesti.
È sempre lo stesso meccanismo: gli atleti vengono sfruttati, quindi noi li difendiamo non facendoli lavorare; tanti africani soffrono per la povertà e le guerre, quindi «aiutiamoli a casa loro» e intanto chiudiamo i porti e non facciamoli arrivare. L’analogia la confermava il sottosegretario allo sport, il leghista Giancarlo Giorgetti che, pur prendendo le distanze dalla decisione degli organizzatori triestini, ha confermato che bisogna combattere «quelli che chiamo gli scafisti dello sport». Gli scafisti, lo sappiamo, sono la foglia di fico di chi dice di voler combattere mediatori e sfruttatori – gli scafisti dei migranti, i manager dei maratoneti – mentre si accanisce sulle loro vittime, lasciando a casa i corridori e lasciando annegare i migranti.
In realtà, comunque, la finta protezione agli sfruttati serve a proteggere altri. Spiegava l’«organizzatore» della maratona Gianfranco Carini: «Manager poco seri sfruttano questi atleti e li propongono a costi bassissimi e questo va a scapito della loro dignità di atleti e di esseri umani – ma anche a discapito di atleti italiani ed europei, che non possono essere ingaggiati perché hanno costi di mercato». Rieccoci, allora: i «negri» costano meno e portano via il lavoro ai nativi, come nelle campagne pugliesi e calabre. Proteggere la loro dignità serve a proteggere il valore di mercato degli autoctoni.
Che lo sport sia essenzialmente una merce, e che il mercato si regga essenzialmente sullo sfruttamento, non è più né un mistero né, temo, uno scandalo.
Lo sfruttamento degli atleti – ma non solo africani! – è una realtà. Ma se gli organizzatori triestini davvero ci tenevano proprio a combattere queste storture e a difendere i diritti degli atleti africani un modo ci sarebbe stato: pagare anche a loro, aggirando i loro sfruttatori, il giusto ingaggio «di mercato» che offrono a tutti gli altri. Così non sarebbero sfruttati (non più degli altri, cioè), e non potrebbero fare concorrenza a ribasso a nessuno.
Non mi pare che gli sia venuto in mente.
Eppure, in questo modo, non avrebbero salvato solo la dignità umana e i diritti economici degli africani, ma anche la dignità degli europei, a cui nessuno avrebbe potuto dire, a gara conclusa, che hanno vinto solo perché gli africani non c’erano.