lunedì 30 settembre 2019

“L’esercito più vegano del mondo”: come Israele coopta il veganismo per giustificare l’oppressione palestinese - Sarah Doyel


Dai cesti del mercato fuoriescono frutti lucidi e colorati. Mazzetti di erbe fresche sono posizionati su di una foglia di palma, una fattoria biologica sullo sfondo. Un tavolo traboccante di piatti multicolori ha in primo piano un boccone di pane caldo che si tuffa in una ciotola di tahin e olio d’oliva. Volti giovani e attraenti sorridono alla telecamera, mentre cuccioli di animali saltellano sullo sfondo. Se sei vegano, Israele sembra il paradiso. Almeno, questo è quello che Vibe Israel e i suoi partner della Israel Brand Alliance vogliono che tu pensi. Il loro tour Vibe Vegan per food blogger è solo un piccolo elemento della campagna di veganwashing sponsorizzata dal governo israeliano che mira a sostituire le notizie sulle sue ricorrenti violazioni dei diritti umani con la compassione e l’amore per la pace solitamente associata al veganismo e quindi a  rivalutare la sua immagine sulla scena globale . Non lasciatevi ingannare: Israele sta usando il veganismo come una calcolata facciata per giustificare il suo programma militare di terrore,sorvolare sull’occupazione della Palestina e appropriarsi di una cultura e di tradizioni regionali che precedono Israele di centinaia se non migliaia di anni.
Lungi dall’essere uno “stile di vita politicamente neutro”, il vero veganismo è una radicale filosofia anti-oppressione, eppure uno dei governi più oppressivi al mondo sta cooptando il veganismo per i propri fini.
Il veganismo è essenzialmente una posizione politica, nonostante il fatto che molte persone che si identificano come vegane lo vedano solo come un insieme di scelte di consumo . La mia definizione preferita di veganismo è “un quadro ideologico che cerca di abolire lo status di merce degli animali e che sostiene la liberazione degli animali”. Indipendentemente dalle motivazioni individuali che portano all’adozione del veganismo, la scelta è inestricabile dall’impegno di cancellare  i danni agli esseri viventi. Sareste quindi perdonati per aver pensato che tutte le persone che dichiarano di essere vegane siano convinte sostenitrici dei diritti umani. Dopotutto, una persona impegnata nella liberazione animale è impegnata anche nella liberazione umana. Giusto?
Sbagliato.
In parole povere, il  veganwashing è l’atto di usare il veganismo per creare associazioni di immagini positive o apparire più compassionevoli di quanto qualcuno non lo sia realmente. Un esempio classico è la linea di gelati non caseari di Ben & Jerry, che usano etichettare l’azienda come vegan-friendly senza mai ridurre il loro contributo allo sfruttamento degli animali. Il Veganwashing fa appello a un ethos di nonviolenza e quindi è una strategia particolarmente utile per  coloro che hanno un interesse acquisito nel nascondere gli atti di violenza in corso, come, per esempio, un governo coloniale.
“Non è un segreto che da decenni lo Stato di Israele sta sottoponendo la Palestina a una brutale occupazione, impegnandosi in una serie ben documentata di omicidi e distruzioni. Nel tentativo di nascondere queste violazioni dei diritti umani e definirsi “l’unica democrazia in Medio Oriente”, Israele ha usato una serie di tattiche per fare appello ai valori progressivi, passando dal greenwashing al pinkwashing.
Il veganwashing di Israele, tuttavia, è particolarmente insidioso. Questo perché il veganwashing promuove l’idea che Israele, in quanto paese che sostiene di avere il 5% di popolazione vegana, sia una società necessariamente meno violenta e più compassionevole di altre. Israele è l’unico stato che ho visto investire così tante risorse nel promuovere su scala globale l’immagine di Paese “vegan friendly”. Gli israeliani chiamano orgogliosamente Tel Aviv la capitale vegana del mondo.
La campagna israeliana di veganwashing si compone di molti elementi, di cui parlerò più in dettaglio di seguito. Non c’è niente di più scandaloso, tuttavia, dei suoi tentativi di ritrarre le forze armate israeliane, chiamate forze di difesa israeliane o IDF, come un’istituzione compassionevole”.

“L’esercito più vegano del mondo”
Ahmad Safi, direttore esecutivo di Palestinian Animal League, riesce ad evidenziare l’incredibile ipocrisia dell’IDF sul veganismo nel suo pezzo “Sui guerrieri vegani dell’IDF : una prospettiva vegana palestinese “. Nel descrivere uno speciale della BBC sui “guerrieri vegani” dell’IDF, Safi afferma:  “Sono  rimasto sconcertato da un particolare passaggio del servizio, tratto da un’intervista radiofonica che diceva, riferendosi a una soldatessa vegana : “La sua dieta è per lei così importante che se l’esercito non fosse stato in grado di fornirle  prodotti che non avevano danneggiato nessuna creatura vivente,  si sarebbe rifiutata di arruolarsi in un’unità di combattimento” “L’unico modo in cui posso interpretare questo passaggio, è che la  soldatessa in questione non considera i palestinesi come ” creature viventi “. L’IDF non disumanizza solo i palestinesi, fa un passo ulteriore per oggettivarli e posizionarli al di fuori della sfera degli esseri viventi, animali umani e animali non umani, che meritano considerazione morale. Un simile atto è terribile, ma non dovrebbe sorprendere che provenga da un’istituzione il cui capo di stato maggiore è un “filosofo vegano” noto soprattutto per aver personalmente distrutto le case dei campi profughi con un martello.
Safi prosegue , arrivando al cuore del problema di un esercito che si definisce compassionevole, morale o, nel caso dell’IDF, “l’esercito più vegano del mondo”. L’esercito israeliano non fa solo del male e uccide i palestinesi in modi specifici e mirati, l’idea di un “esercito vegano” è di per sé assurda e smentisce un fondamentale fraintendimento (o errata e intenzionale caratterizzazione) di cosa significhi veganismo. Cercate di ricordate la definizione di veganismo  data all’inizio dell’articolo  e tenetela  a mente mentre leggete le parole di Safi: “Se il veganismo riguarda davvero il non danneggiare un altro essere  vivente al meglio delle nostre capacità, e concordiamo sul fatto che le persone sono animali, è logico che un soldato “vegano” impegnato in combattimenti armati contro una popolazione civile non sia solo privo di senso, ma semplicemente non può essere definito vegano “. Il governo e le forze armate israeliane o non capiscono la filosofia alla base del veganismo o hanno interiorizzato così tanto il loro  veganwashing che non riescono a riconoscere la perversione dietro l’affermazione che, poiché i loro stivali non sono fatti di pelle, in qualche modo non stanno causando danni quando con quegli stivali prendono qualcuno a calci in faccia.
La colpa non è esclusivamente dell’IDF; anche le principali organizzazioni del movimento vegano al di fuori di Israele hanno abboccato. PETA ha  espresso l’incredibile auspicio che forze militari di altri Paesi cerchino di essere  maggiormente simili all’IDF, e l’importante sito web vegano VegNews ha recentemente pubblicato un articolo che elogia un membro della Knesset per aver richiesto che il suo scranno in pelle venga sostituito con materiale vegano  in quanto la pelle simboleggia un’inutile sofferenza. Il pezzo cita anche il Primo Ministro israeliano e criminale di guerra Benjamin Netanyahu il quale proclama che i diritti degli animali sono un problema “che è diventato gradualmente più vicino al mio cuore”. Se solo i politici israeliani si preoccupassero così tanto delle inutili sofferenze dei loro vicini palestinesi!

Rendere fantastica l’occupazione
Man mano che il veganismo è diventato sempre più mainstream, la percezione generale dello stile di vita vegano si è drasticamente allontanata dai trancianti stereotipi che erano soliti dominare il veganismo nell’immaginario popolare. Ora, il veganismo è fantastico. Lo stanno  sposando tutti, da Ariana Grande a Zac Efron, e gli influencer dei social media con un vasto seguito fanno sembrare l’essere vegan  sfolgorante e chic come qualsiasi altra tendenza di Instagram. YouTube in particolare è la piattaforma preferita degli influencer vegani. In effetti, una delle blogger più seguite  quando nel 2016 diventai vegana, era una donna israeliana che postava video su “cosa mangio  oggi”  nei numerosi ristoranti vegani di Tel Aviv.
Restando al passo con i tempi, la campagna di veganwashing di Israele si è fortemente concentrata verso i millennial che  navigano sulle  pagine e sui siti di questi influencer. L’organizzazione no profit Vibe Israel ha invitato eminenti blogger e YouTuber vegani a ciò che equivaleva a una vacanza di veganwashing, interamente pagata, per conoscere la cultura vegana israeliana. La missione dichiarata di Vibe Israel è quella di migliorare la reputazione globale di Israele, e sulla home page del  suo sito Web l’organizzazione afferma in modo  chiaro che sta “sfruttando il potere dei social media e delle strategie di branding del Paese” per convincere il mondo che Israele è un luogo alla moda e di successo. Birthright Israel, un programma governativo che offre viaggi gratuiti in Israele per ebrei dai 18 ai 26 anni provenienti da tutto il mondo, (ignorando completamente il fatto che la maggior parte dei palestinesi non può tornare a casa), ora ha un’opzione vegana per adolescenti e ventenni che vogliono “un’ esperienza senza crudeltà ”nei Territori Occupati.
Guardando il video del tour di Vibe Vegan, non si ha la minima idea che a pochi chilometri dagli scatti gioiosi delle lezioni di cucina e dei prodotti freschi si possano verificare brutali violazioni dei diritti umani. E questo è, ovviamente, il punto. Alcuni degli influencer dei social media che hanno partecipato al viaggio hanno ricevuto critiche nella loro sezione commenti per aver promosso il  Brand vegano israeliano, ma non è stato sufficiente per indurli a uscire dalla bolla del Brand Israel.  Palestinian Animal League ha anche invitato uno dei You Tuber coinvolti, The Buddhist Chef, a visitare i Territori Palestinesi durante il viaggio, ma questi ha rifiutato a causa di un “programma serrato”. Dato che era ospite di Israele, probabilmente non gli sarebbe stato comunque permesso di attraversare il checkpoint in Palestina.

Appropriazione culturale e islamofobia
L’ultimo aspetto della campagna di veganwashing di Israele si basa sull’appropriazione della cucina palestinese e sulla contemporanea cancellazione della tradizione vegetale nella storia culinaria palestinese. Sia il governo israeliano che gli stessi vegani israeliani reclamano spesso cibi palestinesi che esistono da centinaia di anni e li riconfezionano come “cucina israeliana”, indipendentemente dal fatto che  lo Stato Israele esista solo dal 1948. Gli chef israeliani pubblicizzano piatti a base vegetale come falafel, hummus, tabbouleh e baba ghanoush come prova che il cibo israeliano è particolarmente adatto ai vegani. Quello che non menzionano è che ciascuno di questi piatti è in realtà un piatto palestinese e levantino che da secoli precede la presenza di Israele nella regione.
I ristoranti  accanto alla mia attuale casa di Washington, DC si impegnano sempre in questo tipo di appropriazione culturale, che potrebbe essere leggermente meno inquietante per me, se non riscuotesse così tanto successo. Quando i residenti del distretto scoprono che sono vegana, mi chiedono sempre se sono stata ai ristoranti di proprietà israeliana Shouk e Little Sesame. Questi  ristoranti sono rapidamente diventati i preferiti di vegani e non vegani che non si rendono conto di quanto sia problematico mangiare in un posto che  definisce la sua cucina “moderno cibo di strada israeliano” (Shouk). Ho anche appena saputo che la catena di falafel “Tel Aviv style ” Taïm, con sede a New York, aprirà la sua prima sede a Washington il prossimo autunno. Nel caso in cui i potenziali commensali siano preoccupati per il furto delle tradizioni culinarie, sul sito web di Taïm una pagina soprannominata “Lezione di storia” recita: “Ricorda che stiamo parlando di cibo, non di religione o di politica”.
Il problema, tuttavia, è che non possiamo separare il cibo dalla politica così facilmente, e soprattutto non nel caso di Israele e Palestina. Questi ristoranti hanno approfittato della loro appropriazione dei piatti palestinesi per diventare punti di riferimento popolari nella scena vegana, frequentati da vegani ignari (e soprattutto bianchi) che non sono a conoscenza o non si preoccupano di quanto sia ingiusto rubare in questo modo  un  patrimonio culturale. Giustamente critichiamo molti altri ristoratori  coinvolti in palesi appropriazioni culturali, ma questi ristoranti israeliani sono rimasti in qualche modo esenti dai giudizi. La verità è che la maggior parte dei deliziosi piatti a base vegetale che attirano i vegani in questi  luoghi sono  di origine palestinesi.
Un altro aspetto della cancellazione degli elementi vegetali della cucina palestinese è la promozione dell’idea che le culture musulmane nel loro insieme non siano favorevoli ai vegani, un concetto che nella migliore delle ipotesi non è corretto e nella peggiore è razzista e islamofobo. Numerosi blogger e giornalisti israeliani hanno affermato che la festa musulmana di Eid al-Adha, che tradizionalmente comporta il sacrificio di un agnello, significa che le culture musulmane sono meno compassionevoli  verso gli animali. Gli israeliani diffondono anche stereotipi orribilmente distruttivi, in particolare sui palestinesi, sostenendo che la cultura palestinese abbraccia la violenza e usano questi tropi per giustificare la propria violenza contro i civili palestinesi.
La sfortunata realtà è che la maggior parte, se non tutte le culture umane, hanno tradizioni che implicano il consumo di animali. Anche se vorrei che non fosse così, credo che nulla dica di più di una cultura quanto il tipo di relazioni tra umani e animali non umani in generale. Inoltre, Israele è tra i primi tre paesi che consumano carne al mondo, un fatto che i suoi sostenitori vegani opportunamente omettono.
Veganismo intersezionale
Non possiamo pretendere che le nostre scelte, come fare un viaggio sponsorizzato in Israele o patrocinare un determinato ristorante, siano prive di conseguenze. Per essere chiari: come vegana, sono felice di vedere le persone diventare più sensibili sul come trattiamo gli animali. Sono anche sicura che ci sono molti israeliani vegani che si impegnano a porre fine all’occupazione della Palestina, motivo per cui mi sono concentrata deliberatamente sul veganwashing propagandato dal governo israeliano, dalle corporazioni e da personaggi pubblici come blogger e imprenditori, piuttosto che su privati cittadini di Israele. Detto questo, non accolgo con favore la promozione del veganismo ad ogni costo, perché un veganismo che non si occupa di questioni intersezionali di oppressione umana è logicamente incoerente e non mi interessa.
Una critica sulla complicità della comunità vegana nella campagna di veganwashing di Israele è stata fatta in uno dei miei episodi preferiti del podcast di Vegan Vanguard: se i vegani non fossero stati così rapidi nel commercializzare il veganismo come una semplice scelta di stile di consumo, il veganismo non sarebbe stato così facilmente co-optato per scopi ingannevoli. Un movimento vegano anticapitalista esplicitamente intersezionale non potrebbe mai fornire una giustificazione coerente per le violazioni dei diritti umani, anche a livello superficiale. Nel nostro desiderio di rendere il veganismo più attraente per le masse, noi vegani abbiamo  svenduto la nostra politica. E le persone sbagliate l’hanno acquistata, insieme all’hummus preferito dell’IDF.
Sebbene ci troviamo di fronte a potenti sistemi industriali e militari, possiamo ancora procedere verso la giustizia. Rifiutare una visione consumistica del veganismo, conoscere la cucina e la cultura palestinese e unirsi al movimento palestinese della società civile del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) sono solo alcune delle azioni che possiamo intraprendere. Non solo possiamo impegnarci simultaneamente nella liberazione umana e animale, ma dovremmo farlo, perché le due si rafforzano reciprocamente. I legislatori che chiedono seggi in ecopelle da cui approvare  leggi sull’apartheid o i soldati che richiedono berretti senza lana da indossare mentre terrorizzano le persone non sono vegane e non rappresentano il veganismo. Il veganismo è libertà, benessere e liberazione per tutti. O almeno dovrebbe esserlo. Ma solo se c’è giustizia per la Palestina.

(Sarah Doyel è una scrittrice e blogger, sostenitrice dei diritti della salute,  con sede a Washington, DC. -
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org)


sabato 28 settembre 2019

Migrazioni climatiche, in aumento anche in Centro America - Miranda Cady Hallett




Nuvole di rosa sporco dietro le ruote del pick-up mentre sfrecciavamo su una stradina di Palo Verde a El Salvador. Quando abbiamo raggiunto il tratto lastricato l’autista ha rallentato perché la macchina sballottava per via del manto stradale sconnesso. Io e Ruben (nome di fantasia) viaggiavamo nel retro del pick-up, seduti su dei sacchi di fagioli secchi che lui stava portando al mercato, tenendoci forte mentre parlavamo.
Non va bene”, diceva, “lavorare la terra non ripaga più. Prendo un prestito per comprare i semi e poi non posso contare sul fatto di avere un ritorno per ripagarlo.
È stata la prima volta in cui mi ha detto che stava mettendo i soldi da parte per lasciare El Salvador. La sua storia è ambientata nell’America Centrale, così come quella di molti migranti e aspiranti tali.
Quando ho parlato con Ruben era il 2017, quasi venti anni dopo la mia prima visita alla sua comunità, una cooperativa fondata negli anni Novanta e situata su un altopiano al centro del Paese. In quei venti anni, le speranze e i sogni della cooperativa di mantenersi in maniera sostenibile producendo caffè per il mercato globale erano stati spazzati via.
L’innalzamento delle temperature, il diffondersi di funghi tra le colture e le condizioni meteorologiche estreme hanno reso i raccolti inaffidabili. Senza contare che i prezzi di mercato sono imprevedibili.
Quel giorno sul retro del pick-up abbiamo parlato anche di gang. Nella città vicina si registrava un aumento di attività criminali e molti giovani venivano reclutati con la forza. Ma per la comunità quello era un problema relativamente nuovo che si andava ad aggiungere all’ormai persistente crisi ecologica.
Essendo un’antropologa culturale che studia i fattori di migrazione in El Salvador, mi rendo conto che la situazione di Ruben riflette un problema molto più grande a livello globale, ossia il fatto che la gente lascia la propria abitazione a causa, diretta o indiretta, del cambiamento climatico e della degradazione dell’ecosistema. E siccome, visto il trend attuale, si prevede che le condizioni ambientali peggioreranno, si sollevano questioni legali irrisolte sulla posizione e sulla sicurezza di gente come Ruben e la sua famiglia.

La terra e il sostentamento
Negli ultimi tempi si sta prestando molta attenzione alle migrazioni dal Centro America, incluse le famose carovane. Principalmente, però, viene sottolineato il fatto che i migranti – specialmente quelli provenienti da El Salvador, Guatemala, Nicaragua e Honduras – sono spinti dalla violenza delle gang, dalla corruzione e dal tumulto politico.
Questi fattori sono importanti e richiedono un intervento della comunità internazionale, ma anche le migrazioni dovute al cambiamento climatico sono altrettanto serie.
Il collegamento tra l’instabilità ambientale e l’emigrazione da questa regione è diventato evidente tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Terremoti e uragani, in particolare l’uragano Mitch del 1998 e le sue conseguenze hanno devastato parte dell’Honduras, del Nicaragua e di El Salvador.
L’amministrazione Bush aveva all’epoca concesso lo Status di Protezione Temporanea ai molti salvadoregni e honduregni che vivevano negli Stati Uniti. In quel modo, il Governo riconosceva l’inumanità del respingimento di persone verso luoghi afflitti da un disastro ecologico.
In tutto il mondo, negli anni seguenti, crisi ambientali improvvise e situazioni che si trascinavano da tempo hanno continuato a costringere molte persone a lasciare la propria casa. Gli studi dimostrano che le migrazioni sono spesso un effetto indiretto dell’impatto del cambiamento climatico sull’agricoltura di sostentamento, con aree più colpite di altre. In alcuni territori la situazione è drammatica: l’Honduras e il Nicaragua sono tra i dieci Paesi più colpiti da eventi climatici estremi nel periodo tra il 1998 e il 2017.
Dal 2014 una grave siccità decima le colture nel cosiddetto “corridoio secco” sulla costa pacifica. Colpendo i piccoli agricoltori di El SalvadorGuatemala e Honduras, la siccità ha causato un alto tasso di emigrazione dalla regione.
La coltivazione del caffè, un elemento critico per l’economia di questi Paesi, è estremamente vulnerabile e sensibile alle variazioni climatiche. La recente epidemia di “ruggine del caffè” è stata probabilmente aggravata dal cambiamento climatico.
Le conseguenze dell’epidemia, unite al recente collasso del prezzo globale del caffè, hanno contribuito a portare i coltivatori disperati ad arrendersi.

Fattori aggravanti
Questa tendenza ha portato gli esperti della Banca Mondiale a stimare che entro il 2050 circa due milioni di persone emigreranno del Centro America per cause correlate al cambiamento climatico. Ovviamente è difficile isolarlo come “fattore di spinta” da tutti gli altri motivi di emigrazione. E purtroppo questi motivi tendono a intrecciarsi e aggravarsi a vicenda.
I ricercatori lavorano con impegno per stabilire l’entità del problema e trovare modi in cui l’uomo può adattarsi. Ma è una sfida ardua. Se lo sviluppo di quell’area non si sposta verso modelli di agricoltura più rispettosi dell’ambiente e inclusivi, il numero di migranti potrebbe aumentare e arrivare fino a quattro milioni.
Chi emigra da questa regione probabilmente non si rende conto appieno del ruolo che gioca il cambiamento climatico nel proprio spostamento o, viste tutte le altre ragioni che lo spingono ad andarsene, lo considera semplicemente l’ultima goccia. Quello che sa è che il raccolto tradisce troppo spesso e procurarsi acqua pulita è più difficile che mai.

In cerca di uno status di protezione
Di recente Ruben mi ha contattato per chiedermi il nome di un buon avvocato per l’immigrazione. Lui e la figlia sono negli Stati Uniti e tra poco ci sarà l’udienza per decidere la loro posizione.
Proprio come aveva previsto qualche anno fa, Ruben non riusciva a campare a El Salvador ma potrebbe trovare difficile anche la vita anche negli Stati Uniti, viste le incongruenze tra le leggi sull’immigrazione e i fattori attuali di migrazione.
Studiosi e legali si chiedono da anni come si può rispondere a chi emigra per le condizioni ambientali. I modelli esistenti di risposta umanitaria e ricollocamento funzionano per questa nuova popolazione? Questa gente potrebbe essere considerata bisognosa di protezione sotto leggi internazionali come i rifugiati politici? 
Una delle questioni politiche più controverse è chi dovrebbe farsi avanti e affrontare il cambiamento climatico, considerato che i Paesi più ricchi sono quelli che inquinano di più ma spesso sono anche protetti dagli effetti peggiori. Come si fa a stabilire le responsabilità e soprattutto, cosa bisogna fare?
In mancanza di un’azione coordinata da parte della comunità globale che attenui l’instabilità ecologica e riconosca la situazione critica dei migranti, c’è il rischio che si crei quello che alcuni hanno definito “apartheid climatico“.
In questo scenario – il cambiamento climatico unito ai confini chiusi e alle poche opzioni per gli immigrati – milioni di persone sarebbero costrette a scegliere tra un sostentamento sempre più incerto e i rischi dell’immigrazione irregolare.

giovedì 26 settembre 2019

Il pane è una cosa seria


ecco il decalogo per riconoscere quello di qualità - a cura di ELEONORA COZZELLA

Scontato: in fondo si dice "buono come il pane". Ma siamo sicuri che quello che compriamo dal fornaio e -  sempre più - al supermercato risponda ai canoni di qualità, gusto e salute che meriterebbe il prodotto e meriterebbero i consumatori? Se spesso si rimane delusi da consistenze strane (baguette morbide all'acquisto e già dure come sassi dopo poche ore in dispensa o panini dalla crosta croccante che diventano mollicci in un batter d'occhio), molliche che denotano lievitazioni affrettate e sapori ben diversi da quelli registrati nella memoria palatale, si capisce che ormai il buon pane è merce rara.

Ma non disperiamo: negli ultimi tempi un vero e proprio boom di professionisti di grande mestiere stanno cercando di restituire a questa icona dello stile italiano a tavola la sua importanza, spesso in collaborazione con mulini che promuovono progetti ad hoc, tra cui le tappe de "Il Pane con la P maiuscola", una serie di incontri e seminari organizzati dal Molino Pasini per diffondere la cultura di questo prodotto.
In particolare, durante un incontro che si è svolto a Milano in collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi,  con numerosi professionisti del settore, si è fatto il punto sui parametri che rendono un pane un autentico capolavoro, sia dal punto di vista del gusto che da quello della salute. 


In seguito a una sessione di degustazione presso l’Accademia del panino italiano di Milano, guidata da Christian Fabrizio, divulgatore enogastronomico, fondatore di Autoctono.it, e Matteo Cunsolo, presidente dei Panificatori milanesi e finalista al Mondial du Pain, è nato un decalogo alla cui stesura hanno partecipato alcuni tra i migliori panificatori italiani, affiancati dal professor Piergiorgio Pietta, nutrizionista, e dalla dottoressa Elena Dogliotti, biologa specialista in scienze dell’alimentazione e supervisore scientifico per Fondazione Umberto Veronesi, che affianca il molino di Cesole negli aspetti del progetto legati alla nutrizione.

Protagonista la ciabatta, analizzata nelle sue ottimali caratteristiche organolettiche ma anche  dal punto di vista dei nutrienti, lontani dal luogo comune del pane come alimento che fa ingrassare o addirittura è nocivo per la salute.

Ecco allora un vademecum prezioso per tutti coloro che desiderano riportare in tavola un pane artigianale e prezioso, come sottolinea Christian Fabrizio: "Abbiamo cercato di fornire degli strumenti di valutazione semplici e accessibili che aiutino il consumatore ad individuare le categorie di qualità del prodotto. La differenza tra esperti e non esperti non è la soglia di percezione ma la capacità di classificare, che deriva dalla pratica. Anche nell’assaggio dobbiamo guidare il consumatore per far riconoscere e abbinare le sensazioni che l’assaggiatore comune prova agli aspetti della creazione di quel prodotto, per creare un legame tra le sensazioni e la creazione”.


VALUTAZIONE VISIVA
1.   Attrattività/Seduzione
Aspetto, finitura e pezzatura sono variabili determinanti: l’analisi visiva serve per l’attrattiva, è l’elemento seduttivo per il consumatore e crea aspettativa. A seconda della tipologia di pane, l’alveolatura può essere più o meno uniforme, ma deve sempre essere in equilibrio con la massa della mollica. La crosta, fondamentale nel trasferire la percezione di una corretta cottura, deve essere ben salda con la pasta, di circa 2,5 mm con una colorazione bruno-dorata e senza bruciature.

VALUTAZIONE OLFATTIVA
2.   Fragranza/Freschezza
Va valutata come prima cosa la fragranza del lievito, che deve presentare uno spettro aromatico ampio, ma mai pungente. Molta attenzione va posta poi nel profumo di cereale, che deve sempre essere presente ed evidente. Chiedersi se si sta sentendo un profumo naturale e verosimile è sempre un buon indice di qualità.

3.  Genuinità/Franchezza
Ricerca del meglio di ogni singolo ingrediente: la qualità delle materie prime va conosciuta a monte per essere apprezzata, anche se nel caso del pane esse sono davvero poche. Leggere le etichette è indispensabile per scoprire la genuinità degli ingredienti. La data di scadenza è un altro indicatore determinante: più la scadenza è breve, più siamo sicuri che il pane sia preparato senza conservanti.

4.   Eleganza/Finezza
Nel pane, come in altri alimenti più complessi, la finezza aromatica deriva non solo dalla totale assenza di difetti, ma anche da un’armonia complessiva di tutte le sue sfumature. Particolare attenzione va posta nella percezione della nota tostata che si libera dalla crosta: essa non deve mai essere prevaricante e deve avere un timbro più biscottato che bruciato.

5.   Ricchezza/Complessità
Avere una significativa numerosità delle componenti sensoriali (presenti nel lievito madre) dà una rotondità notevole. Più i tempi di lavorazione sono lunghi, più si sviluppano gli aromi terziari. Il rispetto dei tempi di riposo dona equilibrio e idratazione all’impasto, facilitando la diffusione degli aromi all’interno della massa.

VALUTAZIONE TATTILE
6.   Tessitura/Vaporosità
La sofficità e la leggerezza della mollica danno la conferma dell’ottima qualità delle farine, di una buona lavorazione e di una giusta lievitazione.

7.   Croccantezza/friabilità
Qui si gioca tanto dell’irresistibile seduzione del pane e qui si vede la capacità di controllo delle temperature e dei tempi di cottura da parte di chi lo produce. Un buon pane deve presentare un gradiente di consistenza equilibrato, in un crescendo di cedevolezza dalla crosta al cuore della mollica.

VALUTAZIONE GUSTATIVA
8.   Equilibrio/Armonia
Il rapporto tra i gusti è fondamentale: la dolcezza della mollica apportata dagli amidi della farina, la nota acida dovuta alla fermentazione dei lieviti, la sfumatura amara dovuta alla caramellizzazione della crosta e l’accenno sapido del sale aggiunto, devono essere in perfetto equilibrio. La parte tattile coinvolge anche il palato: se la crosta è croccante e friabile e la struttura interna si scioglie in bocca, il boccone diventa omogeneo pur restando dinamico, e si possono comprendere alcuni aspetti della produzione. Per esempio le farine di qualità e la loro capacità di tenere insieme l’impasto.

VALUTAZIONE ESPERIENZIALE
9.   Coerenza generale
Valutiamo infine l’esperienza nel suo complesso. La perfetta corrispondenza tra ciò che vedo, sento al naso, tocco e gusto è un indicatore infallibile di un prodotto di qualità, che mantiene le promesse dall’inizio alla fine.

10.  Memorabilità
Il perfetto equilibrio tra i sapori e la coerenza complessiva aumentano la memorabilità dell’assaggio e ci spingeranno in futuro a cercare la stessa piacevole esperienza. Questa sensazione sarà il parametro per una futura scelta consapevole.


Fondazione Umberto Veronesi aggiunge al decalogo di valutazione del pane ulteriori 5 punti che declinano il valore che questo prodotto può assumere nell’ambito di una dieta sana ed equilibrata:
- Il pane può essere contemplato quotidianamente in un’alimentazione di tipo preventivo come quella mediterranea: la dieta mediterranea è uno dei regimi alimentari maggiormente abbinati ad una riduzione del rischio per malattie cardiovascolari e alcuni tipi di tumore. Prevede per ogni pasto principale il consumo di 1, 2 porzioni di cereali preferibilmente integrali o derivati, tra cui naturalmente il pane per il quale la porzione, secondo linee guida, equivale a 50g.
- Il pane non fa ingrassare, se nelle giuste quantità: il pane è fonte di fibra che aiuta la regolarità intestinale, il controllo del peso corporeo (dando maggiore senso di sazietà), la salute del microbiota intestinale
- Il pane ci dà energia: le linee guida della Società Italiana di Nutrizione prevedono che l’energia quotidiana debba derivare per il 45-60% dai carboidrati (principalmente complessi) ed il pane ne è buona fonte.
- Il pane è parte integrante di un pasto sano: secondo gli esperti di nutrizione della Harvard T.H. Chan School of Public Health un piatto salutare e bilanciato è composto per metà da verdura e frutta (2/3 e 1/3), per un quarto da fonti proteiche, di preferenza pesce o legumi, per un quarto da cereali di preferenza integrali o da derivati tra cui il pane è un ottimo esempio.
- Il pane, per far bene, deve essere ben fatto: un pane è tanto più salutare quanto lo sono gli ingredienti che lo compongono ovvero farina, lievito acqua e sale (e eventuali altre aggiunte che ne possono arricchire il valore nutrizionale es. frutta secca o semi). La qualità della farina è l’elemento fondamentale, valore aggiunto sarà l’utilizzo del lievito madre e quello di una bassa quantità di sale, in accordo con le linee guida internazionali che esortano ad un consumo di sale inferiore ai 5g al giorno.

mercoledì 25 settembre 2019

Il 99 per cento delle foto che fai non interessa a nessuno. Neanche a te - CHRIS TAYLOR




Per le nostre vacanze estive, mia moglie ci ha fatto fare in macchina, a tutto gas, i vari Parchi nazionali, spinta dalla smania di collezionare tutti i timbri sul suo Passporto dei Parchi. Con entusiasmo, ci siamo accaparrati i nuovi gadget della linea National Park Geek. Il cane è stato insignito del titolo di #BarkRanger. E io, in qualità di fotografo di riserva, sono stato invitato a immortalare incisioni rupestri risalenti a migliaia di anni fa e grotte, per non parlare dei tronchi d’albero vecchi di 200 milioni di anni.
Siamo tornati a casa. Mia moglie ha guardato e riguardato il passaporto e i timbri. Calamite e adesivi sono finiti sul frigo e sulla macchina. Il cane ha sfoggiato il suo distintivo di #BarkRanger raggiante e orgoglioso, a spasso per il quartiere. E le mie foto? Non le abbiamo ancora guardate. E dubito che lo faremo mai. Se davvero avremo mai necessità di rivedere quell’incisione rupestre o quell’albero, faremo prima a cercarli su Google, dove troveremo scatti migliori, di qualità professionale
Se mi somigliate almeno un po’, ecco quante volte all’anno guardate Apple Foto, Google Foto o altri archivi simili: praticamente nessuna. Chi ne ha il tempo? Nonostante gli incoraggiamenti da parte di queste aziende ad archiviare da loro i nostri scatti, se ne rimangono lì, una sequenza di zero e di uno – miliardi di foto ‘teoriche’, che consumano enormi quantità di energia sui server cloud, al costo di qualche euro al mese.
Oppure, ancora peggio, condannate al braccio della morte di un singolo e vulnerabile disco rigido, che inevitabilmente perirà.
Sì, può succedere che un paio di volte diate un’occhiata all’archivio per qualche minuto. Dal vostro account Facebook o Instagram, ripescate dall’oscurità uno scatto, elevandolo ad una relativa notorietà grazie a qualche Like. Nell’archivio dei social, almeno, le foto si guardano più spesso. Eppure potete ritenervi fortunati se questa nobilitazione tocca a più di uno scatto su cento.
Le foto che scattate normalmente spariranno nel dimenticatoio per l’eternità, e sarebbe ora di farsene una ragione. Viviamo in un’epoca di abbondanza digitale, che ha svalutato più di ogni altra cosa le fotografie. La generazione Snapchat-e-Story le tratta come qualcosa di effimero ed evanescente, e la generazione X non è da meno – ci illudiamo di preservare la storia in questi archivi digitali polverosi e costosi. Ma cosa stiamo conservando esattamente, e per chi? I nostri discendenti, assediati da ogni parte da nuovi mezzi di comunicazione, si degneranno mai di dare un’occhiata? Se non lo facciamo noi, perché dovrebbero farlo loro?

L'ascesa e la caduta della fotografia
Abbiamo assistito ad un declino nel valore delle fotografie negli ultimi 50 anni. Dalla prima immagine mai scattata, nel 1882, al lancio della Kodak Brownie da un dollaro, nel 1900, erano oggetti originali, unici, dal valore inestimabile. La Brownie ci ha dato le istantanee, che erano ancora piccoli tesori: costose da sviluppare, scattate piuttosto raramente, sistemate in album custoditi con cura, che tuttavia, cadevano come foglie al vento nell’arco di qualche decennio. Io, ad esempio, ho solo due preziose fotografie per ciascuno dei miei nonni inglesi e italiani.
Il carattere effimero delle fotografie ha iniziato a palesarsi in modo evidente nel 1963, con la prima macchina fotografica Polaroid, in cui si caricava la pellicola “packfilm” tipo 100 per scatti a colori. Si puntava l’obiettivo, si scattava e si strappava la parte superiore per sviluppare la foto. Dieci anni dopo non c’era neppure più bisogno di strappare la parte superiore. (Non c’era neanche bisogno di scuotere la foto Polaroid. Anzi, scuotendola si rischiava di danneggiare l’esposizione. Grazie mille, Outkast.)
L’avvento della macchina fotografica digitale ha portato con sé una serie di limitazioni. Per seguire la restituzione di Hong Kong alla Cina nel 1997, comprai un affare di plastica ingombrante che somigliava a un paio di binocoli. Ci scattai dieci foto che uscirono macchiate, prima di doverla ricaricare. Avrebbe davvero rimpiazzato la pellicola? Ero scettico.
Non avevo idea della portata del diluvio che stava per rovesciarsi su di noi, nessuna avvisaglia del fatto che la decade seguente mi avrebbe arricchito enormemente di contenuti fotografici, ma mi avrebbe impoverito nella capacità d’attenzione.

Se c'è la foto non è successo davvero
Apple Foto, l’erede di iPhoto, è organizzata in senso cronologico; rimpicciolendo, appare un’immagine multicolore pixelata di tutte le foto che avete fatto (o caricato) ogni anno. Guardando il mio archivio, salta agli occhi che la stragrande maggioranza delle 25.332 foto e 950 video che custodisce, per oltre 100 GB di dati, è stata scattata negli ultimi dieci anni.
Una sorta di esplosione di vita del Cambriano che si è verificata negli ultimi anni del 2000, dopo il lancio dell’iPhone. In più, si vede un aumento dei duplicati negli anni a cavallo del 2010 – segno inequivocabile del fatto che ho smesso di curare con attenzione il mio giardino fotografico. Si è deteriorato, trasformandosi in una foresta di cloni dimenticata. (iOs, almeno, sta per diventare abbastanza intelligente da eliminare le foto doppie)
Ogni tanto, in questa foresta appare un fiore luminoso, una fotografia ben curata, salvata sul rullino da Instagram – il clone che ha visto la luce del sole.
Anche senza doppioni, l’esplosione non sembra destinata a diminuire. In base a diverse stime, il numero delle foto digitali che scattiamo ogni anno ha superato i mille miliardi dal 2015, una cifra tre volte superiore a quella rilevata nel 2010. Secondo una stima di Info Trends, nel 2017 la cifra era pari a mille e duecento miliardi – ovvero 160 foto per ogni persona vivente, all’anno – e sembra aumentare di 100 miliardi l’anno.
È difficile immaginare che storicamente anche solo un miliardo di queste avranno un qualche significato. E tutto il resto? Sono a favore della conservazione di materiale storico, ma siamo condannati ogni anno ad accumulare migliaia di miliardi di foto mai guardate, come scatoloni in un magazzino che si espande sempre di più, con la remota speranza che uno di questi contenga l’Arca dell’Alleanza?

Ci sono moltissime foto identiche, con lo stesso soggetto, esposte all’esterno del Petrified Forest National Park in Arizona. Davanti al Deserto Dipinto, scatti in bianco e nero dell’800 sono in mostra a fianco di foto a colori dello stesso luogo risalenti agli anni 1980. L’idea è di mostrare che il paesaggio non è affatto cambiato perché è stato impedito che i turisti scappassero portandosi via gli alberi pietrificati, ricchi di minerali.
Ma c’è anche un altro messaggio, più sottile: facciamo tutti la stessa identica maledetta foto, ragazzi, da quasi 140 anni. Che significato ha un’altra fotografia uguale dello stesso posto? Forse dovremmo darci un taglio, godendoci invece l’esperienza di trovarci qui in questo momento.
E lo abbiamo colto io e i miei colleghi National Park Geek? No, non lo abbiamo fatto. Siamo rimasti ad ammirare a bocca aperta il deserto dipinto per un attimo e poi, in automatico, abbiamo alzato il telefonino. Facendo ben attenzione a non fare entrare sconosciuti nello scatto – non sia mai che un particolare del genere potesse renderlo davvero unico – e abbiamo scattato e scattato. E sui server a migliaia di chilometri di distanza, nuovi alberi informatici sono andati ad arricchire una immensa foresta pietrificata.


lunedì 23 settembre 2019

I gatti si affezionano ai loro padroni. Stesso legame dei bambini con i genitori - ANNA LISA BONFRANCESCHI


Li abbiamo sempre sottovalutati per quel che riguarda la loro socialità, almeno nell'immaginario collettivo. Spesso dipinti come indipendenti, solitari e schivi, in realtà i gatti somigliano ai cani (e ai bambini) molto più di quanto creduto. Perché sviluppano legami di attaccamento con i loro caregivers paragonabili in tutto e per tutto a quelli dei cani con i loro padroni e dei bambini con i loro genitori. Ed è provato scientificamente. A farlo è stato un team di ricercatori guidati da Kristyn Vitale della Oregon State University

Gatti, davvero sono così sfuggenti e solitari?
Anche se, almeno numericamente, i gatti sono più dei cani a livello mondiale, i comportamenti sociali dei gatti non hanno ricevuto attenzioni paragonabili a quelle avute dai cani, ricordano in apertura del loro articolo i ricercatori su Current Biology. Uno degli effetti collaterali di questa disattenzione scientifica è così stato, per esempio, scambiare il comportamento sfuggente e solitario di alcuni gatti come una regola del comportamento felino in generale. E invece, spiega Vitale, questo atteggiamento non sarebbe altro che la manifestazione di un tipo di attaccamento insicuro dei gatti con i loro caregiver. "I gatti che sono insicuri probabilmente corrono e si nascondono e si comportano in maniera distaccata al punto che a lungo si è pensato che tutti i gatti si comportino in questo modo - racconta la ricercatrice. Ma la maggior parte dei gatti vede i propri proprietari come una fonte di sicurezza. I vostri gatti dipendono da voi per sentirsi sicuri quando sono stressati". Quando parlano di gatti sicuri e insicuri, i ricercatori si riferiscono al tipo di attaccamento che sviluppano gli animali verso chi si occupa di loro. E quello che Vitale e colleghi sostengono è che in materia di attaccamento i gatti non sono così diversi da cani e bambini.

Gatti e stili di attaccamento
Questo è quanto i ricercatori hanno scoperto sottoponendo i gatti a test condotti anche nei bambini per capire la natura dell'attaccamento mostrato verso i propri cari. Nel test classico quello che si fa è osservare come si comporta un bambino quando, dopo essere stato lasciato solo in un ambiente nuovo, mamma o papà ritornano. Semplificando, in genere si parla di un tipo di attaccamento sicuro quando il bambino si mostra rincuorato dal ritorno del genitore, e torna a esplorare l'ambiente in maniera serena. Al contrario, si parla di attaccamento insicuro laddove il ritorno di mamma o papà non dia conforto, e il bambino mostra eccessivo attaccamento o metta in atto comportamento di evitamento o a metà tra avvicinamento ed evitamento. E i gatti?

Come da piccoli, così da grandi
Quando lo stesso test viene condotto nei gattini, come hanno fatto Vitale e colleghi su una settantina di animali di un'età compresa tra i 3-8 mesi, quanto si osserva è simile a quanto visto nei bambini. Incredibilmente, anche nelle percentuali con cui si distribuiscono gli animali nelle diverse categorie: circa il 65% degli animali mostra uno stile di attaccamento sicuro, il restante mostra invece un attaccamento insicuro. Proprio come si osserva negli esseri umani, con le dovute differenze, ovviamente. I gatti rincuorati dalla presenza del padrone continuano a esplorare l'ambiente quando questo si ripresenta all'orizzonte, gatti insicuri mostrano comportamenti più stressati (come muovere a scatti la coda, leccarsi le labbra o evitare il padrone, o in maniera più ambigua saltare loro in braccio e non muoversi). "Una volta che si è stabilito lo stile di attaccamento tra il gatto e il suo caregiver, questo sembra rimanere stabile nel tempo, anche dopo sessioni di training e socializzazione", ha aggiunto Vitale. Tanto che anche negli adulti i comportamenti dei gatti sono simili a quelli osservati nei cuccioli, con le stesse percentuali di distribuzione. "L'attaccamento è un comportamento biologicamente importante - conclude Vitale. Il nostro studio mostra che quando i gatti vivono in uno stato di dipendenza dagli esseri umani, quel comportamento di attaccamento è flessibile e la maggior parte dei gatti usa l'uomo come conforto. Sia nei cani che nei gatti, l'attaccamento agli esseri umani potrebbe rappresentare un adattamento del legame tra la prole e chi se ne prende cura".

domenica 22 settembre 2019

Arrivare in anticipo - Andrea Pomella


Ai tempi della scuola i miei compagni cenavano tutti tardi. Cenare tardi era indice di modernità. Più si cenava tardi, più si era evoluti, alla moda, giusti, impeccabili, audaci. Più si cenava presto, più si era primitivi, bifolchi, demodé, sbagliati, coglioni. Cenavano tardi le famiglie piccolo borghesi, avvezze dalla nascita a modi estroversi e spigliati. Cenavano presto i complessati, i goffi, gli incarogniti nel male sociale del disprezzo di sé. Io che discendo da una famiglia di origine contadina avevo l’abitudine di cenare alle sette meno un quarto, quando in Tv davano Zig Zag con Raimondo Vianello, o I Jefferson, o Italia Sera con Piero Badaloni, e pertanto rientravo nel novero dei coglioni.
Poi sono cresciuto, e nel frattempo quel che allora era considerato moderno è diventato antico. Ma ciò che è rimasto inalterato nel connotare una certa idea borghese di modernità è proprio la gestione del tempo individuale. Si è moderni se si possiede una comprovata disinvoltura nel rispetto degli orari. Badate alla parola disinvoltura, è la chiave per capire tutto. Il mondo così come lo conosciamo è il dominio dei disinvolti, ossia di chi è ardito, sfacciato, privo di riserbo e di rispetto, di chi pone il sé davanti all’altro da sé, di chi si sente ben centrato nel globo terrestre e illuminato dal sacro getto della luce di Dio.

Ma la questione del tempo di cui voglio parlare non riguarda solo l’orario in cui si è soliti sedere a tavola. Riguarda cosa succede quando dobbiamo andare a un appuntamento. Ci sono infatti tre modi per presentarsi a un appuntamento: arrivare presto, arrivare puntuali, arrivare tardi. Poi c’è un quarto modo, praticato da pochissimi amatori – che qui denominerò iperanticipanti – e che richiede un vero e proprio esercizio di filosofia: arrivare in largo anticipo. I disinvolti non solo non ammettono il quarto modo, ma sono incapaci anche solo di immaginarlo, come le marmotte non possono immaginare a cosa serve una caffettiera.
Nella concretezza della mia vita da iperanticipante arrivare in largo anticipo significa che, se devo prendere un treno alle nove del mattino, farò in modo di trovarmi in stazione alle sette e quarantacinque. Perché proprio un’ora e un quarto di anticipo, e non un’ora tonda? Un’ora e un quarto di anticipo non è un tempo casuale o approssimativo. È il frutto di un ragionamento profondo. Perché l’ora d’anticipo è il minimo che la mia coscienza rivendica affinché io possa galleggiare nel tempo dell’attesa senza lasciarmi trasportare dalle sue fluttuose rapide. Il quarto d’ora che precede l’ora di anticipo è il margine che concedo all’imprevisto, è un tempo-cuscinetto in cui un ritardo minimo del taxi, per esempio, non mi manda in crisi, è un limbo di pace assoluta in cui i muscoli della mia psiche si sciolgono come saponette in un bagno caldo, è l’anti-anticamera, il sacco amniotico, il mondo prima del mondo. Ed è cosa ben diversa dall’ora di anticipo vera e propria. L’ora di anticipo vera e propria è la terra promessa, il luogo in cui io potrò dimorare in pace sorbendo un caffè, gironzolando tra gli scaffali di una libreria, telefonando, o semplicemente sedendomi da qualche parte in attesa del treno per osservare gli altri viaggiatori.
E se ho un appuntamento di un altro genere? Be’, la mia indole non subirà grandi variazioni. In questo caso tenderò a mascherare l’anticipo (retaggio d’infanzia che mi impone di non mostrare il mio naturale carattere antimoderno, involuto, bifolco e coglione). Non raggiungerò quindi il luogo dell’appuntamento con un’ora e un quarto d’anticipo, bensì raggiungerò un luogo poco distante dal luogo dell’appuntamento con un’ora e un quarto d’anticipo, salvo poi dirigermi verso il luogo vero e proprio dell’appuntamento con un anticipo di soli cinque minuti, fingendomi immondamente trafelato.
L’iperanticipante in effetti possiede qualcosa che nel mondo moderno è considerato disonorevole: ha pudore. Egli prova un profondo senso di riserbo per questa sua attitudine, sa che per gli altri è un tratto incomprensibile della propria natura. Peggio, sa che per gli altri, abituati a considerare il tempo come un valore monetabile, la sua condotta è uno sperpero sciagurato.
L’inclinazione morale ad arrivare in largo anticipo l’ho ereditata da mia madre. Quand’ero ragazzino, mia madre era il tipo che se avevamo un appuntamento dal dentista alle quattro del pomeriggio, diceva che era meglio presentarsi alle tre. La scusa era semplice: se il paziente prima di noi avesse saltato l’appuntamento, noi saremmo subentrati al suo posto. Tuttavia non ho memoria di un paziente prima di noi che abbia saltato l’appuntamento. Piuttosto il dentista non rispettava mai l’orario. Così, anziché sedersi sulla poltrona del dentista alle quattro, ci si sedeva alle quattro e mezzo. E anziché guadagnare mezz’ora, si finiva per perderne una e mezza.

Ma questa, appunto, era una scusa. E l’ho capito crescendo. A mia madre non interessava sbrigarsela in anticipo. A mia madre premeva soprattutto non entrare in conflitto col tempo. Senza rendersene conto, riteneva che tra tutte le divinità orfiche Chrónos fosse la più temibile. Chrónos è il tempo astratto che scorre, la durata, la quantità. Kairós invece è il momento propizio, l’istante in cui le cose sono possibili. Mia madre temeva Chrónos e venerava Kairós. In pratica non aveva la propensione a subìre il tempo, ma ad abitarlo. Si comportava come le più antiche comunità cristiane per le quali il compimento dell’esistenza consisteva nel risiedere nelle vicinanze della fine dei tempi («Il tempo è vicino» è scritto nell’Apocalisse di Giovanni – Ap 22, 10).

Abitare il tempo è cosa profondamente diversa dal subirlo, come fa la maggior parte delle persone, inclusi i disinvolti. Abitare il tempo in attesa dell’“istante in cui le cose sono possibili” è la leva saggia e profonda che muove quelli della nostra razza.
Ho detto che mia madre ed io dal dentista “finivamo per perdere un’ora e mezza”. In questo caso però perdere è il verbo sbagliato. Per noi (includo nel noi tutti i giudiziosi, oculati seguaci della filosofia dell’arrivare in largo anticipo) aspettare non è dilapidare qualcosa di inestimabile. Il tempo non è l’oggetto pregiato. E non è neppure il vento furente che ci colpisce strappandoci di dosso le cose preziose. Il tempo è il luogo.
Nell’undicesimo libro delle Confessioni Agostino d’Ippona tratta del problema filosofico del tempo, ammettendo lui stesso la difficoltà nel declinarlo. Cos’è il tempo? “Se nessuno me lo chiede, lo so; se dovessi spiegarlo a chi me ne chiede, non lo so”. Per i relazionisti si può afferrare il tempo, e quindi definirlo, solo in presenza degli eventi. Se non accade nulla, il tempo non esiste. E qual è in fondo l’utopia primordiale dell’uomo se non fermare il tempo? Forse negarlo? Per gli iperanticipanti come me, non è né l’una né l’altra cosa. Il tempo è una nebbia raggelata che comprime l’aria, una nube aliena che compare al mattino in un parco, ci seduce e ci invita a scomparire dentro di essa permettendoci di diventare estranei al mondo. Noi iperanticipanti non desideriamo né fermare né negare il tempo; desideriamo sottrarre noi stessi agli eventi, e quindi alla storia.
Ho un’amica iperanticipante con cui a volte conversiamo di questo argomento, lei è capace di frasi come: “Ci ho provato, sono andata a Termini con la metropolitana. Sono arrivata con cinquanta minuti di anticipo, sono salita sul treno per un pelo”. Oppure facciamo scambi del tipo: “Sto davanti al tabellone delle partenze, il treno parte fra quaranticinque minuti”. “Quarantacinque… sei un po’ a filo, eh”. Un giorno mi ha raccontato di aver prenotato un taxi alle cinque e cinquanta del mattino. Per arrivare alla stazione avrebbe impiegato dieci minuti. Da ciò risulterà evidente che aveva il treno in partenza alle sette e un quarto. Mi ha scritto: “Metterò la sveglia vergognosamente prima, nel dubbio di dover chiamare un altro taxi”. Ho rilanciato: “Fossi in te penserei a prenotarne due: uno alle cinque e cinquanta e un altro alle sei e cinque” (il quarto d’ora che precede l’ora di anticipo, il limbo, il sacco amniotico), “poi quando arriva il primo, annulli il secondo”. E lei: “Non ci crederai, ma lo faccio sempre. Una volta ho trovato due taxi fuori casa ad aspettarmi”.

Qualcuno di recente mi ha detto che tutto questo non è altro che un disturbo denominato ansia anticipatoria. Ho letto che l’ansia anticipatoria si presenta con una domanda: Che succede se? In pratica è un’ansia autoindotta dalla raffigurazione mentale di possibili scenari funesti (un imprevisto, un ritardo, la perdita del treno). Secondo alcuni è semplicemente paura del futuro. Il punto è che un iperanticipante, come abbiamo visto, tende a sottrarsi al tempo, o al limite a immergervisi. E quindi se il futuro è un aspetto del tempo, egli si sottrae al futuro, come allo stesso modo si sottrae al passato (la soglia di casa che lascia per andare in stazione con il dovuto anticipo), immergendosi in un presente eterno e immobile.
Per paradosso quindi l’iperanticipante non soffre di ansia anticipatoria. Messo alle strette, affermerà senza alcun dubbio che, quando sarà il momento di morire, vorrà presentarsi all’appuntamento fatale con – indovinate? – un’ora e un quarto d’anticipo, e in quell’ora e un quarto dimorare per sempre. Nulla, meglio di questo, renderà l’esattezza della morte una questione che non gli appartiene. Un affare per disinvolti.