Il popolo Sami ha vinto - Francesco Martone
Finalmente dopo anni e anni il popolo Sami ottiene giustizia: una sentenza di un tribunale riconosce loro il diritto ad usare le loro terre ancestrali. Già perché per chi non lo sapesse i popoli indigeni li ha anche l’Europa, l’Unione Europea (per inciso anche amazzonici se consideriamo la Guyana Francese, retaggio coloniale di territorio d’oltremare).
Questa sentenza è destinata a fare storia. Come l’altra che dopo decenni di dispute legali riconobbe che i Sami esistono, mentre prima venivano semplicemente assimilati agli svedesi. Ed ora dopo la vittoria, arrivano le minacce e gli attacchi, incluse minacce di morte. La situazione dei Sami venne descritta in un film Sami Blood ed è una storia di oppressione, di sottrazione di figli e figlie per educare loro alla cultura svedese, di una sorta di eugenetica etnico-culturale.
I Sami vivono di caccia e di allevamenti delle renne, e sono impattati oltre che da quella che è a tutti gli effetti “colonialità del potere”, dal circolo infernale dell’ingiustizia climatica. Il permafrost che accudisce i licheni, cibo per le renne, si scioglie a causa del climate change, mentre le soluzioni tecnologiche, come i megaprogetti eolici, sia in Svezia che Norvegia, avranno un impatto pesantissimo sulle renne, fonte principale di sussistenza per quel popolo. Oltre che elemento centrale della loro cultura ancestrale.
A questo si aggiunge l’impatto devastante dell’estrazione di ferro, attività in rapidissima espansione accanto alla costruzione di pale eoliche. Sembra una storia di quello che semplicemente chiamiamo “Sud del mondo” eh?
Popoli in ostaggio - Francesco Martone
C’è una lotta in corso della quale poco o nulla si sa da questa parte dell’Oceano, una lotta per il diritto all’autodeterminazione che va avanti da mesi ormai tra la First Nation Wet’Su’Weten, della Columbia Britannica ed il governo del premier canadese Justin Trudeau. In gioco l’integrità delle terre di questa First Nation, ed il diritto alla proprietà ancestrale alla quale non hanno mai rinunciato. Terre sacre ed antiche ora minacciate dalla costruzione di un gasdotto, il Coastal GasLink lungo 670 kilometri per un valore di 6,6 miliardi di dollari. Da dicembre quando la Corte Suprema della Columbia Britannica ha autorizzato i lavori di costruzione la protesta è cresciuta in maniera esponenziale.
Non solo sul sito, dove l’intervento violento della polizia, le Giubbe Rosse ora non più a cavallo con uniformi rosse, ma forze paramilitari armate in assetto da combattimento, ha portato all’arresto di 20 persone. Non si sono fatti scrupoli neanche ad andare contro le donne anziane della comunità. Le mobilitazioni si sono allargate a macchia d’olio in tutto il Canada. Blocchi stradali, cortei, sit-in, davanti al parlamento di Vancouver, il porto della città paralizzato da giorni, ed i Mohawk della cosa Est ora sul piede di guerra per solidarizzare con i loro fratelli e sorelle della Columbia Britannica.
Come quando a Montreal da Kahnawake presero il Mercier Bridge e paralizzarono per settimane il traffico della città in solidarietà con i loo fratelli Kanesatake, sul piede di guerra per proteggere le loro terre sacre dall’espansione di un campo da golf. Un conflitto che fece il giro del mondo, con le immagini dei carri armati dell’esercito canadese che fronteggiavano guerrieri mohawk armati.
Da tempo fin dal primo giorno dell’insediamento di Trudeau si era capito che il conflitto con le First Nations non si sarebbe sopito, anzi. I progetti di gasdotti e oleodotti che dovrebbero attraversare come una ragnatale tutto il paese devono far i conti con una capacità di mobilitazione rafforzata da parte delle First Nations, del movimento Idle No More e della solidarietà di associazioni ambientaliste, studenti, lavoratori.
La risposta del governo è la forza indiscriminata e gli arresti arbitrari, contro una mobilitazione il cui significato ormai va ben oltre al caso specifico, e riguarda le relazioni tra governo e First Nations in tutto il paese, ed un persistente rapporto coloniale che affonda le radici nel periodo nel quale gli agenti della Corona si presentavano nelle terre indigene in Columbia Britannica, per distruggere ogni forma di vita collettiva, accusando quelle comunità di essere parassite e nullafacenti. “
I nostri popoli e la nostra Madre Terra non possono più permettersi di essere ostaggi economici della corsa all’industrializzazione delle nostre terre ancestrali. E’ tempo di insorgere e riprenderci il nostro ruolo di custodi e guardiani della terra” nelle parole di Eriel Deranger, delle First Nations Athabasca Chipewyan.
da qui
“In Canada i nativi rappresentano il 5 per cento degli abitanti, ma compongono più del 30 per cento della popolazione carceraria”, scrive il Toronto Star riportando i risultati di uno studio governativo. In alcune province, come quelle di Manitoba, Saskatchewan e Alberta, costituiscono più della metà dei detenuti. Una serie di fattori - tra cui gli alti indici di povertà tra le comunità indigene e le pratiche razziste delle forze dell’ordine - fa in modo che il tasso di condanne tra i nativi sia più altro rispetto al resto della popolazione. Inoltre, una volta condannate queste persone hanno più probabilità di finire in prigioni di massima sicurezza, di subire violenze e di essere messe in isolamento.
da Internazionale n.1344
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