lunedì 31 ottobre 2022

La sovranità alimentare: ennesimo fallimento della sinistra rosé - Antonio Di Siena

 

“Siamo in grado di provvedere al nostro fabbisogno alimentare. Secondo alcune organizzazioni internazionali invece dovremmo vivere per sempre grazie ai loro aiuti alimentari, ma questi aiuti ci bloccano e indeboliscono le nostre volontà, e senza che nemmeno ce ne accorgiamo, piano piano, ci abituiamo così ad essere degli assistiti, dei poveracci. Questa abitudine va messa da parte, dobbiamo darci da fare, dobbiamo produrre, produrre di più, e il perchè mi sembra evidente: chi ti impone gli aiuti ti impone i suoi interessi [..] Dobbiamo far capire a tutti che i mercati africani sono i mercati degli africani. Dobbiamo produrre qui, trasformare le nostre materie prime qui e consumarle qui. Dobbiamo produrre ciò di cui abbiamo bisogno e consumare ciò che produciamo, non solo ciò che importiamo. Io e la mia squadra oggi vestiamo tessuti tutti prodotti da noi, col nostro cotone, dai nostri uomini e donne. Intendiamoci, non miro a presentare sfilate di moda, sto semplicemente dicendo che dobbiamo accettare di vivere all’africana, perchè è il solo modo che abbiamo per vivere liberi e con dignità”.

Thomas Sankara.

Quanto sta accadendo da ieri riguardo il tema della sovranità alimentare è la prova maestra di tutta la bestiale, irrimediabile ignoranza che da anni appesta il campo del centro sinistra italiano.

Un branco di minus habentes che ha scambiato un pilastro ideologico di tutti i movimenti terzomondisti, ecologisti e di emancipazione dei lavoratori dei sud del mondo per l’ennesimo pericolo fascista. Quindi, visto che la cantonata è davvero gigantesca, famo a capisse.

La prima volta che ho sentito parlare di sovranità alimentare è stato a Genova nel 2001 quando, poco meno che ventenne, incontrai una parola allora considerata fortemente di “sinistra” e il pensiero di una delle sue principali sostenitrici: Vandana Shiva. E per me, nipote di braccianti e coltivatori diretti del meridione, fu amore a prima vista. Al punto da scriverci, qualche anno dopo, addirittura la tesi di laurea in diritto agrario.

Ma cos’è la sovranità alimentare?

Volendo semplificare il concetto è il diritto di ogni popolo della terra ad alimenti e produzioni sane, nate da metodi e filiere sostenibili e legate alla tradizione, nonché il loro diritto a organizzare (e normare giuridicamente) il proprio sistema agricolo e alimentare nel rispetto degli ecosistemi, della cultura agroalimentare autoctona e della sostenibilità. È pertanto un concetto fortemente anti liberista perché al modello fatto di mercati, merci, multinazionali, ogm, sfruttamento del suolo e dei lavoratori ne contrappone un altro rispettoso dell’ambiente, dei cicli stagionali e dei coltivatori. Punta cioè a costruire un modello di produzione di filiera corta, equo, sostenibile e che consenta remunerazioni adeguate per produttori e lavoratori. È praticamente l’esatto contrario di ciò che accade oggi. E “grazie” a cui assistiamo inermi a disboscamenti massicci, sfruttamento intensivo, dissesti idrogeologici, carestie, fame e malattie. Fino ad arrivare ai nostri coltivatori costretti a svendere i loro prodotti di eccellenza - quando non a lasciarli direttamente marcire - perché strozzati dal meccanismo perverso della grande distribuzione.

La sovranità alimentare quindi è un tema ecologico, economico e socialista al tempo stesso. Perché ribaltare lo schema neoliberista delle produzioni votate all’export significa prediligere la domanda e il mercato interno. E quindi, per forza di cose, far crescere i consumi e quindi i salari. Per consentire ai lavoratori di acquistare costosi generi alimentari d’eccellenza (San Daniele, Parmigiano, pomodori Pachino ecc) compensando il mancato guadagno del produttore derivante dalla impossibilità di esportarli e venderli a peso d’oro sul mercato estero. Prodotti che gli italiani non si possono più permettere, dovendo accontentarsi di surrogati di importazione a basso costo e di dubbissima qualità. Gli unici in grado di stare in un mercato a salari bassissimi e domanda interna compromessa senza scatenare rivolte. Significa, per fare un esempio comprensibile, consentire a tutti di fare la spesa da Eataly e non alla Lidl. Almeno in teoria. Significa mettere in discussione il globalismo, il libero mercato e la moneta unica perché senza sovranità monetaria non può esserci sovranità alimentare. Significa, in altre parole, un nuovo e radicale modello di sviluppo.

E il fatto che ne parli la Meloni è solo l’ennesimo colossale fallimento di un movimento “de sinistra” che nella sua parte consapevole è incapace di parlare - e farsi capire - dalle masse. E nella sua parte inconsapevole, semicolta e antifascista di maniera che l’ha scambiata per autarchia.

Sovranità alimentare infatti non significa autosufficienza ma consumo equo e sostenibile e commercio solidale con altri paesi. Coincide con la messa in discussione dei processi di sfruttamento e con la decolonizzazione produttiva concausa, tra le altre cose, anche delle migrazioni di massa. Sovranità alimentare quindi è internazionalismo in purezza. E questo ve lo dovete ficcare bene in testa.

Beninteso, non sto dicendo che il nuovo governo declinerà il tutto nei termini sopra esposti (anche perché la mia opinione su di loro la conoscete già). Anzi.

Molto probabilmente si limiterà a campagne slogan sul Made in Italy e a qualche dazio ai paesi ostili (Cina in primis), perché la destra atlantista non può essere anti liberista giacché la NATO è da sempre il braccio armato del libero mercato. Il cannone che precede il mercante. Ma fare entrare prepotentemente il concetto di sovranità alimentare nel dibattito politico è un fatto storico di importanza capitale. Ci offre un tema di lotta dirompente in un paese che sopravvive solo grazie all’agroalimentare. Il problema è che chi questa opportunità avrebbe dovuto coglierla all’istante, appena sentita la parolina al tiggì, sta ancora una volta dando la caccia al fascismo immaginario. Unica occupazione possibile per dissimulare un abisso di ignoranza profondo come la fosse della marianne. E il proprio essere inconsapevolmente e irrimediabilmente degli stramaledetti liberisti. Tacete per una buona volta, e mettetevi a studiare sul serio. Ne avete seriamente bisogno.

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sabato 29 ottobre 2022

Se la medicina è prevenzione - Guido Viale

 

Sono membro e uno dei soci fondatori dell’Associazione Laudato sì – Un’alleanza per il clima, la Terra e la giustizia sociale, fondata nel 2015, subito dopo la pubblicazione dell’omonima enciclica di papa Francesco. Ciò che secondo noi costituisce il nucleo centrale di questa enciclica, che consideriamo il più importante documento politico di questo scorcio di secolo, è l’indissolubile nesso che vi viene tracciato tra giustizia sociale e giustizia ambientale.

La giustizia non è quiete, ma lotta, conflitto o iniziativa. Che cos’è la giustizia sociale? È il rispetto dei diritti irrinunciabili di ogni essere umano, che presuppone una lotta a fondo contro le macroscopiche diseguaglianze che caratterizzano la società odierna ovunque. E che cos’è la giustizia ambientale? È il rispetto dei diritti della natura o, meglio, del creato e di ogni singola creatura, cioè di ciò che noi laici chiamiamo mondo. Questi diritti corrispondono alle condizioni che rendono possibile la perpetuazione e la rigenerazione di ogni specie vivente e del relativo habitat fisico, climatico e biologico, vista l’interconnessione che lega tra loro tutti gli esseri viventi e questi con una vita umana degna di questo nome.

Questa interconnessione è anche la base del principio One Planet, One Health che segnala la continuità tra la salute degli esseri umani e quella del resto del vivente e del pianeta tutto. Ma è un principio che evidenzia anche il fatto che i confini della persona umana non coincidono con la sua epidermide; che il nostro io, il nostro noi, si estendono ben al di là dei nostri corpi, intersecandosi in modo diretto o indiretto con tutto ciò che ci circonda; mentre il sostrato geologico che ci sorregge, l’aria che respiriamo, l’acqua di cui siamo in gran parte composti e l’esistenza di tutti gli esseri viventi, a partire dai batteri presenti nel nostro corpo e passando per il cibo che la terra produce penetrano ben dentro i nostri organismi.

Se la vera e la più salutare delle medicine è la prevenzione, questa passa necessariamente per la salute dell’ambiente in cui siamo immersi. Non si può essere sani in un mondo malato, aveva ricordato Francesco; mentre la salute (ma questo punto mi vien da dire, soprattutto quella mentale) degli esseri umani, che sono i custodi del creato, è condizione imprescindibile di un ambiente sano: sia a livello locale che planetario.

Questa continuità tra l’essere umano e il mondo che lo circonda comporta una grande rivoluzione culturale rispetto alla concezione del mondo che si è andata affermando con la modernità, che è un termine delicato per nominare il capitalismo. Con essa, infatti, secondo quanto teorizzato da Cartesio, esiste una discontinuità radicale tra l’essere umano e il resto del mondo; tra lo spirito, prerogativa dell’uomo dominatore (implicitamente bianco, maschio ed europeo) e la materia inertea cui erano stati ricondotti tutti gli altri esseri che popolano la terra, compresi i “selvaggi”, cioè le popolazioni indigene delle nuove colonie e le donne.

Quella dicotomia viene oggi superata dalla sensibilità, prima ancora che dal pensiero, della cultura antispecista, sempre più diffusa tra una parte consistente delle nuove generazioni, quelle di Greta. Ma la sua storicizzazione, cioè la sua collocazione entro i limiti della cultura occidentale e di una fase specifica della storia umana, è una acquisizione dell’antropologia contemporanea, che ha trovato ovviamente supporto e legittimazione nello studio di numerose culture indigene ancora molto legate all’ambiente naturale in cui si sono sviluppate.

Sono culture, soprattutto quelle dell’America latina, che in parte hanno ispirato anche l’enciclica Laudato sì; cosa resa esplicita dal ruolo che papa Francesco ha attribuito al sinodo sull’Amazzonia.

E viene ovviamente superata, quella dicotomia, anche dal principio One Planet One Health; ma certo non dalla maggior parte delle pratiche mediche in vigore. A un estraneo al mondo medico come sono io lo scarto tra il concetto di One Health e la medicina corrente appare ancora abissale.

La permanenza di una cultura che separa l’uomo dall’ambiente, il corpo umano dalla natura, è probabilmente all’origine dell’attenzione che la scienza medica moderna ha concentrato sulla terapia, sulla cura del corpo malato, a scapito della prevenzione, della cura di ciò che mantiene o altera “dall’esterno” le condizioni di un corpo sano: a partire dal cibo, dall’acqua e dall’aria, temi relegati per lo più ad altre discipline.

Con ciò la medicina della modernità ha rinunciato anche a cercare nell’ambiente naturale i molti rimedi di cui si avvalevano i metodi tradizionali di cura, appannaggio per secoli di saperi femminili stroncati con e contestualmente alla caccia alle streghe che ha imperversato per alcuni secoli in occidente. Oggi la spinta a ricercare nei processi naturali i mezzi per affrontare disagi e malattie ricompare in alcune teorie e pratiche di medicina naturale o tradizionale emarginate, mal tollerate o decisamente esecrate e messe al bando dalla medicina ufficiale.

Ma la farmacologia industriale, con i suoi indubbi successi, ha finito per assumere un quasi-monopolio su gran parte della pratica medica, spesso ridotta a nient’altro che alla prescrizione di farmaci studiati, messi a punto, prodotti e venduti da un pugno di imprese tanto potenti da dettar legge sulla maggior parte dei protocolli terapeutici, a cui ci si riferisce ormai con il termine accusatorio di Big Pharma.

L’isolamento del corpo umano dal suo ambiente ha comportato anche che le pratiche mediche più complesse venissero concentrate in ospedali sempre più grandi e tecnologici, anch’essi sostanzialmente isolati dal territorio e sempre più in mano ai produttori della relativa strumentazione, mentre la medicina territoriale, quella in contatto con le comunità, che per questo potrebbe conoscere meglio i rischi di ogni singolo ambiente è stata progressivamente ridimensionata e deprofessionalizzata.

Ma questo è il modello di sanità che ne rende possibile e promuove la privatizzazione, mentre una medicina territoriale e ambientalista avrebbe bisogno, per svilupparsi, di un controllo diretto delle comunità, possibile solo in un contesto pubblico.

La pandemia ha portato allo scoperto le conseguenze di questa deriva: i fallimenti iniziali, indubbiamente riconducibili a una mancata conoscenza del virus, hanno concentrato gli interventi medici negli ospedali, trasformandoli spesso in focolai di contagio a cui hanno pagato un prezzo altissimo anche moltissimi medici e infermieri. Ma per contrastare il virus sono state scartate importanti soluzioni strutturali come l’acquisizione di maggiori spazi, l’aerazione dei locali, il potenziamento dei trasporti, lo scaglionamento dei turni, ecc, e sono stati imposti presidi estemporanei come mascherine e lock-down, senza tener conto delle loro conseguenze sull’equilibrio psicofisico, soprattutto di bambini e adolescenti.

Sostanzialmente si è ridotto tutto prima all’attesa e poi alla somministrazione dei vaccini. Cioè di farmaci prodotti “all’ultima ora”, mai sufficientemente testati, di cui le imprese produttrici hanno disposto quanto e come hanno voluto, sia in termini economici, trattando in segreto prezzi, quantità e destinazioni – e discriminando gli Stati non in grado di pagarli – sia in termini di informazioni, trascurando, fino allo spreco di altri farmaci già acquistati, ricerca, sperimentazione e pratica di soluzioni farmacologiche diverse dal vaccino che pure stavano dando buona prova.

Così ci sono voluti due anni per apprendere che quei farmaci non proteggevano né dal contagio attivo né da quello passivo (come ha confermato, pochi giorni fa al Parlamento europeo, un’alta dirigente del Pfitzer; ciò che avrebbe reso del tutto inutile l’istituzione del green pass), che la loro efficacia era di pochi mesi e che proteggevano solo dalle forme più gravi della malattia, in parte evitabili se affrontata in tempo. E senza mai varare un’indagine epidemiologica per misurarne efficacia e reazioni avverse, di cui peraltro la maggioranza dei medici è spinta in vario modo a non prendere atto.  

Anche l’ostracismo verso i non vaccinati, soprattutto se medici, ha poi finito per consolidare il monopolio del vaccino a spese di altre terapie nel frattempo validate.

C’è comunque un temine che unisce le attenzioni verso le condizioni che caratterizzano il benessere dell’essere umano, che è il concetto stesso di salute, e quelle che contraddistinguono un ambiente sano, cioè la sua capacità di riprodursi e rigenerarsi. Quel termine è curaÈ un termine che non fa solo riferimento alle attività a cui sono professionalmente preposti i medici, perché include soprattutto quelle a cui dalla notte dei tempi sono relegate le donne; tanto che molto spesso la cura viene equiparata al cosiddetto “lavoro riproduttivo”, in quanto contrapposto al lavoro produttivo: quello che produce merci, valore, profitto.

Ma quel concetto include non solo le attività, in gran parte misconosciute, legate alla riproduzione della vita e della famiglia, ma anche quelle ancora più misconosciute, che consistono nel tenere insieme una comunità attraverso una serie di legami informali di cui ci si accorge solo quando vengono meno.

Come succede, per esempio, in quei territori dove una massiccia emigrazione di donne poi addette alla cura di famiglie lontane in qualità di colf o di badanti priva la comunità di quel tessuto che la teneva in piedi: gli uomini rimasti, per lo più in condizioni di dipendenza e di emarginazione non sanno mantenerlo; non sanno prendersene cura.

Ora, di fronte alla crisi climatica e ambientale che incombe su tutta l’umanità, qual è la cura del pianeta a cui si deve dedicare chi intende battersi per cercare di fermare questa deriva? Quella cura è la conversione ecologica: un concetto introdotto nel lessico politico da Alex Langer quasi trent’anni fa e ripreso con forza da papa Francesco nell’enciclica Laudato sì. Badate che i termini transizione e conversione non sono equivalenti, anche quando entrambi si fregiano dello stesso aggettivo – ecologico – e spesso vengono usati in modo interscambiabile.

Transizione ecologica (così come è stata intesa da Roberto Cingolani) è un passaggio destinato a “salvare”, cioè conservare quanto più possibile, non solo l’attuale apparato produttivo – e, conseguentemente, anche le sue produzioni, compresa quella sempre più importante di armi – riducendone l’impatto sull’ambiente. Certo, con le fonti rinnovabili; ma soprattutto con la cattura del carbonio, continuando a usare i fossili, e con il nucleare, che mettono ad alto rischio la salute di tutti. In attesa dell’araba fenice della fusione, che “un giorno”, certo ancora lontano, ci procurerà senza scorie e senza danni tutta l’energia di cui avremo bisogno. “Come fa il sole”, permettendo alla civiltà di continuare la sua corsa lungo il percorso già tracciato della crescita, dello sviluppo e del progresso.

La conversione ecologica è un’altra cosa: più difficile da concepire e ancor più da realizzare, ma più realistica, perché fa i conti con i limiti del nostro pianeta e non chiama in causa solo la necessità di abbandonare una serie di produzioni che fanno male a chi ci lavora, a chi ne subisce gli impatti e a chi ne fa uso. Ma impone anche un diverso stile di vita, improntato alla sobrietà nei consumi, alla condivisione dei beni comuni e al primato affidato alla qualità delle relazioni, non solo con il nostro prossimo umano, ma anche con il territorio e con tutti gli esseri viventi animali e vegetali che lo abitano: cioè al perseguimento della salute, nella accezione larga di un benessere complessivo.

Certamente, come insegnava Alex Langer, perché la conversione ecologica possa affermarsi bisogna che diventi socialmente desiderabile. E certo la cultura dominante, non facilita questo cambio di prospettiva. Ma sarà sempre meno desiderabile anche l’alternativa che ci prospettano i sostenitori della transizione ecologica e, meno ancora, quella dei sostenitori dello status quo, negazionisti della crisi climatica e ambientale nella pratica quando non anche in linea teorica.

Perché ormai è chiaro, e lo sarà sempre di più, che l’alternativa alla conversione ecologica non è un “benessere” fondato su un consumo crescente e diffuso e su un PIL in continuo aumento, ma è un regime sempre più discriminatorio di “austerità”, una disoccupazione e una precarietà crescenti. E poi, la guerra.

Sì, perché invece della conversione ecologica; anzi, per accelerare i tempi della crisi climatica, di cui gli esperti hanno collocato il tipping point, cioè la soglia dell’irreversibilità, al 2030, cioè tra otto anni – e magari per anticiparlo con una ecatombe nucleare – agli impegni assunti al vertice di Parigi e malamente confermati a quello di Glasgow, i “Grandi della terra”, cioè i nostri governanti, hanno deciso di anteporre il ricorso al più antico, e oggi il più distruttivo, sistema per attentare alla nostra salute, al nostro benessere, alle nostre vite: la guerra.


Contributo al convegno di Medicina Democratica

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venerdì 28 ottobre 2022

La sovranità dell’agrobusiness - Crocevia


Era il 1996 quando in contemporanea al World Food Summit indetto dalla FAO, si riunì a Roma una rete di movimenti sociali, ONG e reti di piccoli produttori di cibo da tutto il mondo.

Durante questo Forum delle ONG sulla sicurezza alimentare, presieduto e organizzato da Crocevia insieme a una rete di organizzazioni, La Via Campesina lanciò il concetto di sovranità alimentare. Un termine che sfida da oltre 25 anni il modello di produzione e distribuzione alimentare globalizzata, dominato dalle multinazionali e guidato da un approccio liberista.

La sovranità alimentare offre infatti un nuovo paradigma per combattere la fame e la povertà sviluppando e rafforzando economie locali, la democrazia e la promozione dei diritti umani

Da quel giorno, la sovranità alimentare è entrata nell’immaginario di tante e tanti attivisti e di centinaia di milioni di piccoli produttori, diventando un grido di battaglia per coloro che si impegnano per la giustizia sociale, ambientale, economica e politica.

Anche molti governi hanno cominciato a guardare al termine, ma spesso – almeno in Occidente – in modo strumentale e distorto. Dalla Francia di Emmanuel Macron all’Italia di Giorgia Meloni, l’appellativo della sovranità alimentare accostato al Ministero dell’Agricoltura è pretestuoso e fuorviante. Spieghiamo perché.

 

La definizione di sovranità alimentare

Dopo aver coniato il termine nel 1996, il movimento contadino si è ritrovato nel 2007 al Forum di Nyéléni, tenutosi nel villaggio di Sélingué, in Mali, dove ha formalizzato la defininizione di sovranità alimentare che oggi conosciamo:

La sovranità alimentare è il diritto dei popoli a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi socialmente giusti, ecologicamente sani e sostenibili, e il loro diritto collettivo di definire le proprie politiche, strategie e sistemi per la produzione, distribuzione e consumo di cibo.

Un concetto rivoluzionario, radicalmente democratico e molto lontano dal significato che le istituzioni occidentali tendono ad affibbiargli. La sovranità alimentare, come definita dai movimenti contadini, consente alle comunità di controllare il modo in cui il cibo viene prodotto, scambiato e consumato

Se fosse implementata per come è scritta, la sovranità alimentare permetterebbe di creare un sistema alimentare volto a sostenere le persone e l’ambiente piuttosto che realizzare profitti per poche grandi imprese.

Garantire la sovranità alimentare significa garantire i diritti collettivi dei piccoli produttori, creando le condizioni per un concreto accesso ai mezzi di produzione e alle risorse naturali, trasformandoli così da price taker a price maker.

Nel concreto, è la richiesta creare un contesto politico ed economico favorevole all’agricoltura di piccola scala, a una produzione di cibo legata alle culture di riferimento e alla partecipazione pubblica nella definizione delle politiche del cibo, contrastando allo stesso tempo la liberalizzazione del commercio, la concentrazione del potere nelle filiere e il colonialismo alimentare.

 

Sovranità alimentare è agroecologia

Non per nulla la sovranità alimentare è connessa con l’agroecologia – altro termine abusato e oggetto di tentativi di distorsione da parte dell’agribusiness. La produzione alimentare agroecologica si basa in gran parte sulle risorse rinnovabili disponibili nell’azienda, sul controllo naturale di parassiti e infestanti, sulla produzione di piccola scala per il mercato locale. Non c’è agroecologia nelle produzioni di monocolture industriali basate su input esterni e orientate al mercato internazionale.

E non è vero che la produzione di piccola scala è una pia illusione, nutrita da persone naif che non sanno che dobbiamo aumentare la produzione e la produttività per nutrire una popolazione mondiale crescente.

Come è stato ribadito più volte (vedi qui e qui), oggi si produce abbastanza cibo per sfamare tutti sul pianeta. Il problema è l’accesso e la disponibilità di cibo nutriente, sempre più ostacolati da pandemie, guerre, diseguaglianze, cambiamento climatico, speculazione finanziaria sulle materie prime. Tutte spie di una crisi del sistema globalizzato, incapace di rispondere ai bisogni reali delle comunità.

 

La falsa sovranità alimentare di Giorgia Meloni

Ora che abbiamo tutte le coordinate, possiamo guardare con occhio critico all’appellativo che il governo guidato da Giorgia Meloni ha impresso all’ex Ministero per le Politiche agricole, alimentari e forestali. Oggi si chiama Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, ma è ben lontano dall’interpretare il concetto coniato e promosso dai movimenti contadini. Si rifà invece ad una idea regressiva di patria e di nazione “produttrice”, che gli stessi movimenti per la sovranità alimentare rigettano completamente.

Il Ministro che lo guida, Francesco Lollobrigida, ha infatti rilasciato una lunga intervista al Corriere della Sera in cui declina la sua idea di sovranità alimentare in modo paurosamente concorde con quello delle principali organizzazioni di categoria, che per sovranità intendono:

§  tutela delle produzioni agroindustriali Made in Italy destinate all’export sul mercato internazionale;

§  rinvio, o meglio ancora abolizione, delle restrizioni ambientali previste dalle strategie europee Farm to Fork e Biodiversità 2030;

§  introduzione dei nuovi OGM senza più valutazione del rischio ed etichettatura.

Tradotto: non cambia nulla rispetto a ciò che hanno fatto tutti gli ultimi governi per l’agricoltura locale di piccola scala.

L’agenda è completamente schiacciata sulle richieste delle grandi lobby agricole e agroindustriali, che fingono di rappresentare l’agricoltura familiare ma che ormai hanno sempre meno di locale, tipico e biodiverso.

Vogliono solo vedere garantiti i loro interessi offensivi nei negoziati commerciali, per evitare di essere messe in competizione con la moltitudine di prodotti esteri a più basso costo etichettati come “italian sounding”.

 

Tocca a noi lottare per la vera sovranità alimentare

Mentre i governi tecnici e quelli di centrosinistra hanno adottato un approccio più globalista, esponendo l’agroindustria italiana alla concorrenza sleale degli altri paesi per poi compensarla con sussidi a pioggia, il nuovo corso di destra vedrà una più marcata protezione dei poteri agricoli nostrani.

Ma sempre di produzioni intensive, industriali e insostenibili parliamo.

L’orientamento “sovranista” del governo Meloni, che riscuote tanto successo in questa fase, certifica dunque il fallimento delle politiche neoliberiste, ma non illudiamoci che le cose cambino in meglio. Invece del grande capitale internazionale, assisteremo a una difesa del grande capitale italiano. Scordiamoci che questo porti benessere sui territori, una transizione ecologica dell’agricoltura o una promozione dei mercati locali.

Toccherà ancora una volta a noi, movimenti per la vera sovranità alimentare, lottare per imporre un’agenda veramente nuova e giusta.

da qui

giovedì 27 ottobre 2022

L’onnipotenza, la crescita e i processi di liberazione - Paolo Cacciari

I salti di specie di virus e batteri (spillover), le zoonosi unite alle malattie determinate dagli inquinamenti, dalla cattiva alimentazione e da pratiche mediche errate (iatrogenesi) provocano una “sindemia”, una interrelazione sinergica tra più malattie e cattive condizioni di vita. Secondo l’epidemiologo evoluzionista Rob Wallace (The Origins of Industrial Agricoltural Pathogens) la distruzione degli habitat ad opera dell’agroindustria crea le condizioni per lo sviluppo di nuovi patogeni e il loro passaggio dal mondo animale a quello umano alla velocità della circolazione delle merci attraverso le reti del commercio globale, seguendo le vie dell’urbanizzazione, trasformando le megalopoli in epicentri di contagio, impattando su sistemi sanitari pubblici distrutti da decenni di politiche neoliberiste. Siamo una specie invasiva, per quel che siamo e, soprattutto, per quel che mangiamo. Ci informa Telmo Pievani, filosofo delle scienze biologiche: “Gli esseri umani sono il 36% del peso di tutti i mammiferi, mentre gli animali di allevamento arrivano al 60%. Praticamente un terzo dei mammiferi (noi) campa mangiando gli altri due terzi. La fauna selvatica, dalle tigri asiatiche agli orsi dei Carpazi, dai capidogli ai canguri arriva appena al 4% della biomassa” (Il peso delle cose, La Lettura, n. 483, 2021). In altri termini, la biomassa animale ha raggiunto quantità e concentrazioni preoccupanti. Alleviamo a scopo alimentare: 22,7 miliardi di polli, 1,47 miliardi di bovini, 1,17 miliardi di pecore, 1 miliardo di capre, 981 milioni di suini, 1,2 milioni di anitre. Questo per dire solo uno dei fattori che concorrono al surriscaldamento dell’atmosfera, alla perdita di biodiversità, alla deforestazione. Poi ci sono le centrali termoelettriche, i motori a combustione interna, le materie plastiche e i prodotti sintetici tossici derivati dal petrolio, gli edifici non coibentati e una enormità di oggetti d’uso comune che ricoprono come una crosta velenosa la superficie della terra e le profondità degli oceani.

Un’ulteriore conferma del sovrautilizzo delle risorse naturali emerge dalla crescita inaudita dei flussi di materiali impiegati dal sistema economico, come documentato da una singolare ricerca pubblicata da Nature (volume 588, 2020). Si stima che dall’anno scorso la “massa antropogenica” costituita dagli stock di materiali solidi incorporati e accumulati negli oggetti prodotti dagli esseri umani (edifici, strade, macchinari, oggetti di consumo e così via) ancora in uso abbia oramai superato in “peso secco” (esclusa l’acqua) il volume della biomassa vivente animale e vegetale globale complessiva.

Tacciati gli ultimi negazionisti del cambiamento climatico (troppe le evidenze empiriche della devastazione antropogenica dello spazio vitale del pianeta per poter continuare ad occultarle), sono comparsi gli “inattivisti”, come li apostrofa Michael Mann, climatologo statunitense di grande competenza che dedica la sua attività a contestare la disinformazione e il depistaggio nella “guerra” al warming climate (La nuova guerra del clima, Edizioni Ambiente). Io li chiamerei cacadubbi alla ricerca di qualsiasi scusa utile per procrastinare gli interventi necessari ad uscire dall’era dei combustibili fossili. Li si sono visti all’opera nell’ultima Conferenza internazionale dell’Onu sui cambiamenti climatici, la 26a svoltasi nel novembre scorso a Glasgow. Schiere di frenatori inseriti nelle delegazioni sono riusciti ancora una volta a svuotare l’accordo finale da ogni impegno vincolante per gli stati. In questa categoria si distinguono i politici “realisti e pragmatici” che temono ripercussioni economiche e rivolte sociali nell’eventualità che la “transizione ecologica” procedesse troppo in fretta (sic!) e le fabbriche più energivore dovessero chiudere i battenti, portando disoccupazione e miseria. La rivolta dei gilet gialli in Francia – innescata da un aumento delle accise sui carburanti – è stata più volte evocata come uno spettro che si aggira sulle buone intenzioni dell’ambientalismo. Ma, anche qui, è troppo smaccato l’intento strumentale di mettere i ceti popolari contro le politiche ambientali. È evidente che le tasse sulle emissioni di carbonio e le altre misure necessarie a realizzare una conversione energetica a favore di fonti rinnovabili alternative dovrebbero essere convenienti non solo per la conservazione della natura, ma anche per le tasche dei cittadini. Se ciò non avviene è solo a causa delle politiche dei governi che continuano ad incentivare i combustibili fossili e a penalizzare le fonti rinnovabili. Oltre a ciò serve immaginare, come hanno fatto i democratici negli Stati Uniti con la legge Protecting the Right to Organize, una garanzia per i lavoratori che rischiano di perdere il posto a causa delle misure sulla decarbonizzazione dell’industria.

Infine, esiste una terza categoria di nemici della transizione ecologica, i fautori del salto della quaglia, tecnologico, si intende. Secondo costoro, la soluzione di ogni problema ambientale dipenderebbe dall’innovazione tecnologica tale per cui tutti i nostri bisogni e desideri, presenti e futuri, verrebbero soddisfatti con meno energia, meno materie prime, meno inquinamenti, meno consumo di suolo e meno dispendio di tempo di lavoro necessario. Una nuova rivoluzione industriale (la quarta o la quinta) resa possibile da una combinazione di automazione, intelligenza artificiale, robotica, telecomunicazioni, bio-informatica, nanotecnologie, geoingegneria, riconfigurazione della materia a livello atomico, modifiche genetiche. E così via a grandi passi verso un mondo distopico. Tutto pur di non mettere in discussione le relazioni economiche e sociali dominanti, i comportamenti e gli stili di vita ordinari.

In un modo o nell’altro la “transizione ecologica” è diventata il principale campo d’azione delle politiche economiche a livello mondiale. “Reset Capitalism” è il vessillo sventolato dagli innovatori che agiscono nel campo delle grandi imprese e dell’alta finanza. Vorremmo fidarci, ma in questo libro mi chiedo se sia mai credibile un sistema economico di mercato di stampo capitalista ecologicamente sostenibile. A molti – io tra questi – sembra che vi sia una contraddizione tanto evidente quanto insanabile tra la logica che muove il sistema economico dominato dalla crescita senza limiti e la preservazione dei cicli biogeochimici che regolano la vita sulla Terra. L’imperativo della crescita perpetua del valore di scambio delle merci immesse nel mercato non può che trascinare con sé la mercificazione delle risorse naturali, la continua estrazione di materie prime, l’aumento degli scarti inquinanti, la progressiva artificializzazione della superficie terrestre. La logica predatoria, individualista ed egoistica indotta dal sistema economico di stampo capitalista è penetrata anche nel nostro modo di pensare, ha performato i nostri comportamenti e ottenebrato la nostra stessa intelligenza. Inoltre, come ha scritto Mario Pezzella, pensando a Benjamin che descrive la borghesia tedesca alla vigilia del nazismo, il rimpianto per la perdita di condizioni di relativa sicurezza, è “talmente acuto, da rendere stupidi, ottusi, di fronte alla minaccia effettiva” e conduce alla “rimozione della causa del proprio dolore”. (Terzogioranle, 6 ottobre 2021). Una sorta di schiavitù più o meno volontaria ci condiziona e ci lega agli automatismi dei meccanismi riproduttivi del sistema che agisce sia psicologicamente (pensiamo alla pubblicità e all’industria culturale in genere) sia, molto banalmente, trascinandoci nella spirale dell’euforia del consumo a debito. Leggevo che il Pil mondiale è 84.000 miliardi di dollari, mentre il debito aggregato (privato, degli stati, delle imprese, e quant’altro) ad inizio 2021 è di 281.000 miliardi di dollari (355% del Pil mondiale) che “genera” 100.000 miliardi di interessi. Un flusso di denaro che alimenta le rendite finanziarie di coloro che posseggono i “titoli di debito”, emessi nelle loro svariate forme (sovrani, bond, ecc.). È così che il surplus si incanala in una determinata strada, si accumula e si concentra nelle tasche di quel 0,8% della popolazione del mondo più ricco che controlla il 25% del Pil mondiale. L’economia è intrappolata dal debito (privatizzato) e tutti noi siamo costretti a lavorare per ripagarlo, con gli interessi.

Chiediamoci allora come si può fermare questa spirale distruttiva.

Il primo passo è sicuramente aumentare la consapevolezza del baratro dentro cui stiamo precipitando. Ma la sofferenza e il dolore non possono demoralizzarci e paralizzarci. Gli oppressi, i dominati, gli esclusi debbono trovare una loro via di resistenza e di liberazione. Le giovani generazioni ci stanno insegnando molto. Le donne ancora di più. Gli oppressi, i dominati, gli esclusi debbono trovare una loro via di resistenza e di liberazione. Le giovani generazioni ci stanno insegnando molto. Le donne ancora di più. L’origine di ogni distruzione, al fondo, sta nell’idea folle del dominio dell’uomo (inteso proprio come individuo maschio, bianco, adulto, sano e benestante) su tutto ciò che riesce a sottomettere. Patriarcato, colonialismo, imperialismo, estrattivismo, classismo, specismo sono le varie forme conosciute di questa dominazione.

Ma non basta sapere. Per avere la forza di reagire bisogna anche sentire dentro di sé le sofferenze del mondo, entrare in una relazione solidale con gli altri e con la natura. La vita è una rete di connessioni tra le specie. Per attivarci dovremmo coinvolgere anche la dimensione spirituale dell’essere. Non sto proponendo nessuna “pappetta new age”(come ci rimprovera Mario Tronti), nessun romanticismo estetizzante, nessuna fuga nel trascendentale, ma al contrario l’avvio di un processo di liberazione dai condizionamenti eteronomi, dalla sottomissione alle logiche tecnocratiche falsamente neutrali, dalla delega ai poteri costituiti. Un vero conflitto, insomma, con i poteri costituti e una lotta con noi stessi per decolonizzare le nostre menti dall’immaginario produttivista e consumista. L’idea è quella della costruzione di una società della post-crescita come progetto di autogoverno comunitario.

Decoupling magico

Il modo mainstream di pensare alla transizione ecologica fa affidamento all’innovazione tecnologica. La ricerca scientifica – si proclama e si crede – troverà le soluzioni più idonee per risolvere i danni che la rivoluzione industriale ha arrecato. Peggio. Si dice che la riconversione degli apparati industriali aprirà nuovi asset e nuove opportunità per i capitali finanziari che oggi fluttuano in cerca di investimenti alla ricerca di buone remunerazioni.

La “green economy” è presentata come una strategia win-win, poiché promette di “disaccoppiare” (decoupling) la curva del Pil (che deve continuare a salire) da quella dell’impatto ambientale. Ma tutte le evidenze empiriche ci dicono il contrario. Più aumenta l’efficienza tecnologica nell’estrazione e nell’impiego delle risorse naturali, più aumenta il loro impiego. La fame di acciaio, cemento, alluminio, carta, vetro, materiali sintetici… non si ferma. La “dematerializzazione” dei cicli produttivi è una chimera: marciamo a 100 miliardi di tonnellate all’anno di materiali vergini estratti dalla Terra. La guerra per l’accaparramento delle “terre rare” (metalli indispensabili per fabbricare i dispositivi elettronici) ci dice quanto sia pesante la pressione sulle matrici naturali esercitata dalle nuove tecnologie. Auto elettriche comprese. Non ci viene in aiuto nemmeno l’“economia circolare”. L’ultimo rapporto (The Circlularity Gap 2021 Report) ci dice che l’economia mondiale recupera e ricicla solo l’8,6% di materiali, addirittura in peggioramento sull’anno precedente (9,1% nel 2019). Nessun decoupling è in atto.

L’obiettivo del decoupling non è sbagliato in sé, sono sbagliati i mezzi che vengono usati per raggiungerlo, ovvero gli strumenti del mercato. L’idea, cioè, che i beni e i servizi vitali che la natura ci offre possano essere trattati allo stesso modo delle merci, valutati in termini economici e interscambiabili in valuta corrente. Le risorse naturali rispondono ad altri parametri, ad altre leggi (quelle delle scienze della vita) e hanno bisogno di essere rispettate in sé e per sé. Non sono, cioè, misurabili con la metrica del denaro, nemmeno se le ribattezziamo “capitale naturale” e se diamo un prezzo ai “servizi ecosistemici”: l’acqua potabile, l’aria pulita, il suolo fertile, la fotosintesi clorofilliana, l’impollinazione degli insetti, il vento e la luce del sole.

Il denaro è una unità di misura come ce ne sono tante altre. I chilogrammi servono a misurare il peso di un oggetto, i metri la lunghezza, i minuti/secondi il tempo di moto, i gradi Celsius la temperatura, i cavalli/vapore la forza, i Tesla i campi magnetici e così via. Poi ci sono cose e fenomeni impalpabili come la bellezza, l’empatia con i propri simili e con la natura, il senso di verità e giustizia e le virtù morali che rispondono a canoni estetici ed etici complessi e variabili, socialmente definiti e storicamente condivisi. Dareste voi un valore in chilogrammi ad una statua di Michelangelo? In hertz ad un brano musicale? Eppure, c’è un genere di scienziati – gli economisti – che pretendono di misurate il valore di qualsiasi cosa (non solo la fisiologia della natura, ma persino le emozioni e i sentimenti), con un unico strumento: il denaro.

Per riuscire a compiere l’economicizzazione del mondo – questa violenta e mortifera riduzione di ogni cosa in denaro – gli economisti hanno bisogno di applicare un procedimento logico-razionale tanto semplice quanto rozzo. Per loro le cose non hanno un valore in sé, per sé stesse, ma solo se vengono sottratte dal loro contesto vitale naturale e utilizzate da qualcuno per produrre degli utili misurabili in moneta corrente. Siamo così giunti al paradosso per cui per poter apprezzare il valore di qualsiasi cosa, anche di qualcosa che preesiste indipendentemente dall’apporto umano, bisogna inventarci un mercato in cui poterla scambiare.

Ecocene vs Plastocene

Non vi potrà mai essere una “transizione ecologica” senza una profonda trasformazione dei quadri di riferimento concettuali scientifici ed etici dentro cui concepire le relazioni sociali. Si tratta di avviare un cambiamento culturale e antropologico. Si tratta di intraprendere un sentiero inedito (almeno per le culture occidentali moderne) di civilizzazione. Entrati quasi senza accorgersene nell’era geologica dell’antropocene (androcene, capitalocene, eurocene, palstocene, econocene… a scelta) dovremmo ora scegliere consapevolmente di immaginare una Ecocene.

Il filosofo Christopher Prestonche insegna filosofia ambientale presso l’Università del Montana, sulla scia del Nobel per la chimica Paul Crutzen – inventore dell’Antropocene – popone una nuova denominazione della nostra era geologica: The Synthetic Age.

“Ormai non solo la nostra specie si circonda di nuovi materiali, ma sta anche acquisendola capacità di riprogettare un certo numero di processi planetari fondamentali.Stiamo imparando a sintetizzare e a cucire insieme nuove disposizionidi Dna per creare organismi originali e utili. Stiamo fabbricando nuovestrutture atomiche e molecolari per creare materiali con proprietà completamentenuove. Stiamo modificando la composizione delle specie presenti negli ecosistemi, sperimentando al contempo le tecniche per riportare in vita animali estinti. Stiamo studiando come utilizzare tecnologie chepossano riflettere la luce del Sole per mantenere fresco il pianeta. In ciascuno di questi modi, l’umanità sta imparando a sostituire alcune delle attività naturali che sono state piú importanti nel corso della storia con altre sintetiche progettate da noi”. (Christopher Preston, L’era sintetica. Einaudi). E non è fantascienza!

Proprio la pandemia ha accelerato le applicazioni tecnologiche delle ricerche scientifiche più spinte. Hanno scritto Kevin Sneader e Shubham Singhal commentando un rapporto del McKinsey Global Institute (La prossima normalità: le tendenze aziendali per il 2021, McKinsey). “Lo sviluppo di vaccini COVID-19 è solo l’esempio più convincente del potenziale di ciò che MGI chiama la ‘Bio Rivoluzione’: biomolecole, biosistemi, biomacchine e biocomputing. (…) L’urgenza ha creato slancio, ma la storia più significativa è come una vasta e diversificata gamma di funzionalità, tra cui bioingegneria, sequenziamento genetico, informatica, analisi dei dati, automazione, apprendimento automatico e intelligenza artificiale, si sono unite. Anche i regolatori hanno reagito con velocità e creatività, stabilendo linee guida chiare e incoraggiando una collaborazione ponderata. Senza allentare i requisiti di sicurezza ed efficacia, hanno dimostrato quanto velocemente possono raccogliere e valutare i dati. Se queste lezioni vengono applicate ad altre malattie, potrebbero svolgere un ruolo significativo nel gettare le basi per uno sviluppo più rapido dei trattamenti. (…) le tecnologie di modifica genetica potrebbero frenare la malaria, che uccide più di 250.000 persone all’anno. Le terapie cellulari potrebbero riparare o addirittura sostituire le cellule e i tessuti danneggiati. Nuovi tipi di vaccini potrebbero essere applicati alle malattie non trasmissibili, tra cui il cancro e le malattie cardiache”. La McKinsey è la più nota e forse la più grande compagnia di consulenza del mondo. Nichole Aschoff, editorialista di Jacobin Mag, ci informa che si tratta di “una potenza globale che conta trentamila consulenti in sessantacinque paesi” che offre consulenze a imprese private, agenzie pubbliche e governi, ma opera anche per proprio conto con un fondo di investimenti e partecipando a varie società. Si occupa di qualsiasi cosa: ristrutturazioni aziendali, investimenti finanziari, servizi pubblici tra cui le carceri e, ovviamente, industrie farmaceutiche. Nei soli Stati Uniti la McKinsey ha avuto contratti per 100 milioni di dollari del quadro delle azioni per fronteggiare la pandemia (Nichole M. Aschoff, Il lavoro sporco, Jacobin Italia, Estate 2021).

Come dopo ogni guerra, anche la “guerra al virus SarsCov2” è servita per mettere al lavoro nuove invenzioni e nuove tecnologie. Sono state la chimica dopo la Prima guerra mondiale e il nucleare dopo la Seconda. Ora è la volta delle biotecnologie molecolari. Sarà bene tenere d’occhio i nuovi doctor Frankenstein prima che mettano in circolazione nuovi mostri!

È forse giunto il momento di porre un argine alle applicazioni scientifiche. Almeno a quelle megalomane che pensano di poter dominare a piacimento la natura, viziate dal delirio di onnipotenza, asservite alla retorica del progresso senza limiti della crescita economica.

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mercoledì 26 ottobre 2022

Per sempre - Alessandro Ghebreigziabiher

Leggo oggi che oltre l'80% dei corsi d'acqua degli Stati Uniti risulta contaminato da "sostanze chimiche". È solo la premessa, ma confesso che è incompleta e sarà il finale a dirla tutta, come al solito.


C’erano una volta parole che fanno paura, o almeno dovrebbero farla, altrimenti c’era una volta la follia, ovvero l’idiozia o la vocazione allo sterminio di se stessi e di tutti gli altri. E allora di cosa stiamo parlando?
Già, di cosa. Di sicuro non di una storia, bensì di un incubo.
Forse dovrei ribattezzare il sito e chiamarlo Incubi e Notizie, ma dato che queste ultime sono spesso nient’altro che ulteriori incubi a loro volta, il nome diventerebbe Incubi e incubi, e allora è troppo.
Perché abbiamo bisogno di storie, oltre lo schifo che ci circonda, mi sbaglio? Le cerchiamo a occhio nudo, ogni tanto tra i discorsi della gente, o soprattutto nelle pause, perché il silenzio almeno non morde, mentre invece le parole… be’, sono tutta un’altra storia e quindi torniamo al punto.
C’erano una volta quindi parole che paura non dovrebbero farla, o almeno così era un tempo, nei romanzi di una volta o negli sceneggiati, che oggi li chiami serie tv e come per molta altra roba ti sei convinto che sia nata ora.
E invece… invece quando leggevi “per sempre” in quei racconti dalle pagine ingiallite, se era una trama romantica, alla stregua di una fiaba, voleva dire "e vissero felici e contenti" sino alla fine dei giorni. In altre parole, per sempre, leggi pure come il tempo concesso dall’imparziale destino, da un più o meno infallibile Creatore, o anche solo da un presuntuoso narratore che si diverte nel giocare a fare Dio.
Nelle storie di fantascienza gli alieni arrivavano sulla terra per invaderci, talvolta per curiosità, altre per necessità, altre ancora solo per caso, ma la sfortuna è che molti di noi hanno fatto propria solo la prima spiegazione. Chissà perché? Magari perché è esattamente ciò che faremmo noi altri? Mah, ciò che conta è che l’unico desiderio che da allora ci invade per davvero è quello che gli extra umani – ovvero straordinariamente tali – se ne tornino al loro pianeta.
Per sempre, già. Come nei racconti di cappa e spada, di uno contro l’altro o eroicamente molti, tradizionalmente i cattivi, anche se negli ultimi anni stiamo trovando tutti qualche difficoltà nello scovare la fondamentale soluzione di continuità tra le due fazioni. Diciamoci la verità: nel secolo scorso era molto più facile capire per chi avresti dovuto parteggiare, dov'era seduta la squadra in torto, per quanto tutti i posti fossero occupati. Solo che a forza di mondarsi anche verbalmente, dissociarsi da se stessi e auto assolversi ancora prima di essere accusati, stai a vedere che i fascisti erano gli altri…
Nondimeno, ciò che ti spingeva ad andare avanti, pagina dopo pagina, atto dopo atto, fotogramma dopo fotogramma, era veder sconfitto il malvagio responsabile di tutte le disgrazie dei tuoi beniamini.
per sempre era l’auspicabile sottinteso di ogni finale. Non volevi sequel spin off, nessuno se li augurava, perché la notte che seguiva la parola fine volevi dormire sonni tranquilli e magari sognare un’altra storia anche migliore di quella che avevi letto, visto, vissuto.
Non desideravi di certo ritrovarti di fronte all’ennesimo incubo.
La realtà è che ciascuno di noi deve darsi da fare nell’affrontare ciò che la vita richiede, qui e ora. Per il bene di se stessi, dei propri cari e magari anche per il maggior numero di persone.
Detto ciò, seppur con riluttanza, ritorno sui miei passi e riattacco dall’incipit rispettando la suddetta premessa sino in fondo.
C’erano una volta due parole che dovrebbero essere in cima ai nostri pensieri e, per quanto inquietanti, da tenere a mente ogni giorno e in base a esse fare estrema – ma che dico – assoluta attenzione prima di prendere qualsiasi decisione sul presente che ci aspetta, ancora prima che il futuro.
Quelle che ci informano che la stragrande maggior parte dei corsi d’acqua negli Stati Uniti è inquinata da robaccia chimica… per sempre.

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martedì 25 ottobre 2022

Auto elettriche? Non sono una buona idea

 

Il trasporto su strada di automobili e merci crea un’enorme quantità di problemi sociali: un gigantesco consumo di suolo e risorse, incidenti con morti e feriti, emissioni di particolato e CO2, rumore e minacce costanti per gli altri utenti della strada.

La modifica del tipo di motore dalla combustione di petrolio all’elettrico cambia solo una delle tante conseguenze negative del traffico automobilistico, e anche in questo caso ha un effetto discutibile. Le auto elettriche non rappresentano quindi un contributo alla transizione dei trasporti. È importante demistificare la pubblicità della “mobilità” elettrica (il termine si riferisce di solito solo alle automobili, sebbene anche i tram, i treni e le biciclette elettriche funzionino con motori elettrici e siano molto più ecologici!) Perché:

  1. la maggior parte dei problemi del traffico automobilistico rimangono.
  2. solo il bilancio delle emissioni di CO2 potrebbe essere migliorato – e anche questo è dubbio.
  3. alcuni effetti peggioreranno addirittura.
  4. il passaggio ad auto elettriche blocca la vera inversione di tendenza del traffico, che verrà spiegata in dettaglio più avanti. Dopo Tesla, anche VW vuole costruire una nuova enorme fabbrica di auto elettriche. Questo dimostra che verranno costruite più auto – per il profitto!

1. La maggior parte dei problemi del traffico automobilistico permangono

1.1 Incidenti, morti, feriti, pericoli costanti

Otto o nove morti al giorno, più 1.053 feriti: questo è il bilancio del traffico stradale nella sola Germania (dati del 2019). Nel mondo ci sono 3.700 morti al giorno! Per effetto dell’assuefazione, questa costante carneficina non solo viene accettata con indifferenza, ma invece di un “disarmo” della mobilità, le sue vittime vengono spinte fuori dallo spazio stradale. Genitori preoccupati o sopraffatti vietano ai loro figli di uscire di casa, amministrazioni e istituzioni recintano parchi giochi e asili. L’auto può circolare liberamente, l’essere umano viene rinchiuso. La sostituzione del motore non cambierà questa situazione disumana.

1.2 Rimane il problema delle polveri sottili

L’affermazione di una guida senza emissioni grazie ai motori elettrici è una favola. La maggior parte delle polveri sottili presente nell’aria deriva dall’usura di pneumatici e freni, che probabilmente sarà maggiore nelle auto elettriche a causa del loro peso elevato. Inoltre, funzionano con l’elettricità che deve essere prodotta e distribuita da qualche parte e in qualche modo (vedi punto 2.1).

1.3 Nessun vantaggio nella protezione dal rumore su strade trafficate

Nemmeno in termini di rumore ci saranno vantaggi significativi, perché al di sopra di una velocità di 30 km/h il rumore dei pneumatici annulla quello del motore. Le auto elettriche offrono vantaggi solo a velocità molto basse. Tuttavia, l’assenza di rumore aumenterebbe a sua volta il rischio di incidenti, motivo per cui il Regolamento UE 540 stabilisce che le auto elettriche devono emettere un rumore artificiale – e quindi non c’è alcun vantaggio in termini di rumore.

2. Effetti positivi? Piuttosto in dubbio …

2.1 Meno emissioni di CO2? Solo se ci fosse l’elettricità verde – e quella manca …

L’unico vantaggio dichiarato delle auto elettriche rispetto ai motori a combustione è la possibile riduzione delle emissioni di CO2. Ma al momento non ci si può aspettare nemmeno questo. La quantità di elettricità verde presente nella rete elettrica non è neanche lontanamente sufficiente a coprire la domanda di elettricità. I nuovi consumatori di energia elettrica ripiegherebbero quindi aritmeticamente sul nucleare, sul carbone e sul gas, ritardando la conversione al 100% di energia rinnovabile. Il fatto che tutti pretendano di consumare l’energia verde (e gli altri l’energia sporca) è ingiusto.

Inoltre, la maggior parte delle auto elettriche tende a essere guidata durante il giorno e ricaricata di notte, a casa o al lavoro. In questo caso, o sono necessarie batterie aggiuntive, il che significa un consumo ancora maggiore di materie prime, oppure le auto vengono caricate con elettricità sporca, anche se il fotovoltaico è disponibile sul tetto.

L’equilibrio viene ulteriormente peggiorato dal fatto che un motore elettrico non emette abbastanza calore di scarto per il riscaldamento. L’ulteriore produzione di calore consuma poi molta elettricità, che spesso viene nascosta nei calcoli di modello e riduce significativamente l’autonomia.

2.2 Ogni E-car comporta la produzione di diversi motori a combustione interna

Un effetto molto simile si produce a causa del controcalcolo consentito sul cosiddetto consumo della flotta di ogni azienda automobilistica, dove viene prescritto un livello medio di emissioni di tutte le auto vendute. Le auto elettriche sono valutate zero (contro ogni legge fisica), vale a dire che per ogni auto elettrica venduta, le case automobilistiche sono autorizzate a vendere più auto a combustione (anche se le auto elettriche vengono rapidamente trasferite all’estero, come sta accadendo attualmente). Le aziende di auto elettriche, come Tesla, si finanziano in parte vendendo questi diritti ad altre aziende automobilistiche, che a loro volta vendono auto a combustione con questi diritti. Ciò significa che ogni auto elettrica, comprese quelle prodotte da Tesla, comporta almeno un motore a combustione.

2.3 Effetto rimbalzo I: chi costruisce fabbriche di automobili raccoglie più automobili

È statisticamente provato che ogni espansione dell’infrastruttura stradale aumenta il volume del traffico. Questo vale anche per le auto elettriche. Il numero totale di auto e di chilometri percorsi aumenta grazie ai programmi di sovvenzione e di espansione su larga scala. I vantaggi speciali per le E-car, come l’uso condiviso delle corsie degli autobus, il parcheggio gratuito, l’ingresso in zone altrimenti chiuse alle auto e l’elettricità gratuita, rafforzano la tendenza a un numero ancora maggiore di viaggi.

2.4 Effetto rimbalzo II: il greenwashing porta a un maggior numero di viaggi.

C’è anche un effetto rimbalzo nell’uso privato. Significa che un miglioramento in un luogo porta a cambiamenti di comportamento in altri luoghi che annullano parzialmente o completamente gli effetti positivi. È già stato dimostrato che gli utenti delle auto elettriche le utilizzano più frequentemente, sostituendo così i viaggi con i mezzi pubblici, ma anche molti viaggi in bicicletta. La pubblicità induce a sentirsi a posto con la coscienza, cosa che porta ovviamente a un utilizzo più sfrenato del veicolo.

3. Alcune cose stanno addirittura peggiorando

3.1 Le auto elettriche sono spesso auto aggiuntive

Nel 2021, le immatricolazioni in Germania hanno raggiunto livelli record. Le auto elettriche hanno svolto un ruolo significativo in questo senso. Questo perché le grandi limousine vengono acquistate come status symbol aggiuntivo, le piccole E-car invece come seconda e terza auto. In entrambi i casi, gli acquirenti appartengono prevalentemente alle classi più abbienti. Le auto elettriche aumentano quindi il numero totale di vetture. Poiché vengono anche guidate più spesso (vedi punto 2.4), aumenta il consumo di energia e il rischio di incidenti e si incentiva la costruzione di più parcheggi e strade.

Heiko Barske, responsabile della ricerca del gruppo VW/Audi 1991: L’auto elettrica è un veicolo per i ricchi; i poveri devono usare i trasporti pubblici.

3.2 Aumenta anche il consumo di materie prime nella produzione

Le auto elettriche consumano più materie prime nella produzione rispetto alle auto a combustione interna e richiedono molti materiali speciali, soprattutto per le batterie, per le quali è già in corso una feroce battaglia per i diritti di estrazione in tutto il mondo in previsione dell’ondata di acquisti di auto elettriche. Ad esempio, l’estrazione del litio nelle pianure saline delle Ande sudamericane sta causando ormai una carenza di acqua potabile. Inoltre, l’offerta limitata di materie prime per le batterie porterà a una disparità globale nell’ambito dell’automobile, poiché solo i paesi ricchi e industrializzati saranno in grado di sfruttare e acquistare le riserve di litio.

3.3 Anche il consumo di suolo è destinato a peggiorare

Uno dei maggiori problemi del traffico di camion e auto è l’enorme quantità di spazio necessario per guidare e parcheggiare i veicoli. In grandi città come Berlino, c’è uno spazio di 0,6 metri quadrati di parco giochi per ogni bambino. Per contro, ogni posto auto ha una superficie di 12 metri quadrati. Le auto elettriche hanno bisogno di altrettanto spazio (strade, parcheggi, ecc.) delle auto esistenti, in alcuni casi anche un po’ di più, perché sono più grandi e più pesanti con il loro carico di batterie. Il traffico automobilistico richiede circa quattro volte più spazio rispetto a un sistema di trasporto basato su spostamenti a piedi, in bicicletta e con i mezzi pubblici. Questa iniqua distribuzione dello spazio tra le auto, da un lato, e le persone e la natura, dall’altro, rimane in vigore anche con il passaggio ai motori elettrici.

3.4 Tenderanno a peggiorare gli incidenti

Anche i morti e i feriti non trarrebbero alcun vantaggio dal passaggio all’auto elettrica. L’elevato tributo di sangue di un milione di morti per incidenti stradali all’anno in tutto il mondo rimarrebbe, forse addirittura peggiorato dall’aumento del numero di auto e dall’accelerazione più rapida, che rende le auto elettriche armi pericolose ai semafori, nelle svolte e nelle partenze.

Se si verifica un incendio in un incidente, le auto elettriche sono molto difficili da spegnere a causa del flusso di elettricità.

4. La diffusione delle auto elettriche blocca la vera transizione del traffico

4.1 Giganteschi cantieri di ricarica elettrica bloccano lo sviluppo del trasporto pubblico

La costruzione di infrastrutture di ricarica rapida assorbirà enormi somme di denaro e creerà cantieri in città e in campagna. Con questi fondi sarebbe stato facilmente possibile modernizzare i tram nelle aree urbane, riattivare ed elettrificare le linee ferroviarie, creare dei collegamenti di autobus e costruire piste ciclabili. Difficilmente sarà possibile realizzare entrambe le cose contemporaneamente. Il passaggio alle auto elettriche non aiuterà quindi la transizione nei trasporti, ma la ostacolerà.

4.2 Le auto elettriche come fonte di denaro e focus di attenzione

In linea di principio, la propulsione elettrica al posto di quella a gas e petrolio è una buona idea, ma è completamente sbagliata se applicata alle autovetture, pericolose e ad alta intensità di materie prime e di suolo. Si dovrebbe invece promuovere la riattivazione e la completa elettrificazione delle linee ferroviarie (attualmente solo poco più del 61% della rete ferroviaria tedesca è elettrificata). Tutte le città con una popolazione di più di 30.000 abitanti dovrebbero essere dotate di moderni sistemi di tram, preferibilmente collegati direttamente alle linee ferroviarie regionali. L’attuale conversione forzata alle auto elettriche fa passare in secondo piano questo tipo di transizione più sensata nel settore dei trasporti, dal punto di vista finanziario, dell’attenzione e di tutte le risorse.

Da un’intervista con il presidente regionale di Pro Bahn, Malte Diehl, sul quotidiano taz del 20.9.2022:

Perché la Bassa Sassonia esita tanto a riattivare le linee ferroviarie signor Diehl? I vantaggi sono evidenti.

Malte Diehl: L’attuale governo regionale non ha mostrato grandi ambizioni in questo senso ed è stato più interessato a promuovere la mobilità elettrica per le autovetture private.

Conclusione

La promozione dell’elettrificazione di camion e automobili serve a mantenere lo status quo, ovvero la preferenza per il trasporto individuale motorizzato nel mix di sistemi di trasporto, e mira a incentivare l’acquisto di nuove automobili. Il trucco pubblicitario centrale consiste nel ridurre il dibattito alla questione delle emissioni di CO2 del veicolo stesso. Ciò oscura molti problemi che rimarrebbero o addirittura aumenterebbero. Tuttavia, la natura del dibattito dimostra anche che la transizione dei trasporti è spesso vista come una questione puramente tecnica. Si tratta di unità e limiti, cilindrate e decibel. I fan delle auto elettriche accettano come normale il fatto che enormi aree siano dedicate al solo traffico, soprattutto automobilistico, mentre la maggior parte delle persone, e ancor più gli animali e le piante, sono confinati in piccoli rifugi.

La mobilità, tuttavia, è prima di tutto una questione sociale che riguarda l’uguaglianza e la libertà di movimento, vale a dire questioni fondamentali relative al modo in cui modelliamo le nostre vite. È ora di dire addio a una forma di mobilità che uccide e ferisce, ruba tempo e denaro, costringe i bambini in gabbie, divora enormi aree di suolo, fa rumore e puzza. È ora di cercare invece una modalità che faccia risparmiare spazio e risorse, sia priva di barriere e possa essere facilmente combinata con le due forme di mobilità più importanti: gli spostamenti a piedi e in bicicletta. Si tratta principalmente di trasporti ferroviari e funivie, integrati da autobus che fanno da navetta tra la porta di casa e la fermata del treno.

Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid. Revisione di Filomena Santoro

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lunedì 24 ottobre 2022

I prezzi di gas e luce diminuiscono. È finita la speculazione? - Remo Valsecchi

 

La farsa continua. Nessuno, o quasi, ha mai voluto ammettere che quanto sta accadendo dal giugno 2021 con la luce ed il gas è stato causato solo dalla speculazione (abbiamo dedicato sul punto il dossier “Carissimo gas”). Si è sempre cercato di camuffare la realtà con motivazioni e riferimenti esterni che non esistono, forse perché non era possibile mettere in luce un grossolano errore di sistema, quello voluto dall’Europa dei Trattati, o forse non si poteva riconoscere di aver fatto un gigantesco favore ai mercati finanziari, che mercati non sono, favorendo la ricchezza di pochi al prezzo di un aumento della povertà dei tanti.

Adesso, però, i prezzi diminuiscono e, quindi, la politica dimentica gli eventi che avrebbero provocato gli aumenti e si prende il merito spiegando che la diminuzione è merito dei provvedimenti che l’Unione europea starebbe adottando. Un falso prima e un falso adesso. La speculazione, anch’essa, è condizionata dalla domanda e dall’offerta, più alta è la domanda più alta è la speculazione, più bassa è la domanda, inferiore è la speculazione. L’offerta, nel settore dell’energia, è ininfluente essendo costante negli anni e con un andamento ripetitivo anche nei mesi. Lo conferma il bilancio energetico, aggiornato mensilmente dal ministero della Transizione ecologica.

I contratti di importazione sono di due tipi, quello spot, ossia riferito a un’operazione entro tre mesi, e quello “long term”, regolato da contratti ultra-annuali con prezzi fissati e indicizzati al costo del petrolio (Brent). I primi sono effettuati nelle Borse europee, il 2,8% del totale secondo la relazione al Parlamento e al governo di Arera e, comunque, entro un massimo del 12% del totale, limite sempre indicato da Arera nella relazione e riferito al totale de contratti con durata inferiore all’anno.

Sono i contratti spot a provocare l’aumento dei prezzi e la speculazione anche se, poi, gli importatori con contratti long term si accodano e attraverso società, magari controllate, fornitrici dell’utente finale, vendono allo stesso con il prezzo fissato dai mercati finanziari. Questa è la ragione degli utili lordi di Eni aumentati trimestralmente di tre volte dal settembre 2021 rispetto a quelli precedenti, e parliamo di miliardi di euro. Appena disponibile, entro la fine ottobre, faremo un’analisi dei risultati del terzo trimestre.

Perché in ottobre i prezzi sono in forte ribasso? Sempre e solo per il procedere della domanda che, come conseguenza di un andamento climatico favorevole, si è ridotta e gli importatori spot che, con il meccanismo dei derivati future, hanno acquistato ad agosto, il mese con il prezzo medio mensile più alto dal giugno 2021, e hanno fatto il pieno ma non consegnano perché gli utenti non hanno ancora acceso i termosifoni, non stanno cioè acquistando. Non è un caso che il prezzo si stia riducendo: è l’effetto della regolazione naturale del mercato, quello appunto della domanda e dell’offerta. Se gli importatori spot riducono la domanda i mercati finanziari stagnano e la maggior parte del gas importato finisce negli stoccaggi che ricevono senza pagare alcun prezzo, anzi facendo pagare l’uso dell’impianto di stoccaggio.

Questo non significa che i prezzi non torneranno a risalire, anzi è molto probabile che questo avvenga se le condizioni climatiche saranno meno favorevoli delle attuali.
Tradotto: i provvedimenti dei nostri politici, sia nazionali sia europei, non serviranno a nulla e potremmo trovarci ancora nella stessa situazione di agosto, del resto i “picchi” di prezzo, dal giugno 2021, si sono ripetuti ogni tre o quattro mesi e ogni volta sono stati più alti dei precedenti. Solo una soluzione può bloccare questa drammatica e vergognosa vicenda: bloccare le importazioni spot e conseguentemente chiudere i cosiddetti mercati finanziari. Ogni operazione diversa non risolverà il problema e gli utenti continueranno a essere ingannati e soffrire un’inflazione sempre più alta. La mia preoccupazione è dovuta alla poca credibilità di una classe politica che discute del nulla e dalla cui volontà dipende la soluzione.

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