C’erano una volta l’uomo bianco e quello nero… e no, dài, non va bene, perché così dicono che si sentono sempre accusati, che quelli si lamentano, ma che colpa ne ho io, pure qui abbiamo i nostri problemi, prima il Covid e poi pure il caro bollette, non possiamo accogliere tutti, ognuno a casa propria, a noi e anche peggio, visto che ora siamo al potere quasi ovunque, cribbio.
Okay, ci riprovo: c’erano una una volta i paesi ricchi e quelli poveri dove…
ma no, non si può neppure così, che poi uno dice che non si deve mica
vergognare di avere fatto o addirittura ereditato la grana, non è mica una
colpa. Che poi si fa presto a dire grana, con tutte queste tasse –
anche se le pagano sempre gli stessi e non sono loro, ma mica siamo tutti con
il portafogli a fisarmonica, e di nuovo non possiamo accogliere tutti, me
ne frego, sparare a vista, il mare è nostro tranne
i cadaveri, punto e a capo.
D’accordo, altro tentativo: c’erano una volta le nazioni ex o neo
colonialiste e le ex o nuove colonie a sud del mondo in
cui… ma no, neppure questa va bene, perché poi ti dicono che ognuno è padrone
del suo destino e non si possono sempre incolpare gli altri per ogni cosa,
anche se vale pure il viceversa e qui nessuno ancora si è scusato. Solo che un
attimo dopo ti guardi in giro e ti rendi conto che se non è successo prima
figuriamoci ora, e allora per la terza volta non possiamo accogliere
tutti, tranne Dio, patria, famiglia e buoi dei paesi miei,
e basta.
Va bene, ho afferrato il concetto. Desidero davvero raccontare una storia
giusta. Nel senso che renda giustizia ai protagonisti, più di ogni altra
cosa. Chiara e semplice, e che non possa essere fraintesa o manipolata: c’erano
una volta una madre e un figlio.
Il primo giorno, al mattino, il bambino si avvicina alla donna e le domanda:
“Mamma, oggi andiamo a scuola?”
La madre lo guarda con un misto di rabbia e dolore, ma è costretta a dargli in
pasto se non altro la cruda verità, la quale non manca mai tra loro: “No,
figlio mio.”
“Perché?”
“Perché lo straniero che sai, il quale è venuto qui per derubarci – per poi
prestarci quei pochi spiccioli del denaro guadagnato con le ricchezze della
nostra terra – non solo ha aumentato gli interessi su quella miseria ma ha
anche preteso di riaverli in anticipo.”
Il piccolo abbassa il capo e tristemente riflette sulla risposta.
Il secondo giorno, nell’unico momento di quest’ultimo in cui il nostro spera
che accada il miracolo, si avvicina alla madre e fa: “Mamma, oggi che si
mangia?”
La donna, ulteriormente amareggiata, gli risponde: “Niente, figlio mio.”
“Perché?” chiede quest’ultimo come se non fosse una situazione abituale.
“Perché lo straniero che continua ad abbuffarsi con le nostre ricchezze è
preoccupato per l’inverno in arrivo, di spendere più del solito per il
carburante per la sua auto e di essere costretto a ridurre le ore di calore
nella propria casa.”
Il ragazzino osserva il volto della donna e cupamente riflette sulla
spiegazione.
Il terzo e ultimo giorno, il figlio si ammala, ha la febbre alta e stavolta è
la madre ad avvicinarsi a lui. Lo accarezza e lo osserva con gli occhi
inevitabilmente umidi di pianto.
“Mamma” fa il bambino. “Non mi dai la medicina?” Come se fosse roba normale,
già, ovvero come lo è nel fantastico regno chiamato altrove.
“Non posso”, risponde la donna.
“Perché?” chiede il figlio con lo stupore di chi si ostina a non comprendere le
diseguaglianze del cuore e dell’umana coscienza, più che del mondo. La donna
gli ha promesso verità e anche stavolta, malgrado con immane sforzo, tiene fede
alla parola data: “Perché lo straniero sa perfettamente che continuando con il
suo atteggiamento finirai per morire, ma non si fermerà.”
“Perché?” Insiste il bambino, come se fosse l’ingenua quanto nobile incredulità
a parlare per lui.
“Perché nella sua immaginazione tu e io siamo solo dei numeri. L’uno e il meno
uno che si azzerano nella somma finale. Noi siamo solo cifre, siamo le virgole
e il segno percentuale, noi siamo sbuffi di inchiostro trascurabile, affinché
il bottino resti in attivo al momento dell’incasso.”
“Perché…?” ripete ancora il figlio e potrebbe continuare all’infinito, ma la
donna sa che non è lei che dovrebbe garantirgli una risposta. Lei è solo la
madre, lei è tutto ciò che può dargli e lo abbraccia stretto al petto, cercando
di educarlo, sfamarlo e curarlo con quel poco di calore che le resta nel corpo.
Il bambino si addormenta e ora è lei a far sua la bruciante domanda, volgendo
il capo vero l’altrove di cui sopra.
Perché…
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