domenica 30 aprile 2023

Cagliari, città di pollai e polli - Grig

 

Reti metalliche, ringhiere, reti di plastica, transenne, strade chiuse, strade vietate, cantieri aperti (pochi), cantieri chiusi (manco uno), cantieri senza soldi, cantieri abbandonati (tanti), cantieri minimalisti (parecchi), traffico bloccato (quotidianamente), commercianti furenti (moltissimi), cittadini arrabbiati (pure di più).

Sarebbe bastato programmare lo svolgimento dei tanti lavori pubblici non in contemporanea, audace e financo epica impresa non impossibile.

Cagliari, capitale del Mediterraneo, capoluogo della Sardegna, estrema periferia dell’Impero.

Circa 150 mila abitanti, meno del Municipio I di Roma Capitale.

Cagliari, veduta da Castello in direzione di S. Elia

Qualità della vita molto buona, fra mare, spiagge, zone umide, promontori e Maestrale.

Nonostante chi l’amministri da tempo, almeno questa è l’impressione di un gran numero di cagliaritani.

Però, forse, i cagliaritani sbagliano.

Gli intendimenti del sindaco Paolo Truzzu e del suo assessore al blocco del traffico Alessio Mereu devono esser invece nobilissimi, costringere ecologicamente i cagliaritani e le migliaia di sardi e turisti che giungono quotidianamente in città ad abbandonare l’auto (ma anche i mezzi pubblici) insieme a ogni speranza di decenza e, soprattutto, dare nuovo impulso all’economia creando pollai.

Tanti pollai, pronti ad accogliere i polli che avranno il coraggio di votarli nuovamente.

Stefano Deliperi, cagliaritano

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sabato 29 aprile 2023

La Coca-Cola si beve tutta l’acqua - Angelo Mastrandrea

Nel veronese la siccità ha provocato una grave crisi che ha costretto la metà dei comuni a razionare le risorse idriche. Invece lo stabilimento della multinazionale non ha rallentato la sua produzione.


 

La mattina di sabato 9 luglio alcune centinaia di attivisti della rete ecologista Rise up 4 climate justice, arrivati alla stazione di Nogara da tutto il Veneto, si sono incamminati verso la zona industriale del paese. Erano diretti allo stabilimento della Coca-Cola per protestare contro le sue politiche “estrattiviste”, basate cioè sull’accaparramento di risorse ai danni della comunità locale. Nel veronese la siccità ha provocato una grave crisi idrica che ha costretto metà dei comuni a limitare l’utilizzo d’acqua. La Coca-Cola invece, per la quale l’acqua è la materia prima principale, non ha rallentato la produzione. Un decreto regionale del 31 luglio del 2020 le consente anzi di aumentare del 37 per cento la “portata media” dell’acqua prelevata dalla falda sotterranea e, poiché la domanda della bibita è in continuo aumento, le linee produttive funzionano a pieno regime. Il tutto a un prezzo irrisorio: un centesimo ogni mille litri d’acqua presi dai pozzi che si trovano all’interno dello stabilimento.

Nei bar lungo il tragitto verso la fabbrica, le bottigliette di Coca-Cola da 400 millilitri “prodotte a Nogara”, che la gente del posto distingue dalle “sottomarche” provenienti da altre regioni, sono in vendita a 3,40 euro. L’azienda ha ridotto le dimensioni delle bottiglie da mezzo litro, ma non il prezzo, un trucchetto che serve a mascherare gli effetti dell’inflazione e a scaricarla sui clienti. Arrivati davanti ai cancelli della fabbrica, gli attivisti climatici hanno bloccato la strada, mostrando cartelli che denunciavano la “speculazione” e urlando slogan contro la multinazionale statunitense. “Si parla di razionamento idrico nelle case e poi ci sono aziende che hanno accesso diretto all’acqua e la usano per prodotti di cui non abbiamo bisogno”, ha detto ai microfoni di Rainews24 una giovane ecologista, Fabrizia Toninello. Un gruppo di militanti dei centri sociali del nordest, riconoscibili dalle tute bianche, ha provato a superare il cancello d’ingresso, ma è stato respinto dalla polizia in tenuta antisommossa. Ci sono stati spintoni, urla ed è volata pure qualche manganellata. “Vogliamo attirare l’attenzione sul fatto che i razionamenti dell’acqua valgono per i privati cittadini e non per la Coca-Cola”, spiega Sergio Zulian, arrivato da Treviso per partecipare alla manifestazione.

Estrattivismo

Il comune di Nogara è l’unico in tutta la provincia di Verona che non ha un acquedotto. Ha una rete di tubature costruita all’inizio degli anni ottanta, ma non è mai entrata in funzione. Quando la società pubblica che gestisce le risorse idriche, Acque Veronesi, ha provato a recuperarla si è resa conto che molti tubi erano rivestiti di amianto ed è riuscita ad allacciare alla rete idrica solo alcune abitazioni del centro cittadino. Due terzi delle 3.500 abitazioni private e perfino l’ospedale prendono l’acqua da pozzi di loro proprietà. Poiché quasi nessuno ha i contatori, l’azienda idrica stima il consumo in 64 metri cubi all’anno, in maniera forfettaria.

La Coca-Cola preleva da sola la sua acqua. Ha ottenuto dalla regione Veneto una “concessione alla derivazione di acque sotterranee tramite pozzo” per “uso industriale, potabile, igienico e sanitario, e assimilati”. In questo modo la multinazionale, pur sfruttando l’acqua a fini commerciali come le aziende che imbottigliano acque minerali, la paga molto meno. In più, è esonerata dai costi di depurazione e di smaltimento, che il resto della popolazione invece paga in bolletta. “È un esempio di come le istituzioni locali siano asservite alla multinazionale”, afferma l’ex sindaco Paolo Andreoli, di Sinistra italiana. “Lo stabilimento di Nogara è uno dei più limpidi esempi di estrattivismo nel nostro paese”, hanno scritto in un comunicato stampa gli organizzatori della protesta. La Coca-Cola, da queste parti, è intoccabile. Quando i lavoratori della logistica organizzati dal sindacato di base Adl Cobas, nel 2017, hanno scioperato per quaranta giorni di fila protestando contro le condizioni di lavoro, le guardie private inviate dai datori di lavoro hanno usato le pistole taser contro i manifestanti e per la prima volta la fabbrica ha sospeso la produzione. L’ambasciata statunitense a Roma ha chiesto all’allora presidente del consiglio Paolo Gentiloni di intervenire per fermare le proteste.

Non è chiaro neppure quanti pozzi gestisca. “Ce ne sono almeno cinque”, dice Roberto Malesani di Adl Cobas. “Sono sette, tutti all’interno della fabbrica”, aggiunge con sicurezza Andreoli. Nelle autorizzazioni ne sono menzionati tre, ognuno dei quali è collegato a una vasca di accumulo da 1.400 metri cubi, dalla quale “si dipartono le tre diverse linee di distribuzione dedicate alle rispettive utilizzazioni”. Tutti pompano acqua al ritmo di 173,80 metri cubi all’ora, 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, per un totale di un miliardo e mezzo di litri all’anno in media, il triplo dei consumi dell’intera popolazione di Nogara. La bolletta finale è di circa 14mila euro all’anno. “Una sproporzione inaudita rispetto ai consumi, molto meno di quanto pagano i privati cittadini”, afferma Andreoli. Per dimostrarlo, tira fuori una bolletta da 39,74 euro per un consumo di 23 metri cubi di acqua. Sono 1,72 euro ogni mille litri, quasi il doppio di quanto paga la Coca-Cola. “Un’abitazione privata consuma tra i 60 e i 70 metri cubi all’anno, mentre lo stabilimento arriva anche a un milione e 700mila metri cubi, l’equivalente di un comune di 25mila abitanti”, calcola.

Rallentare un po’

All’indomani della manifestazione, Sinistra italiana ha lanciato un allarme. “C’è il rischio che non ci sia più acqua e ciò danneggerebbe l’intera popolazione di Nogara, tra cui gli stessi lavoratori di Coca-Cola”, ha scritto in un comunicato stampa nel quale chiede la sospensione della produzione. “Non dico che dovrebbero fermarsi del tutto, magari basterebbe rallentare un po’”, dice Andreoli, per il quale “i manager dovrebbero capire che, se l’acqua finisce, lo stabilimento chiude davvero”.

Una casa consuma 70 metri cubi d’acqua all’anno, lo stabilimento arriva a un milione e 700mila metri cubi

Venti chilometri più a sud il Po è in secca, le falde acquifere sotterranee sono prosciugate dalla siccità, il loro livello si è abbassato e il presidente di Acque Veronesi, Roberto Mantovanelli, già alla metà di giugno è stato costretto a scrivere a tutti i sindaci della provincia, chiedendo di adottare delle misure per limitare i consumi. Il primo a intervenire è stato proprio il sindaco di Nogara, che il 21 giugno ha vietato “l’utilizzo di acqua potabile per fini diversi da quelli domestici e igienico-sanitari”. Il primo luglio, appena eletto, il sindaco di centrosinistra a Verona, l’ex calciatore Damiano Tommasi, ha prorogato un’ordinanza simile del suo predecessore Federico Sboarina, di Fratelli d’Italia, e ha raccomandato ai cittadini “un uso consapevole dell’acqua anche nelle attività quotidiane in casa, riducendone gli sprechi”. Il suo collega del vicino comune di Villafranca, Roberto Luca Dall’Oca, anche lui di centrodestra, ha proibito di riempire piscine, annaffiare l’orto e lavare l’auto per tutta l’estate. Secondo i dati forniti da Acque Veronesi, 40 dei 77 comuni serviti dalla società idrica hanno adottato ordinanze simili, consentendo l’utilizzo dell’acqua solo per “usi igienico-sanitari” e prevedendo multe fino a 500 euro per chi non rispetta le prescrizioni.

La Coca-Cola non ha subìto invece alcuna limitazione. Nello stabilimento di Nogara le dieci linee produttive e quella ad alta velocità, costata 15 milioni di euro e inaugurata nel 2020, non hanno mai smesso di funzionare a pieno regime. Nei magazzini “i bancali sono pieni fino al soffitto”, dice un lavoratore della logistica. “Siamo in una fase di sovrapproduzione”. Dopo una contrazione nelle vendite durante la pandemia, la multinazionale ha ripreso a guadagnare più di prima. In tutto il mondo, nel 2021 sono stati venduti 13,7 miliardi di litri di Coca-Cola nelle sue diverse versioni – originale, Zero e light – il 13 per cento in più del 2020, e l’utile netto ha raggiunto i 547 milioni, il 32 per cento in più dell’anno precedente. In Italia è la bevanda più bevuta. Fattura 870 milioni di euro, occupa 22mila persone tra posti di lavoro diretti e l’indotto, e contribuisce per lo 0,05 per cento al prodotto interno lordo. Cifre da capogiro che fanno risaltare ancora di più il centesimo pagato allo stato per ogni mille litri di acqua consumata.

Lavoro e indotto

Tra gli 8.300 abitanti di Nogara, in pochi osano mettere in discussione il trattamento di favore nei confronti della multinazionale. “Dobbiamo tenere conto che questa è un’azienda che offre lavoro e indotto”, dice il sindaco Flavio Pasini, della Lega. Il colosso di Atlanta è arrivato qui nel 1975 e negli ultimi dieci anni ha investito cento milioni di euro nei 146mila metri quadrati dello stabilimento veneto, il più grande del sud dell’Europa. Ci lavorano 427 persone assunte dalla Coca-Cola, soprattutto impiegati, mentre la maggior parte degli operai dipende dalle aziende e cooperative in appalto. I lavoratori sono in totale 2.244, ai quali se ne aggiungono altri 5.200 dell’indotto. Se dovesse chiudere, si stima che in Veneto la disoccupazione aumenterebbe dell’1,7 per cento.

Secondo uno studio della School of management dell’università Bocconi di Milano, la multinazionale ogni anno distribuisce in Veneto stipendi per 22,5 milioni di euro, appalti alle imprese fornitrici o collegate per 77,8 milioni e paga 400 milioni di tasse, in buona sostanza i contributi versati per i lavoratori dipendenti, visto che quando si acquista una bottiglietta “prodotta a Nogara” i proventi prendono la strada dei paradisi fiscali in cui il gruppo ha le sue sedi: da quella principale nel Delaware, alle Isole Cayman, all’Irlanda, al Lussemburgo, ai Paesi Bassi e a Singapore.

La Coca-Cola Italia Hbc finanzia le giornate ecologiche e la cura dei parchi nel paese del veronese. Ha sponsorizzato il premio letterario Campiello a Venezia, ha finanziato un progetto della Fondazione Arena di Verona per ricostruire 67 colonne della cinta muraria esterna crollate nel 1117 e ha sostenuto iniziative come “Learn your job” dei Giovani imprenditori di Confindustria, con corsi negli ultimi tre anni nelle scuole superiori per dare consigli agli studenti nel passaggio dalla scuola al mondo del lavoro. “Grazie allo stabilimento di Nogara e al lavoro quotidiano degli oltre 400 colleghi responsabili di garantire qualità alla Coca-Cola made in Veneto, abbiamo costruito un solido legame con la regione”, ha detto alle agenzie di stampa il direttore della comunicazione di Coca-Cola Italia Hbc Giangiacomo Pierini.

La multinazionale si mostra molto attenta pure agli aspetti ambientali. Ha investito sei milioni di euro per sostituire gli imballaggi di plastica con altrettanti di carta e produce bottiglie con tappi di plastica che non si staccano, per evitare che finiscano dispersi e non siano riciclati. Gli attivisti climatici sostengono che si tratta solo di greenwashing per mascherare lo sfruttamento a costo zero dei beni comuni e il trattamento di favore da parte delle istituzioni locali. La mattina del 9 luglio, mentre provavano a forzare lo sbarramento di polizia davanti ai cancelli dello stabilimento di Nogara, sulle loro teste un pannello elettronico segnava la quantità di CO2 risparmiata dalla fabbrica dall’inizio dell’anno: 1.196 tonnellate “grazie ai pannelli fotovoltaici” installati nella fabbrica e altre 9.222 tonnellate “grazie all’impianto di cogenerazione”.

La fabbrica produce il 100 per cento dell’anidride carbonica che utilizza nei 735 milioni di litri di bevande gassate imbottigliate ogni anno nell’impianto, dalla Coca-Cola alla Fanta, alla Sprite. Per questo non è stata toccata dalla riduzione delle forniture causata dagli aumenti del prezzo del metano dopo l’invasione russa dell’Ucraina, che ha reso l’anidride carbonica “introvabile”, come hanno denunciato alcuni produttori di bibite. L’Acqua Sant’Anna di Vinadio, in provincia di Cuneo, è stata costretta a fermare le proprie linee produttive. Invece la Coca-Cola, oltre che sull’acqua, risparmia anche sulle bollicine.

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giovedì 27 aprile 2023

brutto ambiente a Gaza

 

Territori occupati, quell’apartheid che distrugge l’ambiente -Violetta Silvestri

 

Nel frastuono mediatico che ha accompagnato la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26) di Glasgow, nel novembre scorso, l’intervento del primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese non verrà forse ricordato dalla cronaca. Eppure, nel breve discorso di appena qualche minuto di Mohammad Shtayyeh, si sono palesati dettagli tutt’altro che trascurabili sull’azione israeliana nei territori occupati di Cisgiordania e Gaza e che riguardano la distruzione ambientale.

Le parole del premier palestinese sono state dure, a testimonianza di una pace assai difficile per quello che è uno dei conflitti più lunghi, complessi e drammatici della storia. Gli occupanti israeliani rappresentano, a suo dire, “la minaccia più critica a lungo termine per l’ambiente palestinese.” Basta osservare una mappa della Palestina moderna, secondo Shtayyeh, per rendersi conto di come “l’ambiente viene sistematicamente distrutto. Dal 1967, Israele ha sradicato circa 2,5 milioni di alberi, inclusi 800.000 ulivi“.

Un esempio che, in realtà, apre una riflessione molto più ampia sulle conseguenze che la strategia israeliana degli insediamenti e del controllo sui territori palestinesi sta provocando in termini di sostenibilità ambientale, accesso alle risorse, inquinamento, distruzione dell’ecosistema.

Nel 2015 le Nazioni Unite avevano lanciato un allarmela Striscia di Gaza potrebbe diventare “inabitabile” entro il 2020. Tra le cause veniva menzionata la grave crisi dell’accesso all’acqua, con falde acquifere per lo più non potabili e in esaurimento. All’inizio del 2022, quello della mancanza della risorsa idrica resta una delle emergenze non risolte, legata soprattutto agli effetti della politica israeliana sull’ambiente e sull’accaparramento delle risorse che spetterebbero alla popolazione palestinese.

La questione ha radici profonde. Dal 1967, Israele controlla di fatto tutti gli accessi alle fonti d’acqua nella Cisgiordania occupata e la firma degli accordi di Oslo II nel 1995 ha riaffermato lo status quo dell’epoca. Ventisei anni dopo, la situazione sul campo per molti villaggi è peggiorata. Attualmente, circa l’87% dell’acqua di falda della Cisgiordania viene assegnata agli israeliani e il 13% ai palestinesi. Inoltre, Tel Aviv proibisce agli abitanti arabi di accedere al fiume Giordano per usufruire della risorsa idrica necessaria alla vita quotidiana. Non solo, qualsiasi proposta di costruire infrastrutture idriche o pozzi deve essere approvata dalle autorità israeliane, che raramente danno il via libera ai progetti palestinesi.

Le denunce di Amnesty International sono state esplicite su questo tema e hanno sottolineato come la compagnia idrica statale israeliana Mekorot abbia sistematicamente scavato pozzi e sfruttato sorgenti nella Cisgiordania occupata per rifornire di acqua la sua popolazione, compresi i cittadini che vivono in insediamenti illegali, per scopi domestici, agricoli e industriali. Inoltre, le autorità israeliane negano o limitano l’accesso all’acqua della Cisgiordania in quei territori da loro stessi denominati “aree militari chiuse”. I palestinesi non possono entrarvi, perché sono vicine agli insediamenti e alle strade utilizzate dai coloni e dai militari israeliani.

Nella Striscia di Gaza sta avvenendo una crisi idrico-ambientale ancora peggiore. Secondo l’ONU e gli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, il 97% dell’acqua nel territorio “non è adatta al consumo umano”, perché inquinata e non trattata come dovrebbe con impianti di desalinizzazione. In più, i danni causati dalle operazioni militari israeliane pesano sulla scarsità della risorsa pulita. Nel maggio 2021, per esempio, le aggressioni dell’esercito di Tel Aviv a Gaza hanno distrutto o reso inutilizzabili le infrastrutture idriche e i tubi che servono almeno 800.000 persone.

Il tutto sta avvenendo in un’area del mondo arida e a rischio elevato per l’effetto dei cambiamenti climatici. Il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha dichiarato, in un suo documento ufficiale del maggio 2020, che il l territorio palestinese occupato si trova all’interno di una regione generalmente calda, arida e povera d’acqua che ha registrato un aumento delle temperature negli ultimi cinquant’anni. Le proiezioni climatiche indicano che entro la metà del secolo ci saranno tra 1,2° e 2,6°C in più.

Questo cambiamento modifica il ciclo dell’acqua, alterando i modelli e le stagioni delle precipitazioni: le piogge medie mensili potrebbero diminuire di 8-10 mm entro la fine del secolo, portando a una maggiore aridità. Si prevede che i rischi legati al clima, come ondate di calore, siccità, inondazioni, cicloni e tempeste di sabbia e polvere, diventeranno più frequenti e gravi.

La falda acquifera costiera, la principale fonte di acqua dolce sotterranea di Gaza, è sempre più a rischio a causa dell’innalzamento del livello del mare. Molto prima che l’acqua salata raggiunga la terraferma, perforerà la lente d’acqua dolce e la renderà salmastra e dunque non potabile. La mancanza di accesso a un’elettricità affidabile rende la desalinizzazione un processo costoso e ad alta intensità energetica, quasi impossibile.

Il rapporto 2019 del Relatore Speciale ONU sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati ha evidenziato che la crisi idrica sta creando un grave pericolo per la salute pubblica degli abitanti. La mancanza di un’alimentazione elettrica sicura – a causa di una centrale danneggiata dalla guerra e una cronica mancanza di carburante per far funzionare ciò che rimane dell’impianto – ha fatto sì che il sistema di trattamento dei rifiuti di Gaza funzioni male, quando riesce a essere attivato. Ciò si traduce nello scarico giornaliero nel Mar Mediterraneo di 110.000 metri cubi di rifiuti parzialmente o interamente non trattati. I liquami grezzi vengono raccolti in lagune instabili e pozze di rifiuti, che spesso si riversano nel sottosuolo e nella falda acquifera. Tutto ciò ha portato a livelli molto elevati di nitrati, sostanze chimiche e cloro nelle acque di Gaza, che contribuiscono alla minaccia di malattie trasmesse dall’acqua.

Tale disperata situazione è spesso legata anche al blocco di merci in entrata e in uscita nella Striscia imposto da Tel Aviv e da Il Cairo. Come affermato da B’tselem, centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, questo impedimento del commercio verso Gaza ha fortemente limitato la reperibilità di materiali da costruzione che servono per i sistemi idrici, sanitari e di trattamento dei rifiuti.

Ad aggravare il problema ci sono anche i frequenti attacchi aerei e i bombardamenti su Gaza da parte di Israele, che diffondono inquinanti nocivi nell’ambiente, come uranio impoverito, fosforo bianco, tungsteno e mercurio, ponendo gravi rischi per la salute della popolazione.

Negli ultimi anni, inoltre, sono state documentate altre pratiche di aggressione ambientale e umanitaria. Israele ha spruzzato erbicidi dannosi sui raccolti palestinesi vicino al confine di Gaza, con il ministero della Difesa che ha giustificato l’azione per “ragioni di sicurezza”. Non si è trattato di singoli episodi, ma di una pratica strategica per allontanare i palestinesi da quei terreni.

Nel 2019, Forensic Architecture ha pubblicato un’indagine intitolata Herbicidal Warfare in Gaza, mostrando che dal 2014 lo sgombero e l’abbattimento di terreni agricoli e residenziali da parte dell’esercito israeliano vicino al confine orientale di Gaza è stato integrato dall’irrorazione aerea di erbicidi che uccidono le colture. La combinazione letale spesso era formata da Glifosato, Oxyfluorfen (Oxygal) e Diuron (Diurex), componenti chimici classificati dall’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’OMS come probabilmente cancerogeni per l’uomo.

Come denunciato dal primo ministro dell’Autorità nazionale palestinese nella cornice della COP26, inoltre, non è raro che i coloni israeliani, generalmente sostenuti dalle forze di difesa della loro nazione, sradichino, brucino e distruggano migliaia di uliveti coltivati ​​da agricoltori palestinesi.

Si dice che Israele dal 1967 abbia forzatamente strappato dal terreno più di 800.000 ulivi in ​​Cisgiordania, molti dei quali antichi. Tra il 2010 e il 2020, circa 101.988 ulivi sono stati distrutti, secondo Nazeh Fkhaida, direttore del dipartimento di documentazione dei danni agricoli palestinesi. La stessa ONU ha denunciato lo sgombero selvaggio di terreni da parte di Israele per costruire basi militari, zone cuscinetto, strade di raccordo (che sono generalmente inaccessibili ai palestinesi).

Lo stravolgimento del paesaggio è in corso anche a causa del cosiddetto sistema delle tangenziali. Israele ha costruito una vasta rete di queste strade, comprese altre infrastrutture che servono solo i suoi coloni negli insediamenti dei territori palestinesi. In particolare, quando quest’ultimi asfaltano le proprie strade, Israele le demolisce. Qualsiasi edificio o albero entro 75 metri da queste tangenziali viene distrutto con i bulldozer e dichiarato zona militare chiusa. Sono migliaia i metri quadrati in Cisgiordania ricoperti di asfalto con strade di sicurezza, che circondano le case dei coloni senza alcun scopo civile se non quello, proclamato da Tel Aviv, di proteggere i suoi cittadini. In questo nodo, Israele confisca terra generalmente usata dai palestinesi per l’agricoltura, il pascolo, la vita quotidiana.

Uno studio dell’istituto di ricerca Arijmenzionato dalla giornalista di Haaretz Amira Haas, ha inoltre evidenziato che ogni anno i posti di blocco e le deviazioni stradali imposte ai palestinesi in Cisgiordania provocano lo spreco di 80 milioni di litri di carburante. In termini di inquinamento dell’aria significa 196.000 tonnellate di anidride carbonica in più all’anno.

Questa desolante situazione che non accenna a migliorare, è stata definita come un apartheid ecologico dallo studioso Ashley Dawson, del dipartimento di scienze umane ambientali presso la City University di New York, nel suo libro del 2017 “Extreme Cities“. Con questa espressione si intende “l’inasprimento dei confini e le restrizioni ai movimenti di coloro che sono colpiti da disagi ambientali e sociali”, come sta accadendo ai palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

Più esplicito è stato il Relatore Speciale delle Nazioni Unite Michael Lynk:

Per quasi cinque milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione, il degrado delle loro riserve idriche, lo sfruttamento delle loro risorse naturali e la deturpazione del loro ambiente, sono sintomatici della mancanza di qualsiasi controllo significativo che hanno sulla loro vita quotidiana.

Parole inascolatate, come spesso avviene dinanzi alle gravi ingiustizie nel conflitto israelo-palestinese.

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Gaza: la sistematica distruzione ambientale ad opera di Israele

Un ambientalista palestinese ha fornito delucidazioni sulla distruzione sistematica dell’ambiente della Striscia di Gaza da parte israeliana, attraverso la deviazione dei rifiuti verso la Valle di Gaza e nelle aree circostanti.

Iyad al-Qatrawi, membro dell’Autorità per la qualità ambientale con sede in Cisgiordania, ha raccontato in un’intervista a Press Tv: “Israele ha aperto una discarica ad est della Valle di Gaza, e questa è motivo di disastri ambientali”.

E infatti, decine di abitazioni palestinesi a Gaza sono sommerse da rifiuti non trattati proprio in seguito all’apertura della discarica da parte israeliana ad est del territoro palestinese assediato.

“Le acque reflue circondano le nostre case….raggiungono le nostre fabbriche…e hanno contaminato e distrutto ogni cosa. Il personale per il soccorso fa il proprio meglio e, tuttavia, non si dispone di attrezzature adeguate per gestire il problema nella sua portata”, ha commentato un residente di Gaza.

Non solo Israele è dietro questi problemi ambientali, ma il suo regime è lo stesso che nega a oltre 1,5milione di palestinesi di Gaza i diritti fondamentali; libertà di movimento e il diritto a vivere in condizioni dignitose, quello al lavoro, alla salute e all’istruzione.

“E’ un’altra forma di aggressione israeliana contro la gente di Gaza. Gli israeliani tenatano in tal modo di costringerci a lasciare le nostre case. Siamo sotto assedio israeliano da anni ormai. E’ tempo che la comunità internazionale faccia qualcosa a sostegno del popolo palestinese”, ha aggiunto un altro residente della Striscia di Gaza.

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mercoledì 26 aprile 2023

L’incubo dell’ossessione securitaria - Raúl Zibechi

Fino ad ora i campi di concentramento, cioè i campi di sterminio, sono stati associati al regime nazista o alle dittature latinoamericane. Ora il Centro de Confinamiento del Terrorismo, costruito a 70 chilometri da San Salvador, capitale dello Stato di El Salvador, in una zona rurale isolata, nasce in quella che potrebbe essere considerata una democrazia in America Latina.

Lo spazio recintato è un orrore. È costruito su 23 ettari, ha otto padiglioni che sono circondati da un muro di cemento alto 11 metri e lungo due chilometri ed è protetto da filo spinato elettrificato. I detenuti non hanno spazi all’aria aperta o aree ricreative e ciascuna delle 32 celle ospiterà un centinaio di detenuti che avranno a disposizione per tutti solo due bagni e due lavandini.

I detenuti dormono su lastre di ferro senza materasso, ci sono anche celle di punizione e un sistema che blocca i cellulari, in un carcere che può contenere fino a 40mila reclusi. I familiari devono pagare il cibo e i prodotti per l’igiene dei detenuti. Tutto questo è possibile grazie al regime di emergenza decretato un anno fa dal governo di Nayib Bukele.

Trasferendo i primi 2mila detenuti nella nuova prigione, il presidente ha condiviso con orgoglio queste immagini, twittando: “Questa sarà la vostra nuova casa, dove vivrete per decenni”. Mentre il ministro della Giustizia e della Sicurezza ha scritto: “Sappiate che non ne uscirete camminando”.

I video e le foto mostrano i prigionieri nudi e scalzi, con biancheria intima bianca come unico indumento. Camminano sempre curvi e guardano per terra, il che dimostra che non si intende solo umiliarli e distruggerli come persone, con un’attitudine che è non è certo di giustizia per i crimini che hanno commesso, ma esercitare pura vendetta.

 

Il fatto che alcune organizzazioni per i diritti umani e l’Università centroamericana abbiano criticato questa prigione e il modo in cui vengono trattati i detenuti non può nascondere il fatto che l’80% della popolazione sostiene il regime carcerario di Bukele, che fino a qualche anno fa era un membro del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (il FMLN, forza politica di sinistra, nata come opposizione guerrigliera alla dittatura militare nella guerra “civile” cominciata dopo l’assassinio sull’altare di Monsignor Romero nel marzo del 1980, ndt), da cui si è separato durante la sua gestione come sindaco di San Salvador. Bukele conta ora anche su un’ampia maggioranza parlamentare che non gli impone alcuna limitazione.

Le maras o pandillas non sono nate in El Salvador o in Guatemala ma a Los Angeles, Stati Uniti, nel processo di smobilitazione delle guerriglie e dei gruppi paramilitari nei primi anni Novanta. Molti dei loro membri sono stati deportati in El Salvador, dove hanno continuato la loro attività criminale.

La prigione istituita da Bukele ha una sospetta somiglianza con quella di Guantánamo, dove Washington ospita i terroristi, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Siamo di fronte a un tipo di dispositivo che ha molto in comune con Auschwitz e altri campi di concentramento: mirano a distruggere la persona, lasciandola come un corpo biologico spogliato di ogni umanità, quel che il filosofo Giorgio Agamben ha chiamato “nuda vita”, un’esistenza privata di ogni qualità umana.

Naturalmente, quello di Bukele non è l’unico carcere di questo tipo, anche se è il più moderno, di massa e tecnologicamente avanzato che si conosca. Ci sono anche prigioni a cielo aperto dove vengono rinchiuse centinaia di migliaia di persone, una delle più note situazioni di questo tipo è quella della Striscia di Gaza, dove gli abitanti non hanno accesso all’acqua, oppure sono costretti a berla sporca e contaminata, e sono militarmente accerchiati dall’esercito israeliano.

 

In America Latina conosciamo anche le “zone di sacrificio” dell’estrattivismo, aree in cui le miniere a cielo aperto o le monocolture transgeniche minacciano la vita con muri invisibili, eretti con glifosato e mercurio. Possiamo aggiungere, infine, la situazione dei Mapuche e delle altre comunità originarie che sono materialmente e simbolicamente isolate dal sistema. Si potrebbe continuare ancora, con le non poche periferie urbane circondate da muri che separano i quartieri poveri dalle lussuose residenze private.

Oggi il sistema è basato su un modello di accumulazione per espropriazione che genera enormi disuguaglianze. È un modello di esclusioni, che lascia fuori due terzi o più della popolazione e in cui i giovani non hanno futuro, specie se hanno un colore della pelle diverso da quello delle classi medio-alte. Fanno parte tutti della “popolazione eccedente” , quella che secondo Agamben può essere uccisa senza che questo costituisca un delitto.

 

La versione in castigliano dell’articolo che ci invia Zibechi è uscita su Pelota de Trapo

Traduzione per Comune-info: marco calabria

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lunedì 24 aprile 2023

Julia Ituma. La fragilità e il silenzio - Roberto Bertoni Bernardi

  

Non sappiamo come siano andate le cose e neanche c’interessa saperlo, almeno in questo momento. Attendiamo l’evoluzione delle indagini e che ogni tassello della vicenda vada al suo posto. Non ci azzardano a compiere ricostruzioni affrettate e, meno che mai, ci lasciamo andare a giudizi impropri e irrispettosi. La tragedia di Julia Ituma, la giovanissima pallavolista della Igor Novara che se n’è andata qualche giorno fa, precipitando dal sesto piano dell’albergo in cui soggiornava con la squadra a Istanbul, ci ha lasciato senza parole. Anche per questo, per qualche giorno, abbiamo preferito rimanere in silenzio.

Abbiamo preferito aspettare, anche perché non sapevamo rispondere ad alcuna domanda, non avevamo chiaro cosa fosse avvenuto e, a dire il vero, non abbiamo certezze nemmeno ora che abbiamo deciso di affrontare l’argomento. La triste realtà è che non sappiamo nulla, tanta è la tragicità di questa vicenda. E allora possiamo fare una sola cosa: immaginare. Immaginiamo la fragilità, il dolore, la sofferenza di questa ragazza e ci guardiamo bene dal giudicarla. Immaginiamo il suo sentirsi piccola pur essendo diventata grande, applaudita, potremmo dire famosa. Immaginiamo il suo tormento interiore e non diciamo altro, proprio perché ogni parola può essere una pietra e noi non abbiamo alcuna intenzione di scagliare massi contro una vita che non c’è più, contro la normalità stravolta della sua famiglia, delle sue amiche e delle sue compagne di squadra. 

Si pensava che Julia potesse essere l’erede di Paola Egonu, ma ormai questa considerazione non ha alcun valore. E anche solo dirlo, anche solo preoccuparcene, anche solo volerla classificare in qualche modo costituisce una mancanza di rispetto. Ciò su cui sarebbe opportuno riflettere, di fronte a questa storia che non consente di giungere ad alcuna conclusione, è invece quanta apparenza, quanta violenza sotterranea, quanta ingiustizia e quanta fragilità ci sianonella nostra società. E chi irride ragazze e ragazzi che chiedono aiuto, chi si scaglia contro la presenza dello psicologo a scuola, chi continua a esaltare un modello di crescita e di sviluppo dissennato, chi non si ferma davanti a niente e a nessuno, chi punta il dito contro le denunce di questa generazione, sottoposta a uno stress senza precedenti, almeno dal dopoguerra, tutte queste persone non meritano la benché minima considerazione. Compiono, infatti, inutili provocazioni che qualificano chi se ne rende protagonista. 

 

Tornando a Julia, noi non possiamo fare altro che inchinarci di fronte alla sua storia, manifestare solidarietà e affetto ai suoi cari e augurarci di non dover mai più scrivere un articolo del genere. Ci auguriamo che lo sport possa essere un antidoto alla debolezza e al senso di frustrazione e di sconfitta che pervade tanti, troppi ragazzi e ragazze. Speriamo che l’agonismo non prevalga mai sulla dignità umana e sul doveroso rispetto per il prossimo. E ci affidiamo al silenzio, alle lacrime, alla dolcezza, alla comprensione e alla totale sospensione di ogni giudizio. Non spetta a noi, non ne abbiamo alcun titolo e, sinceramente, per quanto ci interessi sapere come siano andate effettivamente le cose, crediamo che in questo caso anche parlare di verità sia un po’ forzato.

L’unica verità è che abbiamo perso una ragazza splendida, prim’ancora che una campionessa: forse perché non abbiamo saputo ascoltarla, capirla, starle vicini quando ne avrebbe avuto bisogno. Ci siamo fermati in superficie, come troppo spesso ci accade, in questa società in cui non c’è alcuna attenzione nei confronti degli ultimi, di chi rimane indietro, dello strazio e della sofferenza altrui. Abbiamo costruito un paradigma per cui un atleta, maschio o femmina che sia, non può permettersi di avere dei cedimenti. Non lo accettiamo, lo riteniamo indegno. Abbiamo smesso di porre l’essere umano di fronte al fuoriclasse. Abbiamo introiettato un’idea robotica delle persone e continuiamo a riempirci la bocca di termini come “competizione” e “merito”. Poi accade l’irreparabile e ci scopriamo nudi, senza tuttavia rinunciare a dire la nostra, a sparare il titolo a effetto in prima pagina, a pubblicare il commento pensoso e fuori luogo. 

Cara Julia, noi di parole crediamo di averne spese fin troppe. Possiamo solo salutarti con un commosso addio.

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sabato 22 aprile 2023

Anche Tupperware in odore di chiusura: pure in questo caso, la storia insegna - Sergio Noto

 

Ormai siamo assuefatti. Diciamo la verità: in generale l’economia, il business, il mercato non stanno funzionando come dovrebbero. I grandi profitti di pochi, rispetto alla perdita del potere d’acquisto dei moltissimi, sono un indice estremamente negativo della salute dell’economia mondiale. Se questa tendenza proseguisse, vorrebbe dire che siamo di fronte a una metastasi dei tradizionali sistemi economici, certamente basati sul capitale e sulla libera concorrenza, ma fondati soprattutto sulla continua crescita economica delle moltitudini. Invece, le aziende aprono e chiudono, seguendo l’andamento dei benefit di breve dei manager; vanno e vengono dietro agli scarsi, risucchiati dividendi degli azionisti. E così basta un refolo d’aria per cancellare un’azienda che fa pochi profitti e investe pochissimo; dove il poco che cola – finché dura – è destinato solo a retribuire i vertici, e si licenzia, si licenzia fino a scomparire.

Questo è anche il caso di un’altra azienda storica, Tupperware, in questi giorni afflitta da gravissimi e apparentemente insolubili problemi di liquidità, in odore di chiusura, una delle tante che quasi non ci facciamo più caso.

Al solito, quando un’azienda scompare, il danno maggiore non è la perdita dei posti di lavoro, non sono i capannoni abbandonati, gli uffici deserti o il patrimonio distrutto. Anche per noi che pure non siamo appassionati delle riunioni salottiere con te e pasticcini, ci dispiace sapere che Tupperware cesserà di organizzarne; ci dispiace e molto, non per i colorati contenitori in polipropilene, ma per uno stile, per una cultura aziendale che se ne va per sempre. Piangiamo la dissoluzione di un patrimonio immateriale che si era creato nei decenni, quella cultura d’impresa, il know-how aziendale, come dicono coloro che non sanno come si esprimeva il grande banchiere Raffaele Mattioli.

Tupperware era un’azienda diversa e aveva fatto proprio della sua diversità la cifra imprenditoriale che l’aveva portata al successo. La tecnologia da sola, infatti, non basta per creare ricchezza, per far crescere le imprese e l’intera società. Tupperware non aveva vinto, non aveva avuto successo grazie all’idea del “tappo a stappo”, con i famosi contenitori. Tupperware si era imposta al mondo nel momento in cui aveva compreso che per vendere certi prodotti bisognava spiegarne con cura le modalità di utilizzo, i vantaggi, e questo era possibile solo con dimostrazioni pratiche, contatti diretti e accurati, rapporti personali. Poi le cose sono cambiate, le imitazioni si sono moltiplicate, Tupperware ha dovuto cambiare pelle, e anche se i prodotti sono rimasti sempre fedeli alle promesse, l’effetto novità è finito. Tupperware ha dovuto diversificare, assomigliare agli altri, rincorrere la concorrenza, la spinta dell’innovazione iniziale è andata esaurendosi.

La storia anche in questo caso insegna. Primo, che le aziende veramente nascono e muoiono, spesso scompaiono del tutto. Ma, al contrario degli uomini, anche su questa terra, hanno poche possibilità di risorgere. E l’aldilà non è nemmeno una speranza per chi fa business, bisogna accontentarsi dei limiti materiali dell’uomo, della nascita e della morte, di una vita soltanto. Fino a che punto ci si può quindi spingere per qualcosa che prima o poi si dissolverà nel nulla? Vale la pena per il “bene”, la sopravvivenza di un’azienda, distruggere la natura, addirittura portare donne e uomini a morire per allungare la vita di organismi che in ogni caso saranno destinati a scomparire? La contabilità dei profitti davanti al saldo dell’esistenza umana è spietata e potrebbe sconsigliare certi appetiti eccessivi.

Seconda e ultima riflessione. La tecnologia da sola non basta per fare business. Prima di tutto ci vuole la virtù imprenditoriale. Non necessariamente un bravo pizzaiolo riuscirà a creare una pizzeria di successo. L’uomo (e la donna, speriamo) restano al centro del successo del business, nel rispetto delle leggi di natura e dell’umanità che li circonda. Tutto il resto conta poco. Arriverderci Tupperware.

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venerdì 21 aprile 2023

Land grabbing di casa nostra - Stefano Deliperi, Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

 

Il fenomeno crescente del land grabbing – l’accaparramento di terreni a uso agricolo, pascolativo o boschivo – viene generalmente collocato nell’Africa sub sahariana, in Asia, nell’America Latina e riguarda la pratica di acquisire in proprietà, in affitto o in concessione vaste estensioni di territorio da parte di società di capitali, governi o anche singoli imprenditori con la finalità di destinarli a un utilizzo esclusivo a fini produttivi.

Non vi sono molti dubbi sul fatto che ponga in pericolo la tutela degli interessi nazionali dei vari Paesi alla sovranità e alla sicurezza nel campo dell’approvvigionamento alimentare, in quanto le popolazioni locali perdono il controllo delle risorse naturali del proprio territorio, in particolare i terreni agricoli e boschivi, nonché l’acqua.

Il land grabbing è giustamente fortemente criticato e avversato in campo economico e sociale.

Memorabile la trasmissione “Corsa alla terra” di Report (18 dicembre 2011) con cui Milena Gabanelli, allora conduttrice, fece conoscere il fenomeno agli Italiani.   

Ma tante sacrosante contestazioni avverso il land grabbing nei Paesi del Terzo Mondo e un assordante silenzio su quanto sta accadendo in Italia, dove ampie zone stanno ormai perdendo le loro caratteristiche naturalistiche, agricole, storico-culturali, la stessa identità, ad opera dell’accaparramento dei terreni per l’installazione di centrali eoliche e fotovoltaiche da parte di società energetiche.

Altrettanto memorabile la puntata di Report I Fossilizzati (17 aprile 2016) si era trasformata in uno spot del servizio pubblico per i progetti di centrali solari termodinamiche del Gruppo Angelantoni da realizzarsi nelle campagne sarde piuttosto che nelle estese aree industriali dismesse, dove il sole batte ugualmente: espropri e calci in culo agli indigeni, insomma land grabbing di casa nostra, senza che ciò meritasse un minimo cenno.

No, queste cose non si devono raccontare agli Italiani, perché deve imperare la vulgata in favore della speculazione energetica.

Eppure avviene da tempo anche in Europa, anche in Italia.

Decine e decine di migliaia di ettari di terreni agricoli, pascoli, boschi spazzati via, paesaggi storici degradati, aziende agricole sfrattate, questo sta diventando il panorama in larghe parti della Sardegnain Puglianella Tusciain Sicilia.

Fanno sorridere le dichiarazioni in favore di una moratoria relativa a ulteriori centrali eoliche e fotovoltaiche nel territorio regionale del nuovo Presidente della Regione Lazio Francesco Rocca, mentre la stessa Regione Lazio approva l’ennesima centrale fotovoltaica nella Tuscia, a Tarquinia. Altri 6 ettari e mezzo di terreno agricolo mangiati.

E sono più di 7 mila gli ettari fatti fuori dalla speculazione energetica negli ultimi anni in un territorio che negli ultimi anni è sempre stato ai non invidiabili vertici nazionali per il consumo del suolo per abitante (rapporto ISPRA sul consumo del suolo 2019), 1,91 metri quadri per residente rispetto alla media regionale di 0,47 e nazionale di 0,80.

Consumo del suolo che va in direzione opposta agli obiettivi tanto decantati della transizione ecologica.

Consumo del suolo che nemmeno risolve i problemi di un fabbisogno energetico neppure adeguatamente verificato.

Land grabbing di casa nostra.

Forze politiche, intellettuali, gran parte dell’informazione, una bella fetta dello stesso mondo ambientalista ormai adepto senza se e senza ma della divinità eolica e fotovoltaica se ne fregano completamente.

Parlare di land grabbing in Marmilla non è cool.

Il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) ha fatto, fa e farà la sua parte contro questo strisciante furto di natura, di suolo, di storia e cultura, di identità, di Terra ai danni di troppe collettività locali del nostro Bel Paese.

Poco, ma sicuro.

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giovedì 20 aprile 2023

povera orsa

 

Mi chiamo orsa e sono solo un animale - Alessandro Ghebreigziabiher

 

Mi chiamo orsa, o almeno è quel che c’era scritto una volta nei libri di scuola o nelle favole, e sono un animale.
Così era un tempo, ma oggi il mio nome è 
Jj4 e affermano che sono colpevole di un’aggressione mortale.
Dicono che ho ucciso un essere umano, un giovane di 26 anni.
Non posso dire che comprendo fino in fondo la gravità di ciò che ho fatto, ma capisco la sofferenza anche se non sono umana.
Il dolore dei tuoi cari, di chi ti ha messo al mondo  o di chi soltanto ti vuol bene. Questo è un fatto dell’esistere comune a tutti noi viventi, credo. Spero.
Dicono anche altro su di me.
In molti 
discutono, altri argomentano, e sommariamente condannano anche, taluni.
C’è pure chi mi odia e 
vorrebbe la mia morte. So che la chiamate in tanti modi, tra cui vendettariparazione e perfino giustizia, come se fosse un’ineludibile necessità per il bene della collettività.
Capisco poco di tutto ciò, lo ammetto.
Perché mi chiamo orsa, o perlomeno così era una volta, e orsa è ciò che sono ancora oggi.
Per tale ragione, guardo le cose dal mio punto di vista come voi le osservate e valutate dal vostro.
Banalmente, il punto di vista di un animale.
Il punto di vista di un animale su un pianeta dove ogni anno vengono macellati 
150 miliardi di noi.
In quello stesso anno, nella nazione che ci ospita tutti, si parla tra gli altri di 5 milioni di uccelli 
trucidati illegalmente, di un milione e mezzo di animali selvatici ammazzati dalle vostre auto sfreccianti sulle strade e dello sterminio di 300.000 cinghiali, altra specie da voi pubblicamente disprezzata di questi tempi.
Ciò nonostante, anche se non capisco il senso neppure di questo, io non vi odio, e credo di poter parlare a nome di tutti gli altri animali di questa terra.
Altrimenti… be’, ve ne rendereste conto non appena uscite di casa.
Perché lo spegnimento della vita altrui con una ragione ben precisa e premeditata, che non siano il procacciamento del cibo o la protezione di se stessi e dei propri figli, è un qualcosa che non riesco neanche a immaginare.
Chiedo scusa di ciò che ho fatto e di quello che non capisco.
Ma che volete farci.
Malgrado i nomi che mi danno sui giornali, io mi chiamo orsa e sono solo un animale…

da qui

 

 

in difesa dell’orso espiatorio – bortocal

 

un animale è colpevole se ammazza un uomo?

e merita la condanna a morte di coloro che, se potessero, manderebbero alla morte anche gli esseri umani considerati colpevoli?

se un animale domestico ammazza un uomo, metti che sia un rotweiller, la legge dice sempre che vi è qualcosa di colposo negli esseri umani, non condanna l’animale, che è irresponsabile per definizione.

è il padrone dell’animale che doveva vigilare e prendere le precauzioni; non sto accusando la vittima, ma anche la vittima deve evitare comportamenti imprudenti, anche se a volte si diventa vittime anche senza averne fatto nessuno.

sono concetti elementari, ma purtroppo siamo alle prese con una minoranza di deficienti al governo, in grazia di una legge elettorale truffaldina e di un sistema mediatico impazzito che esalta la stupidità come la migliore delle virtù.

ma un orso selvaggio ha qualcuno responsabile per lui?

certamente, ed è per questo che vediamo perfettamente applicato all’orso il meccanismo del capro espiatorio, anche se l’animale è sbagliato e dovrebbe essere un capro, mentre caproni sono quelli che colpevolizzano l’orso.

ma dare la colpa all’orso serve egregiamente a nascondere le colpe degli uomini.

. . .

partiamo da una premessa: gli orsi originari in Trentino sono stati praticamente estinti alla fine del secolo scorso: gli abitanti del luogo non li hanno mai amati, anche se la loro immagine tornava buona ad attirare i turisti, e alla fine sono riusciti a sterminarli tutti, dopo secoli di persecuzioni sistematiche e di caccia, anche abusiva.

a questo punto, per il fine di lucro appena detto, qualche politico locale ha pensato di farne venire qualcuno dalla Slovenia.

erano orsi immigrati, ma andavano bene, come vanno bene a questa stessa gente gli immigrati umani, se tenuti in condizione di clandestinità e di semi-schiavitù.

sembra che in Slovenia questi orsi fossero meno abituati ai contatti umani e dunque rimasti a comportamenti naturali e più aggressivi, mentre i poveri orsi trentini originari avevano sviluppato comportamenti molto più schivi e prudenti, per selezione naturale, prima di morire sterminati.

ma naturalmente, se si reintroducono degli orsi in ambienti che ne erano privi, la prima cosa da fare è una informazione adeguata agli umani che frequentano quei luoghi, perché anche gli umani si sono abituati a vivere in un ambiente senza orsi, e non hanno neppure idea di come comportarsi se ne incontrano uno.

ad esempio, circolare con i cani nei boschi dove ci sono potenzialmente orsi dovrebbe essere severamente proibito; e andate a dirlo ai cacciatori…

ma che cosa volete che pensi un orso, o peggio un’orsa con i piccoli, se vede venirgli incontro un uomo con un cane? è ovvio che si sente in pericolo, no?

. . .

tra gli esempi degli sprovveduti frequentatori mettete me stesso, che nelle mie passeggiate su questi monti, mai mi sono posto il problema di un possibile incontro con una simile bestia.

eppure due anni fa ne fu segnalato uno, un cucciolone, ripreso perfino con una video-trappola, peraltro, a 4 o 5 chilometri da casa mia solamente; non se ne è più sentito parlare, ma a febbraio non sono andato, io, a farmi una camminata in solitaria proprio da quelle parti?

attualmente è segnalata un’orsa con tre piccoli tra Valle Sabbia e Trentino, ma sull’altro versante della valle e a qualche decina di chilometri da qui; ma, come si sa, un orso può fare anche più di 20 km al giorno, spostandosi nei boschi.

ora nessuno ha mai fatto una campagna informativa ed educativa per gli escursionisti né in Trentino, dove gli orsi sono stanziali, né in Valle Sabbia, dove vanno e vengono.

e queste sono le considerazioni minime.

. . .

detto questo, non sono un animalista fanatico; dico soltanto che, se si vogliono gli orsi, occorre pensare che non sono quelli dei cartoni animati.

l’attuale degenerazione del pensiero e dei comportamenti di chi ama gli animali come se fossero esseri umani mi lascia meravigliato, se non facesse parte di una irresistibile tendenza alla perdita della consapevolezza della realtà della natura, che è feroce di suo (rileggersi Leopardi, cribbio!).

quindi, se gli orsi sono diventati troppi (ma davvero?), meglio un orso morto, che un orso rinchiuso a vita in qualche recinto che non fa per lui.

ma l’eventuale soppressione degli orsi in eccesso rispetto alla capacità di un territorio di ospitarli non può essere certo il risultato di una specie di processo sommario e di una condanna a morte di un essere sensibile che non ha regole etiche da seguire.

e per calcolare quale è la giusta misura di animali selvatici che un ambiente può ospitare senza danno, occorre anche prevedere qualche limitazione in più alla presenza umana, almeno in certe aree.

insomma, la natura è tanto degli uomini quanto degli orsi.

e non conta nulla che la bibbia dice il contrario, e afferma che il mondo è stato creato per noi.

a questo punto meglio l’induismo, che vede nell’animale un uomo reincarnato.

ecco, se fossimo induisti, l’idea di condannare a morte un orso ci farebbe semplicemente orrore, e a me lo fa, sappiatelo.

da qui

 

 

Catturata l’orsa JJ4: ora rischia di impazzire al lager del Casteller. La storia si ripete – Marco Ianes

 

E così l’hanno presa, l’orsa JJ4 – e a quanto pare avevano pure preso i cuccioli, che poi hanno rilasciato al loro destino, senza la mamma!

Triste la vicenda, ovviamente, con la morte di un povero giovane, che non ha alcuna colpa, sia chiaro. Ma con questa vicenda si palesano le grandi criticità della gestione del progetto Life Ursus. Un progetto che prevedeva, oltre al ripopolamento degli orsi – che, ricordo, sono sempre esistiti in Trentino, ma all’epoca erano in pochissime unità; ebbene, a parte l’immissione di una decina di esemplari, nel 1999, tutti gli altri attuali sono nati e cresciuti proprio qui in Trentino.

Ma le carenze sono evidenziate dalla mancata attivazione del resto del progetto:

1. Creazione di corridoi faunistici che avrebbero permesso alla popolazione ursina di espandersi su tutto l’arco alpino, riducendo così la densità e di conseguenza la probabilità di incontro con l’uomo;

2. Attivazione di un approfondito sistema di monitoraggio della popolazione ursina, con radiocollari e sistemi di controllo che avrebbero determinato una corretta e approfondita conoscenza di come e dove si muovono gli orsi;

3. Revisione del piano di gestione dei rifiuti, specie quelli organici, con il posizionamento di opportuni bidoni anti-orso per evitare l’avvicinamento degli animali ai centri abitati vicini al bosco;

4. Opportuna campagna informativa per chi va nel bosco, con brochure e cartelli di rilievo per segnalare presenza e modi di comportamento;

5. Programma di formazione nelle scuole, di ogni ordine e grado, per abituare alla convivenza consapevole con l’orso.

Sapete quante di queste cose sono state fatte? Praticamente nulla; ne è testimonianza un video girato proprio in questi giorni, per documentare la situazione gestionale, proprio nel paese della tragedia...

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