martedì 31 dicembre 2019

Il movimento per la liberazione animale in Italia: quali prospettive? – Niccolò Bertuzzi, Marco Reggio



Pubblichiamo l’Introduzione a “Smontare la gabbia. Anticapitalismo e movimento di liberazione animale” (2019, pp. 178), a cura di Niccolò Bertuzzi e Marco Reggio, di recente uscita per Mimesis Edizioni. Ringraziamo gli autori e la casa editrice per aver condiviso questo testo. 
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Sembra retorico e quasi pleonastico ribadire oggi, nel 2019, che un certo interesse per la “questione animale” si sia affacciato alle porte del mondo occidentale e che in molti casi quelle porte le abbia abbondantemente varcate conquistando, per lo meno a tratti, una certa rilevanza nel discorso pubblico, nelle forme di consumo, negli stili di vita e nelle pratiche quotidiane degli individui contemporanei. Le ragioni alla base di questo fenomeno sono diverse, legate a dinamiche sociali il più delle volte esultanti dall’interesse “puro” per gli animali. Ci riferiamo ad alcuni macro-processi discussi da filosofi e sociologi del secolo scorso, a partire da quello di modernizzazione analizzato già da Max Weber e ripreso poi da diversi autori e autrici.
Altrettanto retorico è segnalare il diffuso interesse che differenti discipline accademiche stanno maturando per la questione animale, arricchendo sempre più – alle volte anche a scapito di una minima sistematicità – il fervente campo degli Animal Studies. Una panoramica esaustiva di questa letteratura esula certo dagli obiettivi del testo. Tuttavia, un riferimento al primo corso universitario di Animal Studies in Italia – quello inaugurato nell’anno accademico 2017/2018 all’Università degli Studi di Milano dal professor Gianfranco Mormino – è doveroso, anche perché sintomo di un crescente interesse del mondo accademico (anche italiano, finalmente!) e, al tempo stesso, di una domanda proveniente dalle generazioni più giovani. Ci auguriamo tuttavia che l’istituzione di questa cattedra sia soltanto un punto di partenza, o per lo meno una tappa intermedia che segue al proliferare di tesi di laurea e di dottorato prodotte in anni recenti.
Fatte queste notazioni, il volume che vi apprestate a leggere si colloca in una “zona grigia” fra accademia, sociologia pubblica e attivismo: si propone di uscire dalla “torre d’avorio” universitaria abitata per forza di cose da un pubblico selezionato. Al contempo – lo diciamo da subito e a scanso di equivoci – non intende essere un libro ecumenico e “per tutti i palati”. È un libro che consapevolmente adotta un approccio “situato” – à la Bourdieu – e anche una prospettiva partigiana. Se non si tratta di un’opera per docenti e specialisti, non è nemmeno un’opera di divulgazione massiva, e – ancor più importante – non è un pamphlet o un manifesto.
Una volta puntualizzato di cosa non si tratta, veniamo al compito ben più difficile di spiegare in breve di cosa si tratti. Quello che vogliamo proporre è un punto della situazione, uno stato dell’arte dell’antispecismo italiano (o meglio, di alcune sue aree), dando la parola ad autori e autrici che nella stragrande maggioranza dei casi sono effettivamente attivisti/e, ma che hanno maturato percorsi di elaborazione teorica di elevato spessore intorno alle loro pratiche. In modo particolare, nel libro vengono prese in considerazione alcune “nuove frontiere” o “nuove prospettive” dell’antispecismo (nuove, quantomeno, per l’Italia) o eventualmente alcune declinazioni variamente innovative di elementi già presenti in passato. Non perché curatori e nemmeno autori/autrici dei vari capitoli (ci prendiamo in questo caso la libertà di interpretare l’altrui pensiero) siano fan del “nuovismo” o della “rottamazione”. Senza essere apologetici, riteniamo infatti imprescindibile la riconoscenza e il riferimento nei confronti di chi e di cosa ci ha preceduti, e soprattutto crediamo sia fondamentale uno sguardo critico alle tendenze attuali ancor più che una loro esaltazione rispetto agli “errori” o alle lacune del passato. Proprio per questo motivo il libro si concentra sulle “avanguardie” dell’antispecismo italiano, ma con uno sguardo spesso piuttosto disincantato e anche esplicitamente (auto)critico.
Una delle principali speranze che abbiamo è che la lettura di questo libro si dimostri stimolante e arricchente anche per chi è impegnato/a in altri tipi di attivismo, partecipazione e conflitto, diversi da quelli animalisti. Come anticipavamo, infatti, non vogliamo rivolgerci a chiunque indistintamente. O meglio, vorremmo farlo, ma senza svendere il nostro punto di vista: e cioè quello secondo cui la “questione animale” non va affrontata come questione a sé stante ma come parte di un approccio più generale, sommariamente sintetizzabile come anticapitalista e contro-egemonico. È perciò a nostro avviso fondamentale tessere in maniera sempre più fitta quei legami fra lotte e riflessioni militanti (le famose “intersezioni”) che, nel caso dell’animalismo, continuano da troppo tempo ormai a vivere un percorso carsico fatto di alti e bassi, di momenti in cui sembra che le istanze in favore dei non umani vengano positivamente accolte anche presso altri movimenti sociali alternati a momenti in cui l’ottimismo lascia spazio alla realistica constatazione di un percorso ancora lungo e impervio.
Riteniamo, quindi, che soltanto a partire da un approccio intersezionale sia davvero possibile smontare la gabbia: non più dunque soltanto allargarla (come alcune prospettive solitamente definite riformiste o moderate propongono), ma nemmeno “soltanto” svuotarla (nella linea solitamente perseguita dall’animalismo che viene definito radicale da parte dei media mainstream). Una gabbia vuota, per carità, è un risultato fondamentale. Di più: abdicando alla nostra prospettiva e facendo uno sforzo di “realismo pragmatico”, sappiamo che anche una gabbia più larga non è cosa da poco per chi in quella gabbia è costretto a viverci (spesso soltanto in funzione di morirci). Tuttavia gabbie “soltanto” più larghe o più vuote, ne siamo convinti, ci metterebbero poco a restringersi o riempirsi nuovamente.
Ciò che serve è a nostro avviso un effettivo smontaggio dei meccanismi e dei presupposti che danno vita alle gabbie che tengono prigionieri milioni di animali non umani, ma anche un numero sterminato di umani: ex-coloni, donne, disabili, migranti, individui variamente esulanti dal binarismo cis-gender, solo per citare alcune categorie di sfruttati/e.
L’animalizzazione resta, infatti, uno dei metodi più efficaci di umiliazione e giustificazione dello sfruttamento ai danni degli umani, oltre a rappresentare un fastidioso e scorretto uso di retoriche denigratorie tramite l’uso delle altre specie in modalità decontestualizzata. Si pensi all’uso dell’animale come insulto sessista (“oca”, “gallina”, “cagna”), all’immaginario razzista dell’altro come animale infestante (gli ebrei come “ratti” o i moderni migranti come parassiti e invasori), alla diffamazione dell’avversario politico tramite il ricorso all’identificazione con altre specie (i “maiali”, i “porci”, i “topi di fogna” che costellano le stesse retoriche anticapitaliste). Non una questione meramente linguistica, ma lo specchio di un sistema di dominio generalizzato che, a partire dal linguaggio e fino a forme più tangibili di sfruttamento, costruisce gabbie dentro cui sono imprigionati diversi tipi di soggetti, non solamente animali.
Alla luce di queste riflessioni, riteniamo che sia quanto mai necessario affrontare la “questione animale” dentro a meccanismi che la trascendono, o al massimo la sottendono, ma non coincidono totalmente con essa. Ci riferiamo in sostanza all’imposizione di un sistema economico capitalista e all’affermazione della modernità come trionfo dell’individualismo più secolarizzato e inconsapevole. Solo sapendo individuare lo sfruttamento animale all’interno delle pieghe di questi macro-processi, si può effettivamente sviluppare un discorso di critica antispecista.
Pensiamo che soprattutto alcune nuove prospettive dell’antispecismo siano particolarmente efficaci e promettenti. Prima di darne una breve panoramica e di introdurre la struttura delle sezioni che compongono il libro, preme un’ultima considerazione. Non vorremmo che alcune nostre precedenti osservazioni e il riconoscimento di un crescente interesse per la questione animale fossero interpretate come infatuazioni post-moderniste dei due curatori o come una loro miopia nei confronti di un sistema a ogni effetto tuttora assolutamente e insindacabilmente specista. Siamo consci della posizione svantaggiata che occupano gli animali non umani nella nostra società, e in particolare in un Paese tuttora dominato da tradizioni carnee, lobby della caccia, maratone televisive a supporto della sperimentazione animale, palii, circhi, ecc. Siamo altrettanto consapevoli del fatto che, seppur a vario titolo, vi siano importanti discriminazioni nei confronti degli animalisti/e. In particolare si è parlato di un fenomeno – la vegefobia – che avrebbe caratteristiche simili a omofobia e razzismo. Se fino a qualche tempo fa, in Italia quantomeno, la discriminazione nei confronti di attivisti/e antispecisti/e e vegan era principalmente relegata a una sottovalutazione, derisione e ostracizzazione delle loro istanze (non solo su media e discorso pubblico, ma anche in molti ambienti di movimento), oggi invece l’asticella si è alzata notevolmente: alcuni episodi di violenza fisica esplicitamente rivolti a soggetti vegan hanno avuto luogo, infatti, anche in Italia . Non è certo questo il problema fondamentale – sarebbe evidentemente un approccio antropocentrico – ma anche questo è uno dei tasselli di una gabbia che speriamo questo libro possa contribuire a smontare.
Veniamo dunque, infine, a una presentazione più analitica dei vari capitoli di questo libro. Il testo è suddiviso in tre parti principali, che propongono rispettivamente: uno sguardo sull’attivismo antispecista; una panoramica dei principali temi che stanno affiorando in questi anni; alcuni esempi di pratiche che rivestono un particolare interesse per chi si approccia allo studio dei movimenti animalisti/antispecisti in Italia.
Nella prima sezione, Nicola Righetti affronta da un punto di vista sociologico uno dei nodi principali rispetto all’identità dei movimenti antispecisti, il veganismo. Non un tema nuovo dunque e nemmeno una nuova prospettiva. Le peculiarità assunte negli ultimi anni necessitano tuttavia di un’analisi puntuale. Il veganismo, infatti, è un oggetto centrale per chi osserva – tanto “dall’esterno” quanto “dall’interno” – le lotte per i diritti animali, ma è al tempo stesso un oggetto sfuggente: pratica di consumo, espressione di un’istanza etica o di un posizionamento politico, elemento costitutivo di una comunità piuttosto eterogenea. Tanto da costituire uno degli argomenti al centro del dibattito fra animalisti/e, un dibattito che non di rado sfocia nella polemica aspra. Del resto, lo stile di consumo, e in particolare il modo di cibarsi (con tutte le implicazioni relative alla sfera simbolica, alla convivialità e all’identità culturale), costituisce inevitabilmente la chiave di accesso alla questione animale nel discorso pubblico.
Il rapporto con l’opinione pubblica, tuttavia, risente delle modalità scelte – o, talvolta, subite – dai movimenti animalisti per relazionarsi con l’immaginario collettivo. Come mostra il contributo di Francesca De Matteis e Niccolò Bertuzzi sull’attivismo nell’era delle tecnologie digitali, tali scelte sono tutt’altro che neutre, e, anzi, ci dicono molto sulle visioni del mondo e della politica di chi le compie. Una possibile chiave di lettura della mobilitazione in favore dei non umani è quella di distinguere proprio fra le diverse strategie di comunicazione, mostrando come a diverse tipologie di campagne di protesta o sensibilizzazione corrispondano (anche se non sempre) soggetti diversi e diverse opinioni sui rapporti fra questione animale e altri temi sociali. Lo spettro di possibilità va dall’animalismo “puro”, ove sembra scontato isolare e risolvere il problema dello sfruttamento animale in modo del tutto indipendente da altre istanze, all’antispecismo più consapevole dei legami fra liberazione umana e animale.
A partire da questo argomento “sensibile” prende le mosse il contributo dei due curatori, che chiude la prima sezione. Le diverse visioni dell’animalismo si riflettono anche sulle relazioni con la politica di palazzo e in particolare con le destre o con formazioni populiste, soprattutto in un contesto come quello italiano in cui queste esprimono diverse strategie per canalizzare la sensibilità animalista e tradurla in consenso. La tornata elettorale del 4 marzo 2018 può essere vista come una manifestazione paradigmatica dell’articolazione di discorsi pro-animali “da destra” e della loro capacità di attecchire su un terreno scarsamente preparato dal punto di vista politico/elettorale e sostanzialmente caratterizzato da posture qualunquiste che vedono nella questione animale un tema trasversale. Sulla base di tali considerazioni, il saggio analizza approcci e discorsi di berlusconismo (nella figura soprattutto di Michela Vittoria Brambilla), leghismo, estremismo di destra e Movimento 5 Stelle.
La seconda sezione fa emergere quindi le elaborazioni che, al confine fra teoria e pratica, hanno assunto carattere di novità nel nostro Paese. Si parte dagli allevamenti “etici” o “sostenibili”, tema oggetto di discussione da alcuni anni anche all’estero, dove assume specificità locali (si veda per esempio l’interesse statunitense per il locavorismo e i suoi aspetti critici). Il prezioso lavoro del collettivo “BioViolenza”, che qui racconta sé stesso e gli sviluppi della critica alla cosiddetta “carne felice”, ha permesso di far emergere un ambito di produzione di prodotti e immaginari che vanno dalla carne biologica al mito della vecchia fattoria passando per le normative sul benessere animale. Un lavoro che è stato al tempo stesso teorico – con la traduzione di testi, l’elaborazione di una critica serrata, la produzione di contro-narrazioni – e pratico – con interventi di contestazione pubblici, manifestazioni e azioni di disturbo. Se inizialmente la critica all’allevamento sostenibile poteva essere tacciata di purismo ideologico in quanto interessata a puntare l’attenzione su una nicchia di mercato, col passare del tempo essa ha saputo mostrare l’importanza di comprendere, se non anticipare, le strategie discorsive e pubblicitarie dell’industria dello sfruttamento animale.
Qualche anno dopo, emerge una prospettiva per certi versi maggiormente straniante, quella della resistenza animale, al centro del successivo capitolo. Anche in questo caso, abbiamo dato voce all’omonimo collettivo che ha promosso una discussione sul tema tramite strumenti teorici, ma anche tramite mobilitazioni su singoli casi di animali fuggitivi, e soprattutto tramite un’opera di documentazione costante degli episodi di ribellione negli zoo, nei circhi, nei laboratori, negli allevamenti e nei mattatoi. È stato probabilmente grazie a quest’ultimo punto che oggi esiste un’ampia fetta di attivisti/e, in Italia, che trova del tutto normale mettere in discussione gli atteggiamenti “eroici” dell’animalismo umano con la sua pretesa di prendere parola al posto dei soggetti oppressi.
Una visione non paternalista, peraltro, permette di intraprendere un dialogo con altri movimenti sociali su nuove basi, come suggerito dall’ultimo contributo della sezione, in cui feminoska prende le mosse proprio da Animals without Borders, il libro di Sarat Colling sulla resistenza animale , per discutere i vantaggi e gli aspetti critici di un posizionamento transfemminista queer e decoloniale per le istanze di liberazione animale. La storia recente dei rapporti fra pensiero antispecista e teoria queer fa emergere qui sia le potenzialità sia gli aspetti critici delle alleanze fra movimenti, esortando allo stesso tempo a non dare per scontate le affinità fra le lotte e a ricercare i punti di contatto fra le oppressioni.
Infine, nella terza sezione compaiono i contributi maggiormente “a contatto” con le pratiche. Il tema dell’intersezionalità si riflette nell’esperienza di un gruppo antispecista (Farro&Fuoco) attivo nel movimento No Expo a Milano, un’esperienza commentata da Francesca Gelli con l’intento di fare il punto sull’urgenza – e i problemi – di un attivismo per i non umani che si autodichiara anticapitalista, e che individua nella critica al sistema di produzione attuale e alla distribuzione colonialista delle risorse un nodo centrale per l’evoluzione del discorso pubblico sullo sfruttamento animale. Un nodo che evoca anche le difficoltà di relazione fra due mondi: da una parte, gli ambiti di movimento che – pur nella loro radicalità – si sono formati in un contesto sostanzialmente antropocentrico; dall’altra, l’ambiente antispecista, troppo spesso adagiatosi su una visione del veganismo come stile di consumo perfettamente compatibile con l’attuale assetto neoliberista.
Il secondo contributo della sezione, a firma di Agripunk e Maria Cristina Polzonetti, introduce lettori e lettrici a quella che forse è attualmente la traduzione in prassi più visibile delle istanze di liberazione animale, e cioè i rifugi per animali “da reddito” liberati, che in molti paesi sono già da tempo preziose eterotopie e luoghi di diffusione del pensiero antispecista. Anche in questo caso, però, le cose non sono così semplici come potrebbero sembrare: accogliere animali scampati dallo sfruttamento in un contesto in cui questo stesso sfruttamento è accettato come del tutto normale da vari punti di vista (giuridico, culturale, politico) significa farsi carico in modo molto concreto di contraddizioni forti, cercando di contemperare le esigenze di una visione radicalmente “altra” e quelle della cura dei singoli individui con le proprie storie di sofferenza e resistenza.
Ancora la resistenza animale costituisce, per certi versi, un filo conduttore che conduce a ridiscutere il nostro rapporto – di umani, di cittadini/e, ma anche di attivisti/e – con gli animali apparentemente privilegiati, i cani e i gatti che vivono negli appartamenti. Attraversando il fenomeno del randagismo – quello che è significativamente chiamato “piaga” dagli stessi animalisti – nell’ultimo capitolo di questo libro, Davide Majocchi presenta il percorso che lo ha portato a ideare e discutere in diversi ambienti il docu-film No Pet, a proporre una visione critica del rapporto con gli animali “da compagnia” e a incoraggiare un dibattito sui cani senza padrone che tenga il passo con i progetti emergenti di gestione canina sul territorio. Non si tratta soltanto di riconoscere piena agency anche ai membri di specie apparentemente più fortunate o di denunciare l’esistenza di un ampio settore industriale che lucra su uno sfruttamento meno plateale rispetto a quello dei mattatoi o dei circhi. Si tratta anche di fare i conti con i complessi rapporti fra lo slancio dell’opposizione antispecista allo sfruttamento e la necessità della cura, qui e ora, in un contesto specista.
Tutti i contributi di questo libro restituiscono, speriamo, l’immagine di una complessità ineliminabile, una complessità che necessita, per essere affrontata, di un rapporto costante fra teoria e prassi, fra visione utopica e contatto con le vite concrete e con le dinamiche sociali. In questo senso, non pretendiamo di fornire facili risposte, ma al contrario di moltiplicare le domande. Mentre i movimenti antispecisti vengono spesso ridotti a un generico appello all’“amore per gli animali”, auspichiamo che questa raccolta di testi, insieme ad altre che la seguiranno, riesca al contrario a mostrare la ricchezza di riflessioni, discussioni e pratiche che al suo interno si stanno sviluppando in questi anni, poiché siamo fermamente convinti che soltanto un movimento (auto)critico potrà essere in grado di contrastare l’immane violenza che il sistema di produzione e di governo neoliberista riproduce incessantemente sul piano simbolico e materiale.

lunedì 30 dicembre 2019

Abbracci, maqluba e caffè sospeso - Patrizia Cecconi


L’ho pensato tante volte, ma solo l’articolo di Roberto Del Piano sul numero 39 di Vitamine mi ha dato la spinta a condividere questo accostamento, forse azzardato, tra il caffè sospeso e la maqluba. Sono in pochi a sapere cosa significhi realmente “maqluba”. Anche quelli che conoscono la cucina mediorientale, generalmente, traducendo alla lettera ti dicono: “la rovesciata” perché a caratteristica presentazione di questo cibo vuole che si capovolga la pentola su un piano, ottenendo una sorta di sformato cilindrico composto di tanti ingredienti. Sì, certo, in senso letterale è così. E allora che c’entra il caffè sospeso?
Beh, erano pochi anche quelli che sapevano cosa fosse il caffè sospeso, ovviamente al di fuori della capitale partenopea che ne era la culla. Poi, una decina di anni fa, ci pensò  Luciano De Crescenzo a farlo conoscere, usando la locuzione “caffè sospeso” come titolo di un suo libro. Dopo di che il caffè sospeso, preso nel suo aspetto di solidarietà umana,  ha cominciato ad essere fonte di ispirazione per piccole buone azioni ideate cambiandone il sostantivo e mantenendone l’aggettivo.
Ma il caffè sospeso napoletano è unico e non si limita ad essere la buona azione di un animo gentile che, comunque, sarebbe già una bella cosa tanto che Roberto Del Piano propone di portarne l’uso a Lodi, cittadina lombarda che, dice, «di umanità, amore, compassione e comprensione ha davvero un grande bisogno». Vediamo, allora, dov’è quest’origine comune tra la maqluba e il caffè sospeso. Per scoprirla bisogna andare un po’ a fondo, non sulle usanze in sé, ma sulla cultura umana piuttosto simile che è dietro entrambe.
L’una, quella napoletana, per chi non conosce il carattere partenopeo, è facilmente liquidabile come buona e caritatevole azione verso chi non può permettersi un caffè e l’altra, per chi non conosce le origini culturali arabe, rinforzate da un comandamento religioso musulmano, viene liquidata come ricetta gastronomica che origina a sua volta da una prescrizione caritatevole.
In realtà, se le chiudiamo nel cerchio dell’elemosina, o della “zakat” musulmana, abbiamo ridotto queste due usanze a qualcosa che, riportandoci a una riflessione marxista, non sarebbe altro che la dimostrazione della disparità sociale tra chi dà e chi riceve, umiliando il beneficiario il quale, di fatto, è e resta in situazione di inferiorità. A rinforzare questo punto di vista ci sarebbe quel proverbio africano che dice “la mano che dà è sempre sopra alla mano che riceve”.
Di conseguenza, se riduciamo il caffè sospeso o la maqluba a elemosina nel senso comunemente inteso, non possiamo che dar ragione a Marx e al proverbio africano. Ma guardando bene al carattere collettivo delle comunità da cui nascono queste usanze vedremo le cose in altro modo.
Cominciamo col dire che le religioni lasciano tracce culturali anche nei non credenti, comunque cresciuti secondo i valori diffusi nella loro comunità e, quindi, pensiamo che i napoletani vengono da una cultura religiosa prevalentemente cristiana, quella in cui la terza virtù teologale è la carità e gli arabi da una cultura prevalentemente musulmana in cui il terzo pilastro dell’Islam è la zakat.
Ma il termine “carità” non significa sbrigativamente elemosina, bensì amore. Viene dal latino caritas traducibile con “affetto” ed ha come aggettivo “carus” cioè caro, amato. Nel Vangelo greco il termine è agàpè cioè amore grande, disinteressato e fraterno. Quindi l’elemosina è solo la parte finale e concreta di questo amore per l’altro e chi si ritrova nel giusto habitus non si pone il problema della superiorità sociale essendo, la sua azione,  solo una forma immediata e disinteressata di amore cosmico.

Il termine zakat, a sua volta, pur essendo un comandamento coranico, trova difficile traduzione in una semplice parola quale, appunto, elemosina. Il concetto di zakat parte dal principio che tutto appartiene a Dio compresi i beni derivanti dagli affari e dal lavoro, pertanto, chi è ricco deve “purificare” la sua ricchezza offrendone una parte, calcolata in percentuale del suo valore, a chi non ne ha. Ma questo è solo il calcolo dell’elemosina rituale. In realtà la zakat non si limita a una tassa imposta per obbedire a Dio, né soltanto a una forma di solidarietà verso qualcuno, né solo a un’azione nell’interesse della comunità, ma è un po’ di tutto questo e va oltre la somma dei singoli elementi  diventando un principio dell’etica musulmana così come la carità di cui parla il Vangelo rientra nell’etica cristiana.
Ma parlando di etiche musulmana e cristiana che si fanno substrato culturale, parliamo di un aspetto antropologico che trascende la fede e le sue imposizioni. Infatti sarebbe ben triste il caffè sospeso e altrettanto la maqluba se dovessero seguire solo una prescrizione e invece, come spiega De Crescenzo, «quando un napoletano è felice per qualche ragione, invece di pagare un solo caffè, quello che berrebbe lui, ne paga due. È come offrire un caffè al resto del mondo», un caffè offerto perché si è felici e non per imposizione di qualsiasi natura. E così è per la preparazione della maqluba, piatto della festa, piatto che si faceva cucinando le  varie pietanze in misura volutamente abbondante perché una parte di ognuna andava a finire in una grande pentola che poi veniva rovesciata su un tavolo di legno e messa fuori della porta in modo che chiunque potesse servirsene e condividere il festeggiamento.
E ora volete sapere come si fa la maqluba? Beh, trattandosi di un insieme composito di ingredienti (sarebbe sbagliato considerarla cucina degli avanzi, proprio per quanto scritto sopra) ogni famiglia palestinese ha la sua ricetta con alcune varianti. Oggi non si rovescia più su un tavolo fuori della porta perché il cibo, per fortuna, sebbene in misura e qualità diversa, in Palestina ce l’hanno tutti. Ma resta il piatto del venerdì, cioè il piatto del giorno di festa per i musulmani, perché si tratta di un piatto che trae la sua origine dal terzo pilastro dell’Islam, un principio diventato cultura, ma forse sarebbe meglio dire una filosofia, assolutamente musulmana, diventata poi elemento culturale. E se ci si trova in Palestina di venerdì e si parla con qualcuno per la strada, facilmente si viene invitati a condividere questo grande piatto comunitario e in quel caso, credetemi, è difficile dire di no!
Ciò che non può mancare in una buona maqluba sono le melanzane, il riso, la carne, le mandorle tostate e lo yoghurt, poi si aggiungono le varianti. E non manca mai neanche un momento di allegria, almeno un momento, quando viene rovesciata al centro dei tavolo sotto gli occhi ansiosi dei commensali, grandi e piccini, che in ogni famiglia palestinese sono sempre in numero consistente.
Così come non manca mai, nei bar napoletani in cui si usa il caffè sospeso, il sorriso di chi lo offre e quello di chi lo riceve. È l’applicazione napoletana di quella cultura del dare con allegria, non perché la mano che dà sia sopra la mano che riceve, ma perché è un abbraccio anonimo verso l’umanità. È tutto qui l’accostamento culturale tra caffè sospeso e maqluba, di fatto tra due comunità diverse che però hanno una cosa in comune, cioè hanno quell’offrire allegro e disinteressato di qualcosa che mentre la si porta alle labbra riesce a scaldare anche l’anima. E devo dire che a me non sembra un accostamento azzardato!

Articolo uscito su Vita-mine vaganti, la rivista ufficiale dell’associazione Toponomastica femminile.

da qui

domenica 29 dicembre 2019

La rivoluzione dei migranti



Storie e Notizie N. 1674

Questa è una favola, niente a che vedere con la realtà di tutti i giorni, difficile per i molti e agevole solo per pochi. Ciò nonostante, vedrete che prima o poi accadrà tutto per davvero.


C’era una volta il nostro amato e travagliato pianeta.
C’era una volta noi, allora come oggi e, probabilmente, anche domani.
C’erano altresì una volta gli impiegati alle porte dell’aldilà, tra uscieri, addetti alla sicurezza, o semplici hostess e steward responsabili del transito.
Quel giorno erano in pieno subbuglio e mai, dall’inizio dei tempi, la minaccia di uno sciopero era stata più credibile.
La situazione si era fatta insostenibile, nonché paradossale quanto inammissibile.
In quel momento i lavoratori responsabili dell’ultimo tra gli umani confini, forse l’unico che abbia davvero senso, provavano insofferenza e incredulità nei nostri confronti.
Forse perché c’era stato un tempo in cui erano stati vivi, esattamente come noi, e una volta trapassati avevano capito quanto peso avessero le nostre ottusità. Incapaci di risolvere da soli il problema, si rivolsero come spesso accade al più anziano tra loro. Costui, per quanto ne avesse viste di cose strane, non aveva la risposta adatta in grado di sbloccare l’incresciosa situazione di stallo in cui il processo di traghettamento delle anime si era inceppato.
Così, per quanto affaticato e claudicante, si alzò e promise di far presente la questione ai diretti superiori. Mi riferisco al Dio dei cristiani e quello dei musulmani, Allah, il suo profeta Maometto e ovviamente Gesù, nonché Yahweh, la trimurti indù al completo, Brahmā, Vishnu e Shiva, ma anche Confucio, le varie divinità del Taoismo, del Daoismo, dello Shintoismo e di ogni altra religione praticata dagli umani.
Il problema era che gli Dei, tutti gli Dei supplicati e adorati da quando il primo essere umano aveva visto la luce, erano anni che non si facevano vedere in giro. Ormai da tempo se ne stavano rinchiusi in conclave a discutere animosamente, arrivando perfino alla lite, e le ragioni erano ignote ai loro sottoposti.
La realtà era che una sempre più crescente fronda all’interno del parlamento divino - spesso fomentata da evidenti notizie false, fabbricate a tavolino e astutamente diffuse dal diabolico inquilino del piano di sotto - era ormai stanca degli umani e proponeva una bella estinzione di massa. Magari approfittando delle conseguenze del riscaldamento globale.
In fondo, era il pensiero di molti, se la sono scritta da soli, la parola fine.
Tuttavia, il vegliardo impiegato aveva un compito da svolgere e sarebbe andato fino in fondo. Bussò al sacro portone e dopo almeno un’oretta di inchini, salamelecchi e varie dimostrazioni di riverenza, riuscì a parlare.
“Vostre Divinità”, esclamò il vecchio. “Potrei provare a spiegarvi a parole cosa sta succedendo qua fuori, ma credo che la cosa migliore sia che vediate il tutto con i vostri onnipotenti occhi.”
Il quanto mai attempato funzionario precedette all’esterno i vari Dei, ciascuno simbolo di altrettante fedi, e una volta che costoro furono giunti all’ingresso dell’aldilà si resero conto dell’accaduto.
Una fila enorme di persone, della quale nessuno di loro riusciva a intravedere l’inizio, malgrado la perfezione dei rispettivi sguardi, affollava la via che conduceva alle porte dell’inferno.
“Che cosa sta succedendo?” chiese una delle divinità. “Chi sono quelli?”
“Sono gli immigrati”, rispose il vecchio.
“E quali sono i loro peccati?” domandò un’altra.
“Non ne hanno”, spiegò il più anziano degli umani presenti. “Ma finché erano in vita l’umanità ha fatto di tutto per convincerli di essere colpevoli proprio in quanto migranti e ciascuno di loro, una volta morto, si è diretto all’inferno, anche se non l’ha affatto meritato.”
“Voi non li farete entrare, spero...” lo interrogò un’altra divinità.
“No di certo”, dichiarò l’impiegato. “Ma il problema dell’intasamento rimane, anche se la situazione è ben più ingarbugliata. Approfittando di ciò, con il passare del tempo all’inferno non ci va più nessuno di coloro che lo meriterebbero. Con il risultato che le persone peggiori, quelle davvero cattive, meschine o cronicamente egoiste, non muoiono e rimangono sulla terra come mummie viventi ad accumulare ricchezza di cui non provano neppure più giovamento.”
“E il paradiso?” intervenne un’ulteriore divinità. “Chi sono quei tizi sorridenti alle porte dell’Eden, con tanto di trolley, infradito e occhiali da sole?”
“Ecco, vostra perfezione, a causa della Vostra assenza sulla terra, costoro hanno corrotto il giudizio finale a vantaggio di una minoranza di privilegiati.”
“Ma sono sempre i buoni, giusto?”
“No, sono solo quelli che buoni ci si sentono e Voi tutti sapete meglio di me che non è mai la stessa cosa.”
Gli Dei erano confusi e perplessi, mentre i proponenti l’estinzione anticipata del genere umano si fecero ulteriormente compatti nei loro auspici. I più restii stavano finalmente per cedere e concordare anche loro con l’estrema soluzione, quando una bambina si allontanò dalla folla sulla strada per gli inferi, oltrepassò non vista il cordone di sicurezza e raggiunse la solenne assemblea celestiale senza alcun timore. Difficile averne ancora dopo aver visto la morte in faccia in così giovane età.
“Io avrei una proposta”, disse la bimba con voce squillante.
“Parla pure...” la invitò una delle divinità, più per curiosità, che reale fiducia.
“Siccome i miei fratelli e io litigavamo ogni sera per chi avrebbe dovuto dormire accanto alla mamma, lei risolse la cosa con grande intelligenza.”
“Cosa fece?” chiese il vecchio.
“Ci disse che esiste un solo modo per fare giustizia e accontentare tutti, a questo mondo. Ce l’hanno insegnato il sole e la luna, le stelle e anche la terra, madre di tutti.”
“Quale?” domandò un’altra divinità.
“Dovreste conoscerlo, credo: girare le manopole del destino, allorché sia giunta l’ora, e ruotare il senso delle cose affinché tutti godano del proprio momento in cui apprezzare il valore della luce, come quello del buio. Insomma, facevamo a turno. Per molti tra i mortali occorre un’intera esistenza, per capirlo. Ma per voi dovrebbe essere conseguenza di un semplice gesto.”
In quel preciso istante ogni essere, perfetto o meno, aveva chiaro cosa andava fatto per rimettere le cose in ordine.
Seguì uno schiocco di dita divine, un battito di mani eterne o di ciglia trascendenti, o anche solo una mera occhiata ultraterrena e il congegno su cui reggeva l’intero aldilà fu azionato. Un attimo dopo, la più santa e giusta delle rotazioni ebbe luogo.
Pochi secondi più tardi, grande festa ci fu tra gli immigrati e urla di gioia e tripudio si levarono ovunque, dal confine terrestre sino a quello dell’universo stesso. Perché si ritrovarono di fronte alle porte del paradiso.
Nello stesso tempo, la sparuta coda di eleganti turisti dalla coscienza auto lodata erano invece attesi all’accettazione dell’inferno.
“Non è giusto!” osò protestare qualcuno tra loro.
“Voi non sapete con chi avete a che fare”, sbraitò qualcun altro.
“Avrete notizie dal mio avvocato”, minacciò perfino un altro ancora.
Mentre gli Dei osservavano soddisfatti la scena, e la bambina veniva sommersa di abbracci e ringraziamenti dalla folla, il vecchio si rimise subito al lavoro e raggiunse gli impiegati addetti alla gestione dei dannati.
“Ragazzi, diamoci da fare”, annunciò tirando su le maniche. “Sono convinto che la rivoluzione non sia finita qui e che a questi tornelli vedremo arrivare frotte infinite di furbetti che non hanno la più pallida idea di cosa li attenda alla fine della storia...”

sabato 28 dicembre 2019

Acqua ossigenata


Un medicinale portentoso. Eccezionale per l’igiene e per disinfettare. Utile in mille altri modi. Ma non ce lo fanno sapere perchè ha un grandissimo difetto: Costa poco!

Molti non lo sanno per ”volere” delle case farmaceutiche perchè costa poco, l’acqua ossigenata risolve molti problemi sia di salute che quotidiani. Ecco quali:

Il 90% delle persone non lo sa perché non sono notizie divulgate, forse perché si tratta di un prodotto economico e non particolarmente redditizio. La giusta diluizione l’acqua ossigenata che deve essere usata e’ quella con la percentuale del 3% di perossido d’idrogeno (a 10 volumi – NON utilizzate un altro tipo di volume dell’acqua ossigenata).
Nel 1938 dei ricercatori tedeschi ottennero dei risultati eclatanti contro raffreddori con l’acqua ossigenata e’ importante iniziare il trattamento appena compaiono i sintomi. Sono arrivati a risultati eclatanti contro raffreddori, influenze, otiti anche dopo sole 12-14 ore dalla somministrazione di 3 gocce n ciascun orecchio, prese con il corpo nella posizione sdraiata. L’acqua ossigenata inizia ad agire entro 2 o 3 minuti. La sensazione comune e’ quella d’aver messo nell’orecchio dell’acqua fredda, con un leggero solletico causato dalla formazione delle bollicine d’ossigeno. Dopo circa 10 minuti ci si può alzare, rimuovere l’acqua dal padiglione e ripetere con l’altro orecchio. Il metodo e’ perfettamente sicuro anche per bimbi piccoli, benché la formazione delle bollicine nell’orecchio possa spaventarli. Tenere la soluzione lontana dagli occhi, se c’e’ contatto con l’organo, sciacquare abbondantemente.
·                     Allevia il raffreddore, influenza o sinusite (mescolare metà e metà con acqua pura, introdurre con un contagocce nelle narici alcune gocce e poi soffiarsi il naso).
·                     Uccide i germi del cavo orale.Versato un cucchiaio in un bicchiere d’acqua è ottimo per i gargarismi e anche come dentifricio, mettendone qualche goccia sullo spazzolino da denti.(ATTENZIONE A NON INGERIRLA)
·                     Rimuove sensibilmente la placca dai denti e rimuove gradualmente il tartaro dai denti (inumidire lo spazzolino con alcune gocce d’acqua ossigenata ed usarlo normalmente, risciacquando la bocca alla fine).(ATTENZIONE A NON INGERIRLA)
·                     Diminusce il sanguinamento delle gengive, io mi lavo i denti e poi faccio gli schiacqui con l’acqua ossigenata.(ATTENZIONE A NON INGERIRLA)
·                     Schiarisce denti (usare un cucchiaino di acqua ossigenata diluita al 10% come un normale collutorio).(ATTENZIONE A NON INGERIRLA)
·                     Disinfetta lo spazzolino da denti evitando contaminazioni ad esempio di gengivite alle altre persone che vivono in casa e condividono lo stesso bagno dove, in genere, tutti gli spazzolini stanno “vicini vicini” (basta immergere lo spazzolino in un bicchiere contenete sufficiente acqua ossigenata).
·                     Elimina i funghi che causano il cattivo odore dei piedi (usarla la sera, prima di andare a letto, impedisce lo sviluppo della tigna e d’altri funghi).
·                     Evita infezioni, disinfetta e uccide germi ed altri microrganismi nocivi.
·                     Aiuta nella guarigione (usata più volte al giorno, in alcuni casi può coadiuvare nella regressione di una cancrena della pelle).
·                     Aiuta a mantenere la salute della pelle (può essere utilizzato in caso di micosi).
·                     Disinfetta i vestiti macchiati di sangue o altre secrezioni corporee (mettere i capi in ammollo in una soluzione d’acqua ossigenata al 10% prima del lavaggio normale).
·                     Elimina le macchie di vino dai tessuti bianchi (versare un pochino d’acqua ossigenata direttamente sulla macchia e poi lavare normalmente, preferibilmente con acqua fredda).
·                     Ridona candore alla seta, sciacquando il tessuto in acqua e acqua ossigenata (1 cucchiaio ogni 3 litri) e stenderlo poi all’ombra.
·                     Disinfetta le superfici meglio di qualsiasi altro prodotto (ottima per bagni e cucine).
·                     Uccide i batteri in cucina, inclusa la salmonella In combinazione con l’aceto bianco, dei test condotti, hanno dimostrato l’eliminazione totale della Salmonella e di E. coli da cucine contaminate con questi batteri. Un risultato del genere è superiore a qualsiasi liquido da cucina o candeggina in commercio.
·                     Schiarisce le macchie sul viso (bagnare la parte che si desidera schiarire usando un cotton-fioc prima di andare a dormire, ripetendo l’operazione fino al conseguimento del risultato desiderato).
·                     Sbianca le unghie (mettere in un pentolino d’acqua calda un cucchiaio di acqua ossigenata, lasciare le unghie immersi in questa soluzione per 10 minuti poi lavarsi le mani. Ovviamente le unghie devono essere pulite e senza smalto).
·                     Toglie l’acqua dal canale auditivo dell’orecchio (basta una goccia di acqua ossigenata per eliminare il fastidioso effetto che spesso capita quando si nuota in piscina o al mare).
·                     Disinfetta anche frutta e verdura, spruzzandola con uno spruzzino, poi sempre risciaccquando sotto l’acqua corrente prima di mangiarli
·                     L’acqua ossigenata a 24 volumi è perfetta per decolorare, potete usarla per schiarire leggermente i capelli, donando un leggero riflesso dorato.
PRECISAZIONE IMPORTANTE: Fermo restando quanto già scritto, bisogna tener conto che l’Acqua ossigenata uccide (fondamentalmente per “iperossigenazione”) i batteri Gram Negativi che sono anaerobi, ovvero tutti quei batteri come il tetano, per esempio, che vivono e prolificano in un ambiente privo di ossigeno. Per tutti quelli invece che vivono senza problemi in presenza di ossigeno l’acqua ossigenata fa poco o niente quindi va utilizzato un disinfettante diverso se si vuole ottenere un risultato.


Fonti:


giovedì 26 dicembre 2019

Pietrino Soddu intervistato da Alessandra Carta


“Dopo la società liquida, quella del rischio o la eccitata, come nel prezioso lavoro di sintesi sulle dinamiche del nostro tempo, servirebbe adesso un Gramsci del Duemila. Ovvero qualcuno che disegni l’orizzonte dell’Antropocene”. A parlare è Pietrino Soddu, uno dei grandi saggi della Sardegna, protagonista della politica isolana per oltre cinquant’anni. Nemmeno stavolta l’ex presidente della Regione e parlamentare si sottrae all’invito di una lettura profonda sul nuovo millennio. Compresa la stagione amministrativa in corso.
Onorevole, sembra di essere sulle sabbie mobili. Con emergenze note: denatalità, emigrazione, invecchiamento, dispersione scolastica e razzismo.
Aggiungiamo la crisi dei partiti tradizionali, le insufficienti risposte dello Stato sociale e la sempre più debole fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Il risultato è il diffondersi di una stratificazione subculturale ispirata a modelli che sono di segno opposto rispetto alle idee, ai principi e ai valori su cui è stata costruita la Costituzione. Tutto questo fa sì che ci troviamo immersi nella paura, disorientati e confusi. Oggi a mancare è un senso comune su cui costruire speranze e aspettative. Sogni e qualche certezza. La siepe di Leopardi, oltre la quale il poeta di Recanati immaginava un’immensità sconosciuta, ha lasciato il posto alla paura. Il dolce naufragare è diventato un lusso. E non certo un’opzione per i disoccupati, i giovani costretti a lavori di ripiego o le famiglie sulla soglia di povertà”.
Chi paga il prezzo più alto?
Gli anziani. A Sassari, con le sardine, sono scesi in piazza anche i pensionati. Quasi in difesa di uno status quo che, in realtà, non esiste già più. Il Paese in cui i bambini degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta sono diventati adulti è andato erodendosi, senza soluzione di continuità. Il popolo italiano, in pochi anni, ha perduto la fiducia nella vecchia rappresentanza dando origine a un processo caotico che sì, è cominciato qualche decennio fa, ma sta arrivando rapidamente a una conclusione inaspettata. Sta arrivando alla nascita di un “nuovo ordine”, originato, secondo il linguaggio della scienza del caos, dall’azione di un “attrattore strano”, sino a qualche tempo fa assolutamente imprevedibile. Parlo del neonazionalismo fondato su un leader autoritario e populista. A prendere forma è un orientamento reazionario che sta sotituendo il precedente, democratico-progressista.
Cosa servirebbe adesso?
Un Gramsci del Duemila, appunto. Un intellettuale capace di trasferire in politica la ricerca di un nuovo senso comune. Un Gramsci che possa rimettere in equilibrio capitale e lavoro, col primo che ha finito per prevalere sul secondo, a causa di incontrollate, o forse incontrollabili, trasformazioni economiche. Sino a pochi anni fa, nel cosiddetto mondo occidentale la rotta era segnata dallo Stato sociale e dalla democrazia rappresentativa, dove il consenso se lo spartivano tradizione liberaldemocratica, socialdemocratica o federalista. Oggi non si parla più di impegno, coraggio e generosità. Oggi assistiamo allo sbandamento delle classi popolari, che infatti hanno preso a votare la destra conservatrice, come avvenuto in Inghilterra con la Brexit. E per contro la borghesia ha come punto di riferimento i partiti progressisti, che infatti hanno dimenticato operai e contadini. L’attrattore strano, di cui si diceva prima e che spinge la gente comune verso l’abbraccio coi nuovi nazionalismi, fa leva proprio sull’assenza di quelle strutture concettuali attraverso le quali si gestisce la paura e si dà una prospettiva futura.
In Sardegna vede dinamiche diverse?
Assolutamente no. Come nel resto del mondo occidentale, anche da noi il futuro è percepito come peggiore del presente. Anche in Sardegna la crisi è generale e investe i diritti, i doveri e le relazioni esistenti nella società. Oggi si chiede che uno Stato assicuri non solo cibo, casa, istruzione e sanità. Oggi il paniere delle rivendicazioni è allargato agli spettacoli, alle vacanze e allo sport. Ma poi quello che diffusamente si registra è un vuoto di motivazione, in cui il non pagare le tasse, per esempio, è diventato un vanto. La liberazione dai tributi si è convertita nella nuova giustizia sociale, come se lo Stato stesso non avesse un costo. Non c’è programma politico che non contempli una zona franca o quella economica speciale.
Il Gramsci del Duemila avrebbe una proposta politica diversa?
Di sicuro non trascurerebbe il fatto che questa distrazione sta diventando fatale, perché foriera di rabbia, rancore e infelicità. Ma questo vogliono i nuovi nazionalismi. Che spingono i cittadini a rinchiudersi, a cercare gli untori, come ai tempi del Manzoni. Untori che i leader populisti, per consacrare il consenso, hanno trovato negli immigrati, nei politici che prendono il vitalizio o nei partiti tradizionali, per citare le strategie più gettonate. Né un Gramsci del Duemila e nemmeno i padri costituzionali della Dc, così come l’intera e illuminata classe dirigente di quei tempi alla quale concorrevano comunisti e socialisti, liberali e repubblicani, avrebbero mai affrontato i problemi per singole parti o per interessi personali. Come spesso succede, perché questo approccio è dannoso e riduttivo e non consente di cogliere la portata e la drammaticità della crisi in cui il mondo occidentale è precipitato. Oggi vanno di moda tesi che mettono in dubbio persino la sovranità popolare, l’eguaglianza, le pari opportunità, la libertà, la solidarietà e la dignità della persona umana. Il Gramsci del Duemila e la Costituente tutta prenderebbero in considerazione idealità, sogni, aspirazioni e ambizioni. Le chance di successo individuale e collettivo.
Trova che l’attuale centrodestra al governo della Regione sia capace decodificare questa complessità sociale?
In Sardegna i partiti hanno cominciato ad andare in crisi agli inizi degli anni Novanta, quando la triade “democrazia, autonomia, rinascita”, che ha dominato la politica isolana dalla nascita della Repubblica, ha cominciato a manifestare la propria inefficacia. Almeno rispetto agli obiettivi di progresso, sviluppo, emancipazione e benessere che ci si era prefissati. Il fenomeno ha avuto inizio con le prime delusioni nate dall’insuccesso, sia pure parziale, del Piano di rinascita, che non aveva risposto alle grandi attese e alle grandi speranze di un’opinione pubblica impaziente e influenzata dall’opposizione di un gruppo di intellettuali ostili a un modello di crescita considerato un’imposizione dall’esterno. E quindi, a loro dire, destinato inevitabilmente a fallire. Queste posizioni ci sono ancora: è la difesa dei miti de su connottu, riproposti ogni volta in nuove forme. Non si tratta di respingere la certezza dell’autosufficienza, semmai andrebbe riutilizzata nelle parti più vitali.
Le Regionali del 2019, oltre a consegnare la Sardegna al centrodestra in maniera netta, hanno anche spazzato via dal campo politico gli indipendentisti. Alla lunga se ne sentirà la mancanza?
Il sardismo diffuso, come era ai tempi di Mario Melis e Michele Colombu, aveva davvero contribuito alla nascita prima e alla diffusione poi di una coscienza identitaria collettiva. Non verticistica, non settoriale, non classista. Ma popolare nel senso stretto del termine. Quello spirito però ha finito per scontrarsi con la nazione resiliente quale noi sardi siamo. Ovvero una nazione che si adatta alle condizioni e poi magari torna allo stato precedente, quello considerato ideale. Ma non osa, non rischia, non si espone. Nel dibattito politico sardo manca quella una tensione riformista di cui gli indipendentisti si erano fatti portatori.
Lei, di recente, ha bacchettato un certo indipendentismo di sinistra e disfattista-
Ho parlato invero di quell’esperienza culturale che vive nella convinzione di uno sviluppo senza industrie, come se l’economia si potesse reggere sui fasti del passato più antico. In realtà anche i nuragici, coi loro bronzetti e le strutture di pietra anche complesse, hanno dato prova di avere una forma di organizzazione sociale paragonabile a quella industriale del nostro tempo. Per diventare un grande popolo non bisogna essere necessariamente solo cacciatori e raccoglitori. In Sardegna andrebbero superate tutte le visioni, le programmazioni e le governance che contrastano con l’idea dell’unica polis e frantumano l’identità della ‘Nazione sarda’ in tante identità locali, che indubbiamente ci sono ma non possono essere in contrasto con quella regionale.
La ‘Nazione sarda’ ha ancora un senso?
Non solo ha un senso, ma può diventare protagonista della politica italiana ed europea come altri nazioni. Ma serve appunto ragionare e operare come un’unica polis, lasciandosi alle spalle la politica frammentata e di corto respiro localistico; bisogna tagliare il cordone ombelicale con quel regionalismo chiuso, impregnato di sovranismo illusorio. Serve una visione più ampia e globale, in cui la Sardegna non va pensata e vissuta come periferia emarginata e bisognosa di assistenzialismo. Per questo considero debole, ancorché intenzionalmente positiva, l’iniziativa che promuove l’inserimento del principio di insularità in Costituzione. Ha poco senso guardare alla Carta, se si ignora che il mercato è dominato da un numero sempre più ristretto di soggetti, non controllabili dalla Regione e neppure dallo Stato. Ha poco senso guardare alla Carta, se si ignorano i problemi derivanti dai nostri errori, della nostra inefficienza, della nostra incapacità di stare al passo con i tempi. L’insularità non è la causa di tutti i mali, e neppure una panacea. Ma di sicuro diventa impossibile risalire la china se la nostra democrazia parlamentare rappresentativa si trasforma in sistema autoritario, perché così perde di vista la Costituzione stessa. L’opinione pubblica, non è un caso, è dominata dallo slogan del “prima la Sardegna, prima i sardi, prima i cagliaritani, prima i piccoli paesi e, prima di tutti, io”.
Con alcuni di questi refrain il presidente della Regione, Christian Solinas, ha vinto le elezioni dello scorso febbraio.
Da governatore fa l’unitarista. Non crea strappi. Si spinge dove nessun capo della Giunta aveva fatto prima. Poco tempo fa è stato accolto con tutti gli onori dalla Conferenza episcopale sarda. Il presidente Solinas è bravo a intessere relazioni. Ma è evidente che non bastano. Tuttavia è presto per esprimere giudizi complessivi. Quel che si intravede ora è una raccolta di quanto seminato dalla Giunta precedente e agevolato dalla correttezza politica del Governo nazionale che si sta dimostrando aperto e collaborativo. Sembra mancare invece del tutto un’idea di Sardegna e di visione futura, per costruire una nuova autonomia in senso federalista e un nuovo patto costituzionale. Questo si può fare solo con iniziative che mettano insieme non solo la politica, ma la società intera.
Intravede una speranza?
Sì, certamente. Per alimentare la nuova questione sarda, se così la vogliamo chiamare, la prima cosa da fare è riprendere appunto l’iniziativa politica per coinvolgere partiti, movimenti e la società civile tutta. Cominciando dalle donne e dai giovani: perché le prime hanno voglia di impegnarsi sino in fondo, con la loro spinta emancipatrice e l’affermazione della parita; i secondi hanno un orizzonte più ampio, aperto e libero da vincoli e da interessi consolidati. Ma prima ancora va cambiato il senso comune antipolitico cresciuto in questi anni. Per farlo, bisogna riprendere a dialogare e a confrontarsi. Senza pregiudiziali né rigidità ideologiche di parte. È necessario rimettere al centro l’interesse generale, la giustizia sociale, l’eguaglianza e su tutto ciò che rientra nella categoria dei diritti fondamentali e nella dignità della persona umana. Per migliorare la vita individuale e quella dei popoli non bastano le conquiste della scienza, i progressi della tecnica e dei sistemi produttivi: serve che le istituzioni migliorino non solo le condizioni materiali dei territori, cioè le abitazioni, le strutture e gli strumenti destinati alla produzione e ai servizi; diventa prioritario trasformare città e paesi in soggetti politico-culturali, in comunità intenzionali, avrei detto una volta. Il che significa riconoscersi come cittadini che si sentono responsabili del proprio destino e accettano di identificarsi in collettività più ampie.
Crede davvero che l’ascia del campanilismo, dissotterrata in ogni confronto che conta, verrebbe abbandonata da sindaci e consiglieri regionali?
La diversità a livello regionale può rafforzare un’identità; su un piano nazionale può essere vissuta come un diritto; in un contesto internazionale può diventare il confine etico per arginare chi propone di seguire le tendenze di un mercato senza limiti, al di fuori dei profitti e dei consumi.

mercoledì 25 dicembre 2019

Conformismo dei luoghi di consumo e consumo dei luoghi - Antonio Cipriani



Diritto ecologico e filosofia rurale
Qui nella magnifica terra viviamo sulla linea di confine. Su un versante gli interessi potenti del Capitale – coraggio! non è peccato usare i giusti termini della questione – , con tutte le truppe dei suoi servitori volontari. Con annessi e connessi, con il tentativo sotto ogni forma e dispiegamento della cultura della privatizzazione dei beni, e tra i beni c’è quello supremo del territorio, del paesaggio. Sull’altro le fragili, disomogenee spinte a salvare il salvabile, a difendere e non trasformare la bellezza in orrore, a garantire il bene comune e non il profitto privato. 
Non un conflitto di classe, come si intendeva un tempo. Ma un conflitto in cui, contro l’interesse ricco e potente del Capitale, agisce una nebulosa sociale, formata da ricchi e poveri, contadini, vignaioli e borghesi, cittadini e figli di contadini. Un soggetto politico che non ha grande rappresentanza nei partiti, direi.

Parliamo di noi. Di questa valle incantata. Da una parte, soffiano venti terribili di modalità moderna e metropolitana, dello sfruttamento sfrenato delle risorse naturali, della crescita a ogni costo, dell’iperproduzione, del consumismo e dell’ipertrofia edilizia. Dall’altra: il futuro del territorio, il rifiuto del consumo di terre, del disboscamento, della concezione biecamente industriale del progresso.
Da una parte la logica passivamente accettata dalla politica della concatenazione consumo-spreco-rifiuto-distruzione delle risorse territoriali. Dall’altra i sovversivi che non si adeguano, che riformulano proposte e idee e non si arrendono all’indifferenza comune.

Da una parte la massificazione, il pop come fenomeno di rappresentazione culturale piramidale dall’alto al basso, l’azzeramento dei rapporti di solidarietà, la furia convincente ed elegante del denaro per spianare colline e asfaltare carriere e profitti di pochi. Il conformismo dei luoghi di consumo e del consumo dei luoghi.
Dall’altra i rapporti di cura, la solidarietà di comunità, lo spirito rurale che innerva la vita sana fuori dalla frenesia cittadina. Il sociale rurale fatto di convivialità, del dono dell’incontro. La cultura come possibilità del rendere fertile il terreno delle conoscenze e delle arti.

Sapremo opporci al gigantismo, all’accelerazione verso la dimensione globale? Sapremo evitare di finire in un territorio svuotato di senso, depredato, desertificato? Sapremo evitare di farci incantare dalle sirene di un progresso che si sta rivelando felice e proficuo per pochi e devastante per tutti gli altri?

martedì 24 dicembre 2019

Stop ai cenoni illeciti di Natale e Capodanno! - Gruppo d’Intervento Giuridico




CENONI DELLE FESTE DI NATALE E CAPODANNO:  “NON LASCIAMOCI LE PENNE”!
UN VADEMECUM CONTRO LE PIETANZE FUORILEGGE IN TRATTORIE E RISTORANTI.
Morette arrosto? Allodole su polenta o Ghiri al ragù? Grive di Tordi o Storni?
Spesso nella ricca (e ottima) cucina italiana spuntano fuori  piatti a base di selvatici “da penna”, soprattutto nel corso delle feste natalizie e di Capodanno, come nei ristoranti che offrono “piatti tipici”.
Molti non sanno che in parecchi casi queste proposte alimentari sono vietate dalla legge.
Ecco quali sono le regole e cosa si può fare se si sospetta una violazione.
Non è raro imbattersi – soprattutto fuori dai grandi centri – in feste, sagre, manifestazioni o ristoranti tradizionali che offrono durante le feste “piatti tipici” a base di selvaggina che frequentemente rappresentano oggi una violazione delle leggi.

La legge n. 157/1992 e s.m.i. sulla caccia infatti vieta espressamente di “commerciare fauna selvatica morta  – che non  proviene da allevamenti – per sagre e manifestazioni a carattere gastronomico” (Art. 21, comma primo, lettera t) e “vendere, detenere o trasportare per vendere, acquistare uccelli vivi o morti, nonchè loro parti o prodotti derivati facilmente riconoscibili, appartenenti alla fauna selvatica, che non appartengano alle seguenti specie: Germano reale (Anas platyrhynchos); Pernice rossa (Alectoris rufa); Pernice di Sardegna (Alectoris barbara); Starna (Perdix perdix); Fagiano (Phasianuscolchicus); Colombaccio (Columba palumbus)” (art. 21, comma primo, lettera bb).
Occorre quindi prestare attenzione a quello che si legge sui menù.
Nel caso dei Ricci di marein via di rapida rarefazione, sarebbe opportuno astenersi da qualsiasi consumazione, in ogni caso è necessario verificare se provengano dalla pesca autorizzata o meno.  Anche la somministrazione in ristoranti e chioschi non è automaticamente garanzia di liceità della raccolta.
Nel caso di LepriQuaglie e Fagiani si tratta probabilmente di carne di animali di allevamento, e quindi ne è legittima la somministrazione. Per specie come BeccacceMerliTordi e Allodole è del tutto impossibile che lo siano nelle quantità necessarie a rifornire la ristorazione.Sicuramente sono uccelli abbattuti durante la caccia o procacciati con metodi illegali dai bracconieri.  
Le grive, poi, sono un tipico piatto illecito, tipico della Sardegna meridionale.  Le operazioni anti-bracconaggio condotte dal Corpo forestale e di vigilanza ambientale e dalla L.A.C. testimoniano tuttora la presenza del fenomeno illegale.
Le grive non possono quindi essere serviti in trattorie e ristoranti.
Non c’è solo una questione di legalità e di tutela del patrimonio faunistico, in alcuni casi depredato dai bracconieri per rifornire la ristorazione. C’è anche una questione di igiene e sicurezza degli alimenti. Mentre la carne di allevamento segue precise norme igieniche e sanitarie relative all’allevamento degli animali, viene macellata in apposite strutture controllate dai veterinari e viene commercializzata seguendo regole chiare (ad es. per quanto riguarda la conservazione e il trasporto), quella di fauna selvatica abbattuta a caccia – in pratica – sfugge di fatto a qualsiasi controllo sanitario nelle varie fasi (dall’abbattimento alla cucina) e può rappresentare di conseguenza una potenziale minaccia alla salute pubblica. Gli animali catturati nelle trappole, come i Tordi, possono anche avere carni deteriorate se recuperati dopo alcuni giorni.
Sta ai consumatori, con il proprio comportamento, dire un NO deciso a qualsiasi offerta di piatti sospetti. Non c’e’ tradizione che tenga: mangiarli equivale ad essere complici di un reato e a dare il nostro piccolo contributo alla distruzione di un patrimonio sempre piu’ fragile.
Per riassumere:
1) durante sagre e manifestazioni gastronomiche si può servire solo carne di animali d’allevamento.
2) non si possono commerciare (nè in negozi, nè in ristoranti) uccelli selvatici che non siano Germano reale, Pernice rossa, Pernice sarda, Starna, Fagiano o Colombaccio; il resto dell’avifauna è illegale, anche se appartenente a specie cacciabili.
Se ci si trova di fronte a qualche menù che contiene piatti che violano le regole appena dette, è a disposizione  sui siti web www.abolizionecaccia.it  e www.tutelafauna.it  un fac-simile per denunciare il fatto alle competenti autorità oppure fate una rapida foto del menù e scrivete a grigsardegna5@gmail.com.

Lega per l’Abolizione della Caccia Gruppo d’Intervento Giuridico onlus