domenica 28 febbraio 2021

Emergency e Oxfam: lettera al governo sui vaccini


 

Il sistema di monopoli imposto dalle grandi case farmaceutiche, che detengono i brevetti dei vaccini anti-Covid approvati, rischia di avere un costo insostenibile per l’economia e la salute a livello mondiale.

Secondo le stime (1), la mancata vaccinazione della maggioranza della popolazione mondiale, quella dei paesi a basso reddito, potrebbe significare perdite per 9.300 miliardi di dollari, metà delle quali riguarderebbe anche i paesi ricchi, che pure sono in grado di raggiungere l’immunizzazione delle proprie popolazioni. Allo stesso tempo, una diffusione incontrollata del virus, aggravata dai ritardi nelle consegne delle dosi in molti paesi, rende probabile – come del resto sta già avvenendo – il rapido sviluppo di mutazioni, che potrebbe rendere obsoleti i vaccini esistenti e vanificare tutti gli sforzi messi in campo dai governi per fermare la pandemia: oltre 83 mila miliardi di dollari di denaro dei contribuenti, stanziato a livello globale per lo sviluppo dei vaccini (2).

Per scongiurare questi rischi, Oxfam ed EMERGENCY, membri della coalizione internazionale People’s Vaccine Alliance, inviano oggi una lettera-appello al Presidente del Consiglio Mario Draghi e ai Ministri degli Esteri, della Salute e dello Sviluppo economico.

 

La Presidenza italiana del G20 consente al Governo italiano di avere un ruolo chiave in sede europea e internazionale – a partire dalla prossima riunione del Consiglio dell’Organizzazione Mondiale del Commercio del 1° marzo – nel sostenere con decisione la sospensione delle regole che tutelano la proprietà intellettuale sui brevetti dei vaccini anti-Covid e la condivisione della tecnologia necessaria alla produzione in altri paesi, rendendo così possibile la definizione di un piano vaccinale realmente efficace e capace di raggiungere tutti, sia nei paesi più poveri che in Italia e in Europa.

“Solo consentendo produzione e vendita dei vaccini da parte di molti attori in un mercato competitivo, oltre che la loro disponibilità al pubblico al minor costo possibile, potremo scongiurare il peggio, prima che sia troppo tardi. – ha detto Sara Albiani, policy advisor sulla salute globale di Oxfam Italia – A questo scopo chiediamo al Governo di intervenire fin da subito affinché Reithera rinunci al brevetto del vaccino che ha sviluppato con l’Istituto nazionale per le malattie infettive Lazzaro Spallanzani, grazie a finanziamenti del Governo e della Regione Lazio. Solo condividendo brevetti, know-how e tecnologie, si potrà infatti aumentare la produzione e rendere così il vaccino disponibile per il numero più ampio possibile di persone in Italia e nel mondo.”

 

I paesi in via di sviluppo come l’Uganda, costretti a pagare fino a 3 volte, per assicurarsi le dosi del vaccino AstraZeneca

Attualmente, al massimo della loro capacità produttiva, Pfizer, Moderna e AstraZeneca potrebbero garantire dosi sufficienti per appena 1/3 della popolazione mondiale e secondo analisi condotte dalla People’s Vaccine Alliance, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo, solo 1 cittadino su 10 può sperare di essere vaccinato nel 2021 attraverso lo strumento COVAX, destinato a rendere accessibili i vaccini nel sud del mondo. Meccanismo di cui le due organizzazioni firmatarie della lettera riconoscono l’importante valore solidale e di tutela della salute pubblica, ma che sembra essere del tutto inadeguato per coprire il reale fabbisogno di vaccini nei paesi poveri nei tempi brevi necessari.

“Lunedì 1 marzo, l’Organizzazione mondiale del commercio si riunirà per valutare la proposta avanzata da India e Sud Africa di sospendere temporaneamente i diritti sulla proprietà intellettuale dei vaccini contro il Covid-19. Tutti i paesi in via di sviluppo aspettano con il fiato sospeso una decisione fondamentale, l’unica che può garantire la speranza di contenere l’epidemia. – ha dichiarato Rossella Miccio, Presidente di EMERGENCY – Per questo, chiediamo che l’Italia e l’Unione Europea sostengano questa richiesta.  Se vogliamo lasciarci alle spalle la pandemia, tutti i paesi – anche quelli a basso reddito – devono essere messi in grado di ricevere i vaccini necessari a immunizzare la propria popolazione e per farlo si deve incrementare la produzione in tempi rapidi. Non è una questione di filantropia ma di tutela della salute pubblica e di giustizia.”

 

Nei fatti COVAX non potrà che garantire un numero limitato di dosi, a meno che non si aumenti la fornitura attraverso una più ampia capacità produttiva a livello globale, con una conseguente riduzione dei prezzi. Proprio il costo dei vaccini rappresenta un esempio dell’odiosa disuguaglianza di accesso ai vaccini che si registra oggi nel mondo, consentito anche dalle clausole di segretezza contenute nei contratti di acquisto, oltre che dalla facoltà lasciata a uno sparuto numero di grandi aziende farmaceutiche di decidere quali paesi potranno avere a disposizione il vaccino. Emblematico sul punto il caso dell’Uganda, che si è trovata a pagare 3 volte il prezzo di AstraZeneca, prodotto in India dal Serum Istitute, rispetto ai paesi europei. Secondo i dati a disposizione, l’Ue ha pagato il vaccino AstraZeneca meno di 2 euro per dose, mentre in Uganda lo stesso vaccino costerà circa 6 euro a dose: ciò significa che, includendo il trasporto, vaccinare una persona costerà all’Uganda 16 euro. I vaccini di Pfizer e Moderna sono invece molto più cari, al punto che l’Ue li ha pagati rispettivamente oltre 12 e 18 euro, e i paesi a basso reddito difficilmente potranno permetterseli.

https://www.pressenza.com/it/2021/02/emergency-e-oxfam-lettera-al-governo-sui-vaccini/

 

 

L’IMPEGNO DELL’ITALIA PER UN ACCESSO EQUO E GRATUITO AI VACCINI CONTRO IL COVID-19: LETTERA-APPELLO AL GOVERNO ITALIANO

Roma, 25/02/2021

On. Mario Draghi
Presidente del Consiglio
On. Roberto Speranza
Ministro della Salute
On. Luigi Di Maio
Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale
On. Giancarlo Giorgetti
Ministro dello Sviluppo Economico

Cc: Antonio Funiciello, Capo di Gabinetto
Presidenza del Consiglio

Gentile Presidente del Consiglio, Gentili Ministri,

consapevoli dell’immane lavoro che questo Governo dovrà compiere per far fronte alla pandemia ancora in atto e alle conseguenti crisi sanitaria, sociale ed economica che ne sono scaturite, ci rivolgiamo a voi per sollecitare un’azione improntata al principio che considera il vaccino come un bene pubblico globale.

Il precedente Governo si è impegnato, nel quadro di negoziazioni europee, a garantire ai propri cittadini l’accesso gratuito ai vaccini sin qui approvati dalla competente autorità regolatoria europea. Tuttavia, in Italia come in altri Paesi europei la campagna vaccinale sta andando avanti con alcune interruzioni e difficoltà di programmazione a causa di improvvise interruzioni nelle forniture da parte delle case farmaceutiche produttrici dei vaccini. Situazione ancora più drammatica è vissuta in molti Paesi a medio e basso reddito, Paesi che Oxfam e EMERGENCY conoscono molto bene in virtù del lavoro svoltovi da decenni.

Entrambe le Organizzazioni sono membri della People’s Vaccine Alliance, che riunisce un grande numero di enti e attivisti, impegnati in una campagna per l’accesso equo e gratuito ai vaccini contro il Covid-19. La People’s Vaccine Alliance ha dimostrato che nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo solo un cittadino su dieci può sperare di essere vaccinato nel 2021 attraverso lo strumento COVAX, al quale l’Italia ha dato il suo supporto che riconosciamo come un’importante azione di solidarietà internazionale e tutela della salute globale. COVAX, però, sta distribuendo un numero limitato di vaccini e non potrà fare altrimenti a meno che non si verifichi un consistente aumento nella fornitura di vaccini che può ottenersi attraverso una più ampia capacità produttiva a livello globale ed una riduzione dei prezzi delle dosi.

Tale disuguaglianza globale rappresenta innanzitutto un drammatico fallimento morale, su cui le generazioni future ci giudicheranno, e che porterà a inutili sofferenze e perdite di vite umane che potrebbero invece essere salvate. Allo stesso tempo, è anche un errore in termini di sanità pubblica, perché da una pandemia globale si può uscire solo con strategie globali. Una diffusione incontrollata del virus in molti paesi rende probabile – come del resto sta già avvenendo – il rapido sviluppo di mutazioni, che potrebbero sfuggire agli anticorpi che generiamo con l’infezione o con la vaccinazione, rendendo obsoleti i vaccini esistenti e vanificando tutti i nostri sforzi per fermare la pandemia e far fronte alla crisi economiche che ne consegue.

Secondo uno studio commissionato dalla International Chamber of Commerce (ICC) Research Foundation, la mancata vaccinazione della maggior parte delle nazioni potrebbe causare perdite economiche pari a 9.300 miliardi di dollari, di cui quasi la metà verrebbe assorbita dai paesi ricchi anche se vaccinassero con successo le proprie popolazioni.

Come Vi è noto, la ragione principale della limitata disponibilità di vaccini sta nella ancora non sufficiente capacità di produzione da parte delle case farmaceutiche che producono i vaccini a fronte di un fabbisogno di eccezionale portata dovuto dalla pandemia in corso. Gli impianti attualmente attivi possono produrre una quantità di vaccini capace di coprire il fabbisogno di solo un terzo della popolazione mondiale. Ad oggi, nessuno dei 3 più grandi produttori di vaccini al mondo è impegnato nella produzione di vaccini contro il Covid-19, e uno di essi inizierà a produrne un numero limitato, su licenza Pfizer solo dall’estate.

L’altra ragione è legata ai prezzi dei vaccini. Per quanto non ufficialmente comunicati al pubblico a cause delle clausole di segretezza – da noi fortemente contestate – che caratterizzano i contratti di acquisto dei farmaci, le stime e le indiscrezioni rivelano che in alcuni casi sono molto elevati, soprattutto per i Paesi a medio e basso reddito.

Limitata capacità di produzione a livello globale e prezzi non sostenibili sono causati dal sistema di monopoli con cui operano le case farmaceutiche, che al momento, con brevetti esclusivi, non condividono tecnologia e know-how azzerando di fatto la possibilità di concorrenza nel mercato. Monopoli difficilmente sostenibili vista la crisi mondiale.

Sebbene iniziative quali la donazione di vaccini ai paesi in via di sviluppo per l’immunizzazione del personale sanitario o accordi di licenza tra i principali produttori di vaccini e altri produttori, in particolare nel Sud del mondo, siano ben accetti, non rappresentano un’alternativa sostenibile. Non stanno garantendo un aumento abbastanza rapido dell’offerta, continuano a lasciare nelle mani di un piccolo numero di aziende il potere su chi riceve i vaccini e quando, e hanno già portato i Paesi in via di sviluppo a pagare prezzi molto più alti per gli stessi vaccini rispetto a quelli pagati dai Paesi ad alto reddito.

Ci auguriamo che l’attuale Governo condivida queste nostre preoccupazioni e, nel solco di quanto già in diverse occasioni dichiarato dal precedente Governo, si adoperi in Italia e nei consessi internazionali per affermare con forza che il vaccino va considerato un bene pubblico globale.

In particolare, ci auguriamo che, cogliendo l’occasione di presiedere per la prima volta il G20 e approfittando della decisione europea di tenere in Italia il prossimo Global Health Summit, a questa dichiarazione di principio segua l’indicazione della strategia per la sua attuazione, che secondo noi non può che passare per una revisione delle regole che sottostanno al sistema di tutela della proprietà intellettuale.

Chiediamo quindi al nuovo Governo di:

  1. Riaffermare con forza il principio del vaccino come bene pubblico globale e di intraprendere azioni concrete per la sua realizzazione.
  2. Promuovere in seno all’UE e alle agenzie internazionali competenti (in particolare Organizzazione Mondiale della Sanità e Organizzazione Mondiale del Commercio) la sospensione delle regole che tutelano la proprietà intellettuale e la condivisione della tecnologia necessaria alla produzione dei vaccini contro il Covid-19. Gli strumenti per poterlo fare in tempi rapidi sono già disponibili, si pensi al Covid- Technology Access Pool (C-TAP) in seno all’OMS, o possono essere rapidamente approvati, come la rinuncia temporanea ai diritti di proprietà intellettuale proposto da India e Sud Africa in ambito WTO. Solo così, ponendo fine al monopolio dell’industria farmaceutica sui vaccini, chiunque, in ogni parte del mondo, potrà essere protetto il più rapidamente possibile. Questo approccio supererebbe i limiti che derivano dalle restrizioni della proprietà intellettuale, garantendo che i vaccini siano prodotti e venduti da molti attori in un mercato competitivo e resi disponibili al pubblico al minor costo possibile.
  3. Imparare dalle lezioni apprese dalla pandemia e condizionare in futuro i finanziamenti pubblici per la ricerca e sviluppo dei vaccini e per la loro produzione alla sospensione dei brevetti per le case farmaceutiche. I Governi hanno fornito miliardi di dollari di denaro dei contribuenti a sostegno delle aziende farmaceutiche per lo sviluppo e la produzione di vaccini. Secondo i dati raccolti dalla Fondazione kNUP i finanziamenti pubblici per la ricerca e lo sviluppo dei vaccini hanno superato nel corso del 2020 gli 83 miliardi di dollari. Eppure le stesse aziende che hanno beneficiato di finanziamenti pubblici hanno il controllo di dove e quanto i loro vaccini sono prodotti e quali paesi possono acquistarli. Ciò conferisce un enorme potere ad attori privati che sono guidati da interessi legati al profitto e non dalle esigenze di sanità pubblica e dai bisogni di salute globale.
  4. Agire fin da subito, affinché Reithera, che detiene il brevetto del vaccino sviluppato insieme all’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “Lazzaro Spallanzani” e finanziato dal Governo Italiano e dalla Regione Lazio, vi rinunci e accetti di condividere know-how e tecnologie per aumentare la produzione e rendere il vaccino disponibile per un numero più ampio possibile di persone in Italia e nel mondo.
  5. Sostenere le aziende italiane che hanno già pubblicamente espresso interesse a fare investimenti per adeguare i propri impianti alla produzione di vaccini Covid-19 già autorizzati dalle competenti autorità.

Confidando che le nostre richieste siano da Voi recepite e perseguite e augurandoci che il nostro Paese voglia farsi promotore di una soluzione inclusiva e rispettosa dei diritti di tutti per questa sfida senza precedenti per l’umanità, restiamo disponibili per un confronto nel merito e desiderosi di conoscere l’azione che il Governo intende promuovere.

Con i nostri migliori saluti,
Roberto Barbieri, direttore generale di Oxfam Italia
Rossella Miccio, presidente di EMERGENCY

da qui

sabato 27 febbraio 2021

Per prevenire future pandemie fermiamo la deforestazione. Non ci sono più scuse!

Per effetto dell’attività scellerata dell’uomo che causa la deforestazione si sta allargando sempre di più un altro spazio di contatto tra uomo e animali che potrebbe dare origine a nuove pandemie. Non ci sono più scuse: fermiamo la deforestazione!

Oltre allo spazio dei “mercati umidi” (wet markets) dove si trafficano anche specie protette - da dove i virus di origine animale possono passare all’uomo generando pericolose pandemie -anche l’attività indiscriminata e scellerata dell'uomo che causa la deforestazione fornisce un altro spazio (e altre occasioni) nel quale esseri umani e altre specie animali possono entrare a contatto con altri animali, persino con specie ancora sconosciute alla comunità scientifica. Pertanto, per prevenire future pandemie sarà cruciale ridurre al massimo gli spazi e le occasioni di contatto con specie animali che potrebbero trasmettre pericolosi virus di origine animale. 

Di fatto, gli esperti cinesi e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) -  che recentemente hanno effettuato accurate indagini a Wuhan [1], la capitale della provincia dello Hubei al centro del paese asiatico dove si è registrato il primo focolaio pandemico - hanno stabilito che il virus Sars-Cov-2 sarebbe di origine animale. Si tratterebbe dunque di una infezione di tipo zoonotico  – che avendo contagiato l’essere umano attraverso una specie animale “intermedia” si è propagato e ha dato vita alla pandemia conosciua come COVID-19, che da dicembre 2019 ancora stiamo vivendo, e che ha causato nel mondo oltre due milioni e trecentomila decessi dei quali 93.000 circa (4%) in Italia.   

L’ipotesi che si il virus Sars-Cov-2 fosse una malattia zoonotica che ha contagiato l’essere umano per aver consumato o anche solo per essere stato in contatto con alimenti contaminati – per esempio una specie “intermedia” (host) ammalata che entrata in contatto con la specie animale che è “contenitore” (reservoir) del virus, ovvero che ha in se gli anticorpi del virus stesso, e che può infettare altri animali che possono a loro volta entrare in contatto con l’essere umano contagiandolo [2] – non è del tutto una sorpresa.

Infatti, a metà circa dello scorso anno la comunità scientifica e di intelligence aveva ipotizzato che con buona probabilità il contagio tra l’uomo e la specie animale “intermedia” fosse avvenuto in uno dei così detti “mercati umidi” di Wuhan, nei quali animali morti e vivi stipati in condizioni vergognose (anche specie esotiche in via di estinzione e protette vendute sottobanco) sono commercializzati tra bancarelle ammassate in spazi costretti e affollati dove le norme sanitarie e fitosanitarie sono poco osservate e monitorate. Nei “mercati umidi” così popolari nei paesi del sud est asiatico, gli esseri umani, avventori che comprano o semplicemente visitano il mercato, entrano in stretto contatto con questi animali, respirando, oppure mangiandone le carni.

Di conseguenza, i “mercati umidi” sono stati presi di mira in Cina e in altri paesi asiatici e in alcuni casi si è giunti a considerane la chiusura totale, anche se con scarsi risultati. La pratica è molto radicata e spesso è legata a usi e costumi espressione dell’ identità culturale, oltre al fatto che dal commercio che avviene in questi mercati dipende buona parte dell’economia formale e informale di questi paesi. 

Nonostante la necessità del rispetto di norme sanitarie e fitosanitarie e di rispetto per la vita degli animali in vendita nei “mercati umidi” si possa considerare un’esigenza imprescindibile, la chiusura totale degli stessi potrebbe non essere una soluzione per prevenire future pandemie. 

Sebbene evitare che in uno stesso spazio convergano ed entrino in contatto diretto (o per ingestione delle carni) con l’uomo specie animali di tipo “intermedio” per il virus - provenienti da un allevamento (e.g. coniglio, furetto, visone) o una specie selvatica trafficata (e.g. volatile, felino, primate) che a loro volta sono stati a contatto con animali selvatici che fungono da “serbatoio” del virus (per esempio una specie di pipistrello come è avvenuto nel caso della SARS) - sia cruciale per prevenire il contagio, pensare che chiudendo i “mercati umidi” possa essere un intervento risolutivo è una ingenuità.

Non solo perchè le specie non protette e allevate in modo intensivo potrebbero comunque entrare a contatto con animali “serbatoio” - per esempio qualora questi animali depositassero fluidi o escrementi nelle gabbie degli animali allevati che poi verrebbero commercializzati legalmente - ma anche perchè nonostante la chiusura dei “mercati umidi” il mercato e traffico di specie selvatiche protette e in via di estinzione potrebbe continuare, addirittura amplificandosi, e spostarsi verso altri spazi e canali illegali, paradossalmente ancor meno controllabili dal punto di vista sanitario e fitosanitario[3].

Il desiderio di alcune persone di cibarsi di animali esotici, di possedere animali selvatici esibendoli come status symbol (sic.), di adornare le loro abitazioni con animali imbalsamati, di agghindarsi con parti degli stessi o usarli per produrre medicinali o pozioni che aumentano la potenza sessuale di dubbia efficacia potrebbe fomentare continuamente la domanda che sostiene questi traffici illeciti.

Pertanto, oltre a sanzionare questo scellerato traffico di esseri viventi con pene e ammende che  - rispetto ai profitti che ne derivano - servano a scoraggiare i trafficanti e a responsabilizzare pubblicamente i consumatori finali,  sarebbe più opportuno intervenire per disincentivare la domanda di questi “prodotti” per rompere questo circuito criminale.

Sarebbe ora di considerare il traffico e la commercializzazione di animali selvatici e specie protette come un’emergenza per tutti i paesi, e quindi esigere il concretarsi di una volontà politica di intervento con fini preventivi e di contrasto.

Ogni paese dovrebbe prendere coscienza del problema a livello nazionale e locale, e mettere a punto politiche pubbliche educative per poter innanzitutto prendere le distanze da certe tradizioni di antica memoria che troppo spesso giustificano il protrarsi di pratiche che possono risultare nocive e pericolose per la salute e la vita delle persone e del pianeta tutto.

Allo stesso tempo, però, oltre al problema del traffico di specie selvatiche e ai "mercati umidi" come abbiamo anticipato poc’anzi, in virtù della deforestazione si sta ampliando un altro spazio nel quale esseri umani e altre specie animali possono entrare a contatto con animali “serbatoio” o “intermedi” – addirittura con specie sconosciute alla scienza al momento – che potrebbero essere vettori per future pandemie.

La deforestazione è causata dal taglio indiscriminato delle foreste tropicali per fare spazio a progetti estrattivi su vasta scala, come le miniere, le piantagioni e le monocolture, di la palma da olio e di soia per i biocombustibili e l’industria alimentare e gli allevamenti intensivi di bovini e suini per la carne.

Infatti, l’accento sulla deforestazione nell’origine di almeno il 70% delle ultime epidemie zoonotiche  è stato messo dalla dottoressa e medico spagnola Maria Neira, direttrice della Salute Pubblica e dell’Ambiente dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) in una intervista rilasciata al quotidiano spagnolo El País il 5 febbraio 2020 .

La dottoressa Neira afferma che “la pandemia di coronavirus è un'ulteriore prova della pericolosa relazione tra virus e pressioni umane sull'ambiente” e spiega come come i virus Ebola, SARS e HIV/AIDS siano passati dagli animali agli esseri umani in conseguenza della distruzione delle foreste tropicali che fungono come naturale barriera tra esseri umani e specie selvatiche.

La deforestazione intensiva, sottolinea la scienziata, per ottenere profitti immediati, ha “effetti devastanti sul futuro dell'umanità” perché abbattendo la foresta per fare spazio ad un'agricoltura intensiva sostenuta da pesticidi e veleni inquinanti,  fa si che gli animali che vivono in luoghi dove l’uomo non era mai arrivato, subiscano “profonde trasformazioni”. Possono apparire così specie “alterate “ che fungono da vettori per la trasmissione dei virus. La deforestazione abbatte “quella barriera ambientale tra le specie che ci protegge naturalmente.”

Secondo la scienziata è urgente che i governi e le persone si rendano conto che il cambiamento climatico è un problema prioritario di salute pubblica, non una questione solo per chi si interessa di ecologia o di attivismo. Neira, inoltre, propone di cambiare la narrativa sui rischi del cambiamento climatico, poiché questo ha un impatto notevole anche sulla nostra salute: “A volte, in modo arrogante, diciamo che dobbiamo salvare il pianeta. E no, dobbiamo salvare noi stessi. Stiamo distruggendo il pianeta, ma esso troverà un modo per sopravvivere; gli umani no.” 

Ora più che mai, per noi di Salviamo la Foresta porre l’accento sui pericoli della deforestazione e del traffico di specie selvatiche e protette in relazione ai rischi di future pandemie non può che rafforzare e confermare le ragioni del nostro impegno quotidiano e futuro, essendo la salvaguardia delle foreste tropicali e dei loro abitanti la nostra missione, la nostra ragion d’essere da sempre.

Attraverso le nostre petizioni e le firme che i nostri sostenitori ci restituiscono e realizzando i nostri progetti con organizzazioni di base nei paesi del sud del mondo, diamo il nostro contributo per affrontare questa crisi che colpisce la biodiversità globale e che stiamo vivendo ormai da almeno cinquant’anni, senza sosta, nel silenzio assordante di molta parte della classe politica internazionale e del settore impresariale privato.

La crisi della biodiversità e delle foreste tropicali deve essere una priorità nell’agenda politica di tutti i paesi. Non c’è tempo. La situazione è arrivata all’estremo.

Basti tenere conto che nel 2019, secondo il World Wildlife Fund (WWF), nelle zone tropicali, ogni minuto, si è persa una superficie di foresta tropicale equivalente a quasi 30 campi da calcio (1 campo da calcio misura circa 45-90 m). Nella regione amazzonica in particolare, negli ultimi 50 anni circa il 17% della foresta con la sua biodiversità insostituibile è ormai andato perduto, soprattutto per fare spazio all'allevamento del bestiame, ma anche per estrarre legname tropicale, oro e altri metalli, petrolio e gas naturale.

Inoltre, affrontare questa crisi e gli effetti diretti che ricadono sulla nostra salute deve tenere conto anche degli impatti negativi causati dalle organizzazioni criminali transnazionali e dalla corruzione, lungo tutta la catena del traffico di specie selvatiche e protette, animali e vegetali come ha puntualizzato la United Nation Organization on Drugs and Crime (UNODC) nel suo report World Wildlife Crime Report - Trafficking in Protected Species - del 2020.  

Non solo siamo tutti parte dello stesso ecosistema e quindi legati dallo stesso destino, ma ogni nazione del mondo può essere un paese di origine, di transito e/o di destinazione per questi traffici illeciti e quindi offrire spazi e occasioni per il detonarsi e/o il propagarsi di nuove malattie zoonotiche e quindi di nuove epidemie.

Ogni paese, ogni governo, tutto il settore privato e ognuno di noi abbiamo un ruolo da svolgere per prevenire e contrastare questi crimini contro la fauna e la flora selvatica, al fine di proteggere la natura e l’umanità intera.  

Di fatto, per concludere, se c’è qualcosa di molto evidente che abbiamo imparato durante questa pandemia è che la collaborazione tra cittadini e la cooperazione tra i diversi paesi sono di cruciale importanza per affrontare e contrastare una pandemia. É arrivato il momento di mettere in pratica questo insegnamento anche per proteggere il pianeta e la natura con la sua biodiversità. La deforestazione pertanto si deve fermare. Non ci sono più scuse, ormai.

Si dovrebbe considerare un crimine contro l'umanità. Senza esagerazioni, visti gli effetti. 

da qui

venerdì 26 febbraio 2021

Lettera aperta di Survival International

 

Lettera aperta di Survival International al Direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana

di Francesca Casella

 

Egregio Direttore,

abbiamo letto l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera lo scorso venerdì 12 febbraio dal titolo “Covid, la variante brasiliana sta sterminando gli Yanomami”, a firma di Sandro Modeo.

https://www.corriere.it/esteri/21_febbraio_12/covid-sta-sterminando-indios-yanomami-questo-riguarda-anche-nostri-bimbi-ecco-perche-def2e222-6bc6-11eb-8932-bc0ccdbe2303.shtml

Se da un lato il pezzo dà finalmente spazio alla tragedia in corso nel territorio yanomami, in Brasile, dall’altro lato purtroppo rappresenta gli Yanomami riprendendo stereotipi e luoghi comuni a cui riteniamo che il maggior quotidiano nazionale del nostro paese non dovrebbe dare credito.

La descrizione razzista degli Yanomami presente nell’articolo ci ha davvero stupito. Simili descrizioni sono anche pericolose perchè vengono utilizzate ancora oggi per alimentare e giustificare il genocidio dei popoli indigeni, in Brasile e non solo.

La invito a leggere la lettera che le inviamo in allegato, in cui abbiamo riassunto i punti più problematici dell’articolo chiarendo perché è così importante fornire una descrizione scientificamente e storicamente accurata degli Yanomami, e dei popoli indigeni più in generale.

Invieremo l’articolo anche alle organizzazioni yanomami e ad antropologi che, ne siamo certi, avranno le loro opinioni e reazioni, di cui vi terremo al corrente.

A questo proposito, le saremmo grati se potesse pubblicare la nostra lettera o dare spazio sul Corriere a un articolo di risposta scritto da chi collabora con gli Yanomami da moltissimi anni, o dagli Yanomami stessi.

Le prego, infine, di voler impegnarsi a garantire che d’ora in poi il Corriere della Sera eviterà in futuro di contribuire ad alimentare pregiudizi sugli Yanomami, e su tutti i popoli indigeni.

Resto a disposizione per ulteriori informazioni.

Grazie per l’attenzione.

Cordialmente,

Francesca Casella

Direttrice per l’Italia Survival International (Italia)

LA LETTERA

Egregio Direttore Fontana,
abbiamo letto l’articolo di Sandro Modeo pubblicato sul Corriere della Sera venerdì 12 febbraio dal titolo “Covid, la variante brasiliana sta sterminando gli Yanomami”. Se da un lato il pezzo dà finalmente spazio alla tragedia in corso nel territorio yanomami, dall’altro lato – purtroppo – rappresenta gli Yanomami riprendendo stereotipi e luoghi comuni a cui riteniamo che il maggior quotidiano nazionale del nostro paese qual è il Corriere della Sera non dovrebbe dare credito.

Nell’articolo si legge, infatti, che gli Yanomami sono “molto prossimi, per tanti tratti, alle comunità di cacciatori-raccoglitori precedenti la rivoluzione neolitica del 10.000 a.C.” e che “a lungo si è discusso – e si discute tuttora – sulla loro alta aggressività che trasparirebbe da rapporti intertribali scanditi da pratiche ‘omeriche’ (uccidere gli uomini, rapire le donne) e da una prole (anche le femmine) addestrata da subito a una sorta di violenza anaffettiva”.
Definire gli Yanomami come prossimi alle società neolitiche è scientificamente falso e dannoso.
Gli Yanomami, così come tutti i popoli indigeni, sono contemporanei e moderni esattamente come noi: anche loro, come ogni società umana, si sono evoluti e adattati a un ambiente in continua trasformazione. I loro stili di vita sono altrettanto sofisticati, anche se diversi dai nostri.

Ciò nonostante, simili stereotipi razzisti vengono utilizzati ancora oggi – da parte di governi e aziende – per giustificare le violazioni dei loro diritti fondamentali e la loro assimilazione forzata alla società dominante nel nome dello “sviluppo” e del “progresso”.
Anche attribuire agli Yanomami una propensione all’aggressività, una “violenza endogena”, è sbagliato e pericoloso perché veicola gravi violazioni dei loro fondamentali diritti umani.

Come si accenna nell’articolo, simili idee sono tutte riconducibili agli studi dell’antropologo statunitense Napoleon Chagnon, le cui tesi sono già state ampiamente criticate e screditate sia dal mondo accademico sia dagli Yanomami stessi e da stimati esperti di cultura yanomami (a questo link trova una raccolta). Queste rappresentazioni false hanno avuto conseguenze dannose e di lunga durata per la tribù: per due decenni, ad esempio, i militari brasiliani le hanno utilizzate per negare agli Yanomami i diritti territoriali. Ancora oggi, descrizioni come quelle presenti nell’articolo vengono usate per alimentare il genocidio dei popoli indigeni, in Brasile e non solo.

La invito a leggere sul tema un articolo del nostro Direttore generale Stephen Corry pubblicato sulla prestigiosa rivista di antropologia dell’ANUAC (Associazione Nazionale Universitaria Antropologi Culturali).
Inoltre, le consiglio di leggere il libro scritto dal leader e portavoce Yanomami Davi Kopenawa, “La caduta del cielo”, per una testimonianza in prima persona della vita e del pensiero yanomami. Tra l’altro, Davi è stato proprio recentemente eletto all’Accademia delle Scienze del Brasile.
Infine, non abbiamo potuto fare a meno di notare come nell’articolo la ragione dell’attuale
diffusione del Covid-19 tra gli Yanomami sia attribuita, oltre alla negligenza del governo sul piano sanitario, alla “promiscuità della vita quotidiana” e alla “totale assenza di profilassi igienica” degli Yanomami. In realtà, una delle principali ragioni del contagio – oltre alla negligenza, e alla complicità, del governo brasiliano – è l’invasione del loro territorio da parte di 20.000 cercatori d’oro illegali che, oltre a distruggere la foresta, hanno introdotto e continuano a diffondere la malattia.

Gli Yanomami e gli Ye’kwana hanno recentemente pubblicato su questo un rapporto
dal titolo “Xawara – il cammino mortale del Covid-19 e la negligenza del governo nel territorio Yanomami”.
La stessa petizione da 430.000 firme promossa dagli Yanomami che viene citata nell’articolo chiede proprio al governo brasiliano non solo di implementare un piano di emergenza per contrastare il Covid-19 (come viene spiegato), ma anche di sfrattare con urgenza gli invasori dal territorio. Come capirà, è assolutamente fuorviante non dare il giusto risalto a questo aspetto.

Infine, ci teniamo a sottolineare che la ventennale campagna internazionale che portò, nel 1992, al riconoscimento del Territorio Indigeno Yanomami non può essere definito “un successo molto parziale”: il territorio è oggi la più grande area di foresta sotto controllo indigeno al mondo, e la conoscenza scientifica degli Yanomami e il loro modello di conservazione di questa zona ad altissima biodiversità sono di cruciale importanza nella lotta per mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici. Inoltre, cosa ancora più cruciale, senza quel riconoscimento dei loro diritti territoriali gli Yanomami non sarebbero sopravvissuti agli assalti esterni dell’epoca recuperando
poi, via via, le perdite demografiche subite. Come in molti paesi del mondo, la periodica
invasione illegale delle terre indigene non è un fenomeno inevitabile e inesorabile, bensì il frutto di una precisa e criminale inerzia delle autorità governative, da condannare senza mezzi termini.

Spero comprenda quanto sia importante fornire una descrizione scientificamente e storicamente accurata degli Yanomami e dei popoli indigeni in generale. Le saremmo grati se potesse pubblicare questa lettera come replica o, ancora meglio, dare spazio a un articolo scritto da chi collabora con gli Yanomami da moltissimi anni, o dagli Yanomami stessi.

Restiamo a disposizione per chiarimenti e approfondimenti.
Grazie per l’attenzione.
Cordialmente,

Francesca Casella

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giovedì 25 febbraio 2021

Fermiamo il trattato UE-Mercosur!

 

L’Amazzonia chiama, il mondo risponde: fermiamo il trattato UE-Mercosur

 

Indigeni, Sem Terra, Greta con i FFF e i movimenti italiani incassano il supporto di sindacati e Parlamento Ue, rilanciando la mobilitazione contro l’accordo commerciale che minaccia l’Amazzonia e l’agricoltura europea

Domani e il 26-27 febbraio i movimenti indigeni, il Movimento Sem terra, i Fridays for future e tutte le campagne per la giustizia economica, climatica e sociale, come, in Italia, la Campagna Stop TTIP Italia lanciano azioni online per ottenere dalla Commissione europea e dai governi dell’area Mercosur – Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay – di rinunciare al trattato di liberalizzazione commerciale EU-Mercosur che mette a rischio l’esistenza stessa della foresta amazzonica e il suo ruolo insostituibile d polmone verde del pianeta.

Joao Pedro Stedile, leader del Movimento Sem Terra Brasiliano ha chiesto, in un accorato appello ai cittadini di Italia, Spagna e tutta Europa di “unire le forze contro una mossa delle grandi corporation europee e multinazionali, che condanneranno i cittadini d’Europa a mangiare porcherie piene di veleni, e noi popoli dell’America del Sud perderemo le nostre risorse naturali e il lavoro”.

I movimenti indigeni e i Fridays for Future lanceranno con un tweetstorm ripetuto domani 19 febbraio e il 26 febbraio ai capi di Governo dei Paesi Ue e alla Commissione la due giorni di mobilitazioni online “El Grito de la Selva: Voces de la Amazonía”. L’iniziativa è organizzata dall’Asamblea Mundial por la Amazonía con la partecipazione di rappresentanti della Coordinadora de Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica (COICA), la Red Eclesial Panamazónica (REPAM) e il Foro Social Panamazónico (FOSPA) insieme a attivisti, scienziati e alleati a Sud e a Nord nel Mondo[2].

I giovani di Fridays for Future dell’area amazzonica, ma anche in Italia, lanciano l’attività con un video[3] in cui Greta Thumberg interviene, insieme alla leader indigena Sonja Guyara e a giovani attiviste e attivisti delle due sponde dell’oceano, denunciando che “l’Amazzonia brucia di nuovo, dobbiamo proteggerla, impedire che vada in cenere il nostro futuro: questa è una battaglia che dobbiamo vincere, e dobbiamo vincere insieme”.

L’attenzione rispetto al trattato sta crescendo ora dopo ora, e il supporto all’azione della campagna internazionale s fa sempre più rilevante.

I sindacati europei (ETUC) e del Cono Sud (CCSCS) hanno scritto una dichiarazione comune contro il trattato, in cui annunciano la creazione di un “Forum del lavoro” congiunto con il quale chiedono a Commissione Ue e Governi del Mercosur di “rinegoziare da capo l’Accordo perché allo stato non presenta sufficienti garanzie sul rispetto dei lavoratori e del commercio intra-Mercosur, fondamentale volano di sviluppo dell’area”[4].

Anche i gruppi parlamentari europei Verdi e Gue, compresi gli italiani, hanno scritto al Governo Portoghese, presidente di turno dell’Unione, e alla Commissione chiedendo formalmente di riaprire la trattativa: “Importanti preoccupazioni per l’accordo UE-Mercosur provengono non solo da organizzazioni ambientaliste, popolazioni indigene ed esperti, ma anche da molti capi di Stato e parlamenti. Così com’è, l’accordo porterà a un aumento significativo della deforestazione nella regione del Mercosur. Esiste un ampio consenso scientifico e politico sulla necessità di integrare pienamente gli obiettivi ambientali e sociali al centro dell’accordo e il Parlamento europeo ha dichiarato che l’accordo non può essere ratificato nella sua forma attuale”, constatano nella missiva[5].

“In un momento in cui la crisi climatica e sociale è più grave che mai, per noi è del tutto inaccettabile che si propongano ricette economiche e commerciali improntate all’abbattimento di regole e controlli su prodotti e metodi di produzione devastanti per gli ecosistemi e le comunità – dichiara Monica Di Sisto, portavoce della Campagna Stop EU-Mercosur, che in Italia coordina associazioni ambientaliste, sindacati, organizzazioni contadine, produttori e comitati locali – L’Italia, che opera nell’area con oltre 500 aziende[6], deve scegliere se stare dalla parte della distruzione o della cooperazione e della costruzione di un futuro migliore per tutti. Come Paese ospite del G20 dobbiamo dimostrare con i fatti di essere coerenti con gli impegni confermati anche dal nuovo governo verso la transizione ecologica, la protezione sociale e evitare che le imprese che lavorano in qualità e nel rispetto degli standard ambientali e sociali in Europa come nel Mercosur vengano ulteriormente danneggiate da una liberalizzazione non accompagnata da adeguate valutazioni e analisi, anche alla luce del nuovo quadro determinato dalla pandemia. Chiediamo la riapertura di un tavolo sul trattato con i dicasteri competenti per un dialogo costruttivo con la società civile che ascolti anche le voci e le richieste di indigeni e associazioni dell’area Amazzonica”.


Per approfondire

La deregolamentazione degli scambi fra i due blocchi ha l’intento di creare la più grande area di libero commercio del mondo, che riguarderà 800 milioni di persone. In un momento in cui la crisi climatica e sociale è più grave che mai, per noi è del tutto inaccettabile che si propongano ricette economiche e commerciali improntate all’abbattimento di regole e controlli su prodotti e metodi di produzione devastanti per gli ecosistemi e le comunità. Il trattato UE-Mercosur promuove un aumento delle importazioni europee di carne bovina, soia e biocarburanti, in cambio di maggiori esportazioni di automobili nei Paesi sudamericani. Uno scambio fra agroindustria e automotive le cui pesanti esternalità ricadranno sulle condizioni della foresta amazzonica, già gravemente colpita da incendi e deforestazione guidata dai grandi allevatori e agricoltori con l’appoggio del governo brasiliano, in prima linea nella cancellazione dei vincoli ambientali.

Ad oggi, infatti, è virtualmente impossibile tracciare le importazioni provenienti dall’area del Mercosur, e in particolare dal Brasile. Il sistema di controlli europeo non pone sanzioni sostanziali sulle importazioni di materie prime collegate alla deforestazione, mentre la scarsa trasparenza delle imprese che operano nella zona rende difficile anche solo individuarle. Le stime dicono che l’80% della distruzione dell’Amazzonia è collegato al settore della carne bovina. L’Unione europea è il primo partner commerciale del in questa filiera, e l’Italia il primo mercato di sbocco: stringendo un accordo che indebolisce ulteriormente ispezioni e controlli, l’UE e i paesi membri rischiano di rendersi complici della definitiva distruzione di un bioma fondamentale per la vita sul pianeta, una foresta in grado di assorbire il 9% del carbonio globale. Non solo: accanto al disastro ambientale e climatico, ci sono le crescenti violazioni dei diritti umani: violenze e minacce nei confronti delle comunità native abitano la foresta stanno aumentando, con persone espulse e famiglie decimate da paramilitari al soldo delle imprese.


[1] Il videomessaggio di Joao Pedro Stedile https://bit.ly/3shjNg7

[2] I dettagli dell’iniziativa http://bit.ly/ElGritoDeLaSelva

[3] Il video di Greta Thunberg, dei Fridays For Future e dei movimenti indigeni https://bit.ly/3dohWSr

[4] La lettera dei sindacati https://bit.ly/37j1cYU

[5] La lettera degli eurodeputati https://bit.ly/3diHOPm

[6] Le elenchiamo nel report “Colpevoli di ecocidio” https://bit.ly/3qsQQNw

 

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CA: Alla Commissione Europea e ai governi degli Stati membri della UE

Gentili Signore, Egregi Signori,

La UE vuole firmare un accordo di libero scambio con gli stati del Mercosur. L'accordo mira a facilitare le esportazioni, in particolare di carni bovine e pollame, zucchero ed etanolo verso l’ Europa. Questo accordo comporta l'intensificazione dell'agricoltura con ripercussioni negative sulla natura e sulla popolazione indigena e rurale.

Conosciamo bene i possibili rischi:

- Le quote più elevate di carni bovine porteranno ad un aumento della produzione di carne bovina in Sud America, all'aumento dell’estensione dei pascoli e quindi alla sostituzione delle foreste e delle savane. Allo stesso tempo, la pressione sugli agricoltori europei porterà ad intensificare la loro produzione, a scapito del benessere degli animali.

- Un'agricoltura sempre più intensiva in Sud America spesso si associa a conflitti territoriali e violazioni dei diritti umani che possono persino portare allo sfruttamento del lavoro in schiavitù. L'uso su larga scala di prodotti tossici come il glifosato mette in pericolo la salute di molte persone, avvelenenando i terreni e le falde acquifere.

- I regolamenti sulle barriere non tariffarie minacciano le norme ambientali europee nonché i diritti dei lavoratori e dei consumatori. Il principio di precauzione definito nella UE è minacciato, i principi democratici sono indeboliti.

Nel condurre negoziati a porte chiuse, la Commissione Europea seguirebbe la stessa strategia stabilita per gli accordi TTIP e CETA, contro i quali milioni di cittadini hanno protestato. La UE non sembra prendere sul serio queste critiche e continua, con l'FTA (Free Trade Agreement) del Mercosur, una politica commerciale altrettanto dannosa, a scapito delle persone e dell'ambiente su entrambe le sponde dell'Atlantico.

Vi chiediamo di porre fine a questo accordo.

Cordiali saluti

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mercoledì 24 febbraio 2021

Nessuno si salva da solo. Ma l’Africa è senza vaccini - don Dante Carraro

L’Africa e i paesi più poveri restano i grandi esclusi. Tutti parlano del vaccino anti Covid ma l’Africa non c’è. È fuori dal radar. Al 28 gennaio, in Africa, le persone vaccinate erano venticinque, come ha ricordato domenica scorsa, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa, il prof. Alberto Mantovani, immunologo di fama internazionale e direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas che collabora con il Cuamm e il Bambin Gesù in Centrafrica. Venticinque, non venticinquemila.

E su Avvenire ha ribadito: “Il più grande pericolo che l’umanità sta correndo è l’unico che passa sotto silenzio […], non mandare vaccini proprio nei Paesi poveri è scandaloso per due motivi: il primo etico, il secondo sanitario visto che le due varianti oggi più temute vengono proprio da lì, dal Sudafrica e dalla selva brasiliana’.

Contro la pandemia risposta globale

Davanti a un’emergenza globale, l’unica risposta possibile deve essere globale. Serve un piano vaccinale per l’Africa.
Servono più dosi. Il Covax, l’iniziativa per la distribuzione equa dei 
vaccini nel mondo, riuscirà a fornire il vaccino, entro la prima metà del 2021, solo al 5% della popolazione africana. Finora sono stati raccolti solo due miliardi di dollari dei dieci necessari per avere una immunità ‘comunitaria’. Bisogna fare di più! E poi è fondamentale produrre più vaccini consentendo ai diversi centri produttivi (India e Brasile in particolare) di aumentare le quantità smorzando così il mercato dei vaccini. È necessaria la sospensione temporanea del brevetto! Il rischio è quello di un’ulteriore ingiustizia: la disuguaglianza vaccinale.

Ma poi una dose deve “diventare vaccino”. Chi conosce l’Africa sa di che cosa parlo e quanto alta è la sfida. Le vaccinazioni mettono a nudo le debolezze di un sistema sanitario. Dietro ad una campagna vaccinale ci sono attività concrete. Per prima cosa il vaccino deve arrivare a destinazione e ben conservato. Dalla capitale va trasportato nei punti vaccinali, negli ospedali e poi da questi ai centri sanitari fino ai villaggi. Serve un sistema logistico che funzioni compresa la ‘catena del freddo’ che garantisca i -3/-4 gradi necessari.

Ma ci sono anche cose più elementari da garantire: le siringhe, il cotone, l’alcol; credetemi, non è scontato. Poi ci vuole il personale che somministra il vaccino e che deve essere formato. Infine c’è la sfida dell’accettabilità culturale da parte delle comunità, che si supera solo con campagne di informazione come sperimentiamo ogni giorno.

Un appello contro la diseguaglianza vaccinale

Abbiamo imparato a dirlo che ‘nessuno si salva da solo’, adesso dobbiamo farlo per davvero. Dobbiamo mobilitarci non con la bocca ma con mani operose, non aspettando dagli altri un gesto ma facendolo noi per primi, coinvolgendo e spronando tutti. Siamo piccoli rispetto ai grandi del mondo, abbiamo però una grande forza: possiamo essere in tanti. L’essere insieme, sempre di più e sempre più determinati, singoli, gruppi, associazioni, istituzioni e imprese.

È un appello che rivolgiamo a tutti, giovani e anziani, ricchi e poveri, credenti e non. È un invito pressante anche alla stampa, alle Tv e alle radio perché possano spingere l’opinione pubblica e le istituzioni lì dove da sole non andrebbero.

Il rischio è alto in tutta l’Africa

Ci rivolgiamo a chiunque sente sgorgare nel cuore il bisogno di una giustizia ‘più grande’, della solidarietà con i più poveri, dell’accesso alla salute e al vaccino per tutti, specie i più vulnerabili.
“Il Mozambico in questi giorni ha perso un anestesista, un gastroenterologo, un urologo e due giovani medici generalisti – riporta la rivista Science  – Molti altri sono gravemente malati. È una perdita molto grave per un paese che ha solo 8 medici ogni 100.000 persone”. Il rischio è alto in tutta l’
Africa. Stiamo lavorando a un’iniziativa concreta, sostenuti anche dall’autorevolezza umana e professionale del prof. Mantovani, per portare un contributo tangibile e fattivo a questa grande sfida, focalizzandoci in particolare sui medici e infermieri locali.
Vi terremo aggiornati. Grazie di essere con noi!

* direttore della Ong-Onlus Medici con l’Africa Cuamm

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martedì 23 febbraio 2021

Clima globale, di male in peggio - Alberto Castagnola

 

Negli ultimi mesi del 2020 sono apparsi su fonti autorevoli alcuni dati complessivi che è importante tenere presenti. Nel periodo 1990-2015 è stata emessa una quantità di anidride carbonica equivalente a quella prodotta dall’attività umana in tutto il passato, segno questo certo della maggiore intensità  e della accelerazione dei fenomeni di inquinamento dell’atmosfera.

Inoltre, nell’Artico il metano emesso negli ultimi 20 anni  è 80 volte superiore alle emissioni di CO2, a causa principalmente dello scioglimento del permafrost sottomarino durante la sempre più lunga estate artica.

Le bolle di metano salgono anche da 350 metri di profondità e ciò significa che sono le acque del mare a veicolare il riscaldamento.

E’ stata inoltre segnalata la presenza nelle vicinanze dell’Isola della Georgia del Sud, territorio inglese d’oltremare nel Pacifico meridionale, di un grande iceberg staccatosi nel 2017 dall’Antartide, denominato A68, che ha continuato a muoversi sui mari risentendo molto poco della corrosione esercitata dalle onde  e che ora è ancora grande quanto l’isola.

E’ poi da notare che l’anno in corso è molto caldo malgrado la presenza della Nina, la corrente che in genere esercita una azione rinfrescante durante tutto il suo percorso.

Alcune ricerche hanno inoltre elaborato delle analisi socioeconomiche delle emissioni di anidride carbonica, sottolineando che il 10% della popolazione più ricca (730 milioni di persone) ne ha emesso la metà (49%), e tutti gli altri , 6,6 miliardi di persone, la parte restante.  Infine, sempre a livello planetario, il 20 ottobre sono stati registrati i dati minimo e massimo delle temperature, e precisamente  meno 62,7 gradi centigradi a Vostok, in Antartide, e più 45,2 gradi centigradi nella città di Rivadavia, in Argentina.

In tutto il periodo considerato, inoltre , si sono manifestati con sempre maggior virulenza i cosiddetti eventi estremi, influenzati direttamente dagli andamenti climatici globali. In primo luogo, è importante notare che la crisi climatica rende gli uragani più distruttivi.

Limitando le rilevazioni agli ultimi 50 anni, si è notato che alla fine degli anni ‘60 quelli che provenivano dai Caraibi perdevano  circa il 75% della loro intensità  il giorno dopo aver toccato la terraferma negli Stati Uniti; negli ultimi anni perdono solo il 50% della loro potenza e quindi arrecano danni molto più rilevanti su distanze molto maggiori.

Inoltre mantengono quasi intatta la loro umidità ed emanano quindi maggiori quantità di calore. I ricercatori che hanno fornito queste indicazioni avvertono che si tratta ancora di una ipotesi da verificare, ma i danni arrecati in Stati come il Texas sembrano costituire una verifica empirica sufficiente.

Cicloni: tra la fine di ottobre e i primi di novembre l’uragano Eta ha colpito il Nicaragua con venti a 240 chilometri orari, e sembra non abbia causato  vittime a causa delle misure di sicurezza adottate.

In Honduras era meno forte, ha causato 74 morti  e ha coinvolto mezzo milione di famiglie, cioè almeno 3 milioni di persone.  In Guatemala le perdite sono state altrettanto gravi, con 46 morti e 96 dispersi, colpendo  qui mezzo milione di persone  distruggendo le coltivazioni sulle quali vivevano almeno 700mila persone. Eta ha poi raggiunto la Florida

Il 15 novembre, quando ancora gli interventi di soccorso non erano terminati, un nuovo uragano, Iota, il più potente mai visto, ha colpito il Nicaragua,  causando 16 morti e 4 dispersi.

Una parte degli sfollati è stata accolte in 230 Case Solidali, da tempo individuate, sono esondati tre fiumi e 3400 ettari di coltivazioni di caffè sono stati distrutti. Questo denominato Iota era il trentesimo uragano verificatosi  durante l’anno, più dei 28 registrati nel 2005.

Anche le Filippine sono state colpite da un tifone, chiamato Goni, con venti a 225 chilometri orari. Le vittime sono state 9 2 25mila le case distrutte.

Incendi: In California nuovi incendi a sud di Los Angeles, 5900 ettari di vegetazione distrutti e almeno 90mila persone costrette alla fuga. A Tuipasa, in Algeria, un incendio definito doloso ha causato due morti. Nell’Assam, sud ovest dell’India, da almeno cinque mesi è stato in fiamme un pozzo di petrolio, ora faticosamente estinto.

Frane: la pioggia ha causato frane in una miniera illegale di carbone a Sumatra, Indonesia, facendo 11 vittime. Alluvioni: coinvolte almeno 83mila persone in Congo. Epidemie: per evitare il rischio di diffusione della influenza aviaria, in Olanda sono stati uccisi 215mila polli. In Congo è stata dichiarata conclusa l’epidemia di Ebola nella provincia dell’Equatore, che ha causato 55 vittime. Infine, la plastica, ormai considerata onnipresente in natura: ogni anno, 230mila tonnellate di plastica sono state riversate nel Mediterraneo, con gli effetti dannosi che ben si conoscono.

Questa cifra è destinata a raddoppiare in breve tempo se non si adottano misure adeguate di contenimento degli usi.

Nel quadro globale è poi importante inserire alcuni dati relativi all’Italia Durante la Conferenza Nazionale sul Clima, organizzata a metà del mese di ottobre dalla Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e da un gruppo di imprese, sono emersi dei dati interessanti sul ritardo con il quale l’Italia affronta i problemi climatici.

Negli ultimi cinque anni sono stati tagliate le emissioni di sole 1,4 mega tonnellate di anidride carbonica equivalente, mentre ne dovremmo tagliare 17 da qui al 2030 per rispettare le indicazioni dell’Unione Europea. Inoltre è allarmante i dato relativo alle energie rinnovabili, che tra il 2014 e il 2018 sono cresciute meno del 7%, mentre la media europea è del 14%, quella della Francia, della Spagna e della Germania è aumentata del 16-18%.

L’industria sembra aver ridotto le sue emissioni solo perché sui dati incide la crisi dovuta alla pandemia, mentre i trasporti negli ultimi trenta anni non hanno ridotto le loro emissioni. I consumi di energia delle abitazioni sono aumentati del 23%.

Il settore terziario ha aumentato del 58% le sue emissioni dal 1990, mentre l’agricoltura genera il 10% dei gas serra ed è il primo settore per emissioni di metano, a causa delle deiezioni animali ma anche dell’uso dei fertilizzanti di sintesi che producono protossido di azoto.

Per concludere, un riferimento al primo paese in campo economico, gli Stati Uniti, per sottolineare ancora una volta  gli effetti sul clima causati dal quadro politico. Nei suoi ultimi giorni al potere, il presidente Trump sta tentando di vendere contratti per prospezioni petrolifere in una pianura di 6500 chilometri quadrati situata all’interno del Parco Nazionale Artico, che ospita una pluralità di specie protette.

Tra le altre decisioni gravide di conseguenze non solo per il paese spicca l’uscita anche formale dall’Accordo di Parigi per l’ambiente, verificatasi in data 4 novembre, dopo essere stata annunciata oltre due anni fa. Il nuovo Presidente ha già espresso la sua intenzione di aderire nuovamente al Trattato, ma questi comportamenti del secondo paese grande inquinatore hanno svolto un ruolo non indifferente nel ridurre il peso di questa sede internazionale nella lotta per l’ambiente.

Nel suo rapporto sulla qualità dell’aria, Legambiente, colloca la capitale all’ultimo posto a causa dei troppi diesel in circolazione, ma anche le altre province del Lazio non presentano una situazione molto migliore.

 

Scelte economiche e danni ambientali

L’aria inquinata dalle polveri sottili PM 10 e PM 2,5 sembra sia la causa di circa il 15% delle vittime del Covid 19, la stima ovviamente non è facile ma stabilisce comunque un collegamento tra l’inquinamento dell’aria preesistente specie nei paesi industriali e la diffusione del virus più recente.

Sempre a tale proposito non possiamo dimenticare che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per aver superato per oltre dieci anni tutti i limiti relativi alle polveri sottili, in particolare il PM10. Inoltre il 14 novembre a Roma sono stati raggiunti i 35 sforamenti  concessi proprio per questo tipo di inquinamento, stabilendo così un record negativo di pericolosità

L’Australia è il paese maggiore esportatore di carbone  e gas, dai quali trae circa un quarto delle entrate. E’ anche il primo dei paesi grandi inquinatori, con emissioni che nel 2018 raggiungevano le 15,3 tonnellate per persona. A seguire, il Canada con lo stesso quantitativo,  

La Cina continua ad ampliare la sua flotta di navi da pesca industriale, che esercita in numerose aree marittime a scala globale. Il totale reso noto di recente è di 16.966  unità, che permettono di realizzare oltre il 35% del pescato mondiali (Taiwan  solo il 12%, Giappone 5%).

Nei mari della Corea del Sud sembra siano presenti 800 navi da pesca cinesi illegali, mentre di recente sono stati contati ben 340 pescherecci cinesi intorno alle isole Galapagos, considerate un bene da proteggere per le specie antiche che ospitano.

Nei suoi ultimi giorni al potere, il presidente Trump sta tentando di vendere contratti per prospezioni petrolifere in una pianura di 6500 chilometri quadrati situata all’interno del Parco Nazionale Artico, che ospita una pluralità di specie protette. Tra le altre decisioni gravide di conseguenze per il paese spicca l’uscita anche formale dall’Accordo di Parigi per l’ambiente, verificatasi in data 4 novembre, dopo essere stata annunciata oltre due anni fa. Il nuovo Presidente ha già espresso la sua intenzione di aderire nuovamente al Trattato, ma questi comportamenti del secondo paese grande inquinatore hanno svolto un ruolo non indifferente nel ridurre il peso di questa sede internazionale nella lotta per l’ambiente.

Le api continuano a subire i danni derivanti dai livelli ormai molto pesanti di inquinamento del pianeta. Un dato relativo al 2017, caratterizzato dalla siccità, denuncia una riduzione del miele prodotto dell’ordine dell’80%; ma è noto che il danno maggiore risiede nella forte riduzione della capacità di impollinazione delle api , che può danneggiare gravemente la resa delle coltivazioni utili per gli esseri umani.

Nei giorni scorsi è stato raggiunto il nuovo accordo per il nucleare, che sulla carta potrebbe rappresentare un utile impedimento per la proliferazione degli arsenali. In realtà tutti sanno che le maggiori potenze nucleari ((Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Cina e Francia)  non lo hanno firmato e nemmeno lo hanno fatto tutti e trenta i paesi aderenti alla Nato.(Italia inclusa).

Ancora due notizie poco rassicuranti: secondo alcune stime recenti, entro il 2050 tre miliardi di persone saranno prive di accesso all’acqua , evento che già oggi colpisce non pochi paesi. La diga di Kariba, costruita 70 anni fa al confine tra  Zambia e Zimbabwe, sul fiume Zambesi presenta gravi segnali di rischio. In particolare, le acque che da oltre sessanta anni fluisce giù dalla diga hanno scavato una buca profonda 80 metri che sta indebolendo le strutture in calcestruzzo. Inoltre la facciata di pietra continua a sgretolarsi. E questa è solo una delle circa 2000 grandi dighe realizzate in Africa, mentre in Zimbabwe, uno dei paesi più poveri del mondo ce ne sono 254. I restauri sono sempre più urgenti, ma chi vorrà sostenere gli immani costi previsti?

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