giovedì 30 aprile 2020

Cinque punti per trovare un senso - Annamaria Testa


Vorrei pensare ad altro, parlare d’altro e scrivere d’altro. Però farlo mi mi sembra, più ancora che difficile, incongruente.
È un pomeriggio di sole. L’aria è tiepida e immobile. Ho già sgranato la prima metà del rosario quotidiano di dati, notizie e opinioni che, della pandemia, delineano gli aspetti medici, epidemiologici, sociali, psicologici, economici, politici, nazionali e internazionali. Verso sera si ricomincia.
Sto affacciata sul cortile e tengo in mano una biro e un blocchetto preso mesi fa in un albergo di un altro continente, quando il mondo era diverso e viaggiare era normale. Provo a cercare argomenti, ma è un’infilata di porte chiuse.
So che, prima o poi, una porta si apre. Devo solo essere paziente e restare attenta abbastanza da intravedere lo spiraglio.
Una sirena. Lacerante è la parola esatta, in questo silenzio.
Non sono più uscita di casa da metà marzo, mai: l’onere e il privilegio della spesa spettano a mio figlio. Sono testimone di un fatto epocale, e lo sono restando chiusa tra quattro mura, nel bel mezzo del vuoto che è il centro di Milano. Sentendomi scorticata dalle immagini e dalle storie che mi grandinano addosso da tutti gli schermi.
Ogni tanto, cerco di ricordarmi che ho l’immenso privilegio di respirare.
Leggere e scrivere è la mia cura e la mia strategia per ricostruire costantemente un senso. Un modo per mettere ordine nei pensieri, così come metto ordine nelle stanze o lucido alla perfezione il lavello della cucina.
Sul blocchetto che viene da un altro continente ho scritto: “senso > costruzione, necessità”. Sarà il mio spiraglio di oggi.
Passa un elicottero. Vola bassissimo in cerchi stretti. Il rombo risuona nello spazio chiuso del cortile. Un merlo si posa sul davanzale a meno di un metro dal mio naso.
È elegante e spavaldo. Bellissimo.
Senso è, credo, una delle parole-chiave della condizione umana. E della cognizione umana. Tuffarsi nella molteplicità dei suoi significati è compiere un viaggio dentro la propria, di molteplicità.
Le percezioni: i nostri “organi di senso” intercettano frammenti di mondo (immagini, suoni, odori…). Sono stimoli che il nostro cervello seleziona e poi ricompone nel mosaico che noi chiamiamo “realtà”, e che, a voler essere precisi, è solo una rappresentazione della realtà. Una, fra le infinite possibili.
Le emozioni: diciamo “senso” per indicare una nostra condizione emozionale soggettiva. Così, possiamo provare un senso di benessere, di esaltazione, o di panico, o di disgusto, o di noia.
Le cognizioni: a proposito di un fenomeno o un discorso, diciamo “senso” considerando il contesto e la struttura, la coerenza e le conseguenze. Parliamo di senso logico, di senso stretto e di senso lato, di senso comune e di buonsenso, e anche di controsenso o di nonsenso. E diciamo “sesto senso” per indicare l’intuizione che precede la ragione.
I valori: “senso” sta a indicare l’orientamento interiore che ci guida nel giudicare giusto, opportuno e buono qualcosa. Parliamo, per esempio, di senso estetico, etico, critico. Di senso materno, del dovere, della giustizia. Diciamo “a senso di legge” e sosteniamo che può esistere un senso di predestinazione.
Quando cerchiamo il senso di quanto succede e ci sta intorno, mettiamo insieme tutte le dimensioni della parola: percezioni, emozioni, cognizioni e valori.
Nel suo libro Il cervello, la mente e l’anima, Edoardo Boncinelli scrive:
Ai livelli mentali che noi consideriamo superiori, come l’interpretazione, il ricordo, l’accostamento e l’ideazione, noi operiamo in continuazione prolungando, integrando, componendo e scomponendo secondo schemi significanti. Si direbbe quindi che la ricerca del senso e del significato sia una nostra necessità fisiologica, e che la stessa necessità condizioni tutti gli eventi della nostra vita psichica.
In sostanza, il senso non è qualcosa che esiste in sé. È qualcosa che ciascuno di noi per necessità costruisce e ri-costruisce, aggiungendo in continuazione nuovi elementi (avvenimenti, informazioni, emozioni, giudizi…).
Il merlo è volato via da un po’. Faccio una passeggiata per casa. Avanti e indietro, controllando il contapassi del cellulare, come un criceto nella sua ruota.
Mi fermo per scrivere sul taccuino: “Mandela, imparare”. Il fatto è che mi è tornata in mente una di quelle citazioni edificanti che circolano in questi giorni: io non perdo mai. O vinco, o imparo.
Talmente edificante che non so ancora se avrò il coraggio di trascriverla. Però, dai, dice esattamente quello che vuole dire.
La cosa straordinaria della nostra costante propensione a costruire e ricostruire un senso è che quello che succede “dopo” può riconfigurare anche radicalmente il senso di quello che è successo “prima”.
Così, una tragedia globale come questa (che resta comunque una tragedia globale) può acquistare nuovo senso se, insegnando qualcosa a tutti quanti, diventa anche l’inizio di un cambiamento radicale.
La donna-criceto vide che il merlo era atterrato di nuovo sul davanzale e rallentò per non disturbarlo. Scrisse in stampatello maiuscolo SENSO COMPLESSITÀ. Poi continuò a scrivere. Ne risultò un elenco di cinque voci.
Ci sarebbe una quantità di nuovo senso da espandere o ricreare.
Per esempio, il senso della complessità: abbiamo reti logistiche e digitali che coprono il pianeta e avvicinano ciascun punto a ogni altro, legandoci tutti quanti insieme come mai è successo prima e connettendo anche i nostri destini.
C’è il senso critico, indispensabile per contrastare la quantità di notizie false o faziose che trasformano la complessità in caos.
E poi: c’è il fondamentale senso di responsabilità, perché – l’abbiamo ben visto – singole scelte possono avere conseguenze che riguardano moltitudini.
Senza un forte senso di solidarietà non usciremo dalla pandemia né dalla conseguente crisi economica, e non ci proteggeremo dalle crisi globali prossime venture, prima fra tutte l’emergenza climatica.
Infine: il senso del limite. La biosfera si regge su equilibri fragili e instabili. Nello stesso modo funziona il corpo di ciascuno di noi. Non disponiamo di risorse infinite. E il troppo, in qualsiasi ambito, è tossico. Riusciremo mai a essere meno avidi?
La donna-criceto pensò che poi, arrivata la sera, avrebbe scritto per bene tutto questo. E che, chiusa tra quattro mura, poteva solo sperare che le parole sapessero volare, come fanno i merli, al di là del cortile.

mercoledì 29 aprile 2020

La comunità intoccabile - Carolina Meloni González



 Il tatto significa «essere al mondo» […]
Senza tatto non c’è mondo

Jacques Derrida


A María Galindo, ispiratrice di alleanze, carezze e contagi rivoluzionari
Una notte del 1720, nel mezzo di una delle tante epidemie di peste che devastarono l’EuropaFilippo-Guglielmo Pallavicini, barone di Saint-Remy e allora vicerè di Sardegna, fece un sogno inquietanteIl suo corpo era invaso dal flagello. Da addormentato, poteva sentire i muscoli intorpidirsi, la sua carne farsi debole ed il tremore delle febbri che scuoteva ogni sua estremità. Tra il delirio e i sudori dell’incubo fu capace persino di udire il sinistro gorgoglio che producevano i suoi organi al decomporsi, mentre il sangue e i fluidi corporali andavano tingendosi dell’oscuro colore della morte. Al risveglio, agitato e inorridito dalle visioni notturne, prese la ferma decisione di dichiarar guerra alla peste. Per suo ordine, nessuna nave poteva attraccare nei porti sardi e in tutta l’isola furono introdotte misure igieniche e di confinamento. Misure che al vicerè a poco servirono, poiché le cronache di quell’anno di quattro secoli fa hanno lasciato registro di uno dei maggiori disastri virali che colpì le città del Mediterraneo.
Come il barone di Saint-Remy, possediamo un intero immaginario di fantasia su epidemie e virus che potrebbero porre fine alla nostra esistenza e al mondo intero. Come lui, abbiamo sognato ogni tipo di patologia capace di decomporre i nostri fluidi ed organismi. Allo stesso modo del vicerè sardo, ci siamo svegliati inquieti ed agitati, afflitti da timori che sembravano lontani. Ma quando abbiamo voluto accorgercene, la peste stava già bussando al nostro uscio.

QUEL CONTAGIOSO DELIRIO
María Galindo afferma che è la paura del contagio a definire l’essenza del virus che ci assedia. In questi ultimi mesi abbiamo assistito, dai nostri schermi, allo spettacolo, al racconto del propagarsi di una contaminazione presentata come inevitabile. Quello che sembrava un romanzo post-apocalittico, ambientato a Wuhan, ha cominciato a estendersi come una rete viscosa ed ingestibile. La pandemia ha iniziato a materializzarsi, a territorializzarsi, a prender forma attraverso cifre, guanti, mascherine e isolamento. Il carattere spettrale ed irreale di un virus che sembrava esistere solamente in rete o nell’immaterialità dell’informazione mediatica, si è fatto carne nei nostri stessi corpi, nello spazio vitale minacciato dalla contaminazione dei flussi dell’altro. “Quando in una città prende dimora la peste – affermava Artaud – le forme di vita normale crollano”, sono stravolte quotidianità ed abitudini, l’ordine consueto scompare tanto rapidamente che neppure riusciamo razionalmente ad assimilarlo. Così la paura si impadronisce di noi, prende dimora in ogni nostra cellula, facendoci commettere atti assolutamente incomprensibili. Come afferma U. Oslender, la paura crea spazio, prende letteralmente posto, produce una cartografia concreta, riorganizza la vita delle popolazioni generando confusione e sconcerto. In quest’incertezza il timore attraversa pelle e tessuti, si insedia nei nostri organi, ci impedisce di reagire e soffoca ogni ribellione possibile. La micropolitica della paura, in forma di ceppi invisibili, si è messa a funzionare in maniera radicalmente dissociativa e distruttiva di una intera comunità.
In soli pochi giorni lo spazio già di per sé biopolitico delle democrazie liberali è diventato somatopolitico nel senso più puro del termine: il corpo e la carne, il sudore ed i fluidi si sono trasformati nel più chiaro bersaglio di questa “guerra” contro la diffusione del virus. Isolamento, confinamento, compartimentalizzazione. Le barriere igieniche hanno attecchito fin nel più intimo dei nostri organismi e spazi vitali. E tutto ciò che con l’altro comunica e all’altro ci unisce, che sia materiale come somatico, impuro come erotico, è stato investito dal paralizzante timore di un possibile contagio. Se c’è qualcosa in grado di definire il COVID-19 è la sua potenzialità di trasformarci in abietti. Ed il solo ordine che ci viene trasmesso, come imperativo morale da rispettare senza messa in discussione alcuna, è la supposta responsabilità di farci carico della nostra abiezione: se qualcosa di comunitario emerge da questa crisi può solo rivelarsi anticomunitario, nel senso che per definizione mina e frammenta ogni possibile spazio comune. Ci viene imposto come un ethos, come l’azione morale più sublime, proprio ciò che contraddice ogni etica, respingere, allontanare ed espellere l’altro dal nostro spazio più intimo. Interiorizzare la nostra potenzialità di contagio. Ritirarci dal mondo. Confinarci tra le pareti della nostra individualità. Il tatto, l’anonimo sfiorare, persino le carezze sono diventate un atto di puro egoismo e sedizione.

NOLI ME TANGERE
“Corpus del tatto: sfiorare, rasentare, premere, conficcare, serrare, lisciare, grattare, strofinare, accarezzare, palpare, tastare, plasmare, massaggiare, abbracciare, stringere, battere, pizzicare, mordere, succhiare, bagnare, tenere, lasciare, leccare, scuotere, cullare, dondolare, portare, pesare” (Nancy, 2003).
Se è ben noto che il linguaggio crea mondo, è nel tatto, nello stesso atto del toccare che avviene la comunità. Per questo, secondo il filosofo francese Jean-Luc Nancy, nel tatto troviamo la stessa origine di ciò che definisce una “singolarità plurale”: tocchiamo, veniamo toccati, sfioriamo l’altro, siamo commossi da un corpo che non è il nostro. La nostra singolare individualità, se sfiorata appena, con un semplice avvicinarsi dell’altro  diviene plurale, all’incontro con gli altri si apre, si frammenta in pezzi e comprende l’impossibilità di sopravvivere nella crisalide dell’ioSiamo in questo breve incontro della tua pelle con la mia. Se qualcosa di simile ad una comunità può esistere è precisamente lì dove avviene lo iato, dove la separazione del mio corpo dal tuo si spezza, interrompendo l’illusione di un sé stesso autonomo ed alieno al mondo. Il tatto non è altro che l’apertura e l’accoglienza dell’altro, di una qualche ospitalità (ti accolgo, ti accarezzo, ti abbraccio e lascio che il tuo corpo si avvicini al mio). Anche, ovviamente, dell’ostilità quando questo tatto, questo gesto non è richiesto. “Non posso aver rapporto con me stesso – afferma Derrida -, con il mio ‘presso di me (chez moi)’, se non nella misura in cui l’irruzione dell’altro ha preceduto la mia propria ipseità”. Perché l’altro sempre fa irruzione, in modi insperati ed imprevisti come il desiderio o l’amore, che ci invadono e ci attraversano, anche quando non lo vorremmo.
In questa ospitalità-ostilità originaria della pelle, dell’incontro con l’altro, Derrida ripone la possibilità dell’etica e, quindi, la condizione di ciò che è politico. Anche Butler fa appello all’ontologia politica della fragilità su due livelli: da un lato, questa fragilità che ci costituisce porta all’emergenza del soggetto e, come conseguenza di tale emergenza, si produce l’inserimento di tale soggetto in una comunità politica. Siamo ontologicamente vulnerabili, fisicamente, emozionalmente ed affettivamente precari. All’altro siamo destinati. E solo in quanto esseri devoti agli altri è possibile creare comunità. Quale mondo sorge allora là dove l’incontro con l’altro viene negato e rotto il vincolo fisico che agli altri ci lega? Quale vita politica può emergere rinchiusa tra le pareti di casa, confinata nella più assoluta solitudine? Esiste forse vita nella disaffezione, nel distacco e nella distanza dagli esseri che amiamo? Come continuare a costruire un possibile “noi” quando nemmeno possiamo sfiorare, neppur lievemente con la punta delle dita, amici, amanti, familiari o sconosciuti? Cosa nascerà da questo mondo silenziato, racchiuso nel suo bozzolo come una larva, in cui l’unico contatto concessoci è quello virtuale attraverso schermi, telefoni cellulari e dispositivi tecnologici? Quando qualsiasi superficie materiale, dalla pelle al carrello del supermercato, possono considerarsi vere e proprie armi di diffusione della malattia. Profondamente indifesi ed esposti al virus, abbiamo optato per l’accettazione ed assunto che l’unica possibilità di sopravvivenza è la violazione dei nostri affetti, corpi e desideri. Allontanarmi da te. Separarti da me. Dunque ognuno di noi porta il germe letale, che ci ha tramutato in minacciosi e sospettosi nemici.
Toccare viene dal latino “tangere”, curiosamente la stessa radice appare nel verbo “contaminare”: con-tangere, nel quale si intuisce la continuità spaziale con un tatto impuro, torbido e corrotto, che tutto cambia. Questo tatto viziato e patologico minaccia di estendere la contaminazione totale ad ogni nostro spazio. E la cosa peggiore è che siamo proprio noi a portarlo, in noi può trovarsi latente anche senza che ne possediamo i sintomi delatori. L’ordine d’isolamento sociale è stato interiorizzato a livello globale senza messa in discussione alcuna. Sommessi ed obbedienti ci siamo conformati all’imperativo di rimanercene reclusi, serrati tra le nostre pareti. Abbandonando luoghi di lavoro, di ozio, amici ed esseri amati. Lo spazio pubblico è rimasto letteralmente vuoto, svuotato di noi, che siamo lì a contemplarlo spaventati da balconi, finestre e social network. Addirittura iniziamo ad accettare, a normalizzare che perderemo persone da cui non potremo congedarci. Persino la morte e il dolore dovranno avvenire senza possibilità di tatto, di un ultimo contatto o mano che accarezzi la nostra in un momento così cruciale (le immagini dei camion militari nella città di Bergamo, carichi di feretri anonimi, di vite impossibilitate al dolore, comportano che la vulnerabilità minaccia di estendersi fin dentro la morte stessa).
Senza possibilità di critica, di dubbio, qualunque azione di ribellione o resistenza all’isolamento sarà condannata non solo sul piano legale ma anche sul piano etico. L’isolamento si è insediato nei discorsi politici, quotidiani e sociali in modo profondamente omogeneo, senza crepe nè un barlume di antagonismo. La paura del contagio è diventata il miglior strumento di controllo e l’unica azione politica comunitaria che ci concediamo è il diritto all’applauso, con la prudente e sospettosa distanza che ci separa dai nostri vicini. Come può, quindi, nascere una comunità dall’intoccabile? Come ri-significare questa separazione? Quali nuove forme dell’abitare, del convivere dovremmo proporre e ripensare quando ci siamo autocondannati alla più estrema solitudine? Quali tessuti comunitari potranno sorgere ora che pandemia e vulnerabilità si sono letteralmente impossessate di tutto ciò che è comune?

QUANDO IL MONDO RESTA MUTO
L’espansione globale del coronavirus è avvenuta con una rapidità vertiginosa. In appena pochi giorni i suoi effetti sull’ordine sociale e quotidiano delle nostre vite sono stati devastanti. Come appena svegliati da un sogno inquietante, ci siamo scontrati con dispositivi disciplinari tanto rigidi e severi, degni di uno stato d’eccezione agambeniano. Ogni barriera diventa imprescindibile e necessaria a frenare il contagio: frontiere chiuse, quarantena, cittadinanza segregata, stato di allarme, militarizzazione e controllo di polizia nei nostri pubblici spazi. I supermercati letteralmente saccheggiati, in una sorta di comportamento mimetico che ha risvegliato in noi una vera accumulazione compulsiva, nell’attesa di uno stato di guerra imminente. È sintomatico che uno dei prodotti più richiesti sia stato la carta igienica, come fosse stata un’ironica metafora in cui è emersa chiaramente l’idea di “salvarci il culo” da ciò che incombe su di noi. I numeri di malati e deceduti crescono di giorno in giorno, con i nostri servizi pubblici sovraccarichi, prosciugati dall’ultima crisi economica, le cui nefaste conseguenze vediamo chiaramente in questa situazione emergenziale.
Sono bastati pochi giorni perché il nostro mondo ammutolisse e noi ci richiudessimo dentro le nostre crisalidi borghesi, per chi ha la fortuna di possedere un rifugio, una casa in cui rintanarsi. Risuona in questa crisi virale la frase che segnò una delle tante crisi del capitalismo: “La società non esiste – annunciava la dama di ferro negli anni ’70 – esistono solo gli individui e le loro famiglie”, iniettando in questo caso il virus del più ferreo individualismo come unica possibilità per affrontare gli imprevisti. Se un qualche insegnamento ci hanno lasciato le pratiche “predatorie e cannibali”, nella definizione di Harvey, del capitalismo, e le ricorrenti crisi economiche a cui con ancor più ricorrenza ci ha condotto il neoliberismo, è la costante pulsione autodistruttiva di un sistema eminentemente predatorio e necropolitico, la cui tendenza porta alla scomparsa dell’intera comunità: di fronte alle sfide della peste, solo ci restano soluzioni individuali. Solo singolarmente potrai aggirare il flagello. E qualunque “comune dimora” è diventata un luogo tanto inospitale quanto pericoloso.
ABITABILITA’: ALLEANZE, COMUNI ORIZZONTI E RESISTENZE
Abitare, costruire mondi, è abitare-con: siamo in quanto ci esponiamo all’altro; siamo in quanto lo accogliamo, ci prendiamo cura dell’altro, all’altro diamo rifugio; ma anche quando lo respingiamo, emarginiamo ed escludiamo, dando così consistenza alla nostra leggibilità sociale; siamo-con l’altro, in una sorta di expeausition, di contatto con l’altro. Non c’è attenzione che sia possibile, non c’è casa immaginaria o immaginabile senza attenzione all’altro. Non esiste più ethos di quello che nasce dalla nostra materialità, dal nostro essere profondamente vulnerabili. Afferma Paco Vidarte che l’unica etica difendibile “è quella che nasce dalle strade, dai gommoni, dalle barricate, dalle piazze, dall’oppressione, da delle chiappe nude”. È lì, agli angoli e sui marciapiedi, nei vicoli e nei bassifondi, negli spazi pubblici che occupiamo e costruiamo insieme là dove c’è possibilità di articolare e costruire una dimora abitabile, dove può sorgere un tessuto comunitario tanto critico e demolitore quanto amoroso e accogliente. Non è possibile affermare la vita e la sua tutela a partire da una soluzione egoista, gestita all’interno della nostra vita privata. L’appello ad una solidarietà egocentrica e autonoma, nata nei salotti di case chiuse al mondo esterno, suppone non soltanto una chimera propria di un immaginario liberale che ha creduto di sostenere lo sviluppo della società nell’individuo singolo, ma anche una legittimazione delle sue pratiche espropriatrici ed escludenti.
Come nel sogno del barone di Saint-Remy, non è stato l’annuncio della peste a svegliarci, quando siamo riusciti ad aprire gli occhi la peste c’era già da tempo. È troppo che conviviamo con il virus e i suoi dispositivi di frammentazione, di dissoluzione del sociale. Anestetizzati ed atomizzati, assorbiti da questa comunità dell’intangibile, in cui la pelle, il corpo e gli odori dell’altro ci risultano ogni giorno più alieni. Il virus ci è servito da mero amplificatore di ciò che già sapevamo: abitiamo una casa attraversata da necropolitiche di espropriazione della vita, da frammentazioni di classe, razza e genere prodotte da un sistema basato su misure estrattiviste dei corpi, della terra e di tutto ciò che è in comune. Da troppo tempo l’Europa, questa Europa oggi confinata, ha deciso di chiudersi al mondo, di volgere le spalle a miseria e precarietà, di trasformarsi in un interno climatizzato, un bunker adatto solamente a pochi. Fuori dai suoi confini, la vita e la morte si giocano ad ogni frontiera, recinzione e muro divisorio.
Nel suo bellissimo testo sul teatro e la peste, Artaud sosteneva che ogni flagello “è una crisi che si risolve con la morte o con la guarigione”. Esiste in ogni epidemia qualcosa di simile ad una “fisionomia spirituale” che fa vacillare il mondo, lo riconfigura, lo fa ripensare da altre alternative vitali. Per questo, secondo Artaud, la peste “impone un’attitudine eroica e difficile alla comunità”, di fronte alla quale non sempre siamo all’altezza di ciò che ci accade. L’attuale situazione ci pone di fronte all’urgenza di pensare e riconfigurare altri possibili mondi, un’altra dimora meno inospitale, meno precaria ed ostile per tante vite deglutite dal sistema. Saremo mai capaci di ripensare nuove soluzioni? Potremo riconfigurare altri spazi e abitazioni comuni dopo il terremoto? Avremo il coraggio di uscire dalle nostre crisalidi egoiste, dai nostri accoglienti salotti climatizzati e dalle nostre case adatte al confinamento? Non possiamo annunciare né anticipare il futuro, diceva Derrida, esso può presentarsi nella forma del pericolo più assoluto, anche in forma mostruosa. Però possiamo certamente chiamarci a ripensare il nostro presente, assumendo l’urgenza di risignificare e costruire una dimora comune partendo da progetti collettivi che siano realmente democratici, egualitari e rivoluzionari.

Traduzione per Comune-info: Leonora Marzullo

Carolina Meloni González insegna Etica e Pensiero Politico nella Facoltà di Scienze Sociali e Comunicazione dell’Università Europea di Madrid. La sua ricerca è indirizzata soprattutto verso la filosofia politica contemporanea, il pensiero femminista, l’etica e la teoria critica della comunicazione. Ha tenuto corsi e docenze anche in università francesi e argentine scrivendo molti saggi su riviste specializzate. Tra i suoi libri: Las fronteras del feminismo. Teorías nómadas, mestizas y postmodernas, Editorial Fundamentos (2012). Con J. M. Bayón, F. e González Garcia (2015), Repensando la ciudad desde el ocio. Universidad de Deusto, Bilbao (2015). Con Julio Díaz Galán, Abecedario zombi. La noche del capitalismo viviente, Editorial El Salmón Contracorriente, Madrid (2017). Il film-documentario “La Noche del Mundo”, nato da una sua idea originale e di cui ha diretto la produzione, ha ricevuto 8 candidature per il Premio Goya 2019 dell’Accademia delle Arti e Scienze Cinematografiche di Spagna. Transterradas El exilio infantil y juvenil como lugar de memoria di Gonzalez De Oleaga Marisa / Meloni Gonzalez Carolina / Saiegh Dorin Carola è uscito nel 2019 per la Editorial Tren en Movimiento di Buenos Aires.


martedì 28 aprile 2020

È il momento di pensare al mondo che verrà - Ece Temelkura


Le affascinanti fioriture primaverili di Zagabria hanno un’aria un po’ malinconica. In fondo stanno vivendo la prima primavera senza il loro pubblico abituale, il genere umano. In realtà forse ricorderemo la primavera del 2020 come il primo momento in cui la natura è appartenuta unicamente a se stessa. Solo alcuni passanti hanno notato i ciliegi in fiore nel giardino botanico chiuso al pubblico. Sfortunatamente siamo tutti troppo impegnati a trasformare radicalmente le nostre abitudini di vita nel tentativo di sopravvivere alla pandemia globale: facendo deviazioni quando passiamo vicino ad altre persone, mettendoci a un metro dall’altro quando aspettiamo al semaforo e chiedendoci nel frattempo se sopravvivremo a questo caos planetario.
Ogni volta che vedo persone che si baciano o che si toccano in un film sento un brivido lungo la schiena. Ogni volta che vedo un contatto umano affettuoso, che normalmente mi scalderebbe il cuore, mi sembra di vedere persone già morte. Il nostro cervello è sorprendentemente efficace nel riorganizzare le proprie abitudini, quando abbiamo paura. Il cervello è una materia plasmabile. Ma non ha un’elasticità illimitata, e quindi non è in grado di reinventarsi costantemente.
Se e quando arriverà il giorno in cui tutto questo sarà finito, probabilmente non sarà il momento del ritorno alla normalità. A quanto pare avremo una normalità nuova di zecca. E visto che siamo tutti a casa e abbiamo meno cose da fare, invece di ossessionarci con il conteggio dei morti o guardare video musicali fatti in casa, possiamo cominciare a immaginare il mondo che verrà.

Nuovi problemi, nuove soluzioni
Viviamo in tempi segnati da un immenso cinismo, e dare voce a riflessioni simili è rischioso. Quasi ci preoccupiamo di suggerire soluzioni, perché sappiamo bene che qualsiasi idea rischia di venire subito soffocata con feroce sarcasmo. Tuttavia penso che le ultime settimane ci abbiano insegnato che, in quanto esseri umani, non possiamo più permetterci di comportarci come adolescenti volubili. È arrivato il momento di trovare una soluzione ai problemi che oggi ci riguardano, a costo di passare per degli ingenui idealisti.
È ormai qualche tempo che la storia ha avuto un’accelerazione. Il capitalismo si è praticamente disgregato, a causa di leader incapaci o autoritari, e la crisi climatica ci ha già fatto intravedere la tragica fine della storia del genere umano. La crisi dei rifugiati, con il suo epico fallimento morale globale, ci ha messo di fronte al fatto che la fine dell’umanità non ha bisogno di drammatiche apocalissi, ma può avvenire nella maniera più banale, come un reality show trasmesso in televisione. Stiamo tutti cercando di tenerci al passo con i caotici sviluppi politici e naturali, come se fossimo attori scaraventati in un film dell’orrore che vagano senza avere idea della sceneggiatura. Grazie al nuovo coronavirus quest’accelerazione ha raggiunto la sua velocità massima.
Due cambiamenti importanti stanno prendendo forma: la giustizia sociale è percepita come una cosa necessaria (semplicemente non vogliamo morire come vittime di un sistema sanitario pubblico senza risorse) e la scienza ha ritrovato il suo onore (non vogliamo morire in un mondo dominato dall’idiozia). Il genere umano sta finalmente accettando il fatto che, per sopravvivere, deve abbandonare l’avidità istituzionalizzata e seguire i fatti, la verità e la morale.
Dopo aver rifiutato la scienza e marginalizzato gli esperti con l’aiuto dei leader della destra populista di tutto il mondo, oggi il pianeta pende disperatamente dalle labbra di studiosi e medici. E tutta la battaglia, durata una generazione, per spiegare al genere umano che la disuguaglianza è una cosa idiota e, a lungo termine, insostenibile sta finalmente dando i suoi frutti. Alla fine gli abitanti della Terra si sono convinti che le cose non possono andare avanti così. Mio padre e mia madre sono entrambi socialdemocratici. L’altro giorno, prendendoli in giro, gli ho detto: “E quindi, alla fine, non sarà la lotta di classe, ma uno stupido virus a mettere fine al capitalismo”. Mio padre mi ha risposto con una battuta leninista: “Siamo ancora qui, no? Aspettavamo solo che i tempi fossero maturi”.
In questo momento le condizioni del mondo sono propizie: possono prevalere la razionalità, l’umanità e la salute mentale. La domanda è: in che modo dovremmo reinventare la solidarietà per ottenere il potere politico necessario a cambiare il pianeta? Come potremo restare in contatto l’uno con l’altro e con la realtà circostante mentre cerchiamo di dare una forma a questo mondo in cui il contatto fisico è vietato? Immagino che, grazie al distanziamento sociale, per la prima volta da generazioni, disponiamo del tempo sufficiente per pensare a delle soluzioni.

(Traduzione di Federico Ferrone)


lunedì 27 aprile 2020

Finita questa emergenza,vogliamo un #RitornoAlFuturo!




L’appello dei ragazzi di #FridaysForFuture e degli scienziati del clima sulla rinascita post-Coronavirus. “Le crisi sono due. Ma la soluzione è una sola.”
Cara Italia,
Ascolta questo silenzio.
La nostra normalità è stata stravolta e ci siamo svegliati in un incubo. Ci ritroviamo chiusi nelle nostre case, isolati e angosciati, ad aspettare la fine di questa pandemia. Non sappiamo quando potremo tornare alla nostra vita, dai nostri cari, in aula o al lavoro. Peggio, non sappiamo se ci sarà ancora un lavoro ad attenderci, se le aziende sapranno rialzarsi, schiacciate dalla peggiore crisi economica dal dopoguerra.
Forse avremmo potuto evitare questo disastro?
Molti studi sostengono che questa crisi sia connessa all’emergenza ecologica. La continua distruzione degli spazi naturali costringe infatti molti animali selvatici, portatori di malattie pericolose per l’uomo, a trovarsi a convivere a stretto contatto con noi. Sappiamo con certezza che questa sarà solo la prima di tante altre crisi – sanitarie, economiche o umanitarie – dovute al cambiamento climatico e ai suoi frutti avvelenati. Estati sempre più torride e inverni sempre più caldi, inondazioni e siccità distruggono già da anni i nostri raccolti, causano danni incalcolabili e vittime sempre più numerose. L’inesorabile aumento delle temperature ci porterà malattie infettive tipiche dei climi più caldi o ancora del tutto sconosciute, rischiando di farci ripiombare in una nuova epidemia.
Siamo destinati a questo? E se invece avessimo una via d’uscita? Un’idea in grado di risolvere sia la crisi climatica sia la crisi economica? 
Cara Italia, per questo ti scriviamo: la soluzione esiste già.
L’uscita dalla crisi sanitaria dovrà essere il momento per ripartire, e la transizione ecologica sarà il cuore e il cervello di questa rinascita: il punto di partenza per una rivoluzione del nostro intero sistema. La sfida è ambiziosa, lo sappiamo, ma la posta in gioco è troppo alta per tirarsi indietro. Dobbiamo dare il via a un colossale, storico, piano di investimenti pubblici sostenibili che porterà benessere e lavoro per tutte e tutti e che ci restituirà finalmente un Futuro a cui ritornare, dopo il viaggio nell’oscurità di questa pandemia
Un futuro nel quale produrremo tutta la nostra energia da fonti rinnovabili e non avremo più bisogno di comprare petrolio, carbone e metano dall’estero. Nel quale smettendo di bruciare combustibili fossili, riconvertendo le aziende inquinanti e bonificando i nostri territori devastati potremo salvare le oltre 80.000 persone uccise ogni anno dall’inquinamento atmosferico.
Immagina, cara Italia, le tue città saranno verdi e libere dal traffico. Non perché saremo ancora costretti in casa, ma perché ci muoveremo grazie a un trasporto pubblico efficiente e accessibile a tutte e tutti. Con un grande piano nazionale rinnoveremo edifici pubblici e privati, abbattendo emissioni e bollette. Restituiremo dignità alle tue infinite bellezze, ai tuoi parchi e alle tue montagne. Potremo fare affidamento sull’aria, sull’acqua, e sui beni essenziali che i tuoi ecosistemi naturali, sani e integri, ci regalano. Produrremo il cibo per cui siamo famosi in tutto il mondo in maniera sostenibile. 
In questo modo creeremo centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro ben retribuiti, in tutti i settori.
Questo Futuro è davvero possibile, cara Italia, ne siamo convinti. Per affrontare questa emergenza sanitaria stiamo finalmente ascoltando la scienza. Ed è proprio la scienza ad indicarci chiaramente la rotta da percorrere per sconfiggere la crisi climatica. Stavolta sappiamo quanto tempo ci rimane per agire: siamo già entrati nel decennio cruciale. Il momento del collasso dell’unico ecosistema in cui possiamo vivere, il superamento di 1,5°C di riscaldamento globale, già si staglia all’orizzonte. La folle curva di emissioni va capovolta già da quest’anno, e per sempre. Solo se ci riusciremo costruiremo un paese e un mondo più giusto, più equo per tutte e tutti, non a spese dei più deboli, ma di quei pochi che sulla crisi climatica hanno costruito i loro profitti.
Cara Italia, sei di fronte ad un bivio della tua storia, e non dovranno esserci miopi vincoli di bilancio o inique politiche di austerity che ti impediscano di realizzare questa svolta. 
Cara Italia, tu puoi essere d’esempio. Puoi guidare l’Europa e il mondo sulla strada della riconversione ecologica.
Non a tutte le generazioni viene data la possibilità di cambiare davvero la storia e creare un mondo migliore – l’unico in cui la vita sia possibile.
Questa è la nostra ultima occasione. Non possiamo permetterci di tornare al passato. Dobbiamo guardare avanti e preparare il nostro Ritorno al Futuro!

domenica 26 aprile 2020

Sostegno ai giornalisti attaccati dall’industria della carne



Lettera alla Rai delle associazioni animaliste e ambientaliste.

Animal Equality Italia, CIWF Italia, ENPA, Essere Animali, Greenpeace Italia, Humane Society International Italia, LAV, Legambiente esprimono massima solidarietà a Sabrina Giannini, conduttrice di Indovina chi viene a cena, Mario Tozzi, conduttore di Sapiens, Luca Chianca e Sigfrido Ranucci di Report, duramente attaccati nei giorni scorsi dagli industriali della carne e della zootecnia.

Con una lettera aperta rivolta al Presidente e al Consiglio d’Amministrazione della Rai, le sopracitate associazioni manifestano il loro appoggio a tutti i giornalisti che, con le loro inchieste, si occupano e si occuperanno di portare alla luce scomode verità, come l’impatto ambientale e il problema sanitario legato agli attuali livelli di produzione e consumo di carne e al metodo di allevamento intensivo.

Alla Rai, servizio pubblico pagato da tutti i cittadini, le associazioni rivolgono un ringraziamento per aver dato spazio a simili programmi di approfondimento e
l’invito a non far influenzare palinsesto e contenuti da simili levate di scudi da parte di aziende e associazioni di categoria che proteggono gli interessi dei singoli produttori a scapito della tutela della collettività.


Lettera aperta delle associazioni animaliste e ambientaliste


Alla cortese attenzione di Marcello Foa, Presidente del Consiglio d’Amministrazione
della Rai - Radiotelevisione Italiana

Alla cortese attenzione del Consiglio d’Amministrazione della Rai - Radiotelevisione Italiana


Sostegno ai giornalisti Rai sotto attacco per le loro inchieste Lettera a firma delle Associazioni:

Animal Equality Italia, CIWF Italia, ENPA, Essere Animali, Greenpeace Italia, Humane Society International Italia, LAV, Legambiente


Con questa lettera le associazioni firmatarie vogliono esprimere piena solidarietà e appoggio ai giornalisti Rai che, a causa delle loro inchieste, si sono trovati sotto attacco da parte degli industriali della carne e della zootecnia.

In particolare, ci riferiamo a Sabrina Giannini, conduttrice di Indovina chi viene a cena, e Mario Tozzi, conduttore di Sapiens, nominati nella lettera diffusa la scorsa settimana da Assalzoo, Assocarni, Una Italia, Unica, Carni Sostenibili, Assolatte. Ma anche a Luca Chianca e Sigfrido Ranucci di Report, contro i quali si sono scagliati in questi giorni Coldiretti e Cia - Agricoltori Italiani.

Allo stesso tempo il nostro è un forte appoggio a tutti i giornalisti d’inchiesta che si impegnano ad approfondire, analizzare dati ufficiali, documentare in prima persona, per parlare di scomode verità legate all’impatto ambientale e al problema sanitario collegato agli attuali livelli di produzione e consumo di carne e al metodo di allevamento intensivo.

Chiedere di far tacere dei giornalisti, o di impedire che trattino specifici argomenti, è inoltre contrario al concetto di libertà d’informazione, su cui è basata ogni vera democrazia.

E proprio in un momento difficile come quello che stiamo vivendo è necessario
andare ad analizzare le problematiche che possono favorire l’insorgere di zoonosi o


che ne rendono più rapida la diffusione. Così come lo è sicuramente porsi domande su quanto sia stato l’impatto umano sulla natura a creare le condizioni più utili per il passaggio di specie, da animali a esseri umani, di numerosi virus.
Inchieste come quelle citate sono un prezioso faro che aiuta a fare luce sul ruolo
giocato in tutto questo anche dall’allevamento intensivo. Non si tratta di attacchi di natura personale o senza basi scientifiche, così come le associazioni di categoria hanno avuto il coraggio di definirli, ma al contrario di inchieste basate strettamente su dati ufficiali e interviste a esperti e professionisti.

A mettere in guardia su quanto deforestazione e allevamento intensivo abbiano reso negli anni più facile il passaggio di specie delle malattie, creando molte pericolose epidemie, non sono né attivisti né giornalisti, ma Fao, Oms e ricercatori dei principali istituti scientifici di tutto il mondo. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature stima infatti che il 75% delle malattie infettive che hanno colpito noi umani negli ultimi decenni derivino dagli animali. Sars, ebola, influenza suina, influenza aviaria, morbo di Creutzfeldt-Jakob (noto come “mucca pazza”), sono solo alcuni esempi che hanno preceduto questo Coronavirus. E molti altri seguiranno se non corriamo ai ripari e impariamo qualcosa da questa lezione, modificando l’impatto delle nostre attività sul pianeta e il nostro rapporto con gli animali.

Ringraziamo la Rai e i suoi giornalisti anche per aver dato più volte spazio alle inchieste delle organizzazioni non profit, con immagini che mostrano un altro lato degli allevamenti intensivi. Questo sistema produttivo, spinto dall’eccessivo consumo di carne, è mirato alla crescita veloce, all’ottimizzazione di spazi e costi e all’abbassamento dei prezzi, e non tiene conto delle esigenze degli animali, provocando loro inevitabili sofferenze e del relativo impatto ambientale. Un sistema intensivo, in cui decine di migliaia di individui di una specie vivono ammassati in capannoni, è inoltre luogo ottimale per pericolosi focolai di malattie e spinge a un utilizzo sconsiderato di antibiotici sugli animali, che sta contribuendo a un’altra serissima crisi sanitaria, l’antibiotico-resistenza.

Voler tenere nascoste tutte queste informazioni al pubblico è gravissimo: significa disinteressarsi della salute pubblica e di un problema globale che tutto il mondo sta vivendo con drammaticità e con un impatto sociale ed economico devastante, e che, se non risolto alla radice in tutte le problematiche correlate, si riproporrà di nuovo in futuro. Attaccare giornalisti che affrontano scomode verità, che non possiamo più permetterci di omettere dalla discussione, è solo un modo per difendere i propri interessi, a scapito di quelli della collettività e dell’umanità intera.

E se il nostro plauso va ai giornalisti prima citati, un ringraziamento va anche alla Rai, servizio pubblico pagato da tutti i cittadini che diventa tale proprio nel momento in cui dà spazio a simili programmi di approfondimento, utili per il bene collettivo. Alla


dirigenza Rai, e ai direttori di tutte le testate giornalistiche, va anche l’invito a non far influenzare palinsesto e contenuti da simili levate di scudi da parte di aziende e associazioni di categoria, perché mai come adesso una vera e sana informazione è stata cruciale.

Matteo Cupi, Direttore Esecutivo Animal Equality Italia Annamaria Pisapia, Direttrice CIWF Italia
Carla Rocchi, Presidente ENPA
Simone Montuschi, Presidente Essere Animali
Alessandro Giannì, Direttore delle Campagne Greenpeace Italia Martina Pluda, Direttrice Humane Society International Italia Gianluca Felicetti, Presidente LAV
Antonino Morabito, Responsabile Nazionale Cites, Fauna e Benessere Animale, Direzione Nazionale LEGAMBIENTE Onlus


--


Per maggiori informazioni:

Simone Montuschi, Presidente Essere Animali Cell: 342 1894500

Federica di Leonardo, Media and External Relations Manager CIWF Italia Cell. 393 6040255
Mail: federica.dileonardo@ciwfonlus.it



Cosa è successo


Sabato 28 marzo, la trasmissione Sapiens condotta su Rai 3 da Mario Tozzi ha mandato in onda il servizio I divoratori del pianeta, in cui si è parlato di come la produzione di carne su scala globale contribuisca a deforestazione, inquinamento, danni alle riserve idrogeologiche e ai terreni, perdita di interi habitat naturali che da sempre sono elemento fondamentale del nostro ecosistema.
Domenica 29 marzo e 5 aprile, la trasmissione Indovina chi viene a cena condotta da Sabrina Giannini su Rai 3, ha diffuso un’inchiesta in cui sono state approfondite diverse tematiche oggi più che mai attuali. Si è parlato di come le conseguenze dell’impatto ambientale delle produzioni animali favoriscano la diffusione dei virus e di come l’enorme utilizzo di antibiotici somministrati agli animali negli allevamenti sia collegato all’antibiotico resistenza, ovvero la resistenza dei batteri agli antimicrobici conosciuti e utilizzati per combattere le infezioni anche negli esseri umani. Un fenomeno che ha gravi ripercussioni sulla salute pubblica.
Entrambi i giornalisti per realizzare le rispettive inchieste si sono basati su dati ufficiali e interviste a esperti e professionisti. D’altronde, a mettere in guardia su quanto deforestazione e allevamento intensivo abbiano reso negli anni più facile il passaggio di specie delle malattie, creando molte pericolose epidemie, sono istituzioni come Fao, Oms e anche Virginijus Sinkevičius, commissario per l’ambiente e gli oceani per la commissione europea.
Eppure, a pochi giorni dalla diffusione di questi servizi, Mario Tozzi e Sabrina Giannini sono stati accusati dalle organizzazioni di categoria che proteggono gli interessi dei produttori di carne, tra cui Assica, AssalzooAssocarniUna ItaliaUnicaCarni Sostenibili, di condurre trasmissioni «spesso animate da personalistica volontà di propagandare un modello di vita alternativo a quello comunemente diffuso’ e di ‘saturare i telespettatori con informazioni imprecise, frammentate e non contestualizzate».
Parole gravissime, anche perché rivolte ai vertici Rai e al ministro delle Politiche agricole Teresa Bellanova con il chiaro intento di creare pressioni per influenzare i palinsesti televisivi e zittire giornalisti scomodi.

https://www.facebook.com/watch/?ref=external&v=856724454830055 
E, pochi giorni dopo, anche Sigfrido Ranucci, conduttore di Report e il giornalista Luca Chianca sono stati attaccati da Coldiretti e Cia – Agricoltori Italiani, per il servizio andato in onda lunedì 13 aprile in cui è stata approfondita la relazione tra lo smaltimento dei liquami animali, che producono grandi quantità di ammoniaca e nitrati e l’inquinamento atmosferico, un fattore che favorisce la diffusione dei virus.

Sia durante il servizio di Report, sia nell’inchiesta diffusa da Indovina chi viene a cena, sono state trasmesse immagini realizzate in collaborazione con il team investigativo di Essere Animali all’interno di alcuni allevamenti italiani. Si tratta di sistemi intensivi, in cui gli animali vivono ammassati fra loro, senza la possibilità di accedere all’aperto, privati della possibilità di soddisfare molte esigenze etologiche. Questo metodo di allevamento, oltre a causare gravi sofferenze, favorisce l’insorgere e la propagazione di epidemie tra gli animali, premesse ideali per la proliferazione di virus pericolosi anche per gli esseri umani.

da qui