giovedì 31 luglio 2025

Turisti o padroni? - Francesco Erspamer

Una volta che vi trovaste negli Stati Uniti provate a chiedere qualcosa in italiano. Tipo: «Come posso collegarmi al wi-fi su questo autobus?», oppure «Mi porta la carta dei vini?», o ancora «A che ora chiude il museo?». Non solo non vi risponderebbero ma vi guarderebbero storti, a ragione: solo un idiota, se ha bisogno di un’informazione, neppure prova a parlare la lingua di chi può dargliela.

È esattamente come si comportano gli statunitensi in Italia. Credendosi o, peggio, sapendosi i signori del mondo (le tre frasi citate le ho sentite oggi a Firenze, in inglese). Appiccicati ai loro cellulari non li usano però per cercare parole o frasi con cui comunicare: sono i loro sudditi o clienti che devono adeguarsi, benché a casa propria.

Non io. In trent’anni di Stati Uniti un po’ di inglese l’ho imparato, a differenza degli italiani che infarciscono il loro eloquio nativo di inutili anglicismi per far finta di saperlo e così sentirsi di moda (se di destra) o globali (se di sinistra). Però quando mi trovo in Italia se uno straniero mi interpella in inglese o mi limito a rispondergli in italiano oppure gli chiedo, in inglese, come mai mi parli in quella lingua senza avermi neppure chiesto se la parlo. Solo a chi si sforza di esprimersi in italiano offro aiuto e indicazioni in inglese.

Purtroppo la maggior parte dei miei connazionali è invece ansiosa di compiacere i padroni stranieri: non parlarne la lingua la considera un’umiliazione. Tipico dei servi e dei colonizzati ma non è tutta colpa loro; di cosa dovrebbero sentirsi fieri visto che i loro giornalisti e intellettuali non fanno che denigrare il proprio paese, se non per lodare qualche sportivo purché residente altrove e di altra madrelingua; e che le cosiddette autorità, dalla primo ministro alla segretaria del partito che fa finta di stare all’opposizione, fanno a gara per convincerli che la cosa migliore sia svendere il paese per poi scappare all’estero, e comunque imitare pedissequamente (in latino il pedissequo era lo schiavo che scortava il proprio padrone) le magnifiche sorti e tecnologiche che arrivano da fuori.


*Post Facebook del 28 luglio 2025

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mercoledì 30 luglio 2025

La resa di Milano al cemento - Sarah Gainsforth

 

Quando hanno cominciato a costruire un edificio nel cortile del suo palazzo, Simona Franchetti ha chiesto spiegazioni. “Signora, si può arrabbiare quanto vuole ma Milano sarà tutta così”, le ha detto l’ingegnere responsabile del cantiere. Quando lei ha minacciato di presentare un esposto alla guardia di finanza, cosa che poi ha fatto, l’amministratore del condominio vicino le ha detto: “Ma cosa si è messa in testa, qui siamo a Milano, mica a Catanzaro, dove si costruisce abusivamente”. Lei ha risposto che la cosa non la convinceva e che sarebbe andata avanti. Aveva ragione.

Nel maggio 2024 il cantiere in via Lepontina, nel cortile interno tra i civici 7 e 9, è stato sequestrato dalla procura di Milano. Gli oneri urbanistici, cioè i contributi per finanziare i servizi, erano stati sottostimati, i volumi e le superfici non erano a norma e mancava un piano di opere pubbliche: dalle fognature al servizio idrico, agli spazi verdi. È stata una violazione “dell’abc dei principi costituzionali di legalità”, ha scritto il giudice per le indagini preliminari, Mattia Fiorentini.

Quello di via Lepontina è uno dei 150 cantieri finiti nell’inchiesta della magistratura sugli edifici tirati su senza permessi di costruzione a Milano. I costruttori hanno infatti presentato solo una segnalazione certificata di inizio attività (Scia), cioè una richiesta di autorizzazione che non prevede un assenso esplicito da parte del comune. L’inchiesta ha svelato le responsabilità di diversi dirigenti del comune di Milano.

Franchetti scorre i rendering del progetto nel cortile interno del suo palazzo. Lo hanno chiamato Giardino segreto e prevede la costruzione di 61 appartamenti al posto di un fabbricato un tempo usato come deposito di medicine delle farmacie comunali, ora demolito. “Le case in sé non sembrano neanche male”, commenta. “È il contesto che è sbagliato. Quelli dei piani alti avrebbero avuto sotto gli occhi un panorama di pannelli solari e bidoni per la raccolta dell’acqua piovana. Il verde sarebbe stato decorativo. Ho chiesto se fossero previsti dei servizi, un asilo, un parco. Niente, non era previsto niente”.

Nel quartiere c’è un asilo con diverse classi, spiega Franchetti, ma da alcuni anni i posti non bastano per soddisfare la domanda. Presentando la costruzione di edifici di decine di piani come ristrutturazioni, costruttori e fondi immobiliari hanno evitato di pensare ai servizi, risparmiato milioni di euro di contributi per realizzarli e aumentato i possibili guadagni. I cittadini, di contro, rischierebbero di ritrovarsi proporzionalmente con meno parcheggi, scuole, piscine, biblioteche, parchi, e tutto quello che distingue una città da un aggregato di case abusive. È questo il prezzo pagato da Milano per attirare capitali finanziari privati. Secondo il giornalista Gianni Barbacetto, il danno erariale potrebbe ammontare a un miliardo e mezzo di euro, tra contributi per i servizi scontati e non incassati dal comune.

“Costruivano alla velocità della luce, in un anno hanno tirato su di tutto”, racconta Maria Castiglioni dell’associazione Parco piazza d’Armi, indicando un complesso edilizio che affaccia sul lago Cabassi nel parco delle Cave. Qui la multinazionale francese Nexity stava costruendo tre torri residenziali tra i 27 e 43 metri di altezza, in grado di ospitare più di duecento nuovi inquilini. “Abitare in armonia con la natura” è lo slogan sul sito del progetto immobiliare Residenze lac. Quella proposta è una “Milano vista lago”.

“All’inizio del novecento da questi terreni si estraeva la sabbia e la ghiaia per costruire il duomo, le strade e i palazzi del centro”, racconta Amelia Rinaldi, dell’associazione Le giardiniere. Poi nelle cave sono finiti i rifiuti. Negli anni novanta, grazie alle battaglie dei cittadini, l’area è diventata un parco e le cave, che intanto si erano riempite d’acqua, dei laghi. A dicembre del 2023 Le giardiniere e Parco piazza d’Armi hanno presentato un esposto contro la Nexity e a luglio del 2024 il cantiere è stato sequestrato: anche le Residenze lac sono state tirate su con una Scia e senza un piano per i servizi. La convenzione urbanistica tra i costruttori e il comune non è passata dalla giunta o attraverso il consiglio comunale, ma è stata firmata nello studio di un notaio, come se la trasformazione della città fosse un fatto privato.

 “C’è stata una resa del pubblico, che non ha spinto le aziende immobiliari a costruire per realizzare anche qualcosa per la collettività, con un senso per la città”, commenta Christian Novak, professore di progettazione urbanistica al Politecnico di Milano.

A Milano, come altrove, è possibile costruire entro certi limiti in base alle zone, ma ci sono delle eccezioni, spiega Novak. Se il proprietario di un’area non può costruire perché il terreno è destinato a servizi, può vendere il suo diritto edificatorio. Chi compra lo può sommare ad altri diritti fino a raggiungere cubature molto grandi e costruire un grattacielo. La legge nazionale, però, stabilisce dei limiti: non si può costruire un edificio di più di 25 metri senza un cosiddetto piano attuativo dei servizi, cioè un progetto dettagliato che spiega come saranno creati i servizi pubblici.

Il comune di Milano non solo ha ignorato questa legge, ma nel 2023 ha pubblicato una circolare affermando che non c’era bisogno di piani attuativi, soprattutto nelle aree storiche della città, quelle con una struttura stabile, costruite secondo i piani del passato. “Vuol dire che si può passare direttamente da un garage a un grattacielo residenziale, senza valutare le conseguenze di un’operazione simile”, commenta Novak. “Dal Bosco verticale in poi a Milano si è puntato tutto sullo sviluppo in altezza. Stiamo diventando come New York, con grattacieli strettissimi e altissimi perché, a parità di suolo occupato, il valore di un edificio aumenta”, spiega Novak.

Le case sono concepite come strumenti finanziari. “È tutto pensato per sfruttare al massimo lo spazio libero. Lo scopo è quello di guadagnare e basta”, sostiene Simona Franchetti. Il problema è che anche chi compra spesso lo fa per questo: “Le persone acquistano soprattutto appartamenti piccoli e poi rivendono al doppio del prezzo. Stanno facendo tutti così”, racconta. Una città senza servizi, con case piccole, buie e costose sta diventando la norma. “La gente si abitua e non protesta”, commenta Franchetti.

Per alcuni però il cambiamento è violento. In via Melchiore Gioia quattro torri nere di uffici, chiamate Portali, stanno soffocando il cortiletto di un complesso residenziale costruito negli anni quaranta. Una torre nera sta letteralmente privando di tutto gli abitanti di uno degli edifici, togliendo loro aria, luce e la vista del parco.

Grazie al risparmio sui contributi per i servizi pubblici, i guadagni immobiliari sono triplicati. Una piattaforma online di raccolta fondi immobiliare, che raccoglieva capitale immobiliare da piccoli investitori che speculano sull’aumento del valore delle case, prometteva un ritorno annuo di più del 16 per cento (contro la media italiana del 5 per cento) per il complesso in via Lepontina.

Con il crowdfunding chiunque può diventare azionista di una società immobiliare: investe, aspetta e incassa. E alimenta la crisi abitativa: a Milano i prezzi delle case sono aumentati del 58 per cento tra il 2015 e il 2023. A crescere di più sono stati i prezzi delle abitazioni nuove: più del 10 per cento in un solo anno, tra il 2022 e il 2023. I salari invece sono aumentati molto meno, secondo l’Osservatorio casa abbordabile del Politecnico di Milano. Ora che le inchieste hanno bloccato il meccanismo, in molti si lamentano: “Chi ha investito, chi ha comprato: vanno tutti a piangere in televisione”, dice Franchetti, “ma questo modo di costruire e comprare case, basato solo sulla speculazione, dovrebbe essere vietato. E noi che abitavamo già qui, chi ci tutela?”.

“Chi è più furbo costruisce di più”, commenta Novak. “Ed è sempre una torre, una torre di lusso. Nelle pubblicità delle case spesso non si capisce neanche dove siano. La torre è una narrazione, la narrazione dell’attico, del lusso, dell’essere staccati da terra. Poi che nella torre ci sia chi abita al primo e al secondo piano non importa. Ti vendono un sogno”.

È un sogno di esclusività e isolamento. “Le ricadute sulla città sono diverse, con edifici fuori scala e in contrasto con il contesto circostante”, spiega Novak, mentre sullo schermo del computer zooma su un edificio più alto di diversi piani rispetto a quelli vicini.

Quando la magistratura ha cominciato a indagare, il sindaco di Milano Giuseppe Sala ha sostenuto che il modo in cui si costruisce in città è corretto. Come hanno rivelato le indagini, su diretta richiesta dei dirigenti indagati, per bloccare le inchieste è nata la proposta della cosiddetta legge Salva Milano, che amplia il concetto di ristrutturazione edilizia, con una validità retroattiva.

Approvata alla camera il 21 novembre 2021 e passata al senato, è una proposta di legge secondo cui le determine dirigenziali milanesi avrebbero interpretato correttamente la legislazione urbanistica nazionale, consentendo trasformazioni rilevanti senza una pianificazione attuativa, senza oneri e senza un’offerta di servizi.

Dopo la pubblicazione di un appello, partito dal Politecnico di Milano e firmato da numerosi urbanisti, in senato il disegno di legge non è passato. “Se fosse approvato il Salva Milano, molte delle nuove costruzioni sarebbero classificate come ristrutturazioni, che per legge prevedono il pagamento di contributi ridotti. Ogni comune in Italia avrebbe il 60 per cento in meno di soldi da spendere per realizzare i servizi. Tra 15 o 20 anni ci troveremo con amministrazioni che non avrebbero più soldi per tenere aperte le piscine, le biblioteche, i parchi”.

Milano già oggi è così. Nell’estate 2024 funzionavano solo tre delle otto piscine pubbliche. “Stiamo assistendo alla riduzione e privatizzazione di tutti i servizi pubblici”, dice Luca (nome di fantasia), attivista del comitato Amici della Scarioni che si batte contro la privatizzazione dell’omonimo centro balneare, progettato dagli architetti del comune e inaugurato nel 1957.

Nel 2003 la giunta di centrodestra ha speso dodici milioni di euro per ristrutturare la Scarioni, affidandola in gestione alla Milano sport, una partecipata del comune, che non ha fatto la manutenzione, l’ha dichiarata inagibile e l’ha chiusa, spiega Luca. Tre anni dopo una multinazionale spagnola, la Ingesport, poi denominata Go Fit Life, ha proposto al comune di prenderla in gestione. La Ingesport è finanziata da capitali finanziari in cerca di un ritorno economico. Oltre alla Scarioni ha preso di mira anche le piscine Lido e Argelati.

Alla Scarioni il progetto prevede l’eliminazione della piscina per bambini e la divisione della vasca grande in due piccole. “Lo spazio è ridotto per spendere il meno possibile per l’acqua: è tutto orientato al profitto. Si vuole fare l’ennesimo centro fitness. È il concetto di svago, di ricreazione, di riposo, che è cancellato”, dice Luca. Non ci sono stati confronti con le associazioni sportive, con i cittadini, né ipotesi alternative da parte del comune o studi sui costi per dimostrare la convenienza della gestione privata della Scarioni, che durerebbe quarant’anni.

Il comitato Sai che puoi ha pubblicato un report sui centri balneari, redatto insieme a due urbanisti, per spiegare come il modello di gestione adottato dal comune, il partenariato pubblico-privato, vada tutto a favore del privato. “Il contributo pubblico è un ‘aggravio per le casse del comune’ o un investimento sociale?”, si legge nella ricerca. A Parigi, in Francia, l’ingresso in una piscina pubblica costa 3,50 euro; a Berlino, in Germania, va dai 2,50 ai 5,50 euro. A Milano, invece, la Ingesport vorrebbe introdurre abbonamenti annuali e mensili e aumentare il biglietto giornaliero a 18 euro.

Eppure, in tempi di crisi climatica le piscine, gli spazi verdi e i luoghi pubblici all’aperto sono fondamentali per la salute. Lo scorso agosto 3.500 persone sono morte nelle città italiane a causa delle isole di calore, secondo un testo scritto da urbanisti ed esperti di diritto ambientale.

Luca vede un disegno preciso in quello che sta succedendo alla piscina Scarioni: “Si vogliono allontanare i poveri, che abitano nel quartiere e che da sempre frequentano la piscina”. A Niguarda stanno chiudendo tutti i servizi: il consultorio, il mercato comunale e l’anagrafe in via Passerini. I circoli Arci e le associazioni culturali fanno fatica. “L’impressione è che vogliano mandarci via”, aggiunge Luca. Nel quartiere Isola, dov’è cominciata la moda delle torri di lusso, i vecchi abitanti non sanno più neanche dove comprare il pane, spiega l’attivista.

Come se non bastasse, negli ultimi due anni diverse persone sono state schiacciate da betoniere, quelle che fanno il cemento per le nuove torri. “Scatta il verde, la bici va dritta sulla ciclabile, la betoniera gira, non vede il ciclista e lo schiaccia”, spiega Massimo Lafronza, del comitato Sai che puoi. “Anche per questo c’è stata una grande mobilitazione di cittadini sul tema della sicurezza dei ciclisti. A Milano si è affermato un modello di città arrogante”, dice Lafronza. La presenza di enormi Suv parcheggiati dove la sosta è vietata, sulle strisce pedonali, sui marciapiedi, in doppia fila, nelle aree verdi, è un fatto ordinario. “Ma la sottrazione di spazio pubblico non è percepita come un problema, neanche dal comune: è culturalmente accettata”, continua Lafronza. Una sera di maggio del 2024, grazie a duemila volontari divisi in ottocento squadre, il comitato ha mappato tutte le auto parcheggiate sui marciapiedi di Milano, contandone ben 64mila che occupavano illegalmente un’area grande quanto 77 campi da calcio.

I parcheggi non si trovano anche perché quando realizzano le case i costruttori possono raggiungere un accordo economico con il comune per evitare di farlo. Questa procedura si chiama “monetizzazione dei servizi”. Il comune però spesso usa queste entrate per la gestione ordinaria e i servizi non li realizza nessuno. A febbraio il sindaco Sala ha minacciato di tagliare i servizi se non si fosse approvato il Salva Milano per sbloccare i cantieri.

Le città dovrebbero rompere la dipendenza economica dall’attività immobiliare privata per finanziarsi: in un paese che ha concesso 170 miliardi di euro in crediti d’imposta per bonus edilizi a favore di privati, il problema non è tanto la mancanza di risorse pubbliche, quanto il modo in cui sono usate. In secondo luogo, i contributi pagati dai costruttori sono stati per molto tempo di gran lunga più bassi che altrove in Europa, facendo dell’Italia un paradiso fiscale. A Milano questi ultimi sono un terzo rispetto a quanto dovuto in città come Monaco di Baviera. Secondo l’urbanista Roberto Camagni, che si è occupato a lungo di questo tema, bisogna alzare le tasse sulle trasformazioni urbane, che generano enormi plusvalenze, per redistribuire quel valore tra i cittadini.

È l’interesse pubblico che a Milano è saltato. Se il comune avesse multato tutte le auto parcheggiate male la notte della mappatura avrebbe ottenuto un gettito di 5,3 milioni di euro, secondo il comitato Sai che puoi. “Con quei soldi si potrebbero finanziare 134mila abbonamenti mensili al trasporto pubblico o seimila rette annuali per gli asili nido”, si legge nel report Via libera.

Un tempo i piani regolatori garantivano i diritti dei più deboli, ma a partire dagli anni ottanta il peso dei proprietari privati nella trasformazione della città è cresciuto fino a prevalere. Il Salva Milano è solo l’ultima di una serie di attacchi alle regole attraverso cui l’urbanistica garantisce l’equilibrio tra pubblico e privato. Il tutto in nome di una semplificazione delle norme che gli investitori chiedono per aumentare i guadagni realizzati con la rendita immobiliare.

Dopo le proteste e le inchieste, il Salva Milano è fermo al senato. Ma l’attacco alle città continua. A Roma l’aggiornamento del piano regolatore sembra riproporre il “modello Milano”, favorendo i privati invece che la collettività. Un altro disegno di legge in discussione in senato propone di delegare la rigenerazione urbana a interventi edilizi privati, anche per singoli edifici, che godranno di incentivi pubblici. La proposta tratta un tema politico, quello della trasformazione delle città, come una questione edilizia, appannaggio dei soli costruttori. Il tutto in nome della battaglia per arrestare il consumo di suolo. Ma costruire in altezza non ha arrestato questo processo, neanche a Milano. Soprattutto, però, non spetta a proprietari e costruttori decidere il futuro delle città, che sono di tutti.

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martedì 29 luglio 2025

Cammino del sol - Lorenzo Guadagnucci

“Paesaggio – mondo interiore, binomio indissolubile”: il messaggio, inciso nel muro, accompagna il disegno di bassorilievo che Lello Porru, autore di singolarissime opere su pareti, ha realizzato accanto al cancello che porta alla sede di Su entu nostu, il comitato di Sanluri che da oltre un decennio si batte per la tutela del territorio. È un messaggio – un motto – da tenere bene a mente quando si parla della Sardegna e delle lotte popolari in corso in difesa del paesaggio e dell’integrità ambientale. C’è qualcosa di specificatamente sardo in questa lotta ecologista, nella sua profondità; è qualcosa che riguarda la particolare storia e gli speciali valori ambientali dell’isola, l’una e gli altri così diversi rispetto al resto d’Italia. L’opera di Porru potrebbe illustrare il “Cammino del sole e del vento” di Repubblica nomade, l’associazione fondata da Antonio Moresco per compiere viaggi a piedi “politico-poetici”, viaggi di conoscenza, di sostegno, di intervento. Quest’anno il Cammino in Sardegna – dal polo industriale di Portoscuso al sito archeologico di Tharros, attraverso il Sulcis-Iglesiente e il Campidano, lambendo Oristano – è stato un’esplorazione di un uno stato d’animo, oltre che di un controverso caso politico e sociale, ossia l’insediamento nell’isola di importanti progetti industriali per le energie rinnovabili, nell’ambito della cosiddetta transizione energetica nazionale, con il progressivo – ma in verità incerto – superamento delle fonti fossili. Sono progetti che stanno suscitando forti proteste nella popolazione, accese controversie fra gli enti locali sardi e lo stato nazionale, numerose azioni giudiziarie, e anche importanti divisioni fra gli attivisti ambientalisti ed ecologisti e nell’opinione pubblica locale e nazionale.

La vicenda è nota, ma forse non troppo compresa. Si tratta, detto a grandi linee, degli obiettivi fissati dal decreto Draghi sulle energie rinnovabili (2021) e dal Piano nazionale integrato per l’energia e il clima: la Sardegna dovrebbe arrivare a produrre entro il 2030 circa 6,2 GW di energia dal vento e dal sole, in parte per il proprio fabbisogno, in parte da convogliare nella rete elettrica nazionale. Il decreto Draghi – entrato in vigore senza i previsti decreti attuativi, quelli che avrebbero dovuto fissare, fra le altre cose, precise norme di tutela del territorio – ha spinto l’industria delle rinnovabili a concentrare l’attenzione sull’isola, che è grande, poco popolata, molto soleggiata e molto battuta dal vento. Sono arrivati – dati del marzo 2025 – ben 729 progetti, per una produzione potenziale di 54,5 GW (36% dal sole, 34% da impianti eolici offshore, 30% da impianti eolici a terra), circa 25 volte la produzione attuale sarda di energia rinnovabile (2,2 GW), circa nove volte l’obiettivo indicato dal Piano energetico nazionale. A fronte di questa messe di progetti, mentre nascevano sul territorio malumori, discussioni e movimenti contro quella che è stata chiamata (dai comitati popolari) “speculazione energetica”, la Regione Sardegna, all’indomani dell’insediamento della nuova giunta di centrosinistra guidata da Alessandra Todde, ha prima approvato – luglio 2024 – una legge di moratoria di 18 mesi (poi giudicata illegittima dalla Corte costituzionale) al fine di bloccare i progetti in attesa di un piano regionale complessivo per le rinnovabili, poi una legge sulle aree idonee e non idonee (la numero 20 del dicembre 2024) che ha vincolato per ragioni ambientali, culturali, paesaggistiche circa il 98% del territorio. La legge 20 è stata impugnata dal governo, secondo il quale contiene vincoli troppo stringenti e comunque esorbita dalle competenze regionali: ne è nato un contenzioso che sarà sciolto dalla Corte costituzionale, chiamata a giudicare il caso nel prossimo autunno. Nel frattempo, il Tar del Lazio (maggio 2025) ha bocciato, in alcune sue parti, anche il decreto sulle aree idonee (a livello nazionale) del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che dovrà quindi essere riscritto.

È un quadro a dir poco complesso, se non caotico, che ha creato un clima di generale incertezza, ma non ha bloccato i progetti, il cui esame prosegue negli uffici del ministero dell’Ambiente e impegna enti locali e comitati popolari in affannose corse contro il tempo per presentare osservazioni e ricorsi. A complicare ulteriormente il quadro ci sono i progetti per la costruzione di una dorsale del gas, con relativa rete di distribuzione, in una regione che non ha mai avuto una metanizzazione a tappeto, come avvenuto invece nel resto d’Italia.

In questo contesto, dunque, abbiamo deciso con Repubblica nomade di “camminare domandando”, fedeli a un desiderio di ricerca e anche di “protezione del futuro” che ha animato l’associazione lungo tutta la sua storia, e specialmente negli ultimi anni, quando l’attenzione si è concentrata sui pericoli che corriamo come persone, come comunità e anche come specie in un mondo travolto da una crisi climatica senza precedenti. È difficile dare conto di tutti gli incontri fatti durante un Cammino durato due settimane, delle cose viste e ascoltate, delle esperienze compiute, ma è possibile, dal mio punto di vista di singolo camminatore, senza pretesa di parlare per altri, riportare i principali appunti che ho preso, le cose che mi pare di avere compreso, o almeno di avere messo a fuoco: sono scoperte, persuasioni, ma anche dubbi e frustrazioni, da prendere per quello che sono: appunti.

 

Chi programma?

Addentrarsi nei meandri delle leggi nazionali e regionali, dei regolamenti, dei decreti, delle sentenze di Tar e Corte costituzionale, è un’esperienza straniante, ma fa capire una prima cosa, e cioè che la “transizione energetica” e il conseguente impianto di siti industriali per le energie rinnovabili sta avvenendo – non solo in Sardegna – senza una reale programmazione. C’è un obiettivo da raggiungere entro il 2030 – nel caso sardo i 6,2 GW di produzione energetica da fonti rinnovabili – manca tutto il resto: un’analisi del contesto sociale e territoriale in cui intervenire, un confronto preventivo con le popolazioni e gli enti locali, un progetto di transizione energetica collegato a una trasformazione ecologica dell’economia, alla luce della crisi climatica globale (questo piano sembra del tutto assente).

I veri protagonisti di questa delicata e importante partita sembrano così gli industriali delle rinnovabili, pronti a realizzare investimenti per molte decine di milioni e a incassare profitti conseguenti e sicuri (legati anche agli inventivi pubblici), mentre a tutti gli altri toccano ruoli di contorno. E forse è anche per questo che c’è tanta agitazione.

 

I timori dei comitati

La prima cosa che ti dicono gli attivisti dei vari comitati (quelli di Sant’Antioco, Carloforte, Nuraxi Figus, Iglesias, Fluminimaggiore, Sanluri) è che sono favorevoli agli impianti eolici e solari e alla “decarbonizzazione” dell’isola: è una risposta preventiva rispetto all’etichetta che si sono trovati addosso, cioè d’essere pregiudizialmente contrari alle pale e ai pannelli, di essere quelli del no, d’essere affetti dalla sindrome Nimby (non nel mio giardino). Niente di nuovo: tutti i comitati “contro le grandi opere inutili”, come a un certo punto hanno cominciato a definirsi, sono passati attraverso quest’operazione di discredito, si pensi al movimento No Tav in Val di Susa; il tempo in verità è stato galantuomo, e oggi sarebbe grottesco attribuire a movimenti che hanno dimostrato di avere competenze, visioni e proposte d’ordine generale di battersi solo per proteggere il proprio giardino. Fatta questa premessa – appoggiati da Italia Nostra -, i comitati sardi sostengono di battersi per la tutela del proprio territorio da un vasto progetto di “speculazione energetica”, cioè un assalto alle risorse dell’isola da parte di società e multinazionali esterne che ancora una volta sfrutterebbero i sardi e la Sardegna a fini di profitto, lasciando sul posto ferite indelebili e poche briciole come “compensazione”.

La critica ai progetti è serrata e dettagliata, frutto di studi e competenze acquisite sul campo e apportate da professionisti esperti. I punti d’attacco sono numerosi. C’è il tema del consumo di suolo, trascurato, a dire dei comitati, quando si pensa agli impianti eolici, che non sono innocui “parchi ecologici” ma siti industriali a tutti gli effetti, per gli enormi plinti che devono essere interrati per sorreggere torri alte oltre 200 metri, per le strade di servizio che devono essere costruite, per il complicato smaltimento a fine ciclo degli impianti (circa 25 anni). C’è consumo di suolo, ancora, con gli impianti fotovoltaici, e c’è un impatto tutto da valutare sugli ecosistemi marini per gli imponenti impianti offshore progettati: quello di fronte all’isola di San Pietro, a oltre 12 miglia dalla costa, prevede per esempio oltre quaranta grandi turbine galleggianti ancorate al fondale, su un’estensione di mare lunga trenta chilometri, larga dieci. C’è poi la questione del paesaggio che muta, e muta per sempre, in una regione che ha mantenuto in larga misura la sua integrità ambientale: e qui vale il discorso fatto all’inizio, sulla relazione particolarmente stretta fra il profilo del paesaggio e il mondo interiore dei sardi.

I comitati dicono che siamo di fronte a una speculazione che rischia di mancare perfino l’obiettivo della decarbonizzazione, perché il rinnovabile si sommerà al fossile senza nemmeno sostituirlo; un’operazione che non dice nulla sul futuro dell’isola e della sua economia, sul nuovo “modello di sviluppo” da immaginare al tempo della crisi ecologica. Dove sono, dicono, i progetti per una nuova agricoltura adatta al clima che cambia? I progetti per un’economia ecologica, per la difesa del territorio e delle popolazioni dagli eventi estremi, per la riduzione controllata dei consumi energetici?

Marco Pau del comitato “Su entu nostu” ha dato un’immagine di come sarebbe la Sardegna se la “speculazione energetica” si realizzasse davvero: “Dovremmo immaginare l’isola come un puntaspilli, quindi una piattaforma con tanti spilli conficcati, ma anche tanti laghi neri, e il tutto circondato in mare da una corona di altri spilli”. Gli spilli, naturalmente, sono le torri dell’eolico, i laghi neri gli impianti fotovoltaici. Un’immagine, quella di Pau, che inquieta.

Ma qual è la proposta alternativa dei comitati, visto che nessuno pensa di poter proseguire a produrre energia con le centrali a carbone e gli oli combustibili? L’alternativa, spiegano, è nei pannelli solari, che dovrebbero essere installati sulle superfici già coperte, quindi senza nuovo consumo di suolo (i tetti di case, capannoni, stazioni, supermercati, parcheggi, edifici pubblici e così via): i comitati citano studi condotti dall’Enea e dall’Ispra, secondo i quali a livello nazionale si potrebbe arrivare in questo modo a produrre da 78 a 92 GW di potenza fotovoltaica. Fatto questo, aggiungono, si tratterebbe di valutare – in Sardegna come nel resto d’Italia – quanto manca a coprire il fabbisogno e agire di conseguenza, con impianti eolici e fotovoltaici di dimensioni a quel punto ridotte e da collocare in “aree idonee” concordate con le popolazioni e gli enti locali. È senz’altro la proposta più ecologica e più prudente che si possa fare, ma non viene presa in considerazione, né in Sardegna né altrove, per le ragioni che dicevamo prima: non c’è programmazione, l’iniziativa è rimessa alle industrie e i poteri pubblici hanno già deciso di svolgere un ruolo di mero supporto politico e normativo; e l’industria ovviamente preferisce progetti a campo aperto, piuttosto che interventi mirati su tetti e aree urbane. Ma l’interesse pubblico e i beni comuni, in questo modo, che fine fanno?

 

Ambientalismi

Il dibattito sulle rinnovabili in Sardegna, ma anche altrove, è complicato e alle volte impedito dalla frattura che si è consumata nel mondo ambientalista ed ecologista, da intendere nel senso più lato, includendo quindi comitati e gruppi informali. Una frattura, come spesso accade, vissuta con disagio e malanimo, mentre andrebbe forse accettata per quello che è, e affrontata nel dialogo, sapendo che un’evoluzione delle posizioni è sempre possibile, anzi probabile, di fronte all’incalzare e al mutare dei fatti.

Le maggiori associazioni ambientaliste – in Sardegna le più attive sono Legambiente e Greenpeace – non appoggiamo i comitati locali, sostenendo che le loro preoccupazioni per il consumo di suolo e per il mutamento del paesaggio sono eccessive, e comunque non giustificate di fronte all’urgenza di far avanzare il più rapidamente possibile la transizione energetica, vista la drammatica crisi climatica in corso. Non tutti i 729 progetti ricevuti da Terna, fanno poi notare, andranno in porto, visto che dovranno superare delle analisi sugli impatti ambientali, e dunque è sbagliato parlare di assalto alla Sardegna o di speculazione energetica. Queste associazioni chiedono alla Regione di non frenare lo sviluppo dei progetti e anzi di accelerare i tempi della transizione, che potrebbe portare la Sardegna a essere la prima regione 100% rinnovabile, cioè del tutto decarbonizzata.

A questo ambientalismo pragmatico, orientato dalla soluzione tecnica, potremmo anche definirlo riformista, un ambientalismo che preme sull’acceleratore della decarbonizzazione e considera accettabili i prezzi ambientali da pagare (dopo averli ovviamente minimizzati attraverso le previste leggi di tutela), si contrappone un ecologismo più politico, più vicino alla “conversione ecologica” di Alex Langer e alla “ecologia integrale” dell’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco. È la posizione di chi vuole lottare per un cambiamento più profondo dell’economia, quindi delle produzioni e dei consumi, nella consapevolezza che una “semplice” transizione energetica, con la sostituzione progressiva delle fonti fossili con quelle rinnovabili, se anche avvenisse, non risolverebbe i problemi dell’economia globale e del surriscaldamento climatico, visto che la corsa verso la crescita, verso l’estrazione di terre rare e altre risorse scarse non si fermerebbe, e richiederebbe un crescente, inarrestabile aumento della produzione di energia, più o meno rinnovabile, in un ciclo senza fine. La lotta, secondo questo filone di impegno, deve dunque svelare il bluff in atto, la “transizione energetica” che non è “conversione ecologica”, e proteggere il territorio da interventi che ne muterebbero per sempre l’aspetto e le vocazioni senza nemmeno avviare un reale cambiamento del “sistema”.

Ci sono quindi due modi quasi paralleli d’intendere l’impegno ecologista, e questo pone un dilemma per gli attivisti del nostro tempo: per quale causa vale la pena impegnarsi?

La decarbonizzazione

La Sardegna ha un indubitabile fardello: due centrali a carbone ancora attive (Portoscuso e Porto Torres), per le quali viene continuamente posticipata la data di dismissione. L’urgenza di procedere con l’insediamento di nuovi impianti di energia rinnovabile è quindi reale, anche se resta il dubbio se vi sarà davvero un automatico spegnimento delle centrali a carbone una volta che sarà aumentata la produzione di energia rinnovabile. Il fatto è che la generale crescita del fabbisogno di energia non sembra destinata a fermarsi e nemmeno a rallentare – tutt’altro, se pensiamo ai programmi di sviluppo dell’intelligenza artificiale, comparto altamente energivoro, così come l’industria bellica, anch’essa destinata a prosperare secondo i nuovi programmi europei – e quindi il dubbio è legittimo: prima di fermare le centrali a carbone (e di chiudere i rubinetti del fossile nel resto d’Italia) riducendo di fatto la produzione energetica complessiva, ci sarà sempre la tentazione della proroga, visto che la “vocazione ecologica” del sistema industriale sembra piuttosto debole, se non inesistente.

Dà da pensare, in Sardegna, la persistenza di un grande progetto infrastrutturale per il gas, tutt’altro che abbandonato e anzi sostenuto da potenti e ben visibili interessi. La stessa Legge Pratobello di iniziativa popolare, sottoscritta da oltre duecentomila cittadini, e proposta come strumento per fermare la speculazione sulle rinnovabili, è stata vista da molti – provocando anche una frattura fra i comitati – come un cavallo di Troia del progetto-metano, anche perché fra i promotori figuravano noti esponenti della destra sarda, sostenitori storici di questa nuova infrastruttura. Tirando il ballo il gas, ovviamente, non si parla più di decarbonizzazione. La stessa presidente Todde in alcune interviste ha “aperto” all’opzione metano, sia pure come fonte “transitoria”, da sfruttare in attesa di un passaggio completo alle rinnovabili, ma al prezzo, ovviamente, di ospitare navi rigassificatrici vicino alle coste e di costruire reti di trasporto del gas, sia pure meno estese di quelle previste dal progetto della dorsale di distribuzione in tutta l’isola. I due ambientalismi di cui dicevamo, su questo punto concordano: sarebbe assurdo portare il gas in Sardegna, mentre dovrà essere dismesso in tutta Italia secondo i piani, o almeno le dichiarazioni, di futura decarbonizzazione. Per il momento sembra che le fonti di produzione energetica siano destinate a sommarsi: carbone, più rinnovabili, più gas, e non solo in Sardegna, bensì in tutta Italia, anche perché nelle intenzioni e nelle previsioni non c’è una riduzione, bensì un incremento dei consumi energetici, e semmai l’esigenza di garantirsi approvvigionamenti politicamente sicuri, cioè forniture di gas e petrolio da paesi “amici”. Sono i progetti del governo, dell’Eni, un po’ di tutti i poteri che contano.

La storia

La nozione di “speculazione energetica” ha una forte efficacia comunicativa, in quanto evoca un sistema industriale proiettato alla massimizzazione del profitto, approccio peraltro rivendicato, nonché legittimato socialmente e politicamente. In Sardegna, poi, la sua forza è moltiplicata da una consapevolezza storica: la lunga, ininterrotta azione di “estrattivismo” che l’isola ha subito. Camminando, si ha il tempo e il modo di osservare tutti i segni lasciati nel territorio dalle più recenti ma anche dalle più antiche “estrazioni”: è una storia che si incontra di continuo.

Portoscuso, per dire, il Comune ha messo nel suo simbolo, accanto all’antica tonnara (ora minacciata da un impianto eolico offshore) e una torre altrettanto antica, anche una fabbrica con due ciminiere sbuffanti fumo. Una simbologia insolita, ma che restituisce bene la sorte toccata a certi luoghi dell’isola: scelti, in qualche modo sacrificati, per insediarvi dall’alto industrie pesanti, a forte impatto ambientale e con rischi sanitari per le popolazioni a dir poco sottovalutati. A Portoscuso, un piccolo centro affacciato sul mare davanti all’isola di San Pietro, il decollo industriale coincise con la progressiva dismissione delle miniere: si pensò, in questo modo, di compensare la perdita di posti di lavoro. Nacquero grandi industrie per la lavorazione dei metalli, con la produzione di laminati in alluminio, di zinco e piombo e altro ancora; poco distante dalla centrale a carbone si impiantò anche una fabbrica per la lavorazione della bauxite, con la materia prima importata nientemeno che dall’Australia (è la fabbrica che ha lasciato una discarica di fanghi rossi inquinanti di venti ettari). Il sindaco di Portoscuso, Ignazio Atzori, che ha un passato da medico condotto e ufficiale sanitario della cittadina, parlando con Repubblica nomade ha ricordato la “scoperta”, ormai quarant’anni fa, dei danni alla salute degli abitanti causati dal piombo: si arrivò a proibire il consumo di latte e ortaggi prodotti sul posto. A Portoscuso, in aree industriali dimesse e ormai inutilizzabili in altro modo, sono state collocate – senza particolari conflitti – numerose pale eoliche, ma ora il Comune è solidale con i comitati che si battono contro l’eolico offshore, considerato una minaccia non solo per il paesaggio ma anche per gli ecosistemi marini e le stesse abitudini dei tonni, la cui pesca è un’attività del luogo ancora importante.

camminando verso Iglesias, passando poi per Masua e Arbus, si incontrano i resti delle vecchie miniere, tutte ormai dismesse, ruderi di una civiltà del lavoro – in realtà di una forma di sfruttamento ai limiti dello schiavismo – arrivata al tramonto già da alcuni decenni. Alcune parti delle miniere sono state “recuperate” e inserite, come luoghi di memoria, nel Cammino minerario di Santa Barbara, una proposta di turismo lento e dolce sulla quale gli abitanti del luogo, ma anche gli enti locali, hanno investito tempo e attenzione. Ma restano profondissime le ferite nel paesaggio. Pierluigi Carta, ex sindaco di Iglesias, ha accompagnato per un tratto Repubblica nomade e ha mostrato, nei pressi della grande miniera di Monteponi, alle porte di Iglesias – una città nella città -, la collina formata nei decenni con gli scarti dei materiali di miniera: una collina rossastra, ora terrazzata, che rilascia polveri di arsenico e altre sostanze a ogni folata di vento. Ebbene, ha raccontato Carta, al tempo del suo mandato da sindaco (2005-2010) fu compiuto uno studio di fattibilità e si capì che facendo lavorare 150 camion al giorno per 15 anni (!), portando i materiali a Portovesme dove uno stabilimento ad hoc avrebbe potuto trattarli e almeno abbattere le sostanze più pericolose, si sarebbe riusciti a smaltire appena la metà della montagna di detriti (e altri detriti, naturalmente, sarebbero rimasti a Portovesme dopo il trattamento, riproponendo il problema dello smaltimento). Ci sono poi in Sardegna – mai dimenticarlo – vaste porzioni di territorio sotto servitù militare, utilizzate per esercitazioni belliche e come poligoni di tiro, con importanti conseguenze anche sulla salute pubblica.

Insomma, ci sono ferite che non sono sanabili, e infatti nel paesaggio sardo si è sedimentata la travagliata storia dell’isola. Repubblica nomade lungo il suo percorso, nel caldissimo Medio Campidano, ha lambito Villacidro, cittadina natale di Giuseppe Dessì, autore di un romanzo memorabile, Paese d’ombre, premio Strega nel 1972. È il racconto, a cavallo fra Otto e Novecento, attraverso la vicenda del protagonista Angelo Uras, dello sfruttamento di quest’area sud-occidentale della Sardegna, che al tempo dei Savoia fu letteralmente disboscata per alimentare le fonderie e per il commercio del legname. Paese d’ombre è un grande romanzo storico, che ricorda, fra le altre cose, il famoso sciopero dei minatori di Buggerru nel 1904, sedato nel sangue dai carabinieri, e all’origine del primo sciopero generale nazionale della storia d’Italia (11 settembre 1904). Oggi Buggerru è un centro semi spopolato – circa mille abitanti – che cerca di sostenersi con il turismo lento dei cammini e con il turismo del vento (è un piccolo paradiso per surfisti, grazie al maestrale), ma il ricordo della spoliazione non è cancellato e anzi fa parte, come una spina ancora dolorosa, del rapporto speciale che lega la popolazione sarda al “suo” paesaggio.

Le comunità energetiche

Se la via prescelta per la “transizione energetica” è quella dei grandi progetti, calati per lo più dall’alto, e con il volante dell’ideale vettura del cambiamento “green” saldamente in mano alle tecnocrazie pubblico-private, il modello delle Comunità energetiche (Cer) dovrebbe rappresentarne l’alternativa speculare: costruite dal basso, modellate sulle esigenze locali, con la partecipazione diretta dei cittadini, delle imprese del posto e delle amministrazioni pubbliche. In un mondo ideale, le Cer sarebbero le protagoniste della “conversione ecologica”, che partirebbe dal basso, dai bisogni locali, e poi si allargherebbe alla solidarietà fra territori, in una logica di riduzione controllata dei consumi globali e di minimo impatto ambientale e paesaggistico, in un contesto generale di trasformazione dell’economia. Ma non è questo lo scenario presente, tutt’altro.

I Comuni di Villanovaforru e Ussaramanna – meno di 1.500 abitanti in tutto – sono stati i pionieri delle comunità energetiche sarde, e i due sindaci – Maurizio Onnis e Marco Sideri – raccontano volentieri, sotto un porticato in collina, l’esperienza compiuta, ma sgombrano anche il campo da ogni illusione: le comunità energetiche non sono una reale alternativa, perché non ci sono risorse adeguate per avviarle su larga scala, perché le procedure sono complicate e l’unica loro reale funzione è di fare da “foglie di fico” della politica e delle sue pochezze: “Quello che noi produciamo si aggiunge all’energia prodotta col fossile, non viene chiuso nulla, e i consumi intanto aumentano”. Sia Onnis che Sideri non rinnegano l’esperienza fatta, ma dicono che è servita soprattutto a stimolare la partecipazione dei cittadini, che sono stati coinvolti, su iniziativa dei Comuni, nella realizzazione del progetto e poi nella gestione della Cer. I Comuni non hanno fondi, dice Onnis, creare una Cer è faticoso e poco vantaggioso. Le Comunità energetiche di Villanovaforru e Ussaramanna sono state create installando pannelli fotovoltaici su edifici pubblici, con la consulenza della cooperativa èNostra, ma è mancato in entrambi i casi un impegno diretto delle imprese locali, che in teoria potrebbero essere promotrici, a loro volta, di comunità energetiche per i il proprio fabbisogno. È quel che accade, del resto, anche nel resto d’Italia.

Le Cer, insomma, sono citate nelle leggi e nei decreti, ma sono destinate a restare ai margini della scena, dei piccoli puntini, quasi invisibili, in mezzo alle torri e ai pannelli dell’industria delle rinnovabili. In Sardegna qualcosa potrebbe cambiare, aggiunge tuttavia Onnis, se venisse confermata, dopo il vaglio della Consulta, quella parte della legge regionale sulle aree idonee che stanzia 685 milioni di euro per le comunità energetiche; con quei soldi potrebbero nascere molte nuove Cer, ma il quadro normativo d’insieme è troppo incerto per immaginare in che modo potrebbero interagire con i progetti industriali.

 

Prime conclusioni

La ribollente società civile sarda, coi suoi comitati, con le sue manifestazioni, anche con le sue divisioni, ha il merito di avere aperto un dibattito altrove ancora assente, ma necessario, perché ciò che i comitati chiamano “speculazione energetica” e gli altri semplicemente “transizione energetica” è in corso in tutta Italia, seppure con volumi di investimenti diversi e distribuiti in modo non omogeneo: più ingenti ed estesi al Sud e in Sardegna, meno vistosi in altre parti del paese (ma le recenti vicende del Mugello in Toscana, con il sabotaggio da parte di attivisti mascherati di macchinari di un’impresa impegnata nell’installazione di pale eoliche sul crinale appenninico, fanno capire che le linee di tensione non riguardano solo il Mezzogiorno).

La strada scelta dall’Italia, in linea con le direttive europee, è la via di una transizione energetica guidata dall’alto, con una forte spinta alla semplificazione delle procedure, in modo che l’industria delle rinnovabili possa centrare gli obiettivi indicati per il 2030. Il compito affidato a governi ed enti locali è la definizione di un quadro normativo complessivo, anche sul piano della tutela ambientale, ed è qui che si gioca il braccio di ferro fra governo nazionale e Regioni, nella precisazione delle rispettive competenze, rimessa a questo punto alla Consulta e ai tribunali. È particolarmente delicato il caso della Regione Sardegna, una delle cinque a statuto speciale, e quindi più gelosa, e più teoricamente garantita, delle proprie prerogative; in aggiunta, la giunta sarda ha già mostrato d’essere propensa a dettare regole più stringenti di quelle volute dal governo nazionale, per quanto Todde non abbia voluto mettersi alla testa dei movimenti contro la “speculazione energetica”, come i comitati avevano forse sperato. Leggi e sentenze pregresse, al momento, fanno pensare che alla fine la spunterà il governo e che quindi i progetti industriali sulle rinnovabili avanzeranno in Sardegna senza eccessivi vincoli, in modi che saranno valutati caso per caso. Ma niente è sicuro: la Consulta potrebbe dare ragione alla Regione Sardegna, e quest’ultima, anche se battuta in giudizio, potrebbe intraprendere azioni politiche al momento nemmeno immaginabili. E poi, naturalmente, c’è la variabile comitati: in che modo, con quali obiettivi, con quale forza e capacità di mobilitazione vorranno agire, qualunque sia il quadro normativo futuro? Nessuno può dirlo oggi, ma la Sardegna ribolle, e almeno un messaggio già lo manda a tutti gli italiani: sulla produzione di energia si sta giocando una partita decisiva per il futuro economico e sociale del paese, ma non ne stiamo davvero discutendo, non nel modo e con la profondità e il respiro democratico e partecipativo che sarebbero necessari. Ci sarebbe ancora molto cammino da fare insieme, e non solo in Sardegna.

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lunedì 28 luglio 2025

Il disastro di Villasimius - Mario Guerrini

L'incendio che ha incenerito una perla del turismo ha anche arso l'immagine della classe politica. Da 30 anni figure di scarso livello si alternano alla guida della Regione Sardegna. Mentre i partiti si rivelano esclusivamente piattaforme di potere. Lo stesso apparato dirigenziale di viale Trento è entrato nella logica del carrierismo politico. Tutti pronti a vendersi al potere per scalare i vertici aziendali. L'ho visto in RAI. Mezze calzette al comando. Dappertutto. Il risultato è stato il degrado delle redazioni e delle strutture. I modelli TV non sono più (salvo rare eccezioni) quelli dell'Azienda di Stato. Ma quelli delle TV commerciali, dove il senso dell'impresa è primario. Così è la Regione. Collassata da una politica fine a sé stessa. L'Isola è in balia delle fiamme. Perché impreparata ad affrontare il fenomeno. Non da oggi. Le poltrone dell'amministrazione sono oggetto di potere non di esaltazione della qualità. C'è la mortificazione dei ruoli. Divenuti semplici bersagli di occupazione clientelare. Mentre la regia dei partiti di maggior peso nel quadro politico è una congregazione di affari e di affaristi.

La credibilità è perduta. I pm sono sempre più coinvolti, inevitabilmente, nell'azione di questa classe dirigente. Presidenti di Regione inquisiti, assessori e consiglieri regionali che finiscono in carcere, dirigenti e funzionari che ingrossano i fascicoli della Procura, Rettori universitari presunti mafiosi che restano al comando, e che operano allo stesso modo per cui sono stati messi sotto inchiesta. Di cosa ci meravigliamo? La brava Governatrice Alessandra Todde è essa stessa imbrigliata in questi meccanismi. La sua onestà non basta se poi il potere operativo è nelle mani di incapaci. A cominciare da alcuni discussi personaggi del suo stesso staff di Presidenza. La Sardegna brucia per un sistema antincendio vecchio e inadeguato. Non è un elicottero o un Canadair in più che risolve il problema. Ma è così dappertutto. I nuovi Dg della Sanità non possono cambiare la sostanza di un marciume politico di clientele. Come collegamenti aerei e marittimi non si modernizzano con un bando e a fronte di una dinastia di imprenditori navali rapaci. Senza visione politica mirata all'efficienza e al progresso vinceranno solo le logiche di potere e del business. Gli incendi, metaforicamente, continueranno aincenerire anche le nostre speranze e i nostri sogni.

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domenica 27 luglio 2025

Smascherare i miti: sei falsità sui Nativi Americani da sfatare - Raffaella Milandri

  

Un viaggio emozionante nella verità storica e culturale dei Popoli Indigeni d’America, illuminato dalla letteratura e dal giornalismo engagé.

 

I Nativi Americani, popoli di straordinaria ricchezza storica e culturale, sono stati a lungo travisati da stereotipi riduttivi e narrazioni distorte che ne hanno offuscato l’identità. Cinema, letteratura popolare e immaginario collettivo hanno spesso ridotto comunità complesse e vibranti a caricature semplicistiche, perpetuando miti che negano la loro diversità, resilienza e contributi.

Grazie a una crescente produzione letteraria e giornalistica, come i libri di autori nativi e rubriche specializzate, tra cui Nativi su L’Antidiplomatico, possiamo oggi smascherare sei falsità radicate, riscoprendo l’eredità autentica dei Popoli Indigeni d’America. Attenzione, anche oggi risulta molto difficile divulgare la cultura dei Nativi Americani: il complesso di superiorità occidentale, in molti casi, dilaga ancora oscurando informazioni e praticando censure su molti giornali.


  1. I Nativi Americani sono un unico gruppo monolitico

L’immagine stereotipata di un “indiano” con piume e tomahawk è un’invenzione hollywoodiana. In realtà, i Nativi Americani comprendono oltre 570 tribù riconosciute negli Stati Uniti, ciascuna con lingue, tradizioni e storie uniche. I Navajo, celebri per la loro arte tessile e la cosmologia complessa, differiscono profondamente dai Cherokee, che svilupparono un sistema di scrittura sillabico grazie a Sequoyah nel 1821, dando vita al Cherokee Phoenix, il primo giornale nativo. Opere come The Heartbeat of Wounded Knee di David Treuer sottolineano questa diversità, mentre rubriche come questa esplorano le specificità culturali, storiche e di attualità di tribù spesso ignorate, contrastando l’immagine monolitica e riduttiva. 


  1. I Nativi Americani sono estinti

Il mito che i Nativi Americani appartengano solo al passato è smentito dai numeri: oltre 9 milioni di persone si identificano come Nativi Americani o Nativi dell’Alaska, secondo il Censimento USA del 2020. Le loro comunità sono vive, come dimostrano i Powwow, celebrazioni di danza e musica che riuniscono migliaia di nativi, o la rinascita della lingua Lakota nelle scuole tribali. Libri come There There di Tommy Orange raccontano la vitalità delle comunità native urbane, mentre gli articoli su Nativi evidenziano l’attivismo contemporaneo, come le lotte per la sovranità territoriale, dando voce a una resilienza che sfida ogni narrazione di estinzione. 


  1. Non avevano società avanzate prima del contatto con gli europei

L’idea di società “primitive” è confutata da prove archeologiche. La civiltà del Mississippi costruì Cahokia, una città con oltre 20.000 abitanti e una piramide alta 30 metri, tra il 900 e il 1350 d.C. Gli Anasazi, antenati dei Pueblo, svilupparono sistemi di canalizzazione nei deserti del Sud-Ovest, mentre gli Haudenosaunee crearono una confederazione politica sofisticata. Testi come 1491 di Charles C. Mann documentano queste conquiste, e articoli specializzati approfondiscono il genio architettonico e politico dei Nativi, smontando il pregiudizio coloniale di superiorità europea. 


  1. I Nativi Americani erano solo nomadi primitivi senza sistemi agricoli avanzati

L’immagine del nativo come cacciatore nomade ignora le innovazioni agricole di molte tribù. Gli Haudenosaunee coltivavano le “Tre Sorelle” (mais, fagioli, zucca) con tecniche di policoltura sostenibile, mentre gli Hopi usavano sistemi di irrigazione per coltivare in ambienti aridi. Il mais, originario delle Americhe, ha rivoluzionato l’agricoltura globale. Scrittrici come Robin Wall Kimmerer, in Braiding Sweetgrass, celebrano la saggezza ecologica nativa, e raccontano come queste pratiche agricole siano ancora modello di sostenibilità, smentendo l’idea di primitivismo.


  1. I Nativi Americani erano intrinsecamente violenti e ostili agli europei

La narrazione del “selvaggio ostile” è una distorsione coloniale. I Wampanoag accolsero i Pellegrini nel 1621, condividendo risorse che resero possibile il primo Thanksgiving. I conflitti, come il massacro di Sand Creek del 1864, dove truppe USA uccisero 150 Cheyenne e Arapaho, furono spesso provocati da violazioni di trattati. Opere come Bury My Heart at Wounded Knee di Dee Brown documentano queste ingiustizie, mentre qui analizziamo la diplomazia nativa, come i trattati degli Haudenosaunee, evidenziando una tradizione di pace oscurata da narrazioni faziose. 


  1. I Nativi Americani non hanno contribuito alla cultura moderna degli Stati Uniti

I Nativi Americani hanno plasmato profondamente la cultura americana. La Costituzione USA si ispirò al sistema confederale degli Haudenosaunee, un modello di democrazia partecipativa. Parole come “moose” e “hurricane” derivano da lingue native. Figure come l’artista Navajo R.C. Gorman o l’attivista Winona LaDuke hanno lasciato un’impronta nell’arte e nell’ecologia, mentre il movimento di Standing Rock contro il Dakota Access Pipeline ha ispirato il mondo. Autori come Louise Erdrich, con romanzi come Love Medicine, e tanti articoli dimostrano l’influenza viva dei Nativi, smentendo chi ne nega il ruolo. 

Un invito alla scoperta attraverso la letteratura e il giornalismo 

Smascherare queste falsità è un atto di giustizia storica e culturale, reso possibile dalla potenza della letteratura nativa e del giornalismo indipendente. Libri come quelli di Sherman Alexie o Leslie Marmon Silko, insieme a rubriche come Nativi, ci guidano verso una comprensione autentica, celebrando la resilienza e la creatività dei Nativi Americani. La loro storia non è solo un racconto di sopravvivenza, ma una lezione di umanità che continua a ispirare. Immergiamoci in queste narrazioni per riscoprire un’eredità che appartiene al mondo intero.

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sabato 26 luglio 2025

Paradossi e contraddizioni del nostro tempo - Andrea Balloni

L’Ordine americano che ha dominato il mondo dal secondo dopoguerra a oggi ha lasciato una scia di devastazione, guerre preventive, colpi di Stato, crisi economiche. Un leviatano decerebrato, per citare l’autore dell’articolo originale, che ha divorato ogni ostacolo al suo dominio. Ma negli ultimi decenni, quel mostro si è mangiato anche la propria coda: la politica neoliberista ha svuotato l’apparato produttivo, distrutto la classe media, reimportato in casa la miseria che per anni aveva esportato.

L’America che si pensava invincibile si ritrova oggi con intere comunità ridotte alla fame, milioni di lavoratori impoveriti, infrastrutture a pezzi e un senso di declino diffuso. E in questo contesto si inserisce il grande paradosso: l’ascesa di Donald Trump.

Per molti, Trump fu una boccata d’aria dopo anni di globalizzazione selvaggia. Un uomo fuori dalle liturgie del potere, che prometteva di riportare l’America al centro. Ma è proprio qui che iniziano le contraddizioni: quale America vuole ricostruire? Quella del secondo dopoguerra, con la politica monetaria regolata dagli accordi di Bretton Woods? O quella degli anni Ottanta, che ha deregolato tutto e trasformato il dollaro in un’arma?

Il trumpismo si presenta come antitesi al sistema, ma si porta dietro i suoi stessi protagonisti. Un nome su tutti: Elon Musk. Campione del capitalismo predatorio, icona dell’individualismo oligarchico, simbolo di una Silicon Valley che ha cannibalizzato ogni idea di collettività. L’uomo che ha fatto fortuna sulla precarietà altrui è oggi il volto del nuovo potere trumpiano. Un potere che licenzia, reprime sindacati, gioca con la finanza globale, e poi predica il ritorno alla nazione.

L’America di oggi paga le scelte degli ultimi 40 anni. Secondo il “Foreign Affairs”, tra il 2000 e il 2020 la produzione industriale è crollata del 10%, un terzo dei posti in fabbrica è sparito. Lavoratori in età attiva fuori dal mercato, epidemie di droga, salari da fame, cittadini che non riescono più a mettere benzina in auto.

E ora? Trump promette la reindustrializzazione. Ma cosa vuol dire? Ricostruire l’intero apparato produttivo distrutto dalle delocalizzazioni, formare nuove generazioni di tecnici, ingegneri, operai. Un’operazione che richiede decenni, ma che viene venduta come slogan da talk show. Nel frattempo, aumenta il costo della vita, esplodono i prezzi dei beni di consumo (tutti importati), e il paese resta senza visione.

C’è poi la questione internazionale. Gli Stati Uniti restano l’unica potenza globale che pretende di imporre un ordine mondiale attraverso la forza. L’età unipolare si regge sempre più su minacce, embarghi, destabilizzazioni, e sempre meno su consenso. Trump, in teoria, promette il ritorno alla sovranità. Ma quale sovranità? Quella che parla a nome di Wall Street? Quella che bombarda in nome della libertà?

La retorica anti-establishment si scontra con una realtà fatta di miliardari, lobbies, fondazioni private e guerra economica. Non basta dire “America first” per essere alternativi. Serve sapere dove si vuole portare il mondo.

Eppure, qualcosa sta cambiando.

Il sistema unipolare vacilla. L’Occidente perde egemonia. Il Sud globale rivendica spazio. La Cina, l’India, il BRICS, l’Africa, l’America Latina: tutti reclamano rispetto, sovranità, nuovi equilibri. Il modello USA, fatto di FMI, dollaro e basi militari, non regge più. E la nuova destra, da Trump a Milei, da Meloni a Farage, finge di offrire alternative. Ma si nutre dello stesso sistema: un populismo senza popolo, che vende slogan e compra tempo.

La vera alternativa non sarà Trump, né Musk, né nessun CEO travestito da liberatore. Sarà il giorno in cui si tornerà a parlare di giustizia sociale, redistribuzione, sovranità reale, Stato attivo, pace, lavoro dignitoso.

Per ora, l’America può solo scegliere se scavarsi la fossa da sola o chiedere scusa a se stessa.

E forse, anche al resto del mondo.

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venerdì 25 luglio 2025

La sinistra dalla parte sbagliata della storia - Antonio Castronovi

 

Quelli "di sinistra", spesso intellettuali che si definiscono pure "pacifisti", abboccano come pesci all'amo della propaganda di guerra nazi-NATO-Ucraina, oggi sui morti di Sumy e ieri su quelli di Bucha, senza avere alcun dubbio dell'essere possibili oggetto di manipolazione per alimentare la fobia antirussa. Non si rendono conto che stanno in questo modo essi stessi fornendo carburante per alimentare le fiamme della presunta"guerra giusta" contro la Russia e il mondo multipolare, cioè per giustificare una nuova guerra mondiale. Ragionano con l'emotività scatenata da una comunicazione tossica che neutralizza la razionalità di giudizio e impedisce di vedere la realtà dei fatti e la manipolazione in atto. Devo purtroppo dire che gli ideatori della guerra psicologica della NATO sono proprio bravi! Riescono sempre nel loro intento di convincerci che le guerre che combattono e che fanno combattere siano giuste, che i loro nemici, Saddam - Gheddafi - Assad - Putin, ecc…, siano pericolosi dittatori e autocrati, e che sia giusto eliminarli anche esportando la nostra finta democrazia con le guerre. I "più buoni", i "pacifisti di sinistra", invece preferirebbero eliminarli in modo non violento, appunto con mezzi pacifici. Infatti hanno applaudito le rivoluzioni colorate riuscite o fallite contro i governi sgraditi all'Occidente. Non amano i sistemi politici, i valori dei popoli e delle culture orientali e comunque non liberali, in quanto li ritengono espressione di dittature antidemocratiche di autocrati che opprimono i loro popoli, che vanno quindi liberati per poter aderire finalmente ai nostri valori verso cui anelerebbero naturalmente.

Spesso non lo dicono tutti così apertamente, penso per pudore, ma lo pensano e si comportano di conseguenza.

In questo modo la vecchia cultura di sinistra non solo diventa inservibile per comprendere il mondo attuale, ma produce altresì consensi a quel mostro del moderno globalismo finanziario, espressione ultima dell'imperialismo e del colonialismo occidentale che ha infestato e vampirizzato il mondo e prodotto guerre, razzismo, devastazioni e genocidi di intere popolazioni negli ultimi cinquecento anni.

In questo senso questa cultura non solo è inservibile, ma diventa oggettivamente pericolosa e reazionaria, in quanto serve un mondo di dominatori secolari che non vuole morire e che vuole impedire la nascita di un nuovo mondo di popoli e di stati liberi e sovrani, anche a costo di scatenare un olocausto nucleare.

Il vero pacifismo oggi deve essere "armato", deve saper resistere alle forze criminali dei padroni universali, sostenere chi li combatte anche con le armi, sottrarsi alla propaganda di guerra psicologica condotta col sostegno decisivo del sistema mediatico a loro asservito e che manipola le nostre coscienze e le nostre emozioni. Deve rifiutare loro, di conseguenza, il nostro consenso non mediato da un approccio razionale e critico che una volta i marxisti utilizzavano per analizzare i fenomeni sociali e storici fuori dalla falsa coscienza della ideologia e dell'umanitarismo facile a buon prezzo. Umanitarismo emotivo che serve al massimo a placare la nostra hegeliana "coscienza infelice", ma non serve la causa di una rivoluzione mondiale in atto contro i padroni del mondo, posizionandosi così dalla parte sbagliata della Storia.

La verità amara purtroppo è questa: quella che fu la sinistra in Occidente, tranne poche isolate eccezioni, è diventata un ostacolo politico, ideologico e sociale al nuovo processo storico di liberazione e di autodeterminazione dei popoli che si stanno scrollando di dosso i residui del vecchio colonialismo e delle vecchie dipendenze. Non sta più alla testa dei popoli in marcia per spezzare le catene delle schiavitù, ma marcia accanto ai suoi nemici in nome di un idealismo globalista e democratico-liberale, ritenuto un punto di non ritorno della storia del pensiero e della filosofia politica. Alla faccia di Marx e della rivoluzione socialista.

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giovedì 24 luglio 2025

Sardegna, giovani universitari in fuga: via dall’Isola un laureato su cinque


A incidere le difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro: a 5 anni dal titolo di studio il 14% non studia, non lavora e non segue percorsi formativi

 

Crescono gli studenti sardi impegnati a studiare negli atenei italiani fuori dall’Isola: se dieci anni fa erano l’11,2%, nell’anno accademico 2023/2024 sono passati al 16,2%. Non solo: il 20% dei giovani laureati in Sardegna, dopo 5 anni dal conseguimento del titolo, lavora in altre regioni o Paesi.

È quanto emerge dal report del Centro Studi di CNA Sardegna, che rielaborando dati Istat e Almalaurea evidenzia come, tra il 2019 e il 2022, il saldo migratorio negativo dei giovani laureati sardi tra i 25 e 39 anni si è attestato appena al di sotto di 16 residenti per mille abitanti. Un dato che colloca l’Isola all’ottavo posto tra le regioni italiane per saldo negativo, in una classifica dove a dominare per valori positivi sono invece Trentino Alto Adige, Piemonte, Toscana, Lazio, Lombardia ed Emilia Romagna.

Secondo i dati del MIUR, per l’anno accademico 2023/2024 gli studenti iscritti negli atenei sardi sono passati da 47.572 nel 2011/2012 a 35.539 nel 2023/2024, con una diminuzione di oltre 12mila unità. Nel medesimo periodo, gli studenti residenti iscritti in altre regioni sono aumentati da circa 6.000 a 7.000.

Questo fenomeno si inserisce in un contesto di invecchiamento demografico e di riduzione della popolazione giovanile, diminuita da 102.158 (2011) a 83.518 (2024), con una contrazione del 18,2%.

Le difficoltà di inserimento lavorativo dei neo-laureati degli atenei di Cagliari e Sassari emergono anche dai tassi di occupazione significativamente inferiori alla media nazionale e livelli di disoccupazione superiori di circa 3 punti percentuali nei primi cinque anni post-laurea: la percentuale di NEET (chi non studia, non lavora e non segue percorsi formativi) tra i laureati sardi resta elevata, al 14% dopo cinque anni contro la media nazionale del 9,6%.

https://www.unionesarda.it/news-sardegna/sardegna-giovani-universitari-in-fuga-via-dallisola-un-laureato-su-cinque-lu54gx99