venerdì 31 ottobre 2025

Rosette hi-tech, AI e server nazionali: chi lavora per preservare lingue in via d’estinzione - Antonio Piemontese


 “ll dialetto di Milano? Direi che è un misto di italiano e inglese”. La battuta sintetizza bene l’onnipresenza del caricaturale vernacolo meneghino, versione anni Duemila. Alberto lavora nel dipartimento comunicazione di una società fintech. Trasferito dal sud Italia in Lombardia, diverse esperienze all’estero alle spalle, racconta a cena che in tre anni non gli è mai capitato di sentire una conversazione in milanese. Non ne conosce vocaboli e cadenza se non nelle imitazioni di qualche comico. 

In Meridione il dialetto è parlato comunemente accanto all’italiano: persino gli immigrati lo imparano facilmente, per necessità. Nel capoluogo lombardo la realtà è diversa. Ascoltare la lingua di Carlo Porta è raro: probabilmente la perdita è stata favorita dall’arrivo di abitanti provenienti da ogni parte d’Italia, dalla vocazione commerciale della città e dal fatto che parlare solo italiano era sintomo di avvenuta scalata sociale. 

Non è una domanda peregrina, dunque, chiedersi quanto a lungo resisterà senza parlanti. Diventerà una lingua morta, da filologi, un po’ come il latino?

7mila lingue, quasi la metà a rischio

Le premesse sembrano esserci. Questo esempio così vicino al nostro vissuto quotidiano è però la spia di una questione più ampia. Il problema non riguarda solo i dialetti. In totale sono infatti oltre settemila, stima lo Undp (il programma delle Nazioni unite per lo sviluppo), le lingue parlate nel globo, alcune da poche centinaia di individui. Il 44% sarebbe in pericolo di estinzione

Con la globalizzazione, il problema di preservare la biodiversità linguistica – portatrice non solo di cultura, ma di un modo di vedere il mondo –  ha cominciato a porsi con maggiore insistenza. Non mancano iniziative di tutela locali, come corsi serali per appassionati e nostalgici, ma con tutta probabilità si tratta di palliativi. 

Un supporto fino a poco tempo fa impensabile può arrivare, però, per linguisti e antropologi dalla tecnologia. Probabilmente non è la panacea di tutti i mali. Ma, come vedremo, può aiutare. 

Il Rosetta project

Tra i primi programmi digitali al mondo per la tutela delle lingue in via di estinzione c’è il Rosetta project, che da oltre due decenni raccoglie specialisti e parlanti nativi allo scopo di costruire un database pubblico e liberamente accessibile di tutte le lingue umane. Il Rosetta project fa capo a un ente molto particolare: la Long Now foundation (Lnf, tra i membri fondatori c’è il musicista Brian Eno). La Lnf parte da un presupposto: è necessario pensare seriamente al futuro remoto, per non farsi trovare impreparati dallo scorrere del tempo. 

Il ragionamento è tutt’altro che banale. “Si  prevede che dal cinquanta al novanta per cento delle lingue parlate spariranno nel prossimo secolo”, spiegano gli organizzatori sul sito, “molte con poca o nessuna documentazione”. Come preservarle? 

Lo sguardo torna all’Antico Egitto: così è nato il Rosetta Disk, un disco di nichel del diametro di tre pollici su cui sono incise microscopicamente quattordicimila pagine che traducono lo stesso testo in oltre mille lingue. Il modello è la stele di Rosetta, che due secoli fa consentì di interpretare i geroglifici, di cui si era persa la conoscenza. Una lezione che gli studiosi non hanno dimenticato. 

Il principio è più o meno lo stesso delle vecchie microfiches universitarie: per visualizzare il contenuto basta una lente di ingrandimento. Non si tratta, insomma, di una sequenza di 0 e 1, quindi non è necessario un programma di decodifica. Il rischio –  in Silicon Valley lo sanno bene –  sarebbe che il software vada perso nel giro di qualche decennio per via di un cambiamento tecnologico; o (e sarebbe anche peggio) che qualche società privata che ne detiene i diritti decida di mettere tutto sotto chiave, come peraltro avviene per molte applicazioni con la politica del cosiddetto “vendor lock in” (Guerre di Rete ne ha parlato in questo pezzo). Qui, invece, la faccenda è semplice: basta ingrandire la superficie di cinquecento volte con una lente e il gioco è fatto.  

Il prezioso supporto è acquistabile per qualche centinaio di dollari, ed è stato spedito anche nello spazio con la sonda spaziale Rosetta dell’Agenzia spaziale europea (nonostante l’omonimia, non si tratta dello stesso progetto). Il disco è collocato in una sfera dove resta a contatto con l’aria, ma che serve a proteggerlo da graffi e abrasioni. Con una manutenzione minima, recitano le note di spiegazione, “può facilmente durare ed essere letto per centinaia di anni”. Resiste, ovviamente, anche alla smagnetizzazione (sarebbe basato su test condotti al Los Alamos National Laboratory, lo stesso del progetto Manhattan di Oppenheimer dove fu concepita la bomba atomica). 

Una scelta difficile 

Porsi in una prospettiva di lungo periodo pone interessanti domande. Che tipo di informazioni conservare per un futuro nell’ipotesi – speriamo remota – che tutto il nostro sapere, sempre più digitalizzato, vada perso? Meglio preservare la letteratura, le tecniche ingegneristiche, o le cure per le malattie? Un criterio è evidentemente necessario. 

La scelta della Long now foundation è stata quella di lasciare ai posteri una chiave di interpretazione utile a tradurre tutto ciò che è destinato a sopravvivere. Ma il progetto comprende anche una sezione digitale, cresciuta nel corso degli anni fino a raggiungere oltre centomila pagine di documenti testuali e registrazioni in oltre 2.500 lingue. I contenuti, si legge sul sito, sono disponibili a chiunque per il download e il riutilizzo secondo i principi dell’open access; anche il pubblico può contribuire alla raccolta inviando materiale di vario tipo. Fondamentale per raccapezzarsi è il ruolo dei metadati (data, luogo, formato e altri elementi dei dati in questione) – ci torneremo più avanti.

Il progetto francese Pangloss

Anche in Europa ci sono progetti di tutela del patrimonio linguistico in piena attività. Per esempio in Francia – non dimentichiamo che la stele di Rosetta (conservata al British Musem di Londra) fu rinvenuta  nell’ambito delle spedizioni napoleoniche – esiste il progetto Pangloss, che si propone di realizzare un archivio aperto di tutte le lingue in pericolo o poco parlate e contiene documenti sonori di idiomi rari o poco studiati, raccolti grazie al lavoro di linguisti professionisti su una piattaforma moderna e funzionale battezzata Cocoon. 

Attualmente la collezione comprende un corpus di 258 tra lingue e dialetti di 46 paesi, per un totale di più di 1200 ore d’ascolto. I documenti presentati contengono per lo più discorsi spontanei, registrati sul campo. Circa la metà sono trascritti e annotati.

C’è anche un po’ di Italia: il dialetto slavo molisano (parlato nei tre villaggi di San Felice del Molise, Acquaviva Collecroce e Montemitro, in provincia di Campobasso, a 35 chilometri dal mare Adriatico) e il Valoc, un dialetto valtellinese lombardo.

Pangloss è open, sia in modalità “base” sia in quella “pro”. La politica è di apertura totale: per consultare il sito web non è necessario accettare specifiche condizioni d’uso né identificarsi. Non si utilizzano cookie di profilazione, come orgogliosamente dichiarato

“Il progetto Pangloss è nato negli anni ‘90 e da allora si è evoluto considerevolmente”, dice a Guerre di Rete Severine Guillaume, che ne è la responsabile. “Si tratta di una collezione orale, il che significa che raccogliamo contenuti video e audio che possono anche essere accompagnati da annotazioni: trascrizioni, traduzioni, glosse. Ogni risorsa depositata dev’essere fornita di metadati: titolo, lingua studiata, nome di chi la carica, persone che hanno contribuito alla creazione, data della registrazione, descrizione del contenuto”. 

Come analizzare i dati: l’impiego dell’AI

L’intelligenza artificiale ha cominciato a farsi strada anche tra questi archivi digitali. “Abbiamo condotto degli esperimenti sui nostri dati con l’obiettivo di aiutare i ricercatori ad arricchirli”, conferma Guillaume. “Sono stati diversi i test di  trascrizione automatica, e due di loro l’hanno già impiegata: per ogni minuto di audio si possono risparmiare fino a quaranta minuti di lavoro, lasciando agli studiosi il tempo di dedicarsi a compiti più importanti. Al momento, insomma, direi che stiamo sperimentando”. 

Non è detto che funzioni in ogni situazione, ma “la risposta iniziale è affermativa quando la trascrizione riguarda un solo parlante”, prosegue Guillaume. Il problema sta “nella cosiddetta diarization, che consiste nel riconoscere chi sta parlando in un dato momento, separare le voci, e attribuire ogni segmento audio al partecipante corretto”.

Le prospettive, tutto sommato, sembrano incoraggianti. “Abbiamo cominciato a cercare somiglianze tra due idiomi o famiglie linguistiche: ciò potrebbe rivelare correlazioni che ci sono sfuggite”, afferma la dirigente. Siamo, per capirci, nella direzione della grammatica universale teorizzata da Noam Chomsky, e immaginata da Voltaire nel suo Candido (il dottor Pangloss, ispirandosi a Leibniz, si poneva lo scopo di scovare gli elementi comuni a tutte le lingue del mondo). 

Come conservare i dati: il ruolo delle infrastrutture pubbliche

Il problema di preservare il corpus di conoscenze è stato affrontato? “Sì”, risponde Guillaume. “La piattaforma Cocoon, su cui è basata la collezione Pangloss, impiega l’infrastruttura nazionale francese per assicurare la longevità dei dati. Per esempio, tutte le informazioni sono conservate sui server dell’infrastruttura di ricerca Huma-Num, dedicata ad arti, studi umanistici e scienze sociali, finanziata e implementata dal ministero dell’Istruzione superiore e della Ricerca. Vengono poi mandate al Cines, il centro informatico nazionale per l’insegnamento superiore, che ne assicura l’archiviazione per almeno quindici anni. Infine, i dati sono trasferiti agli archivi nazionali francesi. Insomma, di norma tutto è pensato per durare per l’eternità”. 

Altro progetto dalla connotazione fortemente digitale è Ethnologue. Nato in seno alla SIL (Summer Institute of Linguistics, una ong di ispirazione cristiano-evangelica con sede a Dallas) copre circa settemila lingue, offrendo anche informazioni sul numero di parlanti, mappe, storia, demografia e altri fattori sociolinguistici. Il progetto, nato nel 1951, coinvolge quattromila persone, e nasce dall’idea di diffondere le Scritture. Negli anni si è strutturato in maniera importante: la piattaforma è ricca di strumenti, e molti contenuti sono liberamente fruibili. Sebbene la classificazione fornita dal sito (per esempio la distinzione tra lingua e dialetto) sia stata messa in discussione, resta un punto di riferimento importante. 

I progetti italiani 

Non manca qualche spunto italiano. Come, per esempio, Alpilink. Si tratta di un progetto collaborativo per la documentazione, analisi e promozione dei dialetti e delle lingue minoritarie germaniche, romanze e slave dell’arco alpino nazionale. Dietro le quinte ci sono le università di Verona, Trento, Bolzano, Torino e Valle d’Aosta. A maggio 2025 erano stati raccolti 47.699 file audio, che si aggiungono ad altri 65.415 file collezionati nel precedente progetto Vinko. Le frasi pronunciate dai parlanti locali con varie inflessioni possono essere trovate e ascoltate grazie a una mappa interattiva, ma esiste anche un corpus per specialisti che propone gli stessi documenti  con funzioni di ricerca avanzate. Il crowdsourcing (cioè la raccolta di contenuti) si è conclusa solo qualche mese fa, a fine giugno. La difficoltà per gli anziani di utilizzare la tecnologia digitale è stata aggirata coinvolgendo gli studenti del triennio delle superiori. 

Altro progetto interessante è Devulgare. In questo caso mancano gli strumenti più potenti che sono propri dell’università; ma l’idea di due studenti, Niccolò e Guglielmo, è riuscita ugualmente a concretizzarsi in un’associazione di promozione sociale e in un’audioteca che raccoglie campioni vocali dal Trentino alla Calabria. Anche in questo caso, chiunque può partecipare inviando le proprie registrazioni. Dietro le quinte, c’è una squadra di giovani volontari – con cui peraltro è possibile collaborare – interessati alla conservazione del patrimonio linguistico nazionale. Un progetto nato dal basso ma molto interessante, soprattutto perché dimostra la capacità di sfruttare strumenti informatici a disposizione di tutti in modo creativo: Devulgare si basa, infatti, sulla piattaforma Wix, simile a WordPress e che consente di creare siti senza la necessità di essere maestri del codice. Una vivace pagina Instagram con 10.300 follower – non pochi, trattandosi di linguistica –  contribuisce alla disseminazione dei contenuti. 

Ricostruire la voce con la AI 

Raccogliere campioni audio ha anche un’altra utilità: sulla base delle informazioni raccolte e digitalizzate oggi, sarà possibile domani, grazie all’intelligenza artificiale, ascoltare le lingue scomparse. L’idea viene da una ricerca applicata alla medicina, che attraverso un campione di soli otto secondi, registrato su un vecchio VHS, ha permesso di ricostruire con l’AI la voce di una persona che l’aveva persa. 

È accaduto in Inghilterra, e recuperare il materiale non è stato una passeggiata: le uniche prove della voce di una donna affetta da Sla risalivano agli anni Novanta ed erano conservate su una vecchia videocassetta. Nascere molti anni prima dell’avvento degli smartphone ovviamente non ha aiutato. A centrare l’obiettivo sono stati i ricercatori dell’università di Sheffield. Oggi la donna può parlare, ovviamente con delle limitazioni: deve fare ricorso a un puntatore oculare per comporre parole e frasi. Ma la voce sintetizzata è molto simile a quella che aveva una volta. E questo apre prospettive insperate per i filologi. 

Come spesso accade, il marketing ha naso per le innovazioni dotate di potenziale. E così, oggi c’è chi pensa di sfruttare l’inflessione dialettale per conquistare la fiducia dei consumatori. È quello che pensano i due ricercatori Andre Martin (Università di Notre Dame, Usa) e Khalia Jenkins (American University, Washington), che nella presentazione del loro studio citano addirittura Nelson Mandela: “Se parli a un uomo in una lingua che capisce, raggiungerai la sua testa. Ma se gli parli nella sua lingua, raggiungerai il suo cuore”. 

“I sondaggi dell’industria hanno fotografato il sentiment sempre più negativo verso l’AI”, scrivono gli studiosi, che lavorano in due business school. “Immergendosi a fondo nel potenziale dei dialetti personalizzati, creati con l’AI al fine di aumentare la percezione di calore, competenza e autenticità da parte dell’utente, l’articolo sottolinea [come in questo modo si possa] rafforzare la fiducia, la soddisfazione e la lealtà nei confronti dei sistemi di intelligenza artificiale”. Insomma, addestrando gli agenti virtuali a parlare con una cadenza amica si può vendere di più. C’è sempre un risvolto business, e qui siamo decisamente lontani dagli intenti di conservazione della biodiversità linguistica. Ma anche questo fa parte del gioco.

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giovedì 30 ottobre 2025

Il più crudele dei mesi - Paola Caridi

 

Ottobre può essere il più crudele dei mesi, in Palestina. Mese di raccolta delle olive. Mese di violenza dei coloni e dell’esercito israeliano. Dei coloni e di quell’esercito di cui i coloni sono parte sempre più rilevante. Dei coloni e di un governo e di uno stato che non solo non li ferma, ma li sostiene.

Non è dal 7 ottobre 2023 che la violenza israeliana sui contadini palestinesi è sempre più in ascesa. Lo era anche negli anni precedenti, con una progressione che sempre più si è qualificata come parte di una strategia per espellere i palestinesi. Ancora una volta, per cacciarli da una terra alla quale appartengono. La differenza è che, ora, per il genocidio israeliano sul popolo palestinese a Gaza, anche la raccolta delle olive è sotto i (nostri) riflettori. Ora è più visibile, anche nella invisibilità della Cisgiordania, dove le pratiche di pulizia etnica sono ormai conclamate ed evidenti.

Nel più crudele dei mesi, ottobre, è proprio attraverso l’albero divenuto simbolo, l’ulivo, che diviene chiaro quanto i coloni abbiano un distacco totale nei confronti della terra che dicono di possedere. Distruggere ulivi, bruciare alberi, devastare la terra da parte israeliana fa emergere, sempre più, la vera, profonda, nativa relazione tra palestinesi e terra. È anche in questo caso una questione di cura, compresa la cura per il nonumano.

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mercoledì 29 ottobre 2025

Come la Cina ha conquistato l’auto elettrica - Cesare Alemanni

 

Negli ultimi anni, l’auto elettrica è diventata uno dei simboli più discussi della transizione ecologica. Spinta o respinta dai governi, sostenuta o affossata dall’industria, osannata o temuta dall’opinione pubblica, la mobilità a batteria è un tema che divide. Da una parte viene raccontata come un passaggio inevitabile verso un futuro libero dai combustibili fossili, dall’altra viene bollata come una tecnologia immatura o addirittura come un cavallo di Troia per interessi cinesi e imposizioni “ecologiste”.

Entrambe le narrazioni tendono a semplificare – e a polarizzare – un fenomeno complesso e in evoluzione. Proviamo allora a gettare lo sguardo oltre le trincee dell’ideologia e a offrire una lettura il più “atea” possibile della questione, soprattutto per quanto riguarda le sue implicazioni geopolitiche.

Per cominciare, vanno chiarite due cose. La prima è che la diffusione dell’auto elettrica non è uniforme. Da un lato gli electric vehicles (EV) rappresentano ancora una quota trascurabile (il 4%, pari a 58 milioni di veicoli) del parco macchine mondiale. Dall’altro hanno rappresentato circa il 20% delle nuove immatricolazioni nel 2024. Il dato è caratterizzato da forti concentrazioni geografiche, ma è in crescita del 25% rispetto all’anno precedente. Stiamo quindi parlando di un prodotto che, a livello di mercato planetario, si sta muovendo da una nicchia molto piccola a un segmento significativo. Basti pensare che nel 2024 le vendite sono aumentate di 3,5 milioni di unità rispetto al 2023, più di quanto si fosse venduto in tutto il 2020.

La Cina domina il mercato, sia dal lato della domanda che dell’offerta, con quasi il 75% del venduto globale (11 milioni di EV). In Europa, invece, si registra ogni anno una leggera crescita delle nuove immatricolazioni (1,8% in più nel 2024), ma questa è altamente dipendente da incentivi statali e dalle strategie industriali nazionali. Nel 2025 si prevede che le vendite europee supereranno i 4 milioni di unità, con una quota di mercato del 25%, ma anche in questo caso si registrano grandi differenze tra paesi, in particolare tra Europa del Nord e del Sud.

Negli Stati Uniti il settore è stato finora trainato da Tesla e da sussidi pubblici introdotti da Biden (e appena tagliati da Trump), ma la penetrazione resta limitata al di fuori delle aree urbane. In tutto il 2024 sono state vendute solo 1,6 milioni di auto elettriche, per una quota di mercato del 10% e con un rallentamento della crescita rispetto all’anno precedente.

Per quanto riguarda i paesi emergenti, in America Latina e in Africa le vendite di EV sono aumentate nel 2024 rispettivamente del 100% e del 120%. In Brasile il mercato è dominato dalle importazioni cinesi (oltre l’85% nel 2024), mentre negli altri paesi della regione e in Africa le percentuali sono leggermente inferiori ma comunque preponderanti.

Questi dati sono utili a inquadrare un fatto: l’impronta dell’investimento nei veicoli elettrici non è uguale in tutte le zone economiche, così come diseguale è lo sviluppo del mercato e dell’industria. In particolare, è evidente come la Cina si trovi in una fase molto più avanzata rispetto al resto del mondo. Questo non si traduce solo in una leadership produttiva o commerciale, ma in un’esposizione più profonda e strutturale al destino della mobilità elettrica. 

A differenza di altre economie, dove l’auto elettrica rappresenta ancora una scelta sperimentale, in Cina è ormai una componente sistemica del mercato e della strategia industriale del Paese. Ne derivano, inevitabilmente, una grande forza industriale, ma anche una vulnerabilità più elevata in caso di contraccolpi globali e, proprio per questo motivo, un maggiore impegno (geo)politico da parte dello Stato cinese nello sviluppo e nella difesa del settore.

La seconda cosa da chiarire è che, dal punto di vista della produzione, le differenze tra un’auto tradizionale e un’auto elettrica sono così numerose e profonde che è come se si trattasse di due prodotti completamente diversi. Per certi versi si può dire che, più che di un processo di transizione industriale, lo sviluppo della mobilità elettrica andrebbe inquadrato come la nascita di una nuova industria. È importante evidenziare questo punto, poiché è una delle ragioni per cui la transizione elettrica dell’auto sta comportando cambiamenti così profondi delle geografie delle risorse e della geopolitica delle filiere.

Il passaggio dall’auto a motore a combustione interna (ICE) al veicolo elettrico non comporta soltanto un cambiamento nelle modalità di alimentazione, ma implica una rivoluzione tecnologica che investe l’intera filiera produttiva. Le competenze richieste per progettare, costruire e mantenere un’auto elettrica – a cominciare dal suo componente più cruciale, la batteria – sono radicalmente diverse rispetto a quelle necessarie per i veicoli tradizionali: servono ingegneri specializzati in elettronica di potenza, software, gestione termica e chimica dei materiali, piuttosto che esperti di meccanica e di fluidodinamica dei motori termici.

Questo ha implicazioni politiche nella misura in cui paesi come la Cina investono da quasi due decenni nella formazione di figure professionali e di ricercatori specializzati in questi ambiti, mentre Europa e USA hanno preferito continuare a puntare su competenze più tradizionali, col risultato che oggi le loro industrie non solo faticano a reperire le figure necessarie alla transizione, ma rischiano di dover operare ampi (e socialmente costosi) tagli del personale. Può non sembrarlo, ma anche questo è un tema geopolitico, in quanto ha direttamente a che fare con la resilienza dei corpi sociali dei paesi. 

Un tema ancor più spinoso è quello delle materie prime critiche per la produzione di batterie. A causa della transizione energetica (non solo quella dell’automotive), negli ultimi anni litio, cobalto, nichel, grafite e terre rare ( di cui abbiamo appena scritto su Guerredirete.it, ndr) hanno assunto un’importanza strategica simile a quella del petrolio o dell’acciaio.

L’approvvigionamento, la raffinazione e la lavorazione di questi materiali sono oggi al centro di una corsa globale, in cui le geografie della potenza economica si stanno rapidamente riorganizzando. Anche in questo caso la Cina si è mossa con grande anticipo. A partire dai primi 2000, Pechino ha investito nello sviluppo di una filiera completa e integrata della mobilità elettrica, dalla proprietà delle miniere all’estero (in Africa, America Latina e Australia), fino alla raffinazione dei minerali, alla produzione di celle per batterie, e infine alla progettazione e vendita di veicoli completi. Aziende cinesi specializzate in batterie per EV, come CATL, e produttori di veicoli elettrici come BYD e NIO non solo dominano il mercato domestico, ma stanno progressivamente espandendo la loro presenza internazionale, soprattutto in Europa.

A oggi, la Cina raffina oltre il 60% del litio globale, il 70% del cobalto, e quasi il 90% delle terre rare, numeri che ne fanno un attore insostituibile in tutte le fasi della catena del valore dei componenti decisivi di un’auto elettrica, ovvero quelli elettronici, magnetici e chimici usati all’interno di software, sensori, motori e batterie. Questa concentrazione rappresenta un punto di vulnerabilità per le case automobilistiche non cinesi, che rischiano interruzioni di fornitura critiche. Non è quindi un caso che – già prima del ritorno di Trump alla Casa Bianca – proprio il tema della “terre rare” sia finito al centro delle trattative sul commercio tra Cina e Stati Uniti.

Proprio le trattative tra blocchi economici in risposta alla minaccia dei dazi di Trump ci ricordano che, come molti altri settori strategici, negli ultimi anni anche quello dell’automotive ha assistito a un prepotente ritorno degli Stati nella regolazione della vita economica e industriale. L’avvento della mobilità elettrica sta riportando al centro del dibattito concetti come “sovranità tecnologica” e “politica industriale”, costringendo governi e istituzioni a confrontarsi con il fatto che la competizione globale non si gioca più solo sul mercato, ma sulla capacità di presidiare le filiere produttive. Si tratta di una materia in continua evoluzione, complessa e altamente tecnica, che spesso i governi faticano a comprendere appieno. In molti casi, mancano sia le informazioni aggiornate che le competenze per analizzarla con la precisione e la profondità necessaria.

La geopolitica della mobilità EV si muove infatti lungo coordinate altamente mobili, in cui innovazione tecnologica, instabilità internazionale e politiche pubbliche interagiscono in modo non lineare. Per questo, la vera posta in gioco non è solo industriale, ma cognitiva e culturale: la capacità di capire per tempo quale traiettoria tecnologica emergerà come dominante (che, retrospettivamente, è la ragione dell’attuale vantaggio cinese).

Uno scenario cruciale per il futuro riguarda, per esempio, l’evoluzione delle batterie. Se le tecnologie allo stato solido, oggi in fase avanzata di sviluppo presso aziende come Toyota, QuantumScape e CATL, dovessero arrivare alla maturità industriale nei prossimi 5 anni, si assisterebbe a una vera discontinuità tecnologica: densità energetica superiore, tempi di ricarica più brevi, minore infiammabilità e, soprattutto, una diminuzione della dipendenza da materie prime come litio e cobalto. Questo ridurrebbe l’influenza dei paesi oggi dominanti in queste risorse, ma potrebbe farne emergere altri (tra cui Giappone e Corea del Sud, tra i più avanzati nello sviluppo di batterie allo stato solido), a dimostrazione di quanto la partita dell’EV, e la sua traiettoria evolutiva, sia tutt’altro che chiusa o definita, come invece la raccontano tanto gli entusiasti quanto i detrattori. 

L’autore di questo articolo ha pubblicato da poco proprio un libro sul tema automotive: Velocissima).

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martedì 28 ottobre 2025

Il business dei cadaveri venduti per l’addestramento dei soldati israeliani - Clara Statello

 

Per sette anni un’università della California ha fornito alla marina statunitense le salme destinate per preparare i medici dell’IDF alla medicina di guerra. Un’inchiesta americana pone degli inquietanti dubbi: le famiglie dei defunti non lo sapevano

La US Navy ha utilizzato oltre trenta cadaveri di cittadini statunitensi per l’addestramento delle Forze di Difesa Israeliane. E’ quanto emerge da una sconvolgente inchiesta condotta da USC Annenberg Media, un portale gestito dagli studenti dell’Università della California del Sud.

documenti pubblicati on line in data 1 ottobre, rivelano un macabro business dal valore di oltre 860 milioni di dollari  tra l’ateneo californiano e la marina americana, per la fornitura di cadaveri destinati alla sperimentazione scientifica.

In base all’indagine, la marina avrebbe acquistato 89 corpi, pagando per ciascuno circa 10 milioni di dollari. Di questi, 32 sono stati utilizzati per addestrare i medici militari dell’IDF nella chirurgia traumatologica, presso il Los Angeles General Medical Center.

Non è chiaro se la vendita sia avvenuta previa informazione ed autorizzazione delle famiglie dei defunti. L’inchiesta rileva che spesso si tratta di corpi non reclamati dalle famiglie per motivi economici.

La notizia shock è passata in sordina in Italia, nonostante le mobilitazioni di massa e le preoccupazioni per le possibili complicità dei governi occidentali nel genocidio dei palestinesi. Le comunità islamiche della California hanno condannato le vendita dei cadaveri per l’addestramento di un esercito accusato di crimini contro l’umanità.

Il programma

Il primo contratto tra l’USC e il Naval Medical Logistic Command dell’US Navy risale al 2017. Nel corso di 7 anni, la marina ha pagato all’Università più di 860.000 dollari per almeno 89 "corpi di cadaveri freschi", oltre un terzo dei quali è stato destinato per l’addestramento degli israeliani.

Nella notifica di intenzione si legge:

“In base a un accordo firmato tra il Chirurgo Generale della Marina degli Stati Uniti e il Chirurgo Generale delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), al Navy Expeditionary Medicine Training Institute (NEMTI) è stato assegnato il compito di fornire corsi di addestramento in dissezione su tessuti freschi per il personale IDF iscritto al Navy Trauma Training Center (NTTC)”.  

Secondo quanto riferito, nei corsi di addestramento si utilizzano "corpi di cadaveri freschi" e "cadaveri perfusi" – corpi iniettati con sangue artificiale per simulare pazienti viventi – per preparare le équipe chirurgiche israeliane agli scenari di battaglia. 

Per ogni corso di addestramento dell’IDF vengono utilizzati tre cadaveri. Uno dei contratti è ancora in corso. La US Navy ha già pagato alla USC oltre mezzo milione di dollari, ma il contratto più recente prevede l'acquisto di cadaveri per un valore aggiuntivo di 225.000 dollari a discrezione della Marina, il che porterebbe il totale guadagnato dalla USC negli ultimi sette anni a quasi 1,1 milioni di dollari.

Il problema non riguarda tanto la sperimentazione scientifica, quanto l’etica: la vendita di cadaveri a un esercito che sta portando avanti un genocidio. E non solo.

Dubbi sul consenso

I giornalisti sollevano legittimamente il dubbio sul consenso delle famiglie riguardo la commercializzazione dei corpi e la loro destinazione. In base a quanto riportato, i cadaveri sarebbero forniti dall'Ufficio per gli Affari dei Deceduti della Contea di Los Angeles, che gestisce la cremazione e la sepoltura delle salme non reclamate nella contea. Annenberg Media afferma di non essere riuscita a verificare la provenienza dei corpi. Spesso le ragioni per cui i parenti non reclamano una salma sono economiche, tra cui il costo della sepoltura.

Ciò è possibile a causa della carente regolamentazione sull’utilizzo dei corpi anatomici. Solitamente le facoltà utilizzano una politica di “consenso generalizzato”. In California, l'uso di corpi non reclamati per scopi scientifici o educativi è legale ai sensi dei Codici di salute e sicurezza. Tuttavia la pratica è considerata immorale ai sensi del codice etico dell’AMA (American Medical Association). Anche perché in gioco ci sono profitti.

La condanna della comunità islamica

Il Council on American-Islamic Relations di Los Angeles ha duramente condannato “l’inquietante vendita” di resti umani da parte della USC alla marina americana, utilizzati per l’addestramento dell’IDF.

"È inquietante che la USC tragga profitto dall'uso di resti umani per addestrare membri dell'esercito israeliano, un esercito attivamente coinvolto in un genocidio. Nessuna università americana dovrebbe essere complice di un genocidio collaborando con un esercito straniero che ha bombardato ospedali, preso di mira personale medico e massacrato decine di migliaia di civili. 

"Utilizzare corpi non reclamati – persone che non hanno potuto dare il loro consenso – per questo scopo non è solo immorale, ma anche disumano. Anche nella morte, ogni persona merita dignità e rispetto, non di essere trattata come uno strumento di guerra usa e getta. La nostra comunità merita risposte, responsabilità e la garanzia che i resti dei propri cari non vengano venduti per sostenere la macchina dell'occupazione e della guerra. La USC e la Marina degli Stati Uniti devono essere ritenute responsabili di questa grave violazione della dignità umana". 

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lunedì 27 ottobre 2025

Addio ’Europa Verde’, ci impongono il modello americano - Ennio Remondino

Il Consiglio europeo seppellisce l’ambiente in nome della Competitività, la nuova parola magica di Bruxelles che segue quella di Riarmo. Da quando Von der Leyen ha lanciato le prime proposte di riarmo, la frenata è arrivata in forma ufficiale e solenne, da parte del Consiglio europeo, che riunisce i capi di stato e di governo Ue. L’Italia tra i promotori della svolta.

 

Meno vincoli per le imprese e più veleni nell’aria

«L’Europa accelera sulla competitività per frenare sul Green deal», la sintesi di Andrea Valdambrini. Perché l’Europa economica è nei guai ma il sostegno armato all’Ucraina non si tocca e neppure in neo patriottismo riarmato. Prima i conti reale della spesa con Zelensky dove, la politica ‘creativa’ scopre che non si possono rubare i soldi del tesoro russo che Mosca aveva depositato soprattutto nelle banche belghe, avverte il governo locale. Acquisito di essere al verde, il taglio definitivo alla già asmatica politica verde dell’Unione, perché serve più competitiva per armarsi meglio. Precondizione competitività, scrivono 19 dei 27 (Italia in testa), è la ‘semplificazione legislativa’. Come chiesto/preteso da Trump mille volte. Europa americana.

 

Addio favola ambientale. Ma l’obiettivo del 90% di riduzione delle emissioni rispetto al 1990 entro il 2040 resta sulla carta. Per salvare almeno le apparenze.

 

Interessi nazionali anche sulla salute

E ‘l’Europa del fare’ promette mezzi definiti ‘pragmatici e realistici’, nel perseguimento degli ‘obiettivi climatici’. Ovviamente sulla base della «situazione della competitività globale». Primo ‘sconto’ dedicato all’ «automotive» dove l’Italia, di sponda con la Germania, cerca uno spiraglio sull’utilizzo dei biocarburanti. Bisognerà però convincere Francia e Spagna, esplicitamente contrarie a ogni deroga. E la Commissione media al ribasso con lo spettro dell’aumento dei prezzi di carburanti ed ene-rgia. Poche voci contro ed esterne ai governi. «Siamo di fronte al più grande attacco di sempre contro il Green deal», denuncia Bas Eickhout, europarlamentare olandese e leader dei Verdi europei che accusa l’Ue di «consegnando le chiavi del futuro delle tecnologie pulite alla Cina».

Ma l’aula europarlamentare ribolle

Mercoledì nell’Aula di Strasburgo si sono coalizzati i malumori dei progressisti, messi di fronte al ‘flirt  tra popolari e destre’. Quasi un matrimonio. Un voto ha respinto di misura due direttiva di ‘sconto ambientale’. Immediata reprimenda dal leader Ppe Weber e del cancelliere tedesco Merz, mentre la presidente del Parlamento europeo Metsola –invece di tutelare l’assemblea simbolo della democrazia popolare europea, ha promesso un voto di riparazione: «È nostro compito mantenere gli impegni». ‘Nostro’ di chi e impegni verso chi? Oltre all’inciampo organico ‘baltico’ nella Commissione, ora anche la splendida e minuscola isola di Malta.

Neo ambientalismo alla Salvini

Per Luca Martinelli «Basta forse leggere le parole di Matteo Salvini per capire perché il Green Deal europeo è sotto attacco». E con la sintesi proverbialmente moderata elenca in vero GreenDeal leghista. «Il ponte sullo Stretto, l’alta velocità ferroviaria, la Tav o il Tunnel del Brennero o la Napoli-Bari sono il GreenDeal. Non le idiozie di Bruxelles». Idiozie precedenti, non queste ultime. A massacrare certi ‘buoni propositi’ è stata la stessa maggioranza, in particolare il Partito popolare europeo, alla rincorsa certi consensi elettorali.

Ad esempio far saltare i vincoli per la riduzione del 50% dei pesticidi entro il 2030, «Il che significa che continuerà l’uso di sostanze chimiche nocive, perpetuando un pesante costo per la salute umana, l’ambiente e l’economia», avverte il Corporate Europe Observatory.

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domenica 26 ottobre 2025

La setta col biglietto numerato - Michele Agagliate

 

Shen Yun, il culto che vende la grazia come fosse uno spettacolo. In un mondo che ha perso la fede ma non la carta di credito.

A chi non è capitato, negli ultimi mesi, di aprire YouTube o Instagram e trovarsi davanti lo spot di Shen Yun Performing Arts?

Quel carosello di sete colorate, sorrisi estatici e promesse di “un viaggio spirituale nella vera Cina”, sparato ovunque come se stessero pubblicizzando l’Apocalisse in 4K.

E poi quella frase, ripetuta con la convinzione di chi ha appena assistito alla Seconda Venuta:

Uno spettacolo veramente importante!

Sembra un trailer della Disney diretto dal Dalai Lama dopo una settimana di ayahuasca.

Tutti estasiati, tutti redenti, tutti con lo sguardo di chi ha appena visto la luce – o, più probabilmente, la fattura.

È la spiritualità del XXI secolo: con biglietto su TicketOne, musica dal vivo e merchandising incluso.

Ma il problema non è lo spettacolo in sé — i costumi sono splendidi, i ballerini impeccabili — il problema è il messaggio che passa sotto le pieghe delle sete.

Dietro la patina di “arte tradizionale cinese” si muove un’operazione ideologica vera e propria: un culto fondato dal signor Li Hongzhi, un predicatore che sostiene che l’evoluzione sia un’invenzione aliena, che le razze si separeranno in paradiso e che l’omosessualità sia un errore cosmico.

Il tutto condito da rivelazioni sul fatto che lui, sì, può attraversare i muri e rendersi invisibile.

Altro che spiritualità: questa è fantascienza da discount.

Eppure, milioni di spettatori nel mondo assistono in silenzio, applaudono, si commuovono, si convincono.

Perché l’illusione del “ritorno ai valori tradizionali” è potente, specie in un’epoca che ha svuotato di senso tutto il resto.

Ci siamo disabituati alla verità, e così ci bastano quattro proiezioni colorate per scambiare la propaganda per arte e la fede per intrattenimento.

È la religione del capitalismo spirituale: preghi, ma pagando; mediti, ma su prenotazione; ti elevi, ma solo se hai il posto in platea.

Intanto, gli organizzatori si presentano come i custodi della purezza morale contro la “decadenza del mondo moderno”, mentre vendono biglietti da 80 a 150 euro nei teatri più borghesi d’Europa.

Predicano l’ascesi, ma a prezzo pieno.

E i teatri, i giornali, le istituzioni? Zitti.

Perché quando la fede porta incasso, nessuno osa chiamarla setta: diventa “evento culturale”.

A dicembre arriveranno persino al Teatro Regio di Torino, la mia città: quella dove un tempo si facevano rivoluzioni operaie e oggi si ospitano liturgie orientali sponsorizzate sulle piattaforme web.

E tutto questo in una Torino che, intanto, affoga nel degrado urbano, nello sfruttamento, nella povertà crescente e in una nuova schiavitù del lavoro che passa anche attraverso l’immigrazione mal pagata e senza diritti.

Non è razzismo, è realtà: se un operaio bengalese lavora dodici ore a quattro euro l’ora, anche un italiano finirà per accettarne cinque.

È così che muore il vero laburismo — non per colpa dei migranti, ma per chi li sfrutta mentre predica l’accoglienza.

C’è qualcosa di profondamente tragico in questo bisogno collettivo di comprarsi la purezza.

Abbiamo trasformato la fede in un’esperienza premium, la grazia in un evento da prevendita.

Ci raccontano che basta un costume di seta e un violino cinese per ritrovare l’anima, e noi ci crediamo — come sempre.

È la fame di senso di un mondo che non crede più in nulla, ma ha ancora bisogno di sentirsi buono.

Ed ecco che, in mezzo alle macerie morali di un Paese stanco, si cercano miracoli nel posto sbagliato: sul palco, tra gli applausi, sotto le luci.

Ma se il divino esiste ancora, di certo non danza per 80 euro a sera.

E di sicuro non ha bisogno di un coreografo.

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sabato 25 ottobre 2025

Il gioco d’azzardo governa


Il gioco d’azzardo online fa gola a chi ricicla: i Monopoli rendano pubblici i controlli - David Gentili

La notizia è del 16 luglio scorso. La riporta Jamma, sito italiano di informazione che promuove ogni tipo di gioco d’azzardo, offrendo notizie e informazioni tecniche e fiscali. “Boomerang Partners annuncia con orgoglio il primo anniversario della partnership strategica con il leggendario AC Milan”.

“Tra i traguardi principali – si legge ancora – la cerimonia della seconda edizione dei Golden Boomerang Awards 2025 tenuta nello storico stadio di San Siro a cui hanno partecipato leggende rossonere come Andrea Pirlo, Serginho e Massimo Ambrosini”. Boomerang è riuscita a stringere un accordo con l’Ac Milan nel luglio 2024 come partner ufficiale per le scommesse, nonostante si trovasse già nella lista nera dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. Maria Maggiore e Maxence Peigné, giornalisti di Investigate Europe, lo scrivevano già il 10 marzo scorso su Il Fatto in edicola: “Tra i più grandi progetti sviluppati da Soft2bet c’è Boomerang, che le autorità di almeno sei paesi, tra cui Italia, hanno classificato come non autorizzato”.

Questo è un ulteriore segnale che la forza economica del gioco online sta straripando e in pochi riescono a resistere al suo fascino. E non c’è, per il momento, una reazione di massa, sdegnata, che possa porre fine a pratiche al limite della legge e comunque inaccettabili. Per il sito giocoresponsabile.info per il 2025, si prevede una spesa di oltre 160 miliardi di euro, proseguendo la tendenza al rialzo. I giochi a distanza raggiungono una percentuale pari circa al 58.5%.

Il 18 dicembre dell’anno scorso l’Adm (Agenzia delle Dogane e dei Monopoli) ha pubblicato l’avviso relativo alla procedura per l’affidamento in concessione dell’esercizio e della raccolta del gioco d’azzardo online. I giochi pubblici di cui all’articolo 6, comma 1, lettere da a) a f) del decreto legislativo 25 marzo 2024: tutti i tipi di scommesse, anche su eventi simulati; giochi di abilità e di sorte, inclusi i giochi di carte e il bingo. Hanno potuto partecipare società che hanno sede legale, ovvero operativa, in uno degli Stati dello Spazio Economico Europeo.

Già quel ovvero lascia aperto un campo vastissimo. Il campo aperto degli investitori globali sul gioco online. Investitori spesso radicati nei paradisi fiscali e di opacità. Là dove la trasparenza non esiste e le scatole societarie si moltiplicano per allontanare il più possibile l’investitore dall’investimento. Ne avevo già parlato nel post dedicato alla vendita dello stadio San Siro. Spesso sono singole parole che determinano l’innalzamento e l’abbassamento dell’asticella dei controlli contro il riciclaggio globale. Il riciclaggio delle organizzazioni criminali/mafiose, delle grandi economie criminali e dei grandi evasori internazionali.

Nell’avviso di Adm viene sottolineato che entro 35 giorni dalla proclamazione delle concessioni avvenuta a metà settembre scorso, bisogna produrre la documentazione prevista all’articolo 23, delle Regole Amministrative. Entro il 22 ottobre, quindi, tutte le 46 società ammesse dovranno presentare dichiarazione sostitutiva di certificazione ai sensi del Dpr 28 dicembre 2000, n° 445 in ordine ai soggetti sottoposti alla verifica antimafia. Le richieste sono importanti. Si richiedono i nomi dei soci persone fisiche che detengono indirettamente una partecipazione al capitale o al patrimonio della società concessionaria superiore al 2%; il nome e cognome del fiduciante o del trustee per le società fiduciarie o di trust e i nomi dei soggetti che risultano poter determinare in qualsiasi modo le scelte o gli indirizzi dell’impresa.

Quest’ultimo passaggio è il più complicato e potrebbe essere fraintendibile. Non si usano i termini perentori della normativa antiriciclaggio europea. Che, essendo norma, ha una giurisprudenza di tipo amministrativo che la interpreta, certa e definita. Nel Dlgs 231 del 2007 si parla di titolari effettivi come quelle persone cui, in ultima istanza, è attribuibile il controllo della società in forza del controllo dei voti anche grazie all’esistenza di particolari vincoli contrattuali che consentano di esercitare un’influenza dominante. Articolo 20.

C’è un altro elemento che bisogna qui sottolineare. L’Adm riceverà l’autocertificazione dei nomi e delle società socie, dei rappresentanti legali e dei dirigenti, ma non è obbligata a fare l’adeguata verifica dell’identità delle persone citate, chiedendo deleghe e documenti ufficiali, verificando attraverso società private, il rischio riciclaggio degli stessi. E’ una Pubblica Amministrazione e non potrà farlo. Come i Comuni, le Regioni e le Asl. Non come le banche che sono invece obbligate all’adeguata verifica del cliente e le stesse concessionarie del gioco d’azzardo che dal 2017, su impulso europeo, sono obbligate a controllare chiunque apre un conto online presso di loro e segnalare operazioni sospette a rischio riciclaggio. E’ vero che le concessionarie del gioco segnalano operazioni sospette più dei commercialisti e come i notai. E questo dato è in crescita: 9.200 nel 2022, 12.000 nel 2.023; 9.547 nel 2024; 6.433 nei primi sei mesi del 2025.

Bisogna però ricordarsi che possedere una concessionaria del gioco online è perfetto per chi ricicla o vuole aiutare un riciclatore. Basterà inventarsi puntate vincenti per ripulire denaro sporco senza segnalare chi, prestanome o mafioso o evasore, aprirà un conto senza avere alcuna possibilità credibile di avere legalmente tutto quel denaro che poi punterà. E’ per questo che il gioco d’azzardo fa gola alla mafia ed è utile possedere un concessionario online. Si intercetta la dipendenza e si incontrano persone fragili, ricattabili, usurabili e si ricicla. Si ricicla tanto e facilmente. Per questo quei documenti che entro la prossima settimana giungeranno in Adm dovranno essere letti con attenzione. E soprattutto resi pubblici.

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Il gioco d’azzardo smuove il 7% del Pil, ma la ludopatia distrugge le famiglie: lo Stato da che parte sta? - Giuseppe Pignataro*

Fin dall’antichità l’uomo ha tentato la sorte gettando dadi e monete, affidando i propri destini a quella dea bendata che i Romani chiamavano Fortuna. Il filosofo Blaise Pascal, riflettendo sulla fede, formulò il celebre ‘pari’ in cui scommettere su Dio era la scelta razionale: un azzardo metafisico per la salvezza dell’anima.

Oggigiorno milioni di persone continuano a scommettere non sull’eterno, ma sul quotidiano: giocano denaro nella speranza di un colpo di fortuna che cambi la vita. Come osservava Fëdor Dostoevskij, che della febbre del gioco soffrì in prima persona, la roulette e le carte possono diventare prigioni esistenziali, dove l’uomo sfida sé stesso oltre che il caso.

Questa speranza, spesso, attecchisce più forte dove prosperano l’incertezza e il disagio. Non a caso “si gioca di più al Sud”, come rivela un recente dossier (Libro Nero della Cgil/FederConsumatori), a conferma dell’‘idea illusoria’ che una vincita possa risolvere, in un colpo solo, i propri problemi economici. L’azzardo diventa così l’ancora di salvezza per chi si sente ai margini: un tentativo di rivincita sociale ed esistenziale. Ma è un’ancora che spesso trascina a fondo. Lo Stato italiano, dal canto suo, si trova coinvolto in questo complesso gioco di luci e ombre: da un lato legislatore e arbitro morale, dall’altro beneficiario fiscale di un settore in continua espansione. Un dualismo che pone serie domande etiche e politiche.

I numeri del gioco d’azzardo in Italia hanno raggiunto proporzioni impressionanti, delineando un vero paradosso economico e sociale. Secondo il Rapporto Eurispes 2025, nel 2024 gli italiani hanno giocato oltre 157 miliardi di euro tra slot, scommesse, lotterie e altri giochi. È il mercato più grande d’Europa, superiore a quello di Regno Unito, Germania e Francia. In termini macroeconomici, significa che l’azzardo smuove circa il 7% del Pil nazionale – una cifra enorme, 20 miliardi in più di quanto lo Stato spende per l’intero Servizio Sanitario Nazionale. Su questo la spesa pro capite per ogni cittadino maggiorenne ha toccato i 3.137 euro l’anno.

Dietro questa massa di denaro si nasconde però una realtà amara: oltre 21 miliardi sono le perdite nette dei cittadini nel 2024, pari al reddito annuo di 1,15 milioni di lavoratori medi, finiti in parte nelle casse degli operatori dell’azzardo e in parte allo Stato sotto forma di imposte. Ed ecco il paradosso: nonostante la febbre del gioco continui a salire – la raccolta è aumentata di oltre il 500% in vent’anni – le entrate fiscali per l’erario crescono molto meno. In pratica lo Stato incassa solo ‘briciole’ rispetto al fiume di denaro giocato: una percentuale esigua (intorno al 7% del giocato totale), tanto che è stato detto provocatoriamente che l’azzardo somiglia a una ‘tassa occulta sui poveri’, più che a un contributo equo al bene comune.

E il danno non è solo finanziario: cresce il numero di persone affette da ludopatia, la dipendenza patologica dal gioco, con gravi ricadute personali e familiari. In Italia si stimano circa 1,5 milioni di giocatori problematici e almeno 400mila giocatori patologici conclamati. Il costo sociale – in termini di cure, sostegno alle famiglie indebitate, perdita di produttività e contrasto all’usura – è difficilmente quantificabile, ma certamente erode qualsiasi beneficio fiscale derivante dall’azzardo.

Serve allora una riflessione profonda sul ruolo dello Stato e sui valori che si intendono perseguire. Parlare di etica pubblica, di virtù e vizio, di libero arbitrio e responsabilità, significa infatti riportare la questione del gioco d’azzardo dal piano delle percentuali a quello dei principi. Significa chiedersi se la Fortuna, come cantava Virgilio, è davvero ‘cieca’ o se non abbia piuttosto le bende messe ad arte da chi ci guadagna. E significa inoltre riconoscere che dietro ogni statistica c’è un dramma umano: la pensionata che sperpera la minima al bingo, il disoccupato che si indebita sperando nel colpaccio, la famiglia che si sgretola attorno a un tavolo verde.

Uno Stato giusto non può voltare lo sguardo di fronte a queste sofferenze, né tantomeno sfruttarle come fonte di reddito. La politica – intesa nel senso più nobile, come cura della polis – deve avere il coraggio di porre limiti al mercato quando questo divora la dignità delle persone. Regolamentare, educare, prevenire: sono queste le scommesse vincenti che una democrazia matura è chiamata a fare. In gioco, è il caso di dirlo, non c’è solo il denaro, ma la visione di società e di futuro a cui aspiriamo. E in questa partita, per una volta, sarebbe bello che a vincere fossero i cittadini comuni, non il banco. Le vite e il bene comune, non la dea bendata.

*Professore Associato di Politica Economica – Università di Bologna

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giovedì 23 ottobre 2025

Repubblica Dominicana: il massacro del prezzemolo - David Lifodi

Tra il 28 settembre e l’8 ottobre 1937 si consumò il massacro degli haitiani in Repubblica Dominicana ordinato dalla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo in un’operazione di pulizia etnica considerata da molti storici come un vero e proprio genocidio.

  

Pesíl e perejil sono due parole utilizzate per indicare il termine prezzemolo. Il primo viene utilizzato in lingua francese, il secondo in spagnolo ed è proprio basandosi su questa distinzione che il dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo si rese responsabile, tra il 28 settembre e l’8 ottobre 1937, di una vera propria pulizia etnica ai danni della popolazione haitiana residente nel suo paese.

Il cosiddetto “massacro del prezzemolo”, ancora sconosciuto ai più, provocò tra le 20.000 e le 30.000 vittime. L’ordine di uccidere fu dato dopo che ai cittadini haitiani veniva presentato dall’esercito dominicano un mazzo di prezzemolo che, inevitabilmente, gran parte di loro, riconosceva utilizzando il termine francofono. In questo modo l’esercito di Trujillo riconosceva facilmente gli haitiani poiché non conoscevano bene la lingua spagnola preferendo utilizzare termini francesi con i quali avevano maggior dimestichezza e questo rappresentò per loro una automatica condanna a morte.

Il “massacro del prezzemolo”, ritenuto da molti storici un vero e proprio genocidio perpetrato ai danni della popolazione haitiana, fu compiuto dai militari dominicani con le armi fornite dagli Usa e a ben poco servì, successivamente, il tentativo di Franklin Roosvelt di pulirsi la coscienza offrendo al regime trujillista un prestito da 750.000 dollari per pagare gli indennizzi alle famiglie degli uccisi che peraltro Trujillo distribuì solo in minima parte: solo 2 centesimi di dollaro a ogni famiglia sopravvissuta.

Al massacro degli haitiani parteciparono non solo gli uomini dell’esercito, ma anche delinquenti comuni fatti uscire dalle carceri e utilizzati per il lavoro sporco, lo sterminio di donne, bambini e anziani i cui corpi furono nascosti in fosse comuni o gettati nel mare e nei fiumi nell’ambito della politica di blanqueamiento imposta da Trujillo che, non contento della pulizia etnica e dell’espulsione degli haitiani sopravvissuti dal suo paese, si adoperò anche per promuovere l’arrivo nella Repubblica Dominicana di migranti europei, ovviamente di pelle bianca.

La mattanza degli haitiani si verificò per via dell’arrivo di molti di loro nella zona di confine tra Repubblica Dominicana e Haiti e seguito delle lotte per conquistare l’indipendenza rispettivamente da Spagna e Francia e alla definizione assai incerta della frontiera tra i due paesi nonostante il trattato siglato da entrambi gli stati nel 1929.

A seguito del massacro, la dittatura di Trujillo fece di tutto per nascondere le proprie responsabilità e far credere ai dominicani che quanto accaduto potesse essere derubricato a sconti di scarso rilievo tra i campesinos residenti sul confine tra i due paesi.

Trujillo, che rimase al potere dal 1930 al 1961, utilizzò gli haitiani come capro espiatorio a causa del prolungarsi della crisi economica del 1929, quando quest’ultimi cercarono di oltrepassare la frontiera per iniziare le loro attività di commercio in Repubblica Dominicana e lavorare nelle piantagioni di zucchero.

Inoltre, lo sterminio degli haitiani fu fortemente voluto da Trujillo per eliminare dall’isola ogni traccia della cultura haitiana senza alcun interesse, da parte del dittatore, di far integrare la cultura haitiana con quella dominicana, in realtà complementari. La cosiddetta desnacionalización haitiana finì per coinvolgere gli stessi dominicani, a loro volta discendenti, in alcuni casi, degli stessi haitiani, approfittando anche del silenzio complice degli Stati Uniti.

Ancora oggi, la vita degli haitiani in Repubblica Dominicana, continua ad essere agra, vittime dell’estremo sfruttamento nelle piantagioni di canna da zucchero, dell’estrema povertà e delle condizioni di degrado nei bateys dove vivono senza alcun diritto.

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