Chiediamo che si allarghi l’applicazione del metodo di resistenza attiva
nonviolenta, alle lotte per la liberazione dall’imperialismo, dal colonialismo,
da tutte le oppressioni, dal potere assoluto di gruppi dittatoriali o
reazionari o asserviti alle forze economiche sfruttatrici. Da questo
orizzonte aperto, infinito e fraterno, sacro da più di sette secoli ad ogni essere
che nasce alla vita e alla compresenza di tutti, scenda una volontà intrepida e
serena di resistere alla guerra, in propositi costruttivi di pace.
(24 settembre 1961, discorso di Aldo Capitini sul prato della Rocca di
Assisi)
In questi tempi di rinnovata follia bellicista è sempre più urgente
riscoprire il pensiero di Aldo Capitini, che animò la prima grande
manifestazione nonviolenta, apartitica (ma non apolitica, come chiarì lui
stesso) e popolare per la pace in Italia. Nel settembre del 1961, in uno dei
momenti più tesi della Guerra Fredda, il filosofo, poeta e antifascista
perugino, portò nelle campagne tra Perugia e Assisi, tra le case dei contadini
e delle madri che avevano vissuto la guerra, la filosofia della nonviolenza. In
un’Italia povera, provata da due conflitti mondiali e profondamente divisa,
Capitini riuscì, nonostante il clima di sospetto e di intimidazione messo in
atto dai vertici di governo e militari del tempo[1], in un’impresa unica.
Non a caso, Pier Paolo Pasolini la definì “il fenomeno politico italiano più
interessante dell’anno”, affermando che la sua “fondamentale aristocraticità è
facilmente accepibile dalle masse coscienti: non c’è contraddizione tra la sua
elezione e la sua popolarità”[2]. La Marcia,
nonostante gli attacchi condotti dalla DC[3], riuscì nell’intento
di unire l’alto e il basso, intellettuali e contadini, giovani e anziani, in
una camminata silenziosa e dal sapore mistico. Una preghiera collettiva che,
disse in quei giorni Goffredo Fofi: “ha esercitato su una popolazione contadina
che, come ovunque in Italia, si sente (…) estranea alla vita della nazione” un
forte richiamo ad affrontare il problema della pace, “il più vicino alle
aspirazioni come alle paure di tutti”[4]. La storia della
prima marcia, ma ancor più, le vicende legate alla sua gestazione (non a caso
Capitini, a proposito della Marcia, parlò proprio di “parto”), le riflessioni
ed i dibattiti che la precedettero e la seguirono e le proposte concrete
portate dai pacifisti e nonviolenti di tutto il mondo, costituiscono un
patrimonio imprescindibile per un programma di resistenza attiva alla deriva
militarista e sanguinaria dei nostri giorni.
Raggiungere tutti con una proposta di cambiamento radicale della società
“Avevo visto, [1] nel
dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite
a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari
mandati ad uccidere e a morire da un immediato comando dall’alto, e volevo fare
in modo che questo più non avvenisse, almeno per la gente della terra a me più
vicina”. (A. Capitini in “Ragioni e organizzazione della Marcia”)
Nell’organizzare questo grande evento, Aldo Capitini insisteva
principalmente su due elementi: la necessità di favorire il coinvolgimento più
ampio possibile degli esclusi dalla vita politica e avviare, al contempo, un
processo di riforma radicale del tessuto sociale, dall’informazione
all’educazione.
A proposito della partecipazione popolare, disse: “Il pacifismo di prima
era frammentario, talvolta sedentario, e lontano da un contatto con moltitudini
che possono diventare pacifiste integrali”. In effetti, sin
dal 1948 c’era stato in Italia un pacifismo, quello dei Partigiani della Pace,
animato dal PCI e che condusse una notevole mobilitazione di piazza nei giorni
dell’aprile del 1949, quando il governo De Gasperi incassò il voto parlamentare
per l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, escludendo di fatto gli elettori
da qualsiasi forma di partecipazione democratica su una scelta tanto
significativa e gravida di conseguenze per l’Italia. Nonostante i successi dei
Partigiani – che organizzarono anche diverse Conferenze mondiali per la Pace –
il movimento perse slancio alla metà degli anni ’50, soprattutto a causa delle
difficoltà[5] incontrate nel
raggiungere fasce più ampie della popolazione italiana, non ancora sensibili al
tema e non iscritte al Partito. È da questa esperienza che proviene la volontà,
molto forte in Capitini, di arrivare a tutti gli italiani, ricordando, in più
occasioni, di non aspettarsi che i partecipanti arrivassero alla Marcia con una
profonda coscienza della nonviolenza integrale (sino al vegetarianismo) e del
pacifismo e riaffermando, al contempo, la necessità che l’evento costituisse
per il Paese un primo contatto con questa filosofia.
Sotto il secondo profilo, Capitini immaginava la Marcia come un seme idoneo
ad instillare nei partecipanti l’esigenza di un radicale mutamento delle
strutture politiche, sociali ed economiche, senza il quale, a suo avviso, nessuna
forma di convivenza pacifica sarebbe stata effettivamente raggiunta. Il
tentativo era di contrastare il consumismo nascente nell’Italia del miracolo,
la propaganda bellicista e l’educazione borghese. Infatti, la società italiana
era nel pieno di quella sua “mutazione antropologica”[6] prodotta dai
consumi di massa, che provocava una condizione di apatia e disinteresse[7]. Al contrario, la
nonviolenza è “apertura all’esistenza” e poteva essere raggiunta solo
attraverso “un’educazione aperta”, cioè, “libera da ogni forma di violenza,
pregiudizio o privilegio”, con l’obiettivo di contrastare “il patriottismo
scolastico diffuso dai nuclei nazional-militari, e, insieme, il borghesismo
edonistico che si ritrae da ogni lotta civile e sociale per la fruizione del
benessere promesso dal neocapitalismo”[8]. Al contempo, la
nonviolenza non poteva che essere un’idea “all’opposizione della società
esistente”, in quanto la società o pratica “scopertamente la violenza” oppure
“si basa su una violenza (oppressione e sfruttamento) cristallizzata nel tempo,
e solo apparentemente estranea alla violenza”[9].
Il ruolo della stampa e il difficile rapporto con i partiti
Fu chiaro dal principio che il rapporto tra l’iniziativa e la narrazione di
alcuni organi di stampa non sarebbe stato facile. La ferma opposizione della
Democrazia Cristiana alla Marcia produsse una vera e propria campagna
denigratoria ai danni di Capitini e degli altri organizzatori. Il quotidiano
“Il Tempo” scrisse che la Marcia era finita nel ridicolo[10], mentre il Secolo
d’Italia parlò di “due o trecento sfaccendati”. Gli organizzatori furono
accusati di essere null’altro che megafono del Partito Comunista, il quale, al
contrario, partecipò attivamente alla realizzazione e all’attuazione
dell’evento, pur senza simboli di partito. “Panorama” del 23 settembre
titolava: “Assisi non è Mosca”, definendo la Marcia una “squallida buffonata”.
Eppure, Capitini sapeva benissimo che il punto di partenza ineludibile per il
successo dell’azione di resistenza nonviolenta fosse la comunicazione. Nelle
sue memorie, racconta di un lavoro “intensissimo (…) perché la notizia si
diffondesse”. Tuttavia, l’impresa si dimostrava molto complessa, in quanto poco
o nessun rilievo venne dato all’evento sulla stampa conservatrice, con il
rischio di frustrare l’intenzione di allargare il più possibile la
partecipazione. Disse a tal riguardo Capitini: “La televisione ai miei ripetuti
inviti (…) rispose negativamente[11]”. Memore di questa
esperienza, nel 1967 nel suo Manuale “Le tecniche della nonviolenza”, dedicò
ampio spazio ai metodi di comunicazione in un contesto di netta avversione
della stampa alle iniziative per la pace. A tal proposito, suggeriva di
diffondere “continuamente” notizie, insistere nell’inviare comunicati ai
giornali, ma soprattutto chiedeva di investire nella costruzione di una rete di
informazione alternativa a quella dominante, attraverso il coordinamento
continuo, la tessitura di contatti tra diverse realtà associative, cittadini
simpatizzanti e intellettuali.
Le tecniche della nonviolenza per la vittoria della giustizia e dell’onestà
umana
Il filosofo perugino proponeva la nonviolenza come “metodo costante per le
grandi lotte sociali”, definendola “rivoluzione aperta” per una pianificazione
dal basso ed un controllo diffuso della politica. Metodo attivo per riconoscere
e smascherare la violenza insita nei gangli della società e “soccorrere i
sopraffatti”. Capitini, dunque, riuscì ad intravedere nelle strutture della
società capitalistica le radici di una violenza diffusa e penetrante, cui
andava opposto un metodo di partecipazione attiva dal basso che rifiutasse ogni
chiusura elitistica per promuovere un’azione veramente popolare. In
quest’ottica, sistema economico liberista, sfruttamento, colonialismo e cultura
repressiva, erano tutte manifestazioni della società violenta e per opporvisi egli
offrì concreti strumenti di lotta, descritti nel Manuale. Tra i tantissimi
strumenti impiegabili figurano: i picchetti, il digiuno, la non-cooperazione,
il boicottaggio, l’arresto dell’attività lavorativa, lo sciopero, lo sciopero
al rovescio (lavorando dove e quando non permesso), la disobbedienza civile e
l’obiezione fiscale. Ebbene, l’attuale stato della politica internazionale, tra
crescenti tentativi di militarizzazione delle società europee ed il genocidio
in Palestina, entrambi sostenuti e finanziati da gruppi di potere
politico-economici apparentemente inscalfibili, sembrano aver risvegliato una
coscienza popolare. Molte delle tecniche illustrate nel manuale di Capitini
sono state impiegate (ad es. campagne di boicottaggio, scioperi e manifestazioni),
ma tante altre possono essere riscoperte e attuate per dare vita ad una
politica della non-cooperazione di massa, che rompa l’assedio fisico di Gaza e
quello morale dell’Europa, per costruire un nuovo modello di convivenza tra i
popoli. Tuttavia, il filosofo perugino avvertiva che il percorso di resistenza
è lungo e provoca, come insegna anche Gandhi cinque reazioni negli apparati di
potere: indifferenza, ridicolizzazione, insulto, repressione e, solo alla fine,
rispetto. A dimostrazione della validità della tesi, nel contesto attuale tutta
la stampa mainstream ha condotto campagne di denigrazione e di opposizione a
qualsiasi iniziativa per la pace e di resistenza non violenta, tuttavia, la
perseveranza nell’azione e l’allargamento della base produrrà, dice ancora
Capitini, la conversione degli scettici, una “trasformazione dei rapporti tra
le parti interessate” e, finalmente, una vittoria “della giustizia e
dell’onestà umana”[12].
[1] Il prefetto
vietò ai comuni di sfilare alla Marcia con i gonfaloni; il questore aveva posto
molti ostacoli circa la scelta del percorso; i sacerdoti imposero ai fedeli di
restare in chiesa durante la Marcia; la DC avviò a mezzo stampa e tramite comunicazioni
interne, una serratissima polemica contro Capitini e la Marcia, arrivando ad
intimare a Carlo Arturo Jemolo di non partecipare.
[2] P.P.
Pasolini, Vie Nuove, 4 gennaio 1962.
[3] Lettera del
Comitato provinciale della Democrazia Cristiana, Perugia, 14 settembre 1961,
Prot.n. 3139.
[4] Goffredo Fofi,
In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a
cura di A. Capitini, a cura di G. De Veris, A. Maori, G. Moscati, Silvana,
2022.
[5] Emilio Sereni:
«Occorre (…) che i Comitati prendano ogni iniziativa per la popolarizzazione della
lotta per la pace, del suo allargamento a tutte le categorie della
popolazione», Il Congresso di Parigi e la nostra lotta per la pace,
“Bollettino Istruzioni”, 30 marzo 1949 n. 2.
[6] Pier Paolo
Pasolini, Corriere della Sera, 10 giugno 1974.
[7] Aldo Capitini:
«Tutti mettono avanti altre esigenze: vestiti, viaggi, ferie, macchine ecc.»,
Lettera a Edmondo Marcucci, 29 luglio 1962 .
[8] A.
Capitini, Ragioni e organizzazione della Marcia, in In
cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a
cura di A. Capitini, a cura di G. De Veris, A. Maori, G. Moscati, Silvana,
2022, p. 19
[9] Ivi p. 20 .
[10] “La farsa della
pace”, Il Tempo, Roma, 24 settembre 1961.
[11] A.
Capitini, Ragioni e organizzazione della Marcia, in In
cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a
cura di A. Capitini, a cura di G. De Veris, A. Maori, G. Moscati, Silvana,
2022, p. 25.
[12] Giulio Marcon (a
cura di), L’aiuola che ci fa tanto feroci, antologia contro la guerra:
pacifismo, obiezione di coscienza, disobbedienza civile, Altraeconomia,
2025, p. 120.
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