martedì 7 ottobre 2025

Riscoprire il pensiero di Aldo Capitini per un movimento di resistenza nonviolenta e popolare - Mariantonietta D'Apolito

 

Chiediamo che si allarghi l’applicazione del metodo di resistenza attiva nonviolenta, alle lotte per la liberazione dall’imperialismo, dal colonialismo, da tutte le oppressioni, dal potere assoluto di gruppi dittatoriali o reazionari o asserviti alle forze economiche sfruttatrici. Da questo orizzonte aperto, infinito e fraterno, sacro da più di sette secoli ad ogni essere che nasce alla vita e alla compresenza di tutti, scenda una volontà intrepida e serena di resistere alla guerra, in propositi costruttivi di pace.

(24 settembre 1961, discorso di Aldo Capitini sul prato della Rocca di Assisi)

In questi tempi di rinnovata follia bellicista è sempre più urgente riscoprire il pensiero di Aldo Capitini, che animò la prima grande manifestazione nonviolenta, apartitica (ma non apolitica, come chiarì lui stesso) e popolare per la pace in Italia. Nel settembre del 1961, in uno dei momenti più tesi della Guerra Fredda, il filosofo, poeta e antifascista perugino, portò nelle campagne tra Perugia e Assisi, tra le case dei contadini e delle madri che avevano vissuto la guerra, la filosofia della nonviolenza. In un’Italia povera, provata da due conflitti mondiali e profondamente divisa, Capitini riuscì, nonostante il clima di sospetto e di intimidazione messo in atto dai vertici di governo e militari del tempo[1], in un’impresa unica. Non a caso, Pier Paolo Pasolini la definì “il fenomeno politico italiano più interessante dell’anno”, affermando che la sua “fondamentale aristocraticità è facilmente accepibile dalle masse coscienti: non c’è contraddizione tra la sua elezione e la sua popolarità”[2]. La Marcia, nonostante gli attacchi condotti dalla DC[3], riuscì nell’intento di unire l’alto e il basso, intellettuali e contadini, giovani e anziani, in una camminata silenziosa e dal sapore mistico. Una preghiera collettiva che, disse in quei giorni Goffredo Fofi: “ha esercitato su una popolazione contadina che, come ovunque in Italia, si sente (…) estranea alla vita della nazione” un forte richiamo ad affrontare il problema della pace, “il più vicino alle aspirazioni come alle paure di tutti”[4]. La storia della prima marcia, ma ancor più, le vicende legate alla sua gestazione (non a caso Capitini, a proposito della Marcia, parlò proprio di “parto”), le riflessioni ed i dibattiti che la precedettero e la seguirono e le proposte concrete portate dai pacifisti e nonviolenti di tutto il mondo, costituiscono un patrimonio imprescindibile per un programma di resistenza attiva alla deriva militarista e sanguinaria dei nostri giorni.

Raggiungere tutti con una proposta di cambiamento radicale della società

“Avevo visto, [1] nel dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti ed ignari mandati ad uccidere e a morire da un immediato comando dall’alto, e volevo fare in modo che questo più non avvenisse, almeno per la gente della terra a me più vicina”. (A. Capitini in “Ragioni e organizzazione della Marcia”)

Nell’organizzare questo grande evento, Aldo Capitini insisteva principalmente su due elementi: la necessità di favorire il coinvolgimento più ampio possibile degli esclusi dalla vita politica e avviare, al contempo, un processo di riforma radicale del tessuto sociale, dall’informazione all’educazione.

A proposito della partecipazione popolare, disse: “Il pacifismo di prima era frammentario, talvolta sedentario, e lontano da un contatto con moltitudini che possono diventare pacifiste integrali”. In effetti, sin dal 1948 c’era stato in Italia un pacifismo, quello dei Partigiani della Pace, animato dal PCI e che condusse una notevole mobilitazione di piazza nei giorni dell’aprile del 1949, quando il governo De Gasperi incassò il voto parlamentare per l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, escludendo di fatto gli elettori da qualsiasi forma di partecipazione democratica su una scelta tanto significativa e gravida di conseguenze per l’Italia. Nonostante i successi dei Partigiani – che organizzarono anche diverse Conferenze mondiali per la Pace – il movimento perse slancio alla metà degli anni ’50, soprattutto a causa delle difficoltà[5] incontrate nel raggiungere fasce più ampie della popolazione italiana, non ancora sensibili al tema e non iscritte al Partito. È da questa esperienza che proviene la volontà, molto forte in Capitini, di arrivare a tutti gli italiani, ricordando, in più occasioni, di non aspettarsi che i partecipanti arrivassero alla Marcia con una profonda coscienza della nonviolenza integrale (sino al vegetarianismo) e del pacifismo e riaffermando, al contempo, la necessità che l’evento costituisse per il Paese un primo contatto con questa filosofia.

Sotto il secondo profilo, Capitini immaginava la Marcia come un seme idoneo ad instillare nei partecipanti l’esigenza di un radicale mutamento delle strutture politiche, sociali ed economiche, senza il quale, a suo avviso, nessuna forma di convivenza pacifica sarebbe stata effettivamente raggiunta. Il tentativo era di contrastare il consumismo nascente nell’Italia del miracolo, la propaganda bellicista e l’educazione borghese. Infatti, la società italiana era nel pieno di quella sua “mutazione antropologica”[6] prodotta dai consumi di massa, che provocava una condizione di apatia e disinteresse[7]. Al contrario, la nonviolenza è “apertura all’esistenza” e poteva essere raggiunta solo attraverso “un’educazione aperta”, cioè, “libera da ogni forma di violenza, pregiudizio o privilegio”, con l’obiettivo di contrastare “il patriottismo scolastico diffuso dai nuclei nazional-militari, e, insieme, il borghesismo edonistico che si ritrae da ogni lotta civile e sociale per la fruizione del benessere promesso dal neocapitalismo”[8]. Al contempo, la nonviolenza non poteva che essere un’idea “all’opposizione della società esistente”, in quanto la società o pratica “scopertamente la violenza” oppure “si basa su una violenza (oppressione e sfruttamento) cristallizzata nel tempo, e solo apparentemente estranea alla violenza”[9].

Il ruolo della stampa e il difficile rapporto con i partiti

Fu chiaro dal principio che il rapporto tra l’iniziativa e la narrazione di alcuni organi di stampa non sarebbe stato facile. La ferma opposizione della Democrazia Cristiana alla Marcia produsse una vera e propria campagna denigratoria ai danni di Capitini e degli altri organizzatori. Il quotidiano “Il Tempo” scrisse che la Marcia era finita nel ridicolo[10], mentre il Secolo d’Italia parlò di “due o trecento sfaccendati”. Gli organizzatori furono accusati di essere null’altro che megafono del Partito Comunista, il quale, al contrario, partecipò attivamente alla realizzazione e all’attuazione dell’evento, pur senza simboli di partito. “Panorama” del 23 settembre titolava: “Assisi non è Mosca”, definendo la Marcia una “squallida buffonata”. Eppure, Capitini sapeva benissimo che il punto di partenza ineludibile per il successo dell’azione di resistenza nonviolenta fosse la comunicazione. Nelle sue memorie, racconta di un lavoro “intensissimo (…) perché la notizia si diffondesse”. Tuttavia, l’impresa si dimostrava molto complessa, in quanto poco o nessun rilievo venne dato all’evento sulla stampa conservatrice, con il rischio di frustrare l’intenzione di allargare il più possibile la partecipazione. Disse a tal riguardo Capitini: “La televisione ai miei ripetuti inviti (…) rispose negativamente[11]”. Memore di questa esperienza, nel 1967 nel suo Manuale “Le tecniche della nonviolenza”, dedicò ampio spazio ai metodi di comunicazione in un contesto di netta avversione della stampa alle iniziative per la pace. A tal proposito, suggeriva di diffondere “continuamente” notizie, insistere nell’inviare comunicati ai giornali, ma soprattutto chiedeva di investire nella costruzione di una rete di informazione alternativa a quella dominante, attraverso il coordinamento continuo, la tessitura di contatti tra diverse realtà associative, cittadini simpatizzanti e intellettuali.

Le tecniche della nonviolenza per la vittoria della giustizia e dell’onestà umana

Il filosofo perugino proponeva la nonviolenza come “metodo costante per le grandi lotte sociali”, definendola “rivoluzione aperta” per una pianificazione dal basso ed un controllo diffuso della politica. Metodo attivo per riconoscere e smascherare la violenza insita nei gangli della società e “soccorrere i sopraffatti”. Capitini, dunque, riuscì ad intravedere nelle strutture della società capitalistica le radici di una violenza diffusa e penetrante, cui andava opposto un metodo di partecipazione attiva dal basso che rifiutasse ogni chiusura elitistica per promuovere un’azione veramente popolare. In quest’ottica, sistema economico liberista, sfruttamento, colonialismo e cultura repressiva, erano tutte manifestazioni della società violenta e per opporvisi egli offrì concreti strumenti di lotta, descritti nel Manuale. Tra i tantissimi strumenti impiegabili figurano: i picchetti, il digiuno, la non-cooperazione, il boicottaggio, l’arresto dell’attività lavorativa, lo sciopero, lo sciopero al rovescio (lavorando dove e quando non permesso), la disobbedienza civile e l’obiezione fiscale. Ebbene, l’attuale stato della politica internazionale, tra crescenti tentativi di militarizzazione delle società europee ed il genocidio in Palestina, entrambi sostenuti e finanziati da gruppi di potere politico-economici apparentemente inscalfibili, sembrano aver risvegliato una coscienza popolare. Molte delle tecniche illustrate nel manuale di Capitini sono state impiegate (ad es. campagne di boicottaggio, scioperi e manifestazioni), ma tante altre possono essere riscoperte e attuate per dare vita ad una politica della non-cooperazione di massa, che rompa l’assedio fisico di Gaza e quello morale dell’Europa, per costruire un nuovo modello di convivenza tra i popoli. Tuttavia, il filosofo perugino avvertiva che il percorso di resistenza è lungo e provoca, come insegna anche Gandhi cinque reazioni negli apparati di potere: indifferenza, ridicolizzazione, insulto, repressione e, solo alla fine, rispetto. A dimostrazione della validità della tesi, nel contesto attuale tutta la stampa mainstream ha condotto campagne di denigrazione e di opposizione a qualsiasi iniziativa per la pace e di resistenza non violenta, tuttavia, la perseveranza nell’azione e l’allargamento della base produrrà, dice ancora Capitini, la conversione degli scettici, una “trasformazione dei rapporti tra le parti interessate” e, finalmente, una vittoria “della giustizia e dell’onestà umana”[12].


[1] Il prefetto vietò ai comuni di sfilare alla Marcia con i gonfaloni; il questore aveva posto molti ostacoli circa la scelta del percorso; i sacerdoti imposero ai fedeli di restare in chiesa durante la Marcia; la DC avviò a mezzo stampa e tramite comunicazioni interne, una serratissima polemica contro Capitini e la Marcia, arrivando ad intimare a Carlo Arturo Jemolo di non partecipare.

[2] P.P. Pasolini, Vie Nuove, 4 gennaio 1962.

[3] Lettera del Comitato provinciale della Democrazia Cristiana, Perugia, 14 settembre 1961, Prot.n. 3139.

[4] Goffredo Fofi, In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a cura di A. Capitini, a cura di G. De Veris, A. Maori, G. Moscati, Silvana, 2022.

[5] Emilio Sereni: «Occorre (…) che i Comitati prendano ogni iniziativa per la popolarizzazione della lotta per la pace, del suo allargamento a tutte le categorie della popolazione», Il Congresso di Parigi e la nostra lotta per la pace, “Bollettino Istruzioni”, 30 marzo 1949 n. 2.

[6] Pier Paolo Pasolini, Corriere della Sera, 10 giugno 1974.

[7] Aldo Capitini: «Tutti mettono avanti altre esigenze: vestiti, viaggi, ferie, macchine ecc.», Lettera a Edmondo Marcucci, 29 luglio 1962 .

[8] A. Capitini, Ragioni e organizzazione della Marcia, in In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a cura di A. Capitini, a cura di G. De Veris, A. Maori, G. Moscati, Silvana, 2022, p. 19

[9] Ivi p. 20 .

[10] “La farsa della pace”, Il Tempo, Roma, 24 settembre 1961.

[11] A. Capitini, Ragioni e organizzazione della Marcia, in In cammino per la pace. Documenti e testimonianze sulla Marcia Perugia-Assisi a cura di A. Capitini, a cura di G. De Veris, A. Maori, G. Moscati, Silvana, 2022, p. 25.

[12] Giulio Marcon (a cura di), L’aiuola che ci fa tanto feroci, antologia contro la guerra: pacifismo, obiezione di coscienza, disobbedienza civile, Altraeconomia, 2025, p. 120.

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