sabato 30 aprile 2022

Il ripescaggio della Nazionale campione di diritti umani - Alessandro Ghebreigziabiher

 

Cari amici pallonari,
calciofili di professione, tifosi della prima ora o affezionati fan di vecchia data della rotolante sfera, auspicabilmente all’interno della porta avversaria.
Sono qui a offrirvi una seppur dolce amara compensazione per il dolore e lo scorno dovuti all’ennesima mancata qualificazione alla fase finale del torneo planetario.
Dovete sapere che secondo un'indagine del Guardian i lavoratori migranti a basso salario in Qatar pare abbiano pagato circa 1,5 miliardi di dollari in tasse, forse sino a 2 miliardi, tra il 2011 e il 2020, malgrado sia del tutto illegale. Queste persone, le quali risultano provenienti in gran parte da Bangladesh e Nepal, costituiscono quasi un terzo della forza lavoro straniera del Qatar, circa due milioni, e in genere pagano tasse da mille sino a tremila dollari. Ciò significa che con stipendi medi di 275 dollari al mese sono costrette a lavorare per almeno un anno solo per pagare l’iniqua imposta di assunzione.
In molte occasioni gli immigrati hanno dovuto ottenere un prestito per pagare tale dazio e impossibilitati a restituirlo entro i termini si ritrovano obbligati a lavorare a tempo indeterminato, in una delle tante forme di schiavitù moderne oggigiorno tollerate.
Ciò nonostante, ogni anno centinaia di migliaia di persone, pur conoscendo tali rischi, partendo da situazioni addirittura peggiori e senza via di scampo, decidono di imbarcarsi in tale orribile viaggio verso lo sfruttamento o perfino la morte.
Difatti, secondo un recente rapporto sui lavoratori immigrati schiavizzati nei paesi del Golfo, tra cui lo stesso Qatar, si legge che ne muoiono ogni anno sino a diecimila. Il più delle volte i motivi dei decessi vengono archiviati come cause naturali arresto cardiaco, ma la realtà confermata dalla relazione ci racconta di persone esposte quotidianamente a un’enorme quantità di rischi, tra cui calore e umidità, inquinamento atmosferico, superlavoro e condizioni di lavoro abusive, cattive pratiche di salute e mancata sicurezza sul lavoro, stress psicosociale e ipertensione.
Ebbene, si dà il caso che la maggior parte di questi lavoratori, tra i più poveri al mondo, siano stati impiegati nelle sopra citate, disumane condizioni insieme ad altri cittadini dell’Asia meridionale e africani, nella costruzione degli impianti e delle strutture che ospiteranno i prossimi mondiali di calcio tra novembre e dicembre 2022.
Indi per cui, essendo noi altri stati esclusi come nazione dal grande spettacolo calcistico costruito letteralmente sulla sofferenza e il sangue della gente più povera al mondo, per una volta possiamo considerarci relativamente innocenti.
Per tale ragione, do per scontato che la notizia di un possibile nostro ripescaggio ai danni dell’Iran – valutata a posteriori e consapevoli di codesto scandalo – dovrebbe trovarci indifferenti.
Ma che dico?
Fieri fermi nel rimandare al mittente ogni nostro possibile reinserimento nella competizione.
Anzi, nel qual caso potrebbe addirittura trasformarsi in una favorevole occasione per far luce sull’orrendo sfruttamento di cui sopra.
Già mi immagino i giornali di tutto il mondo dopo la conferenza stampa dei dirigenti della federazione: la nazionale italiana di calcio rifiuta ufficialmente il posto lasciato vacante dagli iraniani per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulle disumane condizioni di lavoro dei cittadini immigrati in Qatar e in tutto il Golfo.
Caspita, in un possibile scenario del genere mi viene da pregare, più che sperare, che l’Iran o chi per lui vengano estromessi a nostro favore

da qui

venerdì 29 aprile 2022

L’energia del vento arriva a Taranto – Marina Forti

 


Ci sono voluti quattordici anni, ma infine giovedì 21 aprile 2022 è stato inaugurato a Taranto il primo impianto eolico off shore realizzato nel Mediterraneo. Comprende dieci aerogeneratori (gli ultimi due per la verità ancora da completare): un impianto relativamente piccolo, 30 megawatt di potenza nominale. È un segnale importante, nei pressi di una città più nota per le sue acciaierie fonte di inquinamento, crisi sanitaria e infiniti conflitti.

E però è anche un caso emblematico del lento sviluppo delle energie rinnovabili in Italia, ostacolato da lungaggini procedurali, opposizioni e ricorsi. Eppure, il ministero della transizione ecologica annuncia che il prossimo Piano nazionale energetico (Pniec) prevede di installare in Italia  114 gigawatt di capacità produttiva da fonti rinnovabili al 2030 (contro i 56 GW al 2020) e un taglio delle emissioni di gas serra del 51% rispetto al 1990. Per farlo, bisognerà realizzare impianti per altri 58 gigawatt di potenza, cioè 6,3 gigawatt all’anno per i prossimi nove anni. Insomma, bisognerà accelerare. Anche per questo, bisogna sperare che l’impianto di Taranto sia il preludio a una svolta.

Ho visitato Taranto durante la costruzione dell’impianto eolico: il reportage completo è uscito su L’Essenziale il 26 marzo 2022, sotto il titolo: “L’energia del vento che arriva dal mare”, con le foto di Piero Percoco.

 

Le prime pale eoliche piantate nella rada di Taranto si notano appena, seminascoste dalle gigantesche gru di un molo per container. Bisogna avvicinarsi per capire le dimensioni di quelle torri d’acciaio bianco contro il blu del mare.

Siamo al limite estremo del porto, nella rada esterna, sul molo chiamato “polisettoriale” in concessione alla società turca di logistica e container Yilport. Le prime torri eoliche sono ormai in posizione, prossime alla costa; le altre sorgeranno a ridosso della diga foranea che protegge il molo, a due chilometri e mezzo dalla costa: dieci torri eoliche in tutto. “Dobbiamo sfruttare le finestre di bel tempo e di alta marea”, spiega l’ingegner Paolo Sammartino, direttore operativo di Renexia, la società che sta costruendo l’impianto: “Contiamo di terminare entro marzo”.

Quello di Taranto è il primo parco eolico off shore che arriva a realizzazione in Italia, anzi in tutto il Mediterraneo. È un impianto relativamente piccolo, 30 megawatt di potenza nominale. Nei pressi di una città più nota per le sue acciaierie fonte di inquinamento, crisi sanitaria e infiniti conflitti, molti ci vedono un simbolico contrappasso: qui si produrrà energia elettrica “pulita” sfruttando il vento, un’alternativa ai combustibili fossili.

È anche un segnale importante, in tempi di crisi energetica, guerra in Ucraina, ritorsioni sulle forniture di gas metano dalla Russia. Molti osservano che se l’Italia avesse investito in modo più deciso sulle energie rinnovabili, oggi sarebbe meno dipendente dalle importazioni di gas.

Il parco eolico di Taranto però ha una storia contrastata, che illustra bene i paradossi della transizione energetica in Italia.

Un paradosso è che ci sono voluti ben quattordici anni per passare dal progetto alla realizzazione. La prima proposta infatti risale al 2008. L’autorizzazione definitiva è arrivata dopo cinque anni, nel 2013: “Le procedure per progetti di energia rinnovabile, tra verifiche e valutazione di impatto ambientale, richiedono purtroppo questi tempi”, osserva l’ingegner Luigi Severini, autore del progetto e oggi direttore dei lavori.

Una storia contrastata

Poi è cominciata una vicenda travagliata. Il progetto ha avuto contro la regione Puglia, che aveva già dato un parere sfavorevole citando possibili danni ambientali e paesaggistici. Con le stesse motivazioni il Comune di Taranto è ricorso al Tribunale amministrativo regionale per bloccare l’impianto. Ha perso il ricorso e anche il successivo appello al Consiglio di Stato, ma intanto siamo arrivati al 2016: “Così abbiamo dovuto rinunciare alla prima asta per la produzione di energia rinnovabile, perché non saremmo stati pronti a produrre nei tempi richiesti”, ricorda Severini.

Nel frattempo è cambiato l’assetto societario. Alla piccola azienda tarantina che aveva ottenuto l’autorizzazione, Societ Energy Spa, è subentrata una società francese di investimenti, la Belenergia. Infine il progetto, ribattezzato Beleolico, è passato al Gruppo Toto di Chieti, a cui appartiene la società Renexia che lo sta costruendo. “Intanto la ditta tedesca che doveva fornire le turbine è fallita”, spiega Severini: “Non è stato facile trovare un altro fornitore perché servivano turbine con le stesse caratteristiche tecniche del progetto approvato nel 2013, e invece l’innovazione tecnologica corre. Alla fine le abbiamo trovate in Cina”.

Fattostà che la costruzione effettiva è cominciata nel settembre del 2021, ben otto anni dopo la prima autorizzazione.

Sulla banchina del molo polisettoriale di Taranto, Paolo Sammartino descrive una logistica complessa. Per montare gli aerogeneratori è arrivata una speciale nave-cantiere della società olandese Van Oord (in Italia non esistono imbarcazioni simili). Primo, ha piantato le fondazioni monopalo che reggono le torri: sono cilindri d’acciaio fatti di un pezzo unico, quasi 5 metri di diametro e lunghi fino a 50 metri, conficcati nel fondale per trenta metri da una sorta di gigantesco martello a percussione.

Su queste fondazioni vengono assemblate le torri. Davanti a noi la nave-cantiere si sposta lentamente vicino al troncone giallo di un monopalo, a cercare la posizione giusta dove ancorarsi; poi farà scivolare sul fondale dei grandi piloni d’acciaio che la sollevano dall’acqua, trasformandola in una piattaforma. Ora può cominciare a montare i tre segmenti cilindrici della torre, diametro 4 metri. Poi sarà fissata la navicella che contiene il generatore, infine il rotore con le tre pale – di cui una è dipinta di nero, spiega il responsabile dei lavori, per una prescrizione ambientale: quando gira risulta più visibile agli uccelli in volo.

L’ultima fase sarà posare i cavi che collegano ogni turbina a una sottostazione elettrica a terra, dove l’energia viene trasformata e immessa nella rete di Terna, il gestore nazionale.

L’investimento complessivo per il parco Beleolico ammonta a 82 milioni di euro. La navicella con il rotore si trova a 90 metri d’altezza; l’apertura delle pale fa 130 metri di diametro. Ogni aerogeneratore ha una potenza di 3 megawatt: l’impianto ha dunque 30 megawatt di potenza totale e potrà produrre circa 58 mila megawattora (Mwh) annui, abbastanza per alimentare l’equivalente di  21 mila abitazioni con 60 mila persone. In termini di cambiamento climatico, nei 25 anni di vita dell’impianto saranno risparmiate circa 730 mila tonnellate di anidride carbonica.

Si tratta di un piccolo impianto, riconosce l’autore del progetto. “Quando l’abbiamo pensato, nel 2008, il termine di confronto erano i parchi eolici esistenti sulla terraferma, che andavano da 20 a massimo 45 megawatt”, spiega Luigi Severini. “Certo, oggi turbine di dimensioni analoghe potrebbero avere quattro megawatt di potenza invece che tre. Ma resterebbe un piccolo impianto e non potrebbe essere altrimenti, in un ambito portuale e così vicino alla costa. Del resto, il nostro progetto è stato approvato proprio per questo: il ministero dei beni culturali ha riconosciuto che ha le giuste proporzioni in rapporto alla morfologia del territorio”.

Tonnellate di acciaio, ma non di Taranto

A lavoro finito, le pale eoliche danno un’impressione di leggerezza. Perfino là adagiate sul molo, insieme agli altri componenti in attesa di assemblaggio, quelle pale lunghe una sessantina di metri appaiono sottili, agili. Eppure stiamo parlando di grandi quantità d’acciaio. Ogni fondazione monopalo da sola fa circa 400 tonnellate; si aggiungano torri, pale e tutto il resto: l’energia eolica è un grande lavoro di siderurgia. Poiché siamo a Taranto si potrebbe pensare che tutto quell’acciaio venga dallo stabilimento Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva, di cui da questo molo si scorgono le ciminiere. Invece no: e questo è un altro paradosso.

“Abbiamo fatto di tutto perché il progetto restasse made in Italy”, spiega Luigi Severini: ma non è stato possibile. Perché? Per quanto riguarda l’acciaio, quando sono stati definiti i contratti di forniture l’Ilva era in pieno passaggio di proprietà, l’esito della vendita e perfino la sorte dello stabilimento erano incerti: non avrebbe potuto prendere una commessa che richiedeva il lavoro di un anno e una linea di produzione apposita. Ma c’è un problema più generale, aggiunge Severini: “L’offerta delle imprese italiane non reggeva la competizione di aziende del nord Europa, che in questo settore hanno più esperienza e possono fare offerte più convenienti”.

Così il monopalo è stato fabbricato in Spagna, le pale e le turbine vengono dalla Cina (dalla Ming Yang Smart Energy). Il contributo “fatto in Italia” è limitato ad alcune lavorazioni meccaniche affidate a aziende tarantine, o la posa dei cavi che correranno sul fondale e poi a terra per trasferire l’energia al trasformatore. Oltre a vari servizi, come le barche che trasporteranno i tecnici per la manutenzione continua dell’impianto.

Anche la squadra di lavoro è mista. La costruzione del parco Beleolico occupa circa 250 persone, di cui un centinaio lavora sulla nave-cantiere. “È un team molto specializzato”, spiega Sammartino: ci sono i tecnici venuti dal nord Europa con la nave-cantiere, quelli arrivati dalla Cina con le turbine; gli addetti al complicato assemblaggio o alla posa dei cavi vengono per lo più da Taranto o dalla Campania.

“In termini di occupazione, le ricadute sul territorio di Taranto non sono molte”, osserva Giuseppe Romano, segretario della Federazione dei lavoratori metalmeccanici della Cgil nella città pugliese: “La fabbricazione è avvenuta altrove e anche il montaggio richiede un lavoro molto specializzato, con qualifiche che qui non sono presenti”. Il segretario della Fiom però vede con favore lo sviluppo dell’industria eolica. “È un segnale importante e un passo verso la transizione a energie rinnovabili. In linea di principio servirà anche a sostenere la nostra siderurgia, se investiremo per produrre qui l’acciaio”. Anche se, aggiunge, “restano molte diffidenze”.

Un paesaggio industriale

Da Taranto le pale eoliche non si vedono. Né dalla città vecchia, né da quella nuova con il lungomare che guarda verso il largo. Dal belvedere di piazza Marinai d’Italia si possono osservare le navi ferme nella rada, un piccolo peschereccio che rientra in porto, le gru sui moli più vicini, i camini delle Acciaierie d’Italia sempre sullo sfondo. Da certi punti si scorge la raffineria dell’Eni. Ma non gli aerogeneratori: sono a meno di dieci chilometri in linea d’aria, ma si trovano oltre punta Rondinella, dove la costa curva e il golfo jonico si allarga.

Il progetto eolico però è stato accolto con diffidenze nella città pugliese, quando non opposizioni attive e ricorsi legali, spesso motivati citando un danno al paesaggio. Come se la città non si fidasse più di nulla, e si capisce: Taranto ha i nervi scoperti. Sono passati dieci anni da quando la magistratura ha messo sotto sequestro l’area a caldo dell’ex Ilva, cioè altiforni e cokerie, ovvero il cuore di un’acciaieria, facendo precipitare la crisi (anche se l’azienda ha mantenuto la “facoltà d’uso” degli impianti ed è rimasta in attività). Era l’agosto 2012: da allora l’impianto industriale è passato attraverso una gestione commissariale, la vendita al gruppo Arcelor Mittal, infine l’ingresso in società di Invitalia, cioè lo stato. Sono arrivate nuove prescrizioni ambientali. C’è stato un processo ai dirigenti del gruppo Riva che ha gestito lo stabilimento tra il 1995 e il 2013, concluso da condanne per “disastro ambientale”. Intanto le indagini epidemiologiche hanno descritto i danni dell’inquinamento sulla salute dei tarantini. E però la crisi resta aperta.

Certo: insieme alle ciminiere, oggi nel panorama urbano ci sono anche i giganteschi capannoni che coprono finalmente i “parchi minerari” dello stabilimento: sono i depositi di ferro e di carbone a cielo aperto che disperdevano polveri tossiche, tanto che nei giorni di vento bisognava chiudere le scuole del vicino quartiere Tamburi. Ora le polveri in aria sono diminuite (non eliminate, perché i capannoni sono aperti di lato). Ma nel terreno e nelle falde idriche, o nei fondali del Mar Piccolo, restano le sostanze tossiche accumulate in decenni: metalli pesanti, diossine, pcb, idrocarburi policiclici aromatici. Delle bonifiche promesse ben poco è stato fatto.

Resta aperto anche l’interrogativo di fondo: si può riconvertire lo stabilimento, “decarbonizzare” la produzione di acciaio? La nuova società Acciaierie d’Italia in dicembre ha annunciato, per bocca del suo amministratore delegato Franco Bernabè, che gli altoforni lasceranno il posto a forni elettrici con un piano graduale da attuare in dieci anni, passando dal carbone al gas e poi all’idrogeno. “Ma è un annuncio ancora vago, nulla di scritto”, osserva Giuseppe Romano: con quale energia si alimenterà lo stabilimento, quanti lavoratori occuperà? “Stiamo aspettando un vero e proprio piano industriale”.

Secondo gli accordi sottoscritti nel dicembre 2020 con Arcelor Mittal, in maggio Invitalia dovrebbe versare altri 680 milioni di euro nel capitale della società, diventando così l’azionista di maggioranza con il 60% della proprietà (oggi i due soci sono al 50 per cento). Ma già si parla di un rinvio. E la ragione sarebbe che sullo stabilimento gravano ancora diversi sequestri penali: avere gli impianti liberi da pendenze legali era una delle condizioni dell’accordo, insieme alla revisione dei piani industriali e delle prescrizioni ambientali. Il futuro delle acciaierie dunque resta sospeso. “Continua a mancare una strategia industriale a lungo termine”, insiste il segretario della Fiom: “E la cosa peggiore è l’incertezza”.

L’energia che galleggia

È difficile ignorare tutto questo, a Taranto. Così anche il progetto eolico, che pure è energia rinnovabile, è stato guardato con scetticismo. “Dopo tante promesse non mantenute, capisco che la città sia diffidente”, dice Lunetta Franco, presidente di Legambiente a Taranto: “Ma il parco eolico è un passo nella direzione giusta. Quelle pale in mare sono un segno di cambiamento”. (…)

https://www.terraterraonline.org/blog/lenergia-del-vento-arriva-a-taranto/

giovedì 28 aprile 2022

OMS. La salute globale che piace ai ricchi - Erika Bussetti

Profitti con la beneficenza

I privati dentro l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quanto finanziano e cosa finanziano? Che potere decisionale hanno all’interno dell’Agenzia? Perché danno denaro all’OMS? Data journalism: leggiamo i numeri

Nel 1948 entra in funzione l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, o WHO, World Health Organization), l’agenzia dell’ONU che, secondo il suo Statuto, ha come obiettivo principale il raggiungimento del più alto livello di salute possibile da parte di tutte le popolazioni mondiali, indipendentemente da razza, religione, credo politico, condizione economica e sociale. Ha sede a Ginevra e ne fanno parte 194 Stati. Attualmente è guidata dall’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. Le macro aree su cui lavora riguardano il rafforzamento della copertura sanitaria universale, la prevenzione e l’intervento in caso di emergenze sanitarie e, più in generale, il raggiungimento di salute e benessere fisico, mentale e sociale a livello globale.

La pandemia da Covid-19 ha portato alla ribalta del discorso politico, internazionale e non solo italiano, il tema della sanità: smantellata e svenduta ai privati negli ultimi decenni di neoliberismo, si discute di come debba tornare a essere pubblica ed efficiente, con investimenti nei servizi sanitari nazionali. L’OMS è un’istituzione pubblica di diritto internazionale: a rigor di logica, visto anche il peso della sua voce, nel bene e nel male, in caso di emergenze sanitarie, dovrebbe essere finanziata dagli Stati stessi. Al contrario, sta in piedi grazie ai soldi di realtà private. Quel che occorre capire è quale potere decisionale hanno queste ultime all’interno dell’agenzia e perché danno denaro all’OMS. Beneficenza? Non sembra proprio. Leggiamo i numeri.

 

OMS: come si finanzia

L’OMS si sostiene in base a due principali tipi di finanziamenti: i predefiniti, detti “assessed”, e i “volontari”. I primi, che potremmo chiamare anche ‘quote di adesione’, sono quelli con cui ogni Paese membro partecipa sulla base del proprio Pil; i secondi possono provenire sempre dagli Stati, in aggiunta al loro contributo dovuto, ma anche da altri partner, come organizzazioni intergovernative, fondazioni filantropiche, realtà private o misto pubblico/privato... 

mercoledì 27 aprile 2022

Il riscaldamento del clima nuoce alla vostra salute - Marina Forti

 

 

Di questo tratta un rapporto pubblicato dall’Istituto superiore di sanità, dedicato al nesso tra la salute e il clima. È un documento allarmante, perché descrive un’Italia assai vulnerabile al cambiamento del clima e alle sue ripercussioni; ma è anche un documento che indica soluzioni possibili. Il titolo è “Mitigazione del cambiamento climatico e prevenzione sanitaria in Italia: la politica dei co-benefici” (pubblicato il 3 novembre 2021, è online sul sito dell’Istituto superiore di Sanità).

L’Italia è particolarmente esposta al riscaldamento globale del clima. Qui è ormai superata la soglia di 1,5 gradi centigradi di aumento della temperatura media globale, indicata come linea rossa dalle conferenze dell’Onu sul clima. Secondo dati diffusi il 10 novembre dall’Istituto superiore di protezione e ricerca ambientale (Ispra), in Italia nel 2020 la temperatura media ha superato di 1,54 gradi centigradi quella del periodo 1961-1990, con picchi di 2,88 gradi in febbraio. Ed è un trend ormai stabile.

Per misurare quanto siamo esposti al cambiamento climatico, il rapporto dell’Istituto superiore di sanità usa alcuni indicatori, ripresi da una ricerca internazionale pubblicata da Lancet Countdown  alla vigilia della Conferenza mondiale sul clima di Glasgow.

Un indicatore sono i picchi di temperatura: nell’ultimo decennio l’Italia ha visto ondate di calore più intense, prolungate e frequenti rispetto al periodo 1985-2005. Per la popolazione sopra ai 65 anni ciò peggiora patologie preesistenti, soprattutto cardiovascolari e respiratorie. Il rapporto stima che il 2,3 per cento dei decessi registrati in un anno (il 2015), sia dovuto proprio alle ondate di calore. Un altro indicatore: tra il 1950 e il 2020 è raddoppiata la superfice di territorio affetta da siccità per oltre un mese l’anno, con ripercussioni sulla disponibilità di acqua potabile oltre che sull’agricoltura.

“Abbiamo individuato tre grandi aree in cui l’azione è urgente”, spiega Marco Martuzzi, direttore del dipartimento ambiente e salute dell’Istituto superiore di sanità (e uno dei curatori del rapporto): i trasporti, la produzione di energia, l’agricoltura e allevamento. Sono le grandi fonti di gas di serra che alterano il clima, “e sono le aree in cui ridurre le emissioni porterà grandi miglioramenti per la salute di tutti”.

Le misure prese dall’Italia per tagliare le emissioni però sono insufficienti, e questo è un altro indicatore da considerare. I combustibili fossili restano dominanti, anche perché continuano a ricevere sovvenzioni pubbliche; nei trasporti ad esempio, il 96 per cento dell’energia usata per i veicoli su strada è fossile. L’obiettivo di “de-carbonizzare” l’economia è lontano. Questo pesa anche sull’inquinamento dell’aria, e quindi sulla salute dei cittadini: l’Italia è il secondo paese in Europa, dopo la Germania, per numero di morti attribuite alla presenza di polveri sottili nell’aria (il particolato PM 2,5), secondo dati del 2019.

L’inquinamento atmosferico illustra bene la relazione tra salute e clima e anche i “co-benefici” a cui allude l’Istituto superiore di sanità. Tra i fattori di rischio per la salute, la qualità dell’aria è quella su cui abbiamo le evidenze più chiare, osserva Paola Michelozzi, dirigente del Dipartimento di epidemiologia della Regione Lazio e coautrice della ricerca pubblicata dal Iss.

Prendiamo ad esempio le polveri sottili. Nel settembre scorso l’Organizzazione mondiale della sanità ha dimezzato il limite suggerito per il PM 2,5 da 10 a 5 microgrammi per metro cubo (anche se l’Unione europea mantiene la sua norma a 25 microgrammi). “Sappiamo che in Italia la concentrazione media di queste polveri è di 16 microgrammi per metro cubo”, fa notare Carla Ancona, ricercatrice del Dipartimento di epidemiologia del Lazio e coordinatrice della Rete italiana ambiente e salute (Rias). “Ma nelle città della pianura padana la media sale a 20 microgrammi, con picchi fino a 28, perché qui c’è la maggiore densità urbana e di impianti industriali, e condizioni meteorologiche che favoriscono l’accumulo nello strato basso dell’atmosfera”. L’inquinamento dell’aria si traduce in malattie e morti premature,  stimate con metodologia ormai consolidata. Il Dipartimento di epidemiologia del Lazio stima che al PM 2,5 si debbano quasi 51 mila decessi in più ogni anno in Italia, di cui oltre 30 mila nelle regioni del nord. “Ovvero, se fosse rispettata quella soglia di 5 microgrammi per metro cubo avremmo l’8 per cento di decessi in meno”, sottolinea Michelozzi.

“Il cambiamento deve partire proprio dalle città”, dice Carla Ancona. Qui vive il 70 per cento della popolazione italiana, intrappolata tra cemento, scarichi di auto, riscaldamento e impianti industriali. Aumentare gli spazi di verde pubblico e diminuire le auto potrebbe attenuare le “isole di calore” urbano e insieme permettere ai cittadini di respirare e fare attività fisica.

Il messaggio è chiaro: dalla pianificazione urbana ai trasporti, dalla produzione di energia al cibo, “de-carbonizzare” la nostra economia farebbe un gran bene alla salute generale.

(Questo articolo è uscito su L’Essenziale del 20 novembre 2021. Nella foto, una veduta di Taranto con l’acciaieria)


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martedì 26 aprile 2022

La lenta agonia del fiume Lempa - Gato Encerrado ed Ernesto Amaya

 

 

Tratto da Revista Gato Encerrado 
Originali:     |   2  


Ogni studio scientifico condotto sulla qualità dell'acqua in El Salvador conclude che è sempre meno adatta al consumo umano. In alcuni casi, non è nemmeno adatto per uso ricreativo, irrigazione di colture o mantenimento in vita di specie acquatiche. Quello che succede all'acqua dei salvadoregni fa parte della crisi climatica che i decisori lasciano fuori dalla loro agenda di priorità.

24% Dei fiumi di El Salvador, presentano un indice dell'acqua che è di livello "cattivo" o "pessimo", secondo il rapporto sulla qualità dell'acqua del Ministero dell'Ambiente e delle Risorse Naturali (MAR) 2019. Vale a dire, quella percentuale proviene dai fiumi già morti che non possono sostenere la vita e che se qualcuno dovesse dar loro un uso domestico, potrebbe mettere a rischio la loro salute.

14 % - I fiumi presentavano una qualità "buona" o adatta alla vita e all'uso umano. Ma questa percentuale di acqua "buona" sta diventando sempre più piccola. Nel rapporto presentato 4 anni prima, la percentuale era del 16%. In una versione più aggiornata del rapporto, nel 2020, tali categorie e percentuali vengono modificate al momento delle conclusioni, e il MARN si limita ad indicarle come "zone di mantenimento per il graduale recupero della qualità delle acque e la tutela della vita acquatica".

Tra i fiumi inquinati quello che più preoccupa è il Lempa. Più di quattro milioni di salvadoregni dipendono dalle sue acque, direttamente o indirettamente, compresi coloro che leggono questo speciale di GatoEncerrado.

Nel suo percorso di 17.926 chilometri quadrati, a partire dalle montagne dell'Olopa, in Guatemala, dove nasce, alla pianura costiera dell'Oceano Pacifico, in El Salvador, non c'è un solo punto in cui l'acqua del Lempa presenti un qualità per qualsiasi uso umano, nemmeno attraverso un processo di decontaminazione con metodi convenzionali, secondo il rapporto MARN 2020.

Una delle principali minacce di contaminazione dei Lempa è l'attività mineraria nella zona di confine del Guatemala. Non è l'unico, ma è uno dei primi a comparire nel bacino superiore. GatoEncerrado si è recato in Guatemala per capire come si verifica questa contaminazione e ha scoperto che il problema promette solo di peggiorare.

Ci sono 8 progetti minerari nella zona. Uno di questi è Cerro Blanco, che ha avviato una delle forme più inquinanti di estrazione mineraria esistente: la ricerca di metalli preziosi a cielo aperto.

La parte più inquinante dell'estrazione a cielo aperto è la lisciviazione, che è il processo attraverso il quale viene estratto l'oro. Per ottenere ciò, è necessario rimuovere l'oro puro dalle rocce attraverso bagni chimici, utilizzando sostanze come il cianuro.

Bastano solo 50 milligrammi di cianuro per rendere incosciente un adulto e causare un arresto respiratorio. Questi bagni chimici saranno realizzati in grandi piscine con tonnellate di pietrisco per estrarre l'oro. E il residuo di questo finirà nei fiumi che si collegano al Lago Guija e tramite collegamento al fiume Lempa. Poi ai salvadoregni che dipendono dal fiume.

50 milligrammi di cianuro sono sufficienti per rendere incosciente un adulto e causare l'arresto respiratorio. Dalla sfera politica non c'è nemmeno la volontà di parlarne. L'attuale amministrazione di Nayib Bukele, e in particolare il suo ministro dell'Ambiente, Fernando López, e il ministro degli Esteri Alexandra Hill Tinoco, si sono rifiutati di commentare la questione quando GatoEncerrado li ha cercati. Anche le organizzazioni della società civile hanno cercato di parlare con i funzionari del problema, ma non sono state ascoltate.

Questo speciale è destinato ad essere aggiornato ogni volta che GatoEncerrado finisce di indagare e segnalare le altre minacce che deve affrontare il fiume Lempa.


Nessuno vuole affrontare il problema della contaminazione del fiume Lempa

di Ernesto Amaya

Il pericolo di inquinamento che minaccia il fiume Lempa si aggrava sempre più. La miniera di Cerro Blanco prevede di effettuare attività estrattiva a cielo aperto per tutto l'anno corrente e nessuna delle autorità di El Salvador e Guatemala è interessata a intervenire per prevenire un'ulteriore contaminazione del Lempa. Il Guatemala, secondo le organizzazioni che hanno cercato di richiamare l'attenzione, difende il suo diritto di Stato sovrano nel consentire lo sfruttamento del sottosuolo nelle aree vicine al confine con El Salvador. E le autorità salvadoregne non hanno all'ordine del giorno di affrontare la questione.

Più di quattro milioni di salvadoregni dipendono dal fiume Lempa, direttamente o indirettamente. Il fiume fornisce il 55% del territorio salvadoregno, sebbene abbia origine in Guatemala, e consente al 37% delle famiglie nell'area metropolitana di San Salvador di avere acqua potabile. Diversi studi e rapporti concludono che la vita in El Salvador sarebbe impossibile senza il Lempa. L'importanza di questo fiume, tuttavia, non è una priorità per le autorità salvadoregne, né per quelle guatemalteche, nonostante i progetti minerari che minacciano di contaminare le acque del fiume.

Le rappresentanze diplomatiche di El Salvador e Guatemala continuano a ignorare gli impatti ambientali di questi progetti minerari. Ma, nel periodo tra il 2010 e il 2013, la Procuraduría Para la Defensa de los Derechos Humanos (PDDH) ha fatto i primi passi con la sua controparte guatemalteca e altre organizzazioni internazionali, per cercare di mettere la questione sul tavolo. Agli 11 incontri che si sono svolti hanno partecipato membri di governi locali ed esteri.

“In questo momento viene attivata la Procura Generale che dà il seguito coinseguente. Si tengono vari incontri. Si incontra con l'Ufficio del Vice Procuratore Generale del Guatemala, si incontrano diverse organizzazioni centroamericane e regionali e si raggiungono accordi affinché, facendo capire allo Stato del Guatemala l'importanza del caso, il bacino di confine tra Guatemala ed El Salvador sia protetto", ha detto a Gato Encerrado José David Sandoval, procuratore aggiunto per l'ambiente dell'ufficio del procuratore salvadoregno.

Nonostante gli accordi, non ci sono stati risultati. L'obiettivo finale, che il Guatemala vietasse l'estrazione di metalli nel suo territorio per evitare di inquinare le acque di El Salvador, non è stato raggiunto. La storia recente registra che prima di questi sforzi c'era un precedente nel 1987. I governi di El Salvador e Guatemala, nel bel mezzo dei loro conflitti armati, firmarono un accordo di cooperazione con l'Honduras con l'Organizzazione degli Stati americani (OAS) a fare da garante. Era la Dichiarazione della Riserva della Biosfera La Fraternidad, che mirava a preservare le risorse idriche che alimentano il bacino superiore del fiume Lempa, nonché le sue risorse forestali, che sono condizione essenziale per il mantenimento delle risorse idriche.

Questi accordi hanno posto le basi per il futuro consolidamento dell'area trinazionale e della cooperazione transfrontaliera, che si è concretizzata nel 1997, con i paesi già in transizione verso una nuova fase democratica, nel "Piano Trifinio", dove si è arrivati ad unificare i 7.541 chilometri quadrati e 45 comuni dei tre paesi in un'unica unità ecologica indivisibile. Ventiquattro anni dopo, questi accordi sono stati gradualmente violati dall'installazione di progetti come Cerro Blanco.

Per Ángel Ibarra, ex viceministro dell'Ambiente sotto la presidenza di Salvador Sánchez Cerén, il Guatemala non ha mai accettato di parlarne. “Oggi credo che la dinamica degli incontri bilaterali con il Guatemala sia andata perduta, ma nell'amministrazione di Salvador Sánchez Cerén una volta è apparso l'argomento ma il Guatemala si è sempre rifiutato di parlarne. Sostengono la tesi della sovranità del bacino; cioè, sono sovrani nell'ambito del loro territorio nazionale. Quindi, parlare di gestione condivisa di un bacino transnazionale è come chiedere "un pezzo di luna", ha dichiarato Ibarra.

Attualmente la situazione diplomatica è in stand-by, mentre la minaccia dell'attività di estrazione di metalli è alle porte del Lempa. Anche il governo di Nayib Bukele, come d'altra parte i precedenti, non è interessato a risolvere il problema delle acque transfrontaliere.


La versione del Guatemala

Leocadio Jucuarán, che è stato deputato del parlamento guatemalteco per il partito Convergencia por la Revolución Democrática - partito contadino-indigeno - nel periodo 2015-2019 ha dichiarato a Gato Encerrado di appartenere alla Commissione legislativa straordinaria delle risorse idriche del Guatemala, dove non ci sono stati progressi nei colloqui bilaterali tenuti da entrambi i paesi per risolvere la questione del Cerro Blanco o dell'inquinamento transfrontaliero in generale.

L'unico incontro su larga scala si è svolto nella Sala del Popolo del Congresso della Repubblica, nel giugno 2016, dove sono state discusse questioni relative a progetti che minacciavano di causare gravi danni ambientali, tra cui il caso della miniera del Cerro Blanco. All'incontro erano presenti rappresentanti del Ministero dell'Ambiente e delle risorse naturali, del Ministero dell'Energia e delle Miniere, dell'Ufficio del difensore civico per i diritti umani del Guatemala e altri membri del parlamento che avevano all'ordine del giorno questioni ambientali.

Durante l'incontro, ha ricordato Jucuarán, è stato appena possibile commentare la situazione di contaminazione già causata dalle esplorazioni minerarie nel fiume Ostúa e nel lago Güija, con la vaga promessa di fare una visita in loco ad Asunción Mita, così come altri incontri con i rappresentanti della controparte salvadoregna.

"In El Salvador, ciò che abbiamo fatto è stato conoscere il contesto dei popoli, come tutto ciò poteva colpire i guatemaltechi, ma principalmente i salvadoregni e gli honduregni, soprattutto a causa della questione dei fiumi e delle acque che consumano", ha affermato l'ex deputato guatemalteco a proposito della visita in loco avvenuta dopo l'incontro.

Dopo quell'incontro e la suddetta visita, i colloqui bilaterali sono diventati sempre più sporadici. Prima semestrali e poi annuali, fino al completo abbandono.

Durante il periodo in cui si sono svolti questi incontri, il ministro dell'Energia e delle Miniere era Erick Archila, membro del gabinetto dell'ex presidente Otto Pérez Molina, che era già segnalato per casi di corruzione. Era accusato di aver gestito una struttura che concedeva vantaggi economici illeciti a società private. Tra questi vantaggi c'era l'autorizzazione di diverse licenze di esplorazione e sfruttamento minerario in cui non era specificato il vero impatto ambientale. Archila arrivò a ricevere 477 mila dollari in tangenti di questo tipo.

Malgrado finora non sia stato scoperto alcun caso di corruzione direttamente legato alla concussione, Cerrto Blanco faceva parte dei permessi rilasciati durante il periodo Archila. Ed è stato anche sottolineato dagli esperti che lo studio di impatto ambientale era fraudolento perché ometteva informazioni rilevanti.

La geochimica e idrologa Dina López indicò nel suo studio di impatto ambientale, nel 2010, “che la licenza di sfruttamento concessa a Entremares de Guatemala, S.A. doveva essere riconsiderata. (miniera di Cerro Blanco) a causa di difetti nello studio di impatto ambientale, fino a quando non ci sarà una legge mineraria in Guatemala ed El Salvador che copra i rischi associati ai giacimenti minerari situati in giacimenti geotermici attivi”.

Sette anni dopo lo studio di López, nel 2017, è stata approvata la legge per la proibizione dell'estrazione di metalli in El Salvador: tra i vari motivi, per la pressione sociale dovuta alla causa contro la compagnia mineraria Pacific Rim che lo stato salvadoregno stava portando avanti in quel momento, e per poter avere a livello internazionale la possibilità di chiedere a governi come quello guatemalteco di applicare una legge simile sul suo territorio. Il Guatemala non ha ancora approvato una legge che vieti l'estrazione di metalli preziosi.

Per Jucuarán, l'attuale panorama politico, dopo le elezioni del 2019 e l'ascesa al potere di Alejandro Giammattei, del Partito Conservatore "Vamos Per un Guatemala Diverso", è scoraggiante. Giammattei non ha alcun reale interesse a prevenire i disastri ecologici che le sue attività estrattive possono avere sulle comunità più povere del Guatemala. Al contrario, il suo governo è pro-minerario.

Attualmente, il parlamento guatemalteco è simile a quello che aveva El Salvador prima di Bukele. Un esecutivo il cui partito ufficiale, Vamos, pur avendo solo 17 seggi su 160, è riuscito a formare un blocco maggioritario insieme agli altri partiti di destra. Una posizione di potere che favorisce le aziende interessate ad ottenere concessioni per megaprogetti, come Bluestone Resources con il suo progetto Cerro Blanco.

"Purtroppo in Guatemala abbiamo un governo che parla di sovranità, non di proteggere i beni, non di proteggere gli interessi della popolazione in generale, ma piuttosto di autonomia in modo che non ci siano limiti nella consegna dei nostri beni alle transnazionali", ha dichiarato Jucuarán a GatoEncerrado.


I ministri di Bukele si smarcano dal tema

A fine aprile di quest'anno, il Collettivo Madre Selva de Guatemala ha lanciato un'allerta ambientale su una possibile consultazione nelle comunità intorno a ​​Cerro Blanco per autorizzare la riattivazione mineraria nell'area, ma ora con un progetto minerario a cielo aperto.

Immediatamente, la reazione dei gruppi ambientalisti salvadoregni è stata quella di contattare le nuove autorità affinché riprendessero la questione. La Rete Centroamericana per la Difesa delle Acque Transfrontaliere ha inviato una lettera al Ministro degli Esteri Alexandra Hill Tinoco, informando il governo del presidente Bukele dell'urgenza di affrontare la questione prima che venissero attivati ​​gli altri progetti minerari in corso, ancora in fase di esplorazione. Solo al confine con il Guatemala è stata confermata l'esistenza di otto progetti minerari. La risposta a questa lettera è stata il silenzio.

GatoEncerrado ha provato a dialogare, in diverse occasioni, con il ministro dell'Ambiente e delle risorse naturali, Fernando López, e con il ministro degli Esteri Hill Tinoco, ma non è stato possibile. Il 21 maggio, durante la presentazione della nuova proposta di legge ambientale all'Assemblea legislativa, si è cercato di parlare con il ministro López della situazione a Cerro Blanco, ma il funzionario ha semplicemente ignorato le domande. Stessa cosa quando si è cercato il ministro in occasione della sua apparizione all'Assemblea Nacional per consegnare il suo rapporto di lavoro di due anni di governo: la storia si è ripetuta.

Luis González, dell'Unità ecologica salvadoregna (UNES) afferma che dopo aver chiesto incontri al Tavolo Permanente Contro l'Estrazione dei Metalli e non aver ricevuto risposte, l'unica opzione rimasta è stata di proporre la questione al Parlamento Centroamericano (PARLACEN).

“C'è già una proposta per una lettera presentata e un impegno da parte dei deputati del PARLACEN di affrontare la questione in parlamento. I deputati del PCN e di Nuevas Ideas, in un forum pubblico, hanno promesso di riprendere la questione", ha affermato González.

Sebbene González riconosca che il PARLACEN è stato un elefante bianco in materia di politica regionale, poiché tutte le sue risoluzioni non sono vincolanti, ritiene che sia interessante discutere lì la proposta di trattato e poi che venga trasmessa ai parlamenti nazionali.

David Pereira, del CEICOM (Centro de Investigación sobre Inversión y Comercio), ha affermato che la continua omissione di questo tema da parte dello Stato salvadoregno potrebbe innescare una serie di richieste internazionali da parte delle comunità colpite. Ciò, a sua volta, darebbe inizio a un'inutile escalation dei conflitti tra le nazioni.

“Prima di questo governo, Hugo Martínez (ex ministro degli Esteri) ha ricevuto una proposta per le acque transfrontaliere, che consideriamo un modo per evitare futuri conflitti tra i nostri Paesi, le comunità e lo Stato salvadoregno, per la violazione dei diritti umani fondamentali che tutto ciò potrebbe provocare (...) Infatti ciò potrebbe portare denunce da parte delle comunità contro lo Stato, sia nei tribunali nazionali che internazionali. Poiché il responsabile di questa contaminazione non è il governo salvadoregno, ma quello guatemalteco, il primo potrebbe finire per citare in giudizio il secondo. Questo può generare conflitti seri”, ha dichiarato Pereira.


* Traduzione di Giada Ferrucci

https://ecor.network/articoli/la-lenta-agonia-del-fiume-lempa/

lunedì 25 aprile 2022

IPCC …Io Posso Cambiare le Cose

 

(a cura di Cinzia Picchioni)


Ovviamente l’acronimo IPCC del titolo ha un altro svolgimento, come forse sappiamo; significa  Intergovernmental Panel on Climate Change ed è il nome del principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici1. E mi sono divertita a cambiare l’uso delle lettere seguendo il pensiero di Jonathan Safran Foer e del suo ultimo libro, Possiamo salvare il mondo prima di cena. Sia Foer sia l’IPCC sostengono tesi simili. Ecco alcune parole tratte dall’ultimo Rapporto, testé uscito, stilato dall’IPCC:

«Quindi, quali soluzioni abbiamo a disposizione per ridurre le emissioni e rimuovere il carbonio in eccesso? “L’unico gas a effetto serra che può essere assorbito in modo efficace è la CO2. Per farlo, vi sono due metodi principali: usare e stimolare la natura ad assorbire di più o migliorare e sviluppare la tecnologia in grado di farlo al posto suo”, spiega Maria Vincenza Chiriacò, ricercatrice del CMCC. “Le soluzioni basate sull’uso e la gestione del suolo sono particolarmente attraenti per il loro potenziale di ridurre le emissioni, favorire la rimozione del carbonio dall’atmosfera e allo stesso tempo produrre anche molteplici benefici climatici e ambientali”.

[…] “se si considera che il 24% delle emissioni climalteranti proviene dal settore agro-forestale – cifra che arriva al 37% se si include l’intera filiera della produzione alimentare – è chiaro che una delle soluzioni chiave per raggiungere lo zero netto deve coinvolgere l’uso del suolo”, afferma Lucia Perugini. […] Le soluzioni basate sulla gestione del suolo includono opzioni di mitigazione come limitare la deforestazione (che da sola contribuisce a circa l’11% delle emissioni totali), aumentare la produttività delle colture, ma anche il cambiamento dei nostri comportamenti, ad esempio riducendo quelli a maggiore impatto, come il consumo di carne rossa. […]”, continua Perugini. [Fontehttps://ipccitalia.cmcc.it/net-zero-emissioni/].

Ecco le affinità IPCC/Foer! Entrambi suggeriscono – con più o meno allarmismi, secondo me sempre troppo poco urgenti – di ridurre il consumo di carni/animali (Foer parla «di origine animale», potendo così riunire in un’unica categoria carne+latticini+pesci). E sia l’IPCC sia Foer motivano i loro suggerimenti con valanghe di dati, rintracciabili nel Rapporto IPCC e nel libro citato, la cui recensione sarebbe stata troppo lunga; ragion per cui state leggendo questo articolo come se fosse l’approfondimento e la prosecuzione della recensione (che comunque si trova qui di seguito).

Possiamo salvare il mondo prima di cena


Come recensione era troppo lunga

I tempi (e gli spazi, ahimè) del web sono più tiranni dei tiranni. Ed ecco che per poter condividere appieno il piacere (e il sapere) derivato dal libro Possiamo salvare il mondo prima di cena (di Jonathan Safran Foer)ho deciso di aggiungere alla recensione questi brani, trascelti nelle sue pagine (che ho indicato, così li trovate subito) mentre lo leggevo – tutto, completamente – per recensirlo a dovere. Buona lettura, o continuazione di lettura, se avete già valutato interessante la recensione in questa stesso «sito».

Presidenti
Al Gore, il ritorno

«Le modalità con cui affrontiamo la crisi del pianeta non funzionano. Al Gore merita il suo premio Nobel, ma il cambiamento che ha ispirato non basta neanche lontanamente – lui stesso l’ha ammesso senza esitazioni in Una scomoda verità 2. Le organizzazioni ambientaliste meritano il nostro sostegno, ma neppure i loro risultati si avvicinano alla sufficienza. Chi sa come stanno le cose ed è disposto ad ammettere la verità più scomoda, concorderà che stiamo facendo di gran lunga troppo poco e troppo lentamente, e che proseguendo di questo passo andremo dritti verso la nostra stessa distruzione. […]

L’obiettivo dell’Accordo di Parigi, ovvero contenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, è considerato un traguardo ambizioso, ma in realtà significherebbe fermarsi sull’orlo del baratro. Quand’anche fossimo miracolosamente in grado di raggiungerlo – in base a recenti modelli statistici abbiamo una probabilità del 5 percento – vivremo in un mondo molto meno ospitale di quello che conosciamo e molti dei cambiamenti in corso saranno nella migliore delle ipotesi irreversibili, mentre nella peggiore si aggraveranno ulteriormente», p. 69.

«C’è una forma di negazione della scienza ben più pericolosa di quella di Trump: la negazione che si traveste da sostegno. Chi tra noi sa che cosa sta succedendo ma fa troppo poco, merita molta più rabbia. Dovremmo essere terrorizzati da noi stessi. Siamo noi quelli contro cui ribellarsi. Riconoscere se stessi non significa sempre avere coscienza di sé, dicono i critici dei test allo specchio. Sono io la persona che sta mettendo in pericolo i miei figli», p. 136.

Figli
Contestatori

«L’espressione “ipotecare il futuro dei nostri figli” è stata usata in moltissimi contesti […]. Qualcuno pagherà per le nostre scelte, lo sappiamo senza crederci. Stiamo anche ipotecando il futuro dei nostri figli con stili  di vita che in futuro creeranno catastrofi ambientali. In effetti, ventuno giovani hanno intentato una “azione legale costituzionale sul clima” contro il governo federale, sostenendo che “attraverso misure legislative che agevolano il mutamento climatico, il governo ha violato i diritti costituzionali delle giovani generazioni alla vita, alla libertà e alla proprietà, oltre a essere venuto meno al dovere di proteggere risorse pubbliche essenziali”. L’amministrazione Trump ha cercato di ottenere l’archiviazione, ma la Corte suprema ha deliberato all’unanimità a favore dei giovani querelanti, permettendo che la causa vada avanti», pp. 138-139.

Noi stessi
Quando ci chiederanno…

«La crisi ambientale, pur essendo un’esperienza universale, non ci dà la sensazione di un evento di cui facciamo parte. Anzi, non ci dà proprio la sensazione di essere un evento. E per quanto traumatici possano essere un uragano, un incendio indomabile, una carestia o l’estinzione di una specie, è improbabile che un evento meteorologico susciti un “Dov’eri quando…?” […]. è solo il clima. Solo l’ambiente. Quasi certamente però le generazioni future guarderanno in retrospettiva e si chiederanno dove eravamo in senso biblico: dov’eravamo come individui? Quali decisioni ci ha suscitato la crisi? Per quale ragione al mondo abbiamo scelto di suicidarci e di sacrificare loro? Forse potremmo sostenere che non eravamo noi a decidere […] non c’era niente che potessimo fare. […] non sapevamo abbastanza. […] non avevamo i mezzi per mettere in atto cambiamenti davvero incisivi. Non gestivamo le compagnie petrolifere […]

La capacità di salvarci e di salvarli non era nelle nostre mani. Ma sarebbe una bugia. […] Rispetto ai cambiamenti climatici abbiamo fatto affidamento su informazioni pericolosamente scorrette. Abbiamo concentrato la nostra attenzione sui combustibili fossili, ma questo ci ha fornito un quadro incompleto della crisi del pianeta […] Sappiamo che dobbiamo fare qualcosa, ma l’espressione dobbiamo fare qualcosa di solito è una dichiarazione di incapacità o quantomeno di incertezza. Se non identifichiamo quello che dobbiamo fare, non possiamo decidere di farlo. […] il quadro si chiarirà sèpiegando il nesso tra allevamento e cambiamenti climatici. Ho sintetizzato quello che avrebbe potuto essere un testo di centinaia di pagine in una manciata di fatti di maggior rilievo», pp. 82-83.

Bisnonni
Pronipoti

«I miei bisnonni vivevano in una casa di legno senza l’acqua corrente e quando faceva freddo dormivano sul pavimento della cucina, accanto alla stufa. Non sarebbero mai riusciti a credere alle cose che possiedo: una macchina che guido per comodità più che per necessità, una dispensa piena di cibi importati da ogni angolo del pianeta, una casa con stanze che non vengono nemmeno usate tutti i giorni. E neppure i miei pronipoti ci crederanno. Anche se la loro incredulità avrà uno spirito diverso: come avete potuto vivere nel lusso per poi lasciarci un contro troppo salato da pagare – e quindi troppo esoso per sopravvivere», p. 140.

Scegliere
Decido ergo sum

«Il termine “decisione” deriva dal latino decid?re, che significa “tagliare via”. Quando decidiamo di spegnere le luci durante una guerra, ci rifiutiamo di spostarci in fondo all’autobus, […] solleviamo una macchina per liberare una persona intrappolata, facciamo strada a un’ambulanza, […] piantiamo un albero, ci mettiamo in coda per votare o consumiamo un pasto che riflette i nostri valori, stiamo anche decidendo di tagliare via i mondi possibili in cui non facciamo queste cose. Ogni decisione esige una perdita, non solo di quello che avremmo potuto fare, ma del mondo a cui la nostra azione alternativa avrebbe contribuito. Spesso quella perdita ci sembra così piccola da essere trascurabile; qualche volta ci sembra così grande da essere insopportabile.

[…] Siamo portati a definirci attraverso quello che abbiamo: proprietà, soldi, opinioni e like. Ma a rivelare chi siamo è quello a cui rinunciamo. I cambiamenti climatici rappresentano la più grande crisi che l’umanità si sia mai trovata davanti e si tratta di una crisi che saremo sempre chiamati a risolvere insieme e contemporaneamente ad affrontare da soli. Non possiamo mantenere il tipo di alimentazione cui siamo abituati e al tempo stesso mantenere il pianeta cui siamo abituati. Dobbiamo rinunciare ad alcune abitudini alimentari oppure rinunciare al pianeta. La scelta è questa, netta e drammatica. Dov’eri quando hai preso la tua decisione?», pp. 84-85.

Torri gemelle
Morte

«Il problema è che il nostro rapporto con il pianeta è un’esperienza ai confini della morte senza darci quell’impressione. Se riuscissimo a credere che il nostro pianeta è in pericolo, potremmo vederlo per quello che è. Forse è vero che se un miliardo di persone provassero l’effetto della veduta d’insieme, il modo in cui i terrestri pensano alla Terra e il modo in cui la trattano cambierebbero radicalmente […]. In totale si sono gettate dal Golden Gate più di sedicimila persone, e nel 98 percento dei casi il tuffo è stato letale. Tra i pochi sopravvissuti, tutti quelli che ne hanno parlato sostengono di essersi pentiti non appena si sono lasciati cadere. Forse la nostra specie farebbe un’esperienza simile. Kevin Hines aveva diciotto anni quando si tuffò. Se perdessimo il nostro pianeta, forse ognuno di noi penserebbe, come Hines, guardando il ponte sempre più lontano mentre cadeva: “Cos’ho fatto?”», pp. 150-151.

Ingiusti
Ingiustizia

«Il 10 percento più ricco della popolazione globale è responsabile di metà delle emissioni di anidride carbonica, mentre la metà più povera è responsabile per il 10 percento. E spesso i meno responsabili del riscaldamento globale sono quelli che ne pagano le conseguenze maggiori. Prendi il Bangladesh, il paese considerato più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Si stima che sei milioni di bengalesi siano già stati costretti a lasciare le proprie case a causa di disastri ambientali come mareggiate, cicloni tropicali, siccità e inondazioni, e si prevede che altri milioni dovranno spostarsi nei prossimi anni. L’innalzamento dei mari potrebbe sommergere circa un terzo del paese, sradicando venticinque-trenta milioni di persone», pp. 182-183.

[…] «Il Bangladesh ha una delle impronte di carbonio inferiori al mondo, vale a dire che è uno dei paesi meno responsabili per i disastri di cui è vittima. Il bengalese medio è responsabile di 0,29 tonnellate di emissioni di COall’anno, mentre un finlandese medio di trentotto volte tante: 11,15 tonnellate. Il Bangladesh, dove si consumano in media quattro chili di carne l’anno, è anche uno dei paesi più vegetariani al mondo. Nel 2028, il finlandese medio ha felicemente consumato quella quantità di carne in diciotto giorni – e senza considerare il pesce. Milioni di bengalesi pagano per uno stile di vita opulento di cui loro non hanno mai goduto.

[…] Più di ottocento milioni di persone al mondo sono denutrite e quasi seicentocinquanta milioni sono obese. Più di centocinquanta milioni di bambini sotto i cinque anni sono rachitici per malnutrizione. Ecco un’altra cifra su cui vale la pena di riflettere. Pensa se tutti gli abitanti di Gran Bretagna e Francia avessero meno di cinque anni e non avessero abbastanza da mangiare per crescere bene. Tre milioni di bambini sotto i cinque anni muoiono di denutrizione ogni anno. Durante l’Olocausto sono morti un milione e mezzo di bambini. La terra che potrebbe nutrire le popolazioni affamate viene invece riservata al bestiame che nutrirà popolazioni ipernutrite. Quando pensiamo allo spreco di cibo, dobbiamo smettere di immaginare pasti mangiati e metà e invece concentrarci sullo spreco creato per mettere il cibo nel piatto. Possono volerci fino a ventisei calorie di mangime perché un animale produca una sola caloria di carne.

Jean Ziegler, ex relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, ha scritto che destinare cento milioni di tonnellate di cereali e mais alla produzione di biocarburanti è un “crimine contro l’umanità”, in un mondo in cui quasi un miliardo di persone soffrono la fame. Potremmo definire quel crimine un “omicidio preterintenzionale”. Ma Ziegler non ha aggiunto che ogni anno l’allevamento destina una quantità sette volte maggiore di cereali e mais – sufficiente a sfamare tutte le persone denutrite del pianeta – all’allevamento di animali che diventeranno cibo per la popolazione ricca. Potremmo definire quel crimine un “genocidio”. Quindi no, l’allevamento intensivo non “nutre il mondo”. L’allevamento intensivo affama il mondo, e intanto lo distrugge», pp. 184-185.

Azioni
Giuste

«Possiamo provarci. Dobbiamo provarci. Quando si tratta di impegnarsi contro la distruzione della nostra stessa casa, la risposta non è mai o/o – è sempre sia/sia. Non possiamo più permetterci il lusso di scegliere le malattie contro cui provare a cercare un rimedio o i rimedi da tentare. Dobbiamo sforzarci di porre fine all’estrazione e alla combustione di carburanti fossili e investire nelle energie rinnovabili e riciclare e utilizzare materiali rinnovabili ed eliminare gli idrofluorocarburi nei refrigeranti e piantare alberi e sostenere l’introduzione di una carbon tax e cambiare i metodi di allevamento e ridurre lo spreco di cibo e ridurre il nostro consumo di origine animale. E tanto altro», p. 143.


Nota

1L’IPCC è stato istituito nel 1988 dalla World Meteorological Organization (WMO)e dallo United Nations Environment Programme (UNEP) allo scopo di fornire al mondo una visione chiara e scientificamente fondata dello stato attuale delle conoscenze sui cambiamenti climatici e sui loro potenziali impatti ambientali e socio-economici. […] L’IPCC esamina e valuta le più recenti informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche prodotte in tutto il mondo, e importanti per la comprensione dei cambiamenti climatici. […] Migliaia di ricercatori provenienti da tutto il mondo contribuiscono al lavoro dell’IPCC su base volontaria. Il processo di revisione è un elemento fondamentale delle procedure IPCC per assicurare una valutazione completa e obiettiva delle informazioni attualmente disponibili. L’IPCC aspira a riflettere una varietà di punti di vista e competenze diverse.

 

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domenica 24 aprile 2022

Servizi differenziati ai cittadini – Natale Cuccurese

 

Il Corriere del Veneto nell’edizione del primo aprile ci informa che i Lep (Livelli essenziali delle prestazioni) (mai definiti dalla modifica del Titolo V della Costituzione), grazie alla ministra di FI Gelmini ora “vanno in soffitta”. E purtroppo non è un pesce d’aprile…

Chi si richiama agli art. 116 e 117 della Costituzione per affermare che l’autonomia differenziata va realizzata, guarda caso dimentica sempre di dire che la definizione dei Lep attende dal 2001. Anche loro sono previsti (art. 117, comma 2, lett. m), ma evidentemente non risultano graditi perché troppo costosi all’Asse del Nord e pertanto vengono messi in “soffitta”. Ricordo che i Lep sono quei servizi e quelle prestazioni che lo Stato deve garantire in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale, in quanto consentono il pieno rispetto dei diritti sociali e civili dei cittadini. Non sono un aspetto secondario da mettere in “soffitta”, almeno se si pensa di vivere ancora nello stesso Paese. Va anche detto che servirebbero i Lup, cioè i “Livelli uguali delle prestazioni, per evitare in un futuro, che a questo punto appare remoto, che sia possibile il realizzarsi dell’ennesimo inganno, abbassando alla percentuale più bassa possibile gli ancora indefiniti Lep per potere così continuare nelle sperequazioni.
Si realizza, nel silenzio dei più, l’ennesimo scippo al Mezzogiorno, certificando il fatto che parlare di “razzismo di Stato” non è una forzatura, ma semplicemente una constatazione di una evidenza macroscopica.
Con questa ennesima forzatura chi ha avuto avrà sempre di più a danno di chi non ha mai avuto, e grazie al meccanismo della “spesa storica” (quel meccanismo per cui Reggio Emilia ha più di 60 asili e Reggio Calabria, con più abitanti, solo 6) continuerà a non ricevere.
Il fossato fra le due parti del Paese diventerà così sempre più profondo e a poco serve il risibile richiamo nell’articolo al 40% dei fondi del Pnrr destinati al Sud, dato che il Dipartimento Politiche Sviluppo, pochi giorni fa, a proposito dell’allocazione territoriale dei fondi Pnrr, ha comunicato che il 40% destinato al Sud è tutto da verificare, non è garantito e dipende dai bandi…
È doveroso a questo punto ricordare che l’Italia ha ricevuto la quota più alta di fondi del Pnrr (191,5 miliardi €) fra tutti i Paesi UE proprio per iniziare a recuperare l’enorme differenza territoriale fra Nord e Sud del Paese, caso unico in Europa. Secondo le indicazioni di Bruxelles, la quota da destinare al Sud doveva essere del 65% circa. Ma il Governo ha abbassato l’asticella al 40%. Peccato che dalla lettura del documento inviato dal governo alla Commissione UE si è verificato che la quota reale destinata è di circa il 16%.
Si certifica così (mentre larga parte dei politici del Sud stanno a guardare o sono complici) la fine di quanto previsto nella prima parte della Costituzione e cioè di cittadini italiani tutti con gli stessi diritti, in cambio di una “doppia cittadinanza”, di serie A al Nord e di serie B al Sud (così com’è in realtà da anni, ma adesso è addirittura ratificata) e il prossimo conseguente avvio della balcanizzazione del Paese non appena questa situazione, totalmente taciuta e mai divulgata dai media, diventerà un’evidenza per cittadini del Mezzogiorno con le tasche sempre più vuote.
Ma evidentemente va bene a molti, soprattutto ai territori dell’Asse del Nord, quelli della “Locomotiva”, e ai loro Governatori, Bonaccini, Fontana & Zaia, a cui è utile anche per poter proseguire sulla strada delle privatizzazioni. Esemplificativo il richiamo che troviamo su “L’Indipendente” del 2 di aprile che ci avvisa che con l’intramoenia la Sanità a pagamento si sta mangiando quella pubblica.
“In alcune aziende sanitarie locali le visite a pagamento hanno superato quelle effettuate attraverso il canale pubblico ordinario. Una situazione particolarmente grave in Lombardia (non a caso regione laboratorio nel processo di privatizzazione della Sanità italiana) al punto che la Regione ha deciso pochi giorni fa di intervenire per limitare il fenomeno, con l’assessore alla Sanità, Letizia Moratti, che ha affermato che l’intramoenia deve essere una libera scelta e non l’unica via per ottenere visite in tempi ragionevoli. Peccato che i buoi siano scappati dal recinto da un pezzo”.
Inutile dire che si evidenzia ancora una volta, come più volte ribadito anche dal “Laboratorio per la Riscossa del Sud”, come il Sud è senza rappresentanza. Un motivo in più per continuare tenacemente ad opporsi all’“autonomia differenziata” che, non a caso, sembra arrivare in dirittura d’arrivo proprio con il governo Draghi, il più classista, antimeridionale e favorevole alle privatizzazioni di tutta la storia della Repubblica.

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sabato 23 aprile 2022

L’automobilista e l’indigeno - Alessandro Ghebreigziabiher,

 

Secondo una recente analisi il virtuoso quanto necessario processo di assorbimento dell’anidride carbonica, da cui dipende la nostra sopravvivenza, è merito soprattutto delle foreste pluviali gestite e protette dalle comunità indigene in Sud America e nel resto del mondo. Di conseguenza, mettere a rischio queste ultime significa condannare a morte sicura il pianeta e tutti noi.


C’erano una volta, anzi ci sono ancora oggi, due caratteristici esseri umani.
Due creature approssimativamente simili e per decisive ragioni assai diverse.
Di comune, c’era presumibilmente l’esser nati e cresciuti alla ricerca della personale felicità e di quella dei propri cari, tra le altre cose.
Di ulteriormente prosaico, vi erano in ordine sparso il sottovalutato battito del cuore e la capacità di immaginare il futuro, il porsi domande sul passato e la paura dell’ignoto, l’inevitabile invecchiamento e il respiro, già. L’indispensabile danza comune a ogni vivente sul pianeta, in una naturale coreografia e in accordo a una sola, semplice partitura: ossigeno e carbonio, carbonio e ossigeno, e via così, l’uno in cambio dell’altro e viceversa.
D’altra parte, non v’è storia che tenga senza i nomi dei protagonisti.
Ebbene, i nostri potremmo chiamarli l’automobilista e l’indigeno.
Entrambi erano vivi per una ragione, a prescindere se ne fossero consapevoli o meno.
Spesso mi piace pensarla così la narrazione umana, affinché nessuno si senta banale comparsa.
Nondimeno, oltre ai peculiari motivi della rispettiva presenza nel racconto, i nostri avevano fatto nel corso della propria esistenza un numero enorme di scelte, di norma difficile da calcolare.
Difatti, molte rappresentano dettagli trascurabili del vivere quotidiano, ma alcune di esse, soprattutto nei momenti cruciali del proprio cammino, vengono scambiate per azioni scontate e ordinarie, mentre invece sono veri e propri tasselli di un sentiero sbagliato, che verrà percorso ahi loro anche da chi ci ascolta e ci imita senza discutere.
Ebbene, l’automobilista non solo si era fatto strenuo sostenitore  della costruzione di un’insensata strada chiusa su se stessa, ma aveva anche preso la folle decisione di trascorrere la maggior parte del proprio prezioso tempo percorrerla avanti e indietro, indietro e solo indietro, giacché avanti era un’illusione.
D’altronde, è calzante la metafora di qualcuno che di propria sponte finisca per cadere nella buca mortale da lui stesso ideata e realizzata.
Nello stesso tempo, anche l’indigeno era in viaggio, ma a differenza dell’altro aveva affrontato il proprio sentiero restando fermo.
Fermo accanto alla natura in pericolo, infondendole coraggio solidarietà.
Immobile vicino agli alberi e a tutte le meraviglie, traendo da esse energia perseveranza.
Resiliente, mano nella mano con i doni della terra, facendosi scudo per salvaguardarli dalla follia degli umani perduti.
D’altra parte, altrettanto a fagiolo capita la metafora di qualcuno che faccia la scelta più sensata e lungimirante trovandosi su un pianeta nel quale non è più di un ospite: sforzarsi con tutto se stesso di far pace con esso e costruire armonia con tutto ciò che vi ha trovato venendo alla luce.
C’erano una volta, quindi, due maschere che con più o meno precisione raffigurano sin dall’inizio dei tempi i ruoli principali a noi destinati nell’umano copione e, stranamente, c’è ancora un po’ di tempo per togliersi l’una e indossare l’altra prima che cali per sempre il sipario.
Affinché, come dice il noto detto, lo spettacolo vada avanti...

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