sabato 30 settembre 2023

Gli elefanti non conoscono confini - Alessandro Ghebreigziabiher

 

C’erano una volta gli elefanti.

Sì, verrà il giorno in cui ne parleremo così, al passato, come personaggi di una di quelle fiabe a cui ormai credono solo i bambini e i folli.
Se continua così, solo questi ultimi.
Magari ci sarà qualcuno che vi spiegherà che probabilmente non sono mai esistiti.
Che si tratta di un mito, ovvero di creature immaginarie come gli unicorni.
Il che mi induce a pensare che da qualche parte, nel passato ormai sepolto, ci sono stati per davvero dei cavalli con una strana e appuntita protuberanza sulla fronte.
Il punto è che ora siamo in quel preciso momento in cui la fantasia è ancora viva, anche se gravemente malata, se non morente.
La ritrovi talvolta in un articolo di giornale, nella solita foto che la dice tutta ma non a tutti, o in un video di pochi secondi che in ancor meno tempo viene magari sostituito da un tizio sospeso sul precipizio di un grattacielo o di qualcun altro che si getta nel vuoto alla disperata ricerca di clic. Ma si sa in cosa differiscono gli umani dagli animali, oggigiorno e forse da sempre: il valore della vita, ancora prima che il suo significato.
Ma si parlava di quei meravigliosi pachidermi, proverbiali per la memoria, e non so quanto ciò sia vantaggioso per noi altri.
In particolare, soffermiamoci per il tempo di una pagina finché siamo ancora in grado di farlo – ovvero di pensarli senza alcun dubbio sulla loro esistenza – sugli elefanti che in questi giorni si stanno spostando dallo Zimbabwe alla Botswana, in Africa meridionale.
In questa zona ci sono ancora centinaia di migliaia di esemplari. No, non mi piace questa parola. È troppo umana. Diciamo di pure esistenze, creature viventi, meraviglie di un pianeta particolarmente sfortunato nell’assegnazione di alcune specie, ovvero una.
In ogni caso, si parla della metà della totalità degli elefanti della Savana. Si legga pure come una ricchezza inestimabile, qualcosa di unico. In una parola sola, magico. Da cui l’incredulità sulla loro esistenza che proveranno in molti nell’incauto futuro che stiamo costruendo.
Ora, alcuni dei suddetti elefanti stanno facendo notizia nell’unico modo in cui, il più delle volte, ci accorgiamo della loro attuale esistenza: si arrendono, stramazzano al suolo e restano quasi immobili respirando a fatica, con il cuore che pian piano rallenta.
Prima di morire.
Ma perché hanno lasciato la terra d’origine? Perché hanno affrontato pericoli e stenti di ogni tipo transitando da una nazione all’altra? Le solite domande da bipedi ottusi, qualora non criminali.
Perché cercano cibo e acqua, la risposta più semplice. E, come ha commentato Tinashe Farawo, portavoce della Zimbabwe Parks and Wildlife Management Authoritygli elefanti non conoscono confini.
Ovvero, l’osservazione che banale non lo è affatto nella nostra assurda società...

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venerdì 29 settembre 2023

Educazione dell’India tra ecocentrismo, decrescita e nonviolenza.

 

Intervista a Gloria Germani, di Lorenzo Poli

Oltre ad essere punto di riferimento per la spiritualità orientale, l’India è conosciuta per le sue medicine tradizionali e il suo sistema d’educazione, chiamato gurukulam. La colonizzazione inglese fece “tabula rasa” delle antiche pedagogie indiane e impose il modello educativo occidentale. Dal XVIII secolo e nei successivi 200 anni di dominazione britannica dell’India, avvenne la soppressione dello studio e della pratica dei suoi sistemi educativi, ritenuti antiquati, superati e ridicoli. Solo nel XX secolo grazie all’avvento del movimento rivoluzionario nonviolento per l’indipendenza guidato dal Mahatma Gandhi, l’educazione indiana venne nuovamente portata alla ribalta e il suo sapere riconosciuto fondamentale all’interno del Paese. Di questo ne parliamo con Gloria Germani, ecofilosofa, attivista nonviolenta nei movimenti deep ecology, grande studiosa di Gandhi e tra gli eredi intellettuali del pensiero di Tiziano Terzani. Praticante della scuola induista dell’Avdaita Vedanta (Via della Non-dualità), per sette anni è stata attivista nelle scuole steineriane e dal 2017 al 2021 è stata funzionaria coordinatrice del Progetto Alice Universal Education School per un’educazione non-dualistica, ecocentrica ed olistica su cui ha scritto il libro “A scuola di felicità e decrescita: Alice project”[1] edito da Terra Nuova con prefazione di Sua Santità XIV Dalai Lama.

 

Come nascono e si diffondono i sistemi di educazione dell’India?

Innanzitutto grazie per  questa intervista su un tema che ritengo veramente fondamentale perché oggi  si dà  per scontata una sola ed unica educazione, mentre non è affatto così.  Credo infatti che  per guardare al nostro futuro sulla Terra sia assolutamente necessaria una pedagogia ecologica, come abbiamo forse avuto in passato e in altre civiltà. Sebbene gli inglesi l’avevano definita hinduism, come è noto la cultura dell’India definisce se stessa come Sanathana Dharma, la “legge, la via eterna”In questo ambito, anche interrogarsi riguardo alla sua origine, significa – come diceva Raimond Pannikar- rimanere prigionieri di una visione lineare del tempo  che oggi anche la fisica quantistica sconfessa, come anche i famosi libri di Carlo Rovelli.

La “Legge eterna” si fonda su ciò che i Rishi, gli antichi saggi, i veggenti, avevano visto ed udito riflettendo  sull’essenza della realtà. Queste verità si ritrovano condensate e trasmesse nei  quattro  Veda e  nelle Upanishad, testi trasmessi oralmente  che costituiscono  continue interpretazioni e reinterpretazioni. Il nome stesso Upanishad  significa  “sedersi vicino o ai piedi” del maestro, il cosiddetto guru: “Colui che dissolve le tenebre”. Gli ossessionati dalla storia collocano le più antiche delle oltre 108  Upanishad intorno al IX secolo a.C ( i.e. prima di Cristo, ma perché  questi riferimenti cosi autoreferenziali?)  ma probabilmente la loro storia è molto più antica se si pensa  che nella civiltà di Mohenjo- Daro ( metà del IV millennio a.C.) c’era già raffigurato  un  uomo in posizione yogica che medita. I giovani andavo a vivere nella casa del guru per un periodo di tempo considerevolmente lungo ( dai 10 ai 25 anni di età circa) . Imparavano da lui le verità delle Upanishad,  recitate  a memoria, il sanscrito, la grammatica, oltre a praticare tutta una serie di mansioni pratiche tipiche della vita in comunità.

Il fine non era quello di dare informazioni o nozioni, ma piuttosto far si che il discepolo (shisha) sperimentasse accanto al maestro un processo di trasformazione interiore. Conoscere il proprio vero Sé, attraverso i  testi e  attraverso la meditazione era infatti la condizione necessaria per capire anche  l’essenza  non-duale del  Mondo. Essa è chiamata Brahman, Tat, Ishvara, il sacro potere che tiene in vita l’universo che è ritenuto identico al Sé (atman) che sta all’interno di ogni uomo o donna o bambino. “Tu sei Brahman”, “Tu sei quello”, dicono le grandi verità dell’India.  Il sistema educativo indiano (gurukulam) implicava un rapporto gratuito di devozione e di affetto nei confronti del maestro e di fatto  la relazione tra maestro-discepolo era considerata sacra e  fondamentale  per la trasmissione  della cultura indiana.   Si pensi che ancor oggi esistono lignaggi millenari, cioè catene ininterrotte di maestro- discepolo che tengono vive specifiche  tradizioni spirituali. Gli Shankaracharya, a partire dal massimo filosofo indù, arrivano alla 94ma /97ma  successione ininterrotta, chiamata  jagadguru, cioè “maestro del mondo”  e tengono viva la tradizione del Non dualismo ( advaita) .

 

Cosa avviene con la colonizzazione inglese? Quale è stato l’impatto sulla popolazione e sulla cultura indiana? 

La colonizzazione inglese impose  alla grande cultura dell’India il  sistema moderno educativo che si basa sulla trasmissione  razionale  delle varie  nozioni relative alle varie materie –  ragioneria, matematica, geografia, storia, chimica, inglese – con il fine di formare dei bravi  funzionari e burocrati  prima  della Compagnia  delle Indie e poi  dal  1858 del Governo britannico.

Dovrebbe essere conosciuto meglio  il celebre discorso che l’Onorevole Macauly  che tenne nel 1835 riuscendo ad imporre  i finanziamenti per  l’educazione  occidentale in India.  Diceva: “Non conosco né il sanscrito né l’arabo, Ma non n è possibile negare che   un solo scaffale di una buona biblioteca europea valga  l’intera letteratura indigena dell’India e dell’Arabia. La superiorità intrinseca della letteratura occidentale è del resto pienamente ammessa”.

Quanto arroganza razzista e coloniale! Oggi al contrario, assistiamo al grande  diffondersi delle  dottrine orientali  proprio in occidente dove buddhismo,  induismo, yoga  hanno sempre più entusiastici seguaci. Durante il colonialismo, la potenza militare ed economica degli occidentali  impressionò  moltissimo  gli animi candidi  e formati  alla nonviolenza degli  indiani e creò una folta  classe subalterna. L’educazione occidentale fini per sgretolare le profonde conoscenze della “Legge Eterna”.  Magnifici esempi di questo processo di disgregazione sono forniti dal massimo scrittore indiano attuale Amitav Gosh, nei sui romanzi storici in cui sottolinea i retaggi del colonialismo in India.

 

In cosa divergevano le epistemologie della pedagogia indiana da quelli occidentali? 

Questo è davvero il punto focale della questione. Dopo anni di studi e ricerche, sono pervenuta alla conclusione che le due epistemologie o teorie della conoscenza sono completamente diverse, e questo incide profondamente anche nella nostra realtà quotidiana.  La tradizione occidentale – fin dalla cultura giudaica e dalla Bibbia – si è sempre basata sul dualismo io- mondo, Dio-creazione. E’ una cultura molto antropocentrica con una innata fiducia nella capacità umana della parola e nel linguaggio logico-razionale. Da Aristotele -che fonda il principio di non contraddizione – fino a Hegel, tutto quello che è reale è razionale e questi principi pervadono anche la religione cristiana  che ha combattuto  guerre feroci  per stabile i suoi dogmi,  cioè le verità canoniche espresse in  parole. Tutto diverso in Oriente, dove non ci sono mai stati scismi oppure roghi dell’Inquisizione per stabilire  le verità. In generale in Oriente la parola ha un valore limitato. L’apparato logico linguistico non è preso per fondamentale, serve tra gli uomini come strumento, simbolo, allusione (vedi gli studi di H.Zimmer ) In generale tutto “l’ambito  dei  nomi e delle forme” ( nama-rupa e) è considerato come  realtà molto parziale, per non dire illusione. Si perviene alla realtà ultima, andando oltre la mente, oltre l’io psicologico, oltre le parole. Acquietare la mente è il fine di tutte le tradizioni sia indù, che buddhiste o zen. Pensiamo al principio dello Yoga che dice “Lo Yoga è il volontario acquietamento delle agitazioni mentali”. Andare oltre la mente è l’obiettivo dell’Oriente, senza il quale non si capiscono  davvero civiltà fondate e finalizzate alla meditazione e allo yoga.  Il fine ultimo è l’illuminazione ( uno stato di perfetta libertà e gioia) a cui perviene il samnyasin, il sadhu, che la cultura indiana pone al vertice della società, sopra ai re e agli governanti – come ha sottolineato il sociologo L. Dumont. Anche i grandi  autori della  fisica quantistica quando scoprirono la realtà come impermanenza e interconnessione, trovarono  che le parole non riuscivano più ad esprimere  tale visione sistemica e complessa.  Al contrario l’epopea della modernità è dominata dalla razionalità logico-linguistica che ha creato il collasso climatico e  l’attuale ubriacatura per il digitale non è che la sua massima e pericolosissima espressione.

 

Con il movimento rivoluzionario nonviolento, Gandhi ridà importanza ai suoi ancestrali sistemi di educazione. Cosa avvenne?

Certamente Gandhi è il più grande sostenitore delle verità della tradizione indiana. Il suo movimento “La forza della verità” allude proprio a questo recupero del Sanathana Dharma, che è d’altra parte molto inclusivo e riconosce le medesime realizzazioni da parte di tante e diverse tradizioni culturali ma non dalla civiltà moderna, che Gandhi  riteneva una falsa  forma di civiltà che ha fatto del materialismo l’unico Dio. In antitesi con l’educazione astratta tipica del sistema scolastico inglese, il Mahatma auspicava l’armonia tra lavoro  e conoscenza e promosse il Nai Talim, l’educazione alle attività manuali come la filatura e la tessitura o la falegnameria che formano un carattere sano e rendevano possibile l’autosufficienza delle piccole comunità.  Egli era contro la scuola moderna, e credeva che i bambini imparassero di più dai genitori e dalla società.

 

“La maestosa bellezza di un albero, la scuola la riduce ad un palo” – è una citazione a memoria del filosofo Silvano Agosti. L’educazione dell’India è fondata sull’ecocentrismo, parte dal presupposto della Terra, della lentezza, del senso ecologico e del vivere la vita come un’esperienza poetica, diremmo noi. In cosa stride questa impostazione, per esempio, con la nostra scuola in cui fatica ad entrare l’educazione ambientale? La Terra e il sentirsi parte di un Tutt’Uno avvicinerebbero i giovani alla cultura e al senso della vita?

Certamente si. Il sentirsi parte di un Tutt’Uno avvicinerebbero i giovani alla cultura e al senso della vita. Al contrario  la scuola  occidentale moderna è fondata sul paradigma della scienza cartesiano-newtoniana che è basato sul dualismo  io- mondo e sulla frammentazione della realtà in discipline  sempre più frammentarie e separate. La scienza inoltre è tale  perché  è “oggettiva” ovvero non ha al suo interno considerazioni etiche o di significato. E’ proprio  questo tratto  costitutivo che  la rende di per se antiecologica.

 

Come viene vista l’educazione occidentale oggi in India?

Purtroppo ho visto con i miei occhi in India il  grande proliferare di scuole con il titolo Science and Technology e ovunque è presente la rincorsa alle nuove professioni industriali. Dobbiamo capire la visione d’insieme (Big Picture, come la chiama Norberg Hodge). L’apparente trionfo della Modernità Occidentale  che si traduce nella Globalizzazione è indisgiungibile dal binomio Scienza e Tecnologia che Gandhi criticava radicalmente ( vedi il suo Vi spiego i limiti della civiltà moderna)e con lui anche Schumacher o Terzani.

 

Dal 2017 al 2021 sei stata funzionaria coordinatrice del Progetto Alice Universal Education School[2] per un’educazione non-dualistica, ecocentrica ed olistica. Su cosa si basa e da cosa sei rimasta affascinata?

Il Progetto Alice è una pedagogia rivoluzionaria ideata da Valentino Giacomin ( maestro elementare  e giornalista di Treviso) che in sintesi ha messo al centro i risultati della fisica quantistica, cioè che non esiste una realtà oggettiva indipendente dalla mente. Questo era anche l’approdo del non-dualismo, una visione che sta alla base dell’induismo, del buddhismo, del taoismo, del giainismo e della maggior parte delle molte  tradizioni indigene, che sono sempre profondamente ecologiche, intesa come “deep ecology” citando l’ecofilosofo Arn Naess.  Giacomin ha spostato l’esperienza pedagogica in India dove attualmente ha tre scuole che ogni anno accolgono almeno 2.000 studenti dall’asilo al liceo. Combinano lo studio della materie curriculari, al Programma speciale si focalizza su meditazione, attenzione della mente, riproposta di  racconti tradizionali che sottolineano la  maya, o il potere negativo della mente che crea una realtà illusoria. L’armonia e la felicità sono all’interno, nella chiara mente.

 

Per sette anni sei stata attivista nelle scuole steineriane e, da esperta in pedagogia Waldorf[3] messa a punto da Rudolf Steiner, quali sono le differenze e le similitudini tra educazione indiana, educazione steineriana e l’educazione non-dualistica di Alice Project School?

Rudolf Steiner  parte dalle teorie teosofiche inaugurate  alla fine dell’Ottocento da Madame Blavatsky che   riconoscevano  una forma  unificata di spiritualità che comprendeva tutte le religioni. La Società Teosofica aveva sede a Madras e ovviamente traeva molti insegnamenti dall’India.   Steiner si stacca dalla Teosofia e fonda l’Antroposofia, che riprende gli stessi temi ma li centra di più sulla superiorità del Cristo, sulla libertà, sull’evoluzione storica, con tratti  molto più antropocentrici. La pedagogia steineriana è bellissima, nessun nozionismo  ma ricerca dello sviluppo dei talenti innati nel bambino. Parte dalla concezione dei 3 settenni della crescita che vanno seguiti e stimolati  a scuola:nel 1° settennio (1-7 anni): il concetto centrale è IL BUONO ( la mamma è buona, tutto il mondo è buono). A ragione secondo me, i bambini non vanno all’asilo fino al compimento di almeno tre anni.  2° settennio (7-14 anni):  il concetto  centrale è IL BELLO. La scuola  deve accompagnare il bambino nella scoperta del bello nel mondo, nella natura, nella musica, nei gesti eroici,  nella varie materie ( ma la storia non è insegnata fino  alla Sesta classe. 3° settennio (14-21 anni): Il concetto centrale è IL VERO.  Inizia qui l’avventura della conoscenza con entusiasmo e coinvolgimento. Inoltre nelle scuole Waldorf sempre contemplata l’attività pratica : dal giardinaggio e orticoltura, alla falegnameria,  ai ferri ed uncinetto. Inoltre importantissima è per tutti praticare uno strumento musicale e  le attività  teatrali che sono l’apice dell’attività scolastica.  Quindi i concetti di base sono molto  mutuati dall’educazione indiana, dove  ciascun bambino è considerato un manifestazione del principio divino ( un avatar in potenza)  e quindi amato e curato con estrema attenzione. Anche la parte pratica e manuale  è molto presente in India e fu ripresa da Gandhi. Il Progetto Alice  forse è più carente  rispetto alla parte poetica della pedagogia steineriana, ma  a mio avviso è  molto più  rigorosa rispetto alle vere  radici della conoscenza e più in sintonia con i presupposti del pensiero orientale. Giacomin ha infatti  ottenuto moltissimi ed importanti  riconoscimenti sia in ambito induista che buddhista, oltre che alla benedizione stessa del Dalai Lama.

 

[1]  Il libro è il risultato di numerose visite che l’autrice ha compiuto a Sarnath nel corso degli anni, colpita dalla serenità degli studenti e dall’educazione all’ecologia e alla pace. Nel libro le parole e l’esempio di Giacomin si intrecciano con le voci dei molti pensatori (Terzani, Illich, Latouche) che in questi anni stanno smascherando i limiti e le contraddizioni dei modelli di conoscenza e di sviluppo dell’Occidente industrializzato. Nel volume, capitolo dopo capitolo, si delinea la forza di un progetto che pone l’educazione alla consapevolezza, la nonviolenza, la ricerca di una felicità slegata dai beni materiali e dal consumo, al centro, per cercare di costruire tutti insieme un mondo migliore.

[2] Alice Project è una scuola interculturale e interreligiosa che pone al centro del proprio programma la conoscenza di se stessi e l’amore nei confronti del mondo e di ogni creatura vivente. È stata fondata nel 1994 a Sarnath, in India, da Valentino Giacomin che, dopo aver lavorato come maestro in Italia ha deciso, insieme con Luigina De Biasi, di continuare la propria ricerca educativa e spirituale nel subcontinente indiano. Da allora, molte scuole sono nate dalle iniziative di studenti e “seguaci”, in Italia, Germania, Francia e Taiwan, e il progetto ha ricevuto in più occasioni l’apprezzamento del Dalai Lama, che gli ha conferito il suo patrocinio dal 2006.

[3] La pedagogia Waldorf basa il suo approccio educativo sull’antroposofia (chiamata anche dai suoi seguaci “scienza dello spirito”), una disciplina esoterica sviluppata da Rudolf Steiner, per indagare e riconciliare quelli che ritiene i nessi sussistenti fra mondo fisico e mondo spirituale, concependoli come «un’unica manifestazione divina in continua evoluzione». La prima scuola steineriana fu fondata a Stoccarda il 7 settembre 1919 a seguito della richiesta di Emil Molt, direttore della fabbrica di sigarette Waldorf Astoria, di creare un’istituzione scolastica per i figli degli operai della fabbrica. Il movimento pedagogico deve il proprio nome alla fabbrica di sigarette. Rudolf Steiner assunse l’incarico relativo alla formazione del collegio degli insegnanti nonché di consulta dello stesso e fu sino alla morte, nel 1925, spiritus rector della scuola.

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giovedì 28 settembre 2023

La ribellione dei Santuari - Annamaria Manzoni

 

In questi giorni in provincia di Pavia si è proceduto all’uccisione di decine di migliaia di maiali (34.000 quelli già abbattuti, secondo la terminologia usata dai responsabili) perché alcuni focolai di peste suina negli allevamenti stanno portando le autorità a eliminare tutti gli animali presenti per evitare che il contagio si espanda: sani o malati fa lo stesso, come è ininfluente la certezza che gli umani non possono essere colpiti dal virus. Semplice prudenza, atta a proteggere la filiera alimentare, attuata con i metodi particolarmente spicci usati in questi casi: altro che stordimento preventivo.

La furia da abbattimento non ha risparmiato il Rifugio Cuori Liberi di Sairano, dove le forze dell’ordine e i veterinari sono entrati di forza e hanno ucciso i nove maiali lì ancora presenti: a nulla è valsa la resistenza portata avanti per quindici giorni da attiviste e attivisti che hanno difeso fisicamente gli animali presidiando senza sosta la situazione. Ci sono state suppliche, richiamo alla compassione, sollecitazione a non obbedire a ordini ingiusti, esortazione a esaminare soluzioni diverse: e senza sosta la resistenza passiva delle persone, in buona parte donne, che hanno frapposto i propri corpi tra le forze dell’ordine, in assetto di battaglia, e gli animali minacciati. Per altro le richieste non potevano raggiungere i veri responsabili: ministri, amministratori, vertici della sanità, che gestiscono il potere a grande distanza, lasciando prudentemente allo scoperto i “soldati semplici”, ultime pedine del gioco, per i quali le conseguenze personali da pagare per un atto di disobbedienza sarebbero state presumibilmente gravosissime. L’”operazione” si è conclusa con attacchi fisici a chi stava opponendo resistenza passiva, e l’uccisione dei maiali ha avuto luogo nella disperazione delle volontarie e dei volontari presenti e di tutti coloro che hanno assistito a distanza agli avvenimenti grazie ai filmati postati sui social: l’indignazione, il dolore, la rabbia sono dilagati a macchia d’olio.

 

Per capire il senso di tutto questo è necessario un passo indietro, fino alla nascita dei cosiddetti Santuari, collegati tra loro attraverso una rete, sparsi in varie località soprattutto del nord e centro Italia: si tratta di sorta di oasi che raccolgono e ospitano animali normalmente definiti da reddito, quindi maiali, galline, capretti… salvati in vari modi dal destino di morte a cui erano destinati, e portati a vivere una vita in libertà, nel rispetto delle loro caratteristiche, protetti da qualsiasi forma di sfruttamento. La loro individualità viene sancita anche dall’attribuzione di un nome di battesimo, Pumba, Crusca, Freedom, Ursula… che li designa come individui unici e non semplicemente appartenenti a una specie. Chi gestisce questi luoghi li conosce uno per uno, sa dire delle loro caratteristiche e della loro personalità, ne conosce le preferenze e i gusti, sa che possiedono un’enorme ricchezza di capacità cognitive nonché un mondo interiore animato da emozioni e sentimenti specie-specifici. Ed è sulla base di questa conoscenza e della progressiva fiducia degli animali che si vanno stabilendo a livello interspecifico rapporti affettivi, amicali, rispettosi, gioiosi: molto simili, per intenderci, a quelli che si sviluppano tra un cane o un gatto e il loro compagno umano.

Il grande significato che i Santuari hanno acquisito sta anche nel loro essere testimonianza necessaria: esiste il modo, ed è questo, per conoscere davvero gli animali nonumani, abbattendo la rappresentazione di comodo che ne viene normalmente diffusa, che sempre li svilisce: non certo a caso, perché la denigrazione delle vittime è sempre fondamentale per sdoganare il trattamento di sfruttamento, tortura e morte che viene regolarmente loro destinato, per altro nell’incredibile misconoscimento di tutte le progressive conoscenze degli etologi. Meglio ignorare che si tratta di esseri senzienti, esposti senza difese alle atrocità a cui vengono quotidianamente destinati, dotati di autoconsapevolezza: non solo i mammiferi, categoria a cui anche noi umani apparteniamo, ma gli uccelli, e anche invertebrati quali il polpo, che pure in tantissimi continuano serenamente a trattare come gustoso ingrediente di un’insalata. Molto più funzionale continuare a sostenere la rappresentazione delle galline come stupide, dei maiali come sporchi, brutti e persino immorali , delle oche…beh lo dice il nome stesso, come per altro degli asini o dei muli, solo per citare. Riconoscerne le virtù o semplicemente la bellezza, l’affettività, l’insospettato mondo di emozioni e sentimenti che li anima, renderebbe decisamente più arduo continuare a trattarli come cose o esseri spregevoli e quindi destinatari perfetti di tutto il male che viene fatto loro. Come diceva l’etologo Mainardi

“anche il maiale possiede una sua intelligenza, ha capacità sociali e affettive: ma preferiamo non venirlo a sapere, perché quest’ignoranza indubbiamente ci facilita la digestione”.

Il gioco è facilissimo: tutte le istituzioni e le forme di comunicazione procedono compatte nel sostenere una visione del mondo in cui gli animali nonumani restano saldamente ancorati nella posizione dei senza diritti, gli ultimi degli ultimi: vengono dopo i poveri che, diceva Anna Maria Ortese, almeno qualche volta possono reagire. Il gioco è facilissimo perché la moltitudine umana, anche quella non sadica e non brutale, resta inerte magari non per cattiveria, ma in quanto immersa in uno stato delle cose in cui la violenza è normalizzata, sistemica, ubiquitaria e quindi neppure riconosciuta e le abitudini sembrano vivere di vita propria, senza essere sottoposte a vaglio critico.

I Santuari, che la denominazione stessa ammanta di una dimensione spirituale, si oppongono e abbattono il pensiero dilagante dando dignità propria ai più diseredati: da alcuni mesi, si sono visti riconoscere uno status che non li equipara più agli allevamenti, ma li definisce rifugi permanenti che esercitano un’attività di ricovero degli animaliun passo in avanti di cui però gli esperti hanno subito evidenziato i limiti riscontrabili in una insufficiente tutela degli animali stessi: come i fatti di questi giorni hanno drammaticamente confermato.

Gli animali ospitati nei Santuari sono i pochissimi individui salvati dalla smisurata moltitudine di esseri messi al mondo per essere fecondati artificialmente, obbligati alla innaturale separazione madre-figli; reclusi a vita in gabbie che li immobilizzano; incatenati; costretti ai viaggi della morte; alimentati a forza; frustati; spiumati; vivisezionati; cacciati; pescati; modificati; estinti…: tutto lungo il filo di un orrore e di un raccapriccio che termina solo con la morte; spesso nei macelli, sorta di inferno in terra per quei 65 miliardi di esseri viventi uccisi ogni anno che diventano molto più del doppio se si considerano gli abitanti delle acque, normalmente riconosciuti solo a peso: riusciamo infatti a sfruttare tormentare e uccidere ogni anno un numero di animali che corrisponde più o meno a venti volte il numero di noi umani: una terra trasformata in un immenso mattatoio all’interno del quale si applicano a norma di legge violenza, sopraffazione, crudeltà su esseri inermi.

I Santuari oltre al merito impagabile di mettere in salvo dall’orrore un numero per quanto infinitesimale di individui, hanno anche quello di animare una relazione con i dannati della terra, che abbatte il diritto del più forte come bussola di ogni comportamento e gli sostituisce la possibilità di una relazione in cui se superiorità umana esiste è solo per essere declinata come responsabilità: come succede con i bambini, la cui fragilità non giustifica abuso, ma pretende protezione.

A Sairano insieme alla vita di nove esseri viventi è stata violata la sacralità del luogo e quell’idea di mondo pacificato che sprofonda le sue radici nella convinzione che una buona società non può che escludere la violenza in tutte le sue forme verso tutti gli esseri senzienti: lo spaesamento, l’incredulità, lo sgomento che ne sono seguiti hanno ben ragione d’essere perché l’ingiustizia, se accettata, non può che propagarsi e l’attesa per quello che potrebbe presto tornare a succedere in qualunque altrove è tenuta a bada solo dalla tensione verso una rivolta che non ha più tempo di aspettare.

Mentre il cordoglio per Spino, Mercoledì e gli altri è ancora dolore soffocante, il pensiero non può non andare a tutti quei milioni di altri maiali, polli, visoni, oche, tacchini… che, nel silenzio generale vengono regolarmente uccisi alle prime avvisaglie di una possibile epidemia: succede sempre, è successo più e più volte durante l’epidemia del Covid anche in Europa dove gli animali sono stati gasati, bruciati, sepolti vivi, perché le condizioni aberranti di allevamento li rendevano vittime di sempre nuove epidemie. Mai nelle alte sfere è stata preso in considerazione il dovere di preoccuparsi delle cause, da ricercare nell’esistenza stessa degli allevamenti: la soluzione è sempre stata lo sterminio degli animali, poi sostituiti con altri, nel silenzio assenso della stragrande maggioranza delle persone, prudentemente lasciate senza la necessaria informazione, e comunque non raramente preoccupate, più che degli stermini in atto, della salvaguardia delle proprie abitudini alimentari.

In tutto questo è forse venuto il momento anche per qualche riflessione sul ruolo dei veterinari e delle veterinarie, fondamentale nel decidere le soluzioni e i metodi che coinvolgono la vita e la morte degli animali, che sono l’oggetto della loro professione. Professione che, nella testa della gente, dovrebbe essere legata ad interventi di aiuto e di cura, ma nei fatti si esprime anche nell’avvallo e nel sostegno di uno status quo fatto di repressione e morte di quegli stessi individui. Il confine tra il prendersi cura e il condannare senza appello non è sottile, come non lo è la differenza tra ritenersi al servizio di animali bisognosi o invece della filiera della carne. Il pensiero va ad altre professioni d’aiuto, quali la psichiatria, che per parte della sua storia si è preoccupata non tanto di curare anime ferite e fragili, quanto piuttosto di fornire giustificazione per ridurre al silenzio ogni dissidenza al potere, ruolo da cui, nei regimi dittatoriali, non si è ancora del tutto affrancata: di certo va dato atto della profondissima riflessione al proprio interno che ne è derivata. Sarebbe auspicabile che anche i veterinari (come categoria, non certo i singoli che ogni giorno curano e salvano animali di ogni specie) chiarissero a chi proprio non riesce a concepirlo in che modo la cura degli animali e la ricerca del loro benessere possa coniugarsi con l’attività di certificare e sostenere come leciti gli interventi fatti su di loro in nome degli enormi interessi economici coinvolti.

Tante le cose che stanno succedendo: non ultima la drammatica diffusione di una forma di influenza aviaria persino nelle isole Galapagos, arcipelago del Pacifico, reso famoso dal lavoro di Chaarles Darwin, considerate scrigni preziosi di biodiversità del pianeta, terre dove condurre l’osservazione della natura incontaminata. Bene, anzi malissimo: la contaminazione le sta raggiungendo tra le enormi preoccupazioni degli studiosi: nei paesi che le fronteggiano, Ecuador ma anche, un po’ più a sud, Perù, già si è proceduto all’eliminazione di migliaia e migliaia di volatili, mentre Manuel Delogu, veterinario del Servizio Fauna Selvatica ed Esotica dell’Università di Bologna, dice che “il passaggio dagli allevamenti alle specie selvatiche, ci conferma una volta di più che finché permetteremo al virus di potersi sviluppare in grossi serbatoi come gli allevamenti intensivi gli renderemo le cose più semplici per rafforzarsi in natura”.

Oggi la distanza dalla soluzione delle smisurate sofferenze inflitte al mondo animale e della stessa sopravvivenza della nostra specie è siderale perché non può prescindere da ciò che non viene neppure preso in considerazione vale a dire l’eliminazione di ogni allevamento sulla faccia della terra. Nel nostro pur microscopico ruolo come singoli individui, non dimentichiamo la responsabilità che ci compete nel dare un contributo allo stato delle cose, in un senso o nell’altro, anche con le nostre quotidiane scelte, alimentari e non.

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martedì 26 settembre 2023

Poste Italiane: La denuncia dell’ex postino Carmine Pascale - Natale Salvo

 

« Poste Italiane? Sfruttamento vergognoso e inaccettabile ». Lo dichiara Carmine Pascale, uno dei tanti postini, portalettere sfruttati e, in sostanza, ricattati, da Poste Italiane con contratti a tempo determinato. Contratti che si rinnovano di mese in mese ( ma al massimo per 12 mesi, poi basta! ) se … stai zitto e lavori. E così nascono anche gli « straordinari fantasma ».

E’ meglio però raccontare la storia di Carmine Pascale dalla fine.

L’ex postino chiude infatti il suo sfogo con un’importante considerazione: « il contratto a tempo determinato è l’elemento chiave della scena. Il ricatto sociale del lavoro precario schiaccia i diritti dei lavoratori ».

La storia.

La denuncia dell’ex postino: lavoro non pagato, consegne sotto la pioggia

Poste Italiane si è da tempo amazonizzata, ma non è una novità.

Consegna posta e pacchi fino a tardi. I contratti tra il gigante americano del commercio online e l’azienda italiana consentono probabilmente margini minimi e a farne le spese sono i lavoratori a cui sembra vengano di fatto richieste prestazioni di lavoro straordinario non pagato e, soprattutto, lavoro in precarie condizioni di sicurezza.

Carmine Pascale è stato un giovane portalettere di Pistoia. Un giovane come pochi: con una dignità e con un coraggio che lo hanno portato a denunciare, prima all’Ispettorato Nazionale del Lavoro, e oggi pubblicamente alla stampa, l’illegittimo modo di operare di Poste Italiane.

Una battaglia, quella di Carmine Pascale, che, scrive in un comunicato, dovrà servire ad « incoraggiare le persone a tutelare i propri diritti » perché « nel mio ufficio non ero certo l’unico a lavorare oltre l’orario ordinario senza ricevere alcuna retribuzione ».

Carmine Pascale racconta la sua storia di portalettere, di postino: una storia fatta di avvertimenti ( « Non chiedete permessi, nemmeno per donare il sangue! » ) e di veri e propri soprusi ( « Le ferie non godute verranno pagate alla fine! I portalettere CTD (Contratti a Tempo Determinato) sono assunti proprio per far andare in ferie i fissi! » ).

L’essere assunti solo per sostituire il personale “di ruolo” assente per ferie o malattia, comporta « continui spostamenti dei portalettere da una zona di consegna all’altra e senza preavviso », racconta ancora.

« A prescindere dal turno lavorativo, ci viene richiesto di effettuare le consegne con qualsiasi condizione atmosferica, anche fitta pioggia ad esempio, in motorino! Ciò comporta l’esposizione a un rischio elevato, soprattutto nei mesi invernali », continua.

Poi la goccia che ha fatto traboccare il vaso: « Non si rispetta mai l’orario di lavoro sotto pressione dei responsabili per consegnare quanta più posta possibile e solitamente si rientra in ufficio solo al completamento delle consegne affidate, lavorando due o tre ore non pagati ogni giorno. Lo straordinario, infatti, non è retribuito poiché non scatta in automatico bensì è a “discrezione” dei datori! Considerando lo straordinario “fantasma”, le 36 ore settimanali previste dal contratto superano in media le 48 ore! ».

Questa volta Poste Italiane è stata vinta, ma negli altri casi?

Questa volta Carmine Pascale ha agito: si è rivolto all’Ispettorato del Lavoro di Prato-Pistoia, che, nei due mesi di lavoro del giovane, ha accertato 77 ore di lavoro straordinario “fantasma”, non registrate sul libro unico del lavoro e non dichiarate all’INPS, e condannato Poste Italiane e versarle al lavoratore.

La condanna di Poste Italiane è giunta lo scorso 15 marzo.

 

Nella sua lettera aperta alla Direzione Nazionale di Poste Italiane Carmine Pascale chiede un cambio di rotta dell’azienda.

Ma in un’azienda “privata”, che opera sul “libero mercato” ciò non è consentito.

Serve la nazionalizzazione di Poste Italiane, come di tutte le aziende ( Alitalia, Tirrenia, Ferrovie dello Stato, Enel, Eni, etc ) privatizzate dalla follia liberista targata Destra ( da Partito Democratico fino a Fratelli d’Italia, attraverso le fila di Lega Nord, +Europa e Forza Italia ).

Serve, soprattutto, raggiungere la consapevolezza che questo sistema capitalista e liberista non rappresenta il “mondo migliore” possibile.

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lunedì 25 settembre 2023

A volte ritornano - Grig

Era estinto, ma non lo sapeva.

Il Takahe (Porphyrio hochstetteri), fra i simboli della Nuova Zelanda, è il più grande Rallidae vivente, ma venne ritenuto estinto fin dal 1898 a causa della caccia, della distruzione degli habitat naturali e dell’introduzione di predatori (Ermellini, Gatti, Ratti) da parte dei coloni europei.

Tuttavia, nel 1948, venne riscoperto uno sparuto nucleo Lago Te Anau, sui Monti Murchison dell’Isola del Sud, e, grazie a un progetto di salvaguardia e riproduzione in cattività, oggi è stato possibile reintrodurre in natura diversi esemplari.

Questi grandi uccelli incapaci di volare sono poco più di 400, troppo pochi per esser certi della loro sopravvivenza in futuro, ma sono una grande e bella speranza per la biodiversità e la stessa identità della Nuova Zelanda.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

da Il Corriere della Sera8 settembre 2023

Nuova Zelanda, è tornato il Takahe, l’uccello ritenuto estinto nel 1898.

Un gruppo di esperti del Department of Conservation si è preso cura degli esemplari rimasti finché non è stato possibile reinserirli nel loro habitat naturale. (Chiara Galletti)

Una buona notizia per il nostro Pianeta: un team di specialisti in Nuova Zelanda ha rimesso in libertà i takahe , uccelli di origine preistorica a lungo ritenuti estinti. Il gruppo di ricerca ha alle spalle 65 anni di tentativi per la salvaguardia degli esemplari rimasti, durante i quali sono state scoperte importanti tecniche di conservazione per la protezione delle specie a rischio. Adesso, dopo anni di cura, gli uccelli sono tornati a popolare L’Isola del Sud in Nuova Zelanda, che era la loro casa originaria, dove vengono custoditi come icona nazionale. I takahē possono ora crescere liberi in vaste aree della loro antica zona naturale, a tutela della biodiversità e come elemento funzionale dell’ecosistema.

La presunta estinzione e il sorprendente ritorno

Il Takahē era stato dichiarato estinto nel 1898, quando la sua popolazione già poco numerosa era stata decimata dalla caccia e aveva subito gli attacchi degli animali portati dai colonizzatori europei, come ermellini, gatti e furetti. Inaspettata la grande sorpresa nel 1948, quando il medico Geoffrey Orbell e la sua equipe ne hanno rinvenuto alcuni esemplari sopravvissuti in una zona remota dei monti Murchison. All’epoca la popolazione dei Takahē era estremamente esigua, e per la loro salvaguardia nel 1985 venne creato il Burwood Takahē Centre, dove le uova dell’animale venivano incubate artificialmente, con lo scopo di propagare la specie e restituirla un giorno alla popolazione selvatica.

Icona nazionale neo zelandese

Il Takahē, come molti uccelli della Nuova Zelanda, è incapace di volare, anche a causa della sua mole considerevole. Il suo aspetto piuttosto insolito è arricchito dallo splendido piumaggio blu e verde brillante. La forma sferica, la larghezza, e i colori accesi gli conferiscono quel tocco preistorico proprio delle sue origini, che sembrano risalire almeno all’era del Pleistocene, secondo quanto è possibile desumere dai ritrovamenti fossili. 
La Nuova Zelanda è famosa per la sua ricca avifauna: uccelli specifici della zona e particolarissimi che contribuiscono a formare l’identità nazionale, come il kiwi, l’animale-simbolo del Paese. Per questo motivo il lavoro del Department of Conservation, l’agenzia governativa incaricata di conservare il patrimonio naturale e storico della Nuova Zelanda, ha coinvolto un team di 10 esperti, ma ha visto anche una mobilitazione molto più ampia: volontari, organizzazioni pubbliche e private, e soprattutto ha interessato la tribù Maori, per la quale il variopinto animale ha un valore quasi sacro, e forti associazioni culturali e tradizionali. Diversi esemplari di Takahē sono stati liberati proprio nel lago Wakatipu, un lago di origine glaciale dell’area alpina dell’Isola del Sud, terra a lungo espropriata ai Maori.

Al momento si contano più di 400 esemplari di Takahē, ancora troppo pochi perché l’animale esca dalla categoria a rischio di estinzione, tuttavia possiamo stare tranquilli per il suo futuro: il lavoro della squadra di ricerca non si interrompe. Bisogna assicurare alla popolazione una certa percentuale di crescita annua, e gli uccelli vengono sottoposti a un monitoraggio costantemente, per tenerli al sicuro da eventuali minacce e predatori.




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domenica 24 settembre 2023

DIMISSIONI DI MASSA DI MEDICI E INFERMIERI – LA FUGA METTE IN GINOCCHIO LA SANITA’ PUBBLICA - Raffaele Varvara


Assimilando il nostro SSN a un paziente in codice rosso, diremmo: “emorragia massiva con compromissione emodinamica”. Il sangue sono gli esercenti le professioni sanitarie, l’emorragia è la fuga dei sanitari dal pubblico verso il privato e la compromissione emodinamica sono le gravi conseguenze sistemiche che questo esodo provoca sulla copertura dei bisogni di salute della popolazione.

Prendiamo ad esempio l’ospedale Manzoni di Lecco dove si contano 1,6 abbandoni al giorno a gennaio 2022, 1,5 a febbraio 2022″, riferisce Francesco Scorzelli, 63 anni, infermiere da 37, dirigente sindacale Usb e delegato nella Rsu dell’ospedale di Lecco, che ha spulciato una per una tutte le delibere e le determine per tirare la somma della conta delle defezioni. Nel 2021 gli “abbandoni” sono stati 321 e il trend del 2022 è addirittura superiore. “I concorsi di ogni ordine e grado vengono banditi, non solo per i tecnici di radiologia, anche per infermieri, medici, tecnici di laboratorio, amministrativi, ma rapidamente le graduatorie vengono consumate – prosegue il sindacalista -. Per quanto riguarda quello degli infermieri, in pochi mesi, siamo già arrivati alla 400ª posizione in graduatoria”. Significa che non si riesce a rimpiazzare chi se ne va perché i nuovi arrivi spesso durano poco e non vogliono terminare nemmeno il periodo di prova. “E’ da tempo che denunciamo la scarsissima volontà di rendere “appetibile“ lavorare nelle strutture sanitarie pubbliche della nostra provincia”, spiega il dirigente dell’Usb dell’ospedale di Lecco(1).

Non è appetibile di certo un corpo professionale che, dopo la pandemia, soffre di quello che possiamo ribattezzare “disturbo post-traumatico da stress di categoria”. A fornire la radiografia di come stanno i nostri medici e infermieri è la survey condotta da Fadoi, la Federazione dei medici internisti ospedalieri, su un campione rappresentativo di oltre duemila professionisti sanitari e presentata a Milano al 28esimo Congresso Nazionale della Federazione.

In totale a dichiararsi in “burnout” è il 49,6% del campione ma la percentuale sale al 52% quando si parla di medici, per ridiscendere al 45% nel caso degli infermieri. E in entrambi i casi l’incidenza è più del doppio tra le donne, dove permane la difficoltà di coniugare il tempo di lavoro con quello assorbito dai figli e la famiglia in genere.
Ad influire sullo stato di stress cronico è anche il fattore età, visto che sotto i trent’anni la percentuale di chi è in burnout cala al 30,5%. Fatto è che proiettando i dati più che significativi delle medicine interne sull’universo mondo dei professionisti della nostra sanità pubblica abbiamo oltre 56mila medici e 125.500 infermieri che lavorano in burnout. E che per questo motivo incappano in qualche inevitabile errore. Uno studio condotto dalla Johns Hopkins University School of Medicine e dalla Mayo Clinic del Minnesota ha rilevato almeno un errore grave nel corso dell’anno nel 36% dei camici bianchi in burnout. Percentuale che proiettata sul totale dei nostri medici da un totale di oltre 20mila errori gravi.

Discorso analogo per gli infermieri. Qui una serie di studi internazionali raccolti dalla Fnopi, la Federazione degli ordini infermieristici, stima siano addirittura il 57% gli errori clinici più o meno gravi commessi nell’arco di un anno. Dato che applicato sul numero degli infermieri pubblici operanti in Italia in burnout da altri 71.500 errori in fase di assistenza per un totale di almeno di 92mila, sicuramente qualcuno in più considerando che uno stesso operatore può essere incappato in più di un errore nel corso dell’anno (2).

Non solo errori, nella mia pratica clinica ho constatato empiricamente che il burnout dei sanitari ha un impatto sui processi di cura: non si cura la causa di una malattia andando alla ricerca dei fattori scatenanti profondi, ma si prescrivono decine e decine di farmaci allo scopo di gestire superficialmente i sintomi, mettendo pezze su pezze ai problemi di salute sottostanti. Noto inoltre come rispetto a tre anni fa, oggi c’è una certa facilità a intraprendere la strada della palliazione, al primo aggravamento dello stato clinico di una persona.

Il burnout dei sanitari non è un problema categoriale, del singolo medico o del singolo infermiere bensì un problema di sanità pubblica poichè ha un impatto sugli esiti di salute degli assistiti. Per questo motivo, alcuni ordini professionali stanno organizzando percorsi di cura per i professionisti sanitari. Tuttavia l’ansia, la depressione, l’irritabilità, la mancanza di energie motivazionali, vengono curate esclusivamente in maniera individuale-biografico-familiare; questi percorsi di cura non considerano che sta crollando un intero sistema di mondo e che di conseguenza il peso di quei disagi non può essere affrontato riduzionisticamente in maniera individuale, addossando la colpa al singolo professionista sanitario. Questi processi di elaborazione, quasi mai coinvolgono, i fattori storici e politici che influiscono in maniera determinante sulla salute dei sanitari e rappresentano le con-cause delle loro sofferenze. Se non si esprimono questi collegamenti, si rischia di far soffrire e di far sopportare l’enorme drammaticità della questione collettiva, come se fosse solo un problema di natura individuale, astratta e sciolta dai legami con i fattori storico-politici contemporanei. Per curare chi cura, servono percorsi di condivisione terapeutica, di socializzazione e politicizzazione del dolore, per collegare quei disagi alla fase storico-collettiva che viviamo e guarire con una terapia sistemica.

La terapia per fermare l’emorragia e il burnout che proponiamo al governo è il rifinanziamento del fondo sanitario nazionale per reggere la concorrenza con il privato. Le misure del governo per la sanità in manovra finanziaria sono, per tornare ai paragoni con la clinica, come un antibiotico sottodosato per un paziente in sepsi conclamata, ovvero nulle rispetto al fabbisogno.

Noi suggeriamo al ministro Schillaci la tassazione degli extraprofitti delle case farmaceutiche per smaltire le lunghissime liste d’attesa e rianimare il corpo professionale delle professioni sanitarie.

NOTE

  1. https://www.ilgiorno.it/lecco/cronaca/operatori-sanitari-in-fuga-appena-arrivati-gia-se-ne-vanno-5d7b9135
  2. https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2023/05/06/ansa/il-burnout-dei-sanitari-causa-100mila-errori-lanno_87e232c5-6954-44c4-99bc-429af5f6ff61.html

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sabato 23 settembre 2023

Il lavoro da mille euro al giorno: così i privati si mangiano gli ospedali pubblici - Daniele Tempera

 

Secondo la Corte dei Conti dopo la pandemia i conti della sanità pubblica sono fuori controllo. Non per nuove assunzioni o ritocchi agli stipendi dei medici, rimasti spesso al palo, ma perché le commesse pubbliche sono andate a cooperative e società private che hanno raddoppiato il fatturato incrementando l’uso, sempre più privatistico, delle strutture pubbliche

 

“Si è cominciato con i consulenti. All’inizio si trattava di medici in pensione che davano una mano nei reparti. Oggi questa prassi è diventata sistematica: senza esterni non si va avanti”. È un grido di dolore, quello di M., medico oggi in pensione, ma che ha lavorato a lungo nell’ospedale di Castiglione del Lago, comune di quindicimila abitanti sul Lago Trasimeno, in provincia di Perugia. “I colleghi mi spiegano che impiegare professionisti a gettone è l’unico modo per mandare avanti i pronto soccorso e mi raccontano di guadagni assurdi per turni di 12 ore e più – racconta ancora a Today.it – La domanda che io faccio è: come è possibile fare queste turnazioni nella medicina di emergenza e che un medico in malattia lavori come gettonista in un altro ospedale pubblico senza che nessuno se ne accorga? E soprattutto dov’è chi deve controllare sulla qualità del servizio e sui lavoratori?”.

L’ospedale di Castiglione del Lago è finito nell’occhio del ciclone nell’ultima inchiesta dei carabinieri del Nas sullo scandalo delle liste di attesa pilotate. Qui i militari hanno scoperto infatti una radiologa, dipendente della Asl ma formalmente in malattia, che lavorava come medico a gettone in ospedali veneti per conto di due cooperative. Domicilio in Spagna, per evitare così le visite fiscali, certificati di malattia firmati da un medico probabilmente connivente e turni di lavoro di 12 ore profumatamente pagati. Il tutto mentre diventavano sempre più lunghe le liste di attesa per accertamenti diagnostici nell’ospedale dove doveva lavorare. Il caso insospettisce prima i vertici dell’ospedale e successivamente i nuclei anti-sofisticazione dei carabinieri che riescono a ricostruire le strategie della donna e indagarla per truffa. 

Si tratta di una delle storie più emblematiche emerse dall’inchiesta. La dimostrazione di come il business dei medici a gettone sia stato, nel post Covid, particolarmente ghiotto per i privati e non privo di ripercussioni per la sanità pubblica. Anche quando viene effettuato, come nella stragrande maggioranza dei casi, alla luce del sole. 

Un business fiorente per pochi che però paghiamo tutti 

Quando parliamo di medici a gettone parliamo di professionisti che lavorano a cottimo e guadagnano quasi sempre – a parità di ore lavorate – più degli assunti. Per un solo turno di lavoro i ‘medici in affitto’ possono arrivare anche a più di 1.000 euro, fino a 3.600 euro per 48 ore di lavoro in caso di turni accorpati. E a mancare sono spesso standard orari e qualitativi, con tutti i rischi che ne conseguono, anche per i pazienti. Vengono spesso reclutati in chat su internet da cooperative o società di consulenza che, da anni, hanno fiutato il business e lo cavalcano legittimamente.

Per rendersene conto è possibile visionare, online, le visure di alcune delle aziende che forniscono servizi di intermediazione sanitaria. Ci si accorge così di incassi quasi raddoppiati nel giro di 3 anni. È il caso, ad esempio, della ‘Medical Line Consulting’, società di consulenza romana, a cui sono stati affidati, tra gli altri, i turni dei pronto soccorso di Fondi, Latina e Terracina per sopperire alla drammatica carenza di personale (l’ultima delibera da 100mila euro firmata il 29 maggio 2023 dalla Asl di Latina per il solo servizio estivo). La società fa registrare un fatturato che supera i 20 milioni di euro nel 2022 e che raddoppiato rispetto al pre-pandemia. Ma sono molte le cooperative nate per fornire prestazioni di tipo medico-infermieristico dal 2020 a oggi. Ad alimentare il business c’è un giro di affari considerevole alimentato dai soldi pubblici, dalla drammatica e strutturale carenza di personale sanitario e da un paradosso tutto italiano che si chiama “tetto di spesa”. 

 

Lo spiega in modo esaustivo Pierino Di Silverio, segretario di Anaoo Assomed, il più rappresentativo sindacato di categoria per medici e dirigenti medici: “Si ricorre ai gettonisti perché c’è un tetto di spesa rigido per l’assunzione di personale che impedisce alle aziende ospedaliere, pur se volessero, di assumere. I medici a gettone ricadono invece in una voce denominata di ‘beni e servizi’, non sottoposta a queste limitazioni”. Il paradosso è che, per un semplice gioco amministrativo delle tre carte, spendiamo tutti di più, ottenendo servizi di qualità inferiore. 

Il report della Corte dei Conti: boom delle consulenze negli ultimi 3 anni 

A certificarlo c’è il report annuale della Corte dei Conti sul monitoraggio della spesa sanitaria. Per rendersi conto di quanto poco ci sono convenuti i professionisti a gettone in sanità è sufficiente guardare a due voci di spesa: da un lato il costo del personale, dall’altro ai cosiddetti “costi intermedi” per beni e servizi. Se i fondi statati destinati ai redditi da lavoro dipendente nella Sanità sono aumentati del 2% dal 2013, quelli per “i costi intermedi” sono aumentati del 10%. Nel corso di quasi dieci anni si passa così da 30 a 43 miliardi di euro di spesa destinati a “beni e servizi”.

Componente

2013

2014

2015

2016

2017

2018

2019

2020

2021

Redditi da lavoro dipendente

-1,3%

-0,7%

-1,3%

-0,7%

-0,1%

2,5%

2,7%

1,8%

2,2%

Consumi intermedi

-1,4%

3,9%

3,1%

4,2%

3,0%

2,7%

0,1%

11,2%

10,1%

Spesa sanitaria corrente di CN

-0,6%

1,7%

0,3%

0,9%

1,1%

2,0%

1,1%

6,1%

4,2%

Una percentuale enorme su cui sicuramente incidono una grande pluralità di costi e attrezzature mediche, necessarie soprattutto nei difficili anni dalla pandemia, ma influenzata sicuramente anche dal business delle consulenze d’oro nella sanità. A scriverlo sono nero su bianco gli stessi magistrati contabili: “la crescita dei consumi intermedi è influenzata anche dal consistente ricorso alle forme di lavoro flessibile, previsto da specifiche disposizioni normative emergenziali intervenute nell’ultimo biennio”. Soldi su cui si sarebbe potuto forse assumere e formare nuovo personale, ma che si è preferito utilizzare per pagare, a peso d’oro, cooperative e aziende private. 

Un business fiorente di cui si sono avvantaggiati in pochi e che ha costituito spesso un problema, sia in termine di qualità che di spese, anche indirette, come spiega Di Silverio: “Con i medici a gettone si spende di più anche in maniera indiretta, anche perché non si può avere la continuità delle cure con un medico che lavora a cottimo – osserva Di Saverio – Se si avvicendano due medici, il secondo potrebbe chiedere al paziente di svolgere altri esami perché non conosce la sua storia clinica. Il rischio è quello di una lievitazione delle spese diagnostiche e terapeutiche” spiega a Today.it il segretario di Anaoo Assomed. 

La stretta sul personale a gettone del Governo e i problemi aperti 

Un’evidenza di cui si è reso conto anche il Governo che dallo scorso aprile ha predisposto una stretta sull’utilizzo dei cosiddetti gettonisti nella sanità con il decreto bollette. I medici a gettone possono ora essere utilizzati solo in caso di necessità e urgenza, in un’unica occasione e senza possibilità di proroga, dopo aver attentamente verificato che sia impossibile utilizzare personale già in servizio. La commessa non può durare più di dodici mesi e viene istituito un tetto alla loro retribuzione. Inizialmente si pensava di confinarli ai pronto soccorso, ma l’endemica carenza di personale medico ha indotto il governo a ritornare sui suoi passi ed estendere la possibilità del loro utilizzo a tutti i reparti. 

 

È presto per capire quali saranno gli effetti della norma: attualmente sono essenziali in molte strutture ospedaliere. Solo negli ospedali veneti questa tipologia di professionisti ha coperto circa 42mila turni . Ed è proprio nei pronto soccorso dove vengono maggiormente utilizzati. 

“Nei pronto soccorso c’è più presenza di medici a gettone perché c’è più carenza di personale. È un settore che è molto gravato, in questa fase storica, dai rischi correlati alle aggressioni, dalle potenziali denunce e da un carico di lavoro impressionante. Un medico di pronto soccorso deve gestire più di 90 pazienti che sono spesso critici o acuti che potrebbero cambiare codice, ovvero aggravarsi, da un momento all’altro” spiega Di Salverio presidente di Anaoo-Assomed. 

 

“Il decreto del governo è un segnale, ma è al momento una goccia nel mare. Il problema è che attualmente senza queste figure non si va avanti” gli fa eco Antonio Voza, presidente della Società Italiana di Medicina di Emergenza e Urgenza, che estende il problema a tutto il nostro sistema sanitario. “È un problema generalizzato a 360 gradi, noi siamo la rosa del vigneto, i primi ad ammalarci. Ma è tutto il sistema ospedaliero a essere in crisi. Ci sono sempre più specialisti che lasciano il lavoro pubblico per gli ambulatori privati” aggiunge Voza.

Quello che è certo è che più si fa ricorso a queste figure, più a risentirne è la qualità con conseguenze che possono essere anche drammatiche: “Un’organizzazione, come quella della medicina di emergenza, che fa ricorso sistematico a professionisti delle cooperative è sicuramente più debole e avrà una qualità inferiore in un campo molto delicato dove diagnosticare una patologia immediatamente può salvare una vita” chiosa.

È indubbio però che, quando parliamo di medicina d’urgenza, ci troviamo di fronte medici spesso sottoposti a turni più stressanti rispetto al resto del personale medico e che spesso non hanno le stesse opportunità di arrotondare che hanno gli altri con le visite intra ed extra-moenia. Due caratteristiche che rendono la professione sempre meno appetibile da parte dei giovani e il ricorso ad esterni sempre più probabile. 

Strutture pubbliche, affari privati 

Ma è anche il proliferare delle visite (pienamente legittime) svolte “privatamente” da dipendenti delle Asl all’interno di strutture pubbliche o convenzionate a segnalarci che la presenza di affari privati in strutture pubbliche è un problema complesso. Sono sempre i Nas, nel corso della già citata inchiesta sulle liste d’attesa, a segnalare la storia di un dirigente medico responsabile di un ambulatorio di gastroenterologia e colonscopia di Roma. Nonostante le liste pubbliche con ticket fossero bloccate da mesi, il medico esercitava le stesse prestazioni in attività intramoenia extramuraria -regolarmente autorizzata – presso un poliambulatorio privato con una programmazione fino ad 8 esami giornalieri. Tradotto: l’unico modo per effettuare un accertamento diagnostico, spesso essenziale per la salute, era pagare. 

“Tra i suggerimenti che abbiamo sottoposto al ministero c’è anche quello di calibrare le visite in intramoenia ed extramoenia – sottolinea Dario Praturlon, portavoce dei Nas commentando gli esiti dell’inchiesta degli scorsi giorni – intendiamoci, è tutto alla luce del sole, e non c’è nessun profilo penale contestato, resta da considerare se sia deontologico” spiega ancora Praturlon.

“È paradossale che non ci sia disponibilità di prestazioni col ticket e poi ci si possa far visitare in intramoenia, dove il medico percepisce guadagni extra utilizzando la struttura pubblica o in un’altra struttura convenzionata dall’Asl”.

L’utente fa di fatto una visita privata, ma invece di ritrovarsi sei mesi di attesa attende pochi giorni, a patto di pagare. Una situazione ben testimoniata da Nord a Sud con inchieste portate avanti anche dal nostro gruppo editoriale. 

 

C’è poi il problema della mancata adesione di cliniche e ambulatori privati, già convenzionati, al sistema di prenotazione unico delle aziende sanitarie o a livello regionale. Una scelta dettata da convenienze economiche, ma che riduce la platea di strutture utili per l’erogazione delle prestazioni mediche specialistiche e diagnostiche. Nel Lazio dovrebbero coprire il 70% delle prestazioni, nella realtà ne coprono solo il 10%. “Abbiamo notato come in molte Regioni non sempre nel Cup ci siano tutte le strutture private accreditate: il paziente non ha a disposizione tutta la platea di strutture, devono chiamarle direttamente. In molte Regioni questo aspetto è un problema” spiega ancora Dario Praturlon a Today.it.

Eppure le convenzioni sono fatte in forma sussidiaria per supportare un servizio pubblico che spezzo zoppica. Segno che quello dei medici a gettone è solo la punta dell’iceberg di un Sistema Sanitario Nazionale sempre più ostaggio di logiche più privatistiche che pubbliche, che stanno trasformando lentamente un diritto costituzionale in un privilegio. 

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