giovedì 30 settembre 2021

Inquinanti nell’aria: l’OMS abbassa drasticamente i limiti consentiti - Gian Luca Garetti


Il 21 settembre l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha finalmente pubblicato le Nuove linee guida sulla qualità dell’aria globale (AQG ), ben più restrittive delle precedenti che risalivano al 2005.

C’è un imbarazzante abisso fra i limiti degli inquinanti attualmente vigenti in Europa, compresa l’Italia, e queste nuove raccomandazioni sui livelli obiettivo per sei inquinanti principali (PM2,5, PM10, ozono, biossido di azoto, biossido di zolfo, monossido di carbonio), basate su evidenze scientifiche. Tanto per fare due esempi, attualmente nella Unione Europea sono consentiti limiti di inquinamento per il PM2,5 di ben 5 volte superiori (per il PM2,5 in realtà non c’è soglia di sicurezza), di 4 volte per il biossido di azoto !

Lo scopo principale di queste nuove linee guida non è di fare il punto di una situazione complessa, già nota, ma di stimolare i decisori politici europei e mondiali a trovare delle efficaci e tempestive vie d’uscita da questa fitta nebbia di inquinamento dell’aria esterna ed interna.

L’inquinamento atmosferico nel 2019 è stata la quarta causa di morte a livello mondiale con 6,67 milioni di morti; al primo posto c’era l’ipertensione, al secondo il tabacco, al terzo la dieta squilibrata (“Global Burden of Disease”, The Lancet 2020); mentre a livello europeo è stato la prima causa di decessi prematuri dovuti a fattori ambientali. In Italia, sempre nel 2019, sono state 24.700 le morti premature causate dal PM2,5 (Report SNPA 17/20209). Sul tema si veda l’ebook edito da perUnaltracittà La salute disuguale.

Ci aspettiamo da parte della Commissione europea una pronta revisione dei limiti attuali, verso livelli di qualità dell’aria veramente protettivi della salute umana e non umana.

Ecco i nuovi limiti in paragone con le linee guida 2005:

–il PM2,5 passa da 10 a 5 µg/m³ come valore annuale (il limite normativo vigente in UE e Italia è di  25 µg/m3);  quello sulle 24 ore da 25 a 15 µg/m³

–il PM10 passa da 20 a 15 µg/m³ come valore annuale, quello sulle 24 ore da 50 a 45 µg/m³

–per l’ozono (O3) viene introdotto un valore per il picco stagionale pari a 60 µg/m³

–il biossido di azoto (NO₂) passa da 40 a 10 µg/m³ come  valore annuale e viene introdotto un valore sulle 24 ore pari a 25 µg/m³

– per il biossido di zolfo (SO₂), il valore sulle 24 ore passa da 40 a 20 µg/m³

– per il monossido di carbonio (CO) viene introdotto un valore sulle 24 ore pari a 4 µg/m³.

In queste linee guida non c’è una valutazione del rischio da esposizioni multiple (nella vita di tutti i giorni le persone sono spesso esposte a miscele di inquinanti contemporaneamente), ma si propongono buone pratiche dal punto di vista qualitativo per la gestione di alcuni tipi di particolato, come black carbon/carbonio elementare, particelle ultrafini e particelle derivanti da tempeste di sabbia e di polvere, per i quali non ci sono ancora prove quantitative sufficienti per fissare livelli guida.

Alcuni inquinanti, come black carbon e ozono troposferico, hanno anche un effetto sul riscaldamento globale e la loro riduzione porta a co-benefici per salute e clima. Tutti gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria, afferma l’OMS, possono contribuire alla mitigazione del cambiamento climatico e viceversa.

In Toscana, alla luce di questi nuovi limiti, l’inquinamento dell’aria sia per il PM2,5, che per il biossido di azoto, che per l’ozono permane a preoccupanti livelli di criticità.

All’uscita di queste nuove linee guida Oms, 100 società scientifiche nazionali e internazionali hanno rilasciato una dichiarazione in cui chiedono ai governi di attuare drastiche politiche per la riduzione dell’inquinamento atmosferico. L’iniziativa guidata dall’International Society of Environmental Epidemiology (Isee) e dalla European Respiratory Society (Ers) è stata sottoscritta anche da 9 società scientifiche italiane di epidemiologia, pneumologia, immunologia, neurologia e pediatria. 

Aria pulita e vaccini per tutti/e: diritti umani fondamentali, che sono questione di volontà politica e non solo di tecnologia.

da qui

domenica 26 settembre 2021

Un pericoloso criminale - Chiara Sasso

 

 

AGGIORNAMENTO DEL 23 SETTEMBRE “È arrivato l’ordine di scarcerazione per Emilio che, per il momento, andrà agli arresti domiciliari (a Bussoleno, ndr). Una notizia di gioia per tutte e tutti…”. Ad annunciarlo è il movimento #NoTav. Il 29 settembre verrà discussa in tribunale la richiesta di sull’estradizione da parte della Francia

 

Non c’è niente che faccia più arrabbiare alcune mogli che il ritardo dei mariti a pranzo. Erano poco dopo le 12 di mercoledì 15 settembre a Bussoleno, paese di residenza di Emilio Scalzo, Valle di Susa. La mattinata stava vivendo quel clima tipico settembrino incerto, sospeso fra “sole nuvole”. E così che diventa anche il tempo di attesa di Marinella, “sospeso”, con la tavola apparecchiata e il cibo pronto. Dalla stradina l’unico rumore che arrivava è un flebile miagolio, un gatto, probabilmente finito in qualche buco, un anfratto non riusciva più ad uscire. Marinella decide di mettere fine a quel lamento e chiede a Emilio di intervenire e aiutare l’animale a uscire dalla trappola nella quale si è cacciato. Non poteva immaginare che in fondo alla strada si stava per aprire un’altra trappola. Due auto civetta e altre due volanti della polizia lo stavano aspettando. Ammanettato e caricato su una volante, Emilio sparisce nel nulla.

Marinella aspetta, telefona all’avvocato il quale è all’oscuro di tutto. Trascorrono un paio d’ore prima di venire a conoscenza di un mandato di arresto europeo con richiesta di estradizione in Francia. L’accusa: aver aggredito un gendarme francese durante una manifestazione per i migranti al confine fra Claviere e Monginevro. Il giorno dopo, il 16 settembre la convalida dell’arresto, Emilio viene trasferito al carcere delle Vallette di Torino. A fine mese, il 29 settembre ci sarà un’altra udienza per decidere sull’estradizione. La nuova misura cautelare in attesa del processo in Francia dovrà essere convalidata dalla Corte di Appello. L’avvocato Danilo Ghia esporrà la situazione del suo assistito (facendo riferimento a processi in corso ad ottobre, una situazione che si profila di fatto ostativa per una estradizione).

Marinella è abituata a tutto, anche vedersi arrivare Emilio senza scarpe perché ha lasciato le timberland a qualche migrante al quale servivano per tentare di attraversare il confine. Magari a pieni nudi ma tornava.

 

Emilio è molto conosciuto per aver trascorso tutta una vita di lavoro in piena rettitudine, pescivendolo ai mercati nei paesi della valle (leggi anche Emilio, di Livio Pepino). Conosciuto per la sua generosità per il suo altruismo e anche sì per il suo incontenibile naturale bisogno di allearsi con le persone più fragili e aiutarli, in questo caso i migranti. È notizia di giovedì 16 settembre che altri due migranti, afghani hanno rischiato la vita precipitando di notte nel lago artificiale nella diga di Rochemolles (Bardonecchia). Sono riusciti da soli a uscirne si sono trascinati fino a un rifugio, immediatamente soccorsi sono stati portati all’ospedale di Susa, un ragazzo di trentacinque anni è stato successivamente portato al Cto di Torino per emorragia celebrale. È una delle tante storie che ci sono su questi valichi alpini. Una di quelle storie dove Emilio non si sentiva di girarsi dall’altra parte.

Intanto in tutta la valle sono in molti a commentare l’arresto sbalorditi. La richiesta di estradizione richiama facilmente reati pesanti, nomi di malavitosi, mafia, traffici di droga. Da quando la notizia è diventa pubblica sono molti gli avvocati di Torino e non solo che si sono cercati in un tam tam per commentare. “L’estradizione del cittadino italiano verso l’estero è un caso limite perché sia la Costituzione che il codice penale la consentono soltanto se prevista da una convenzione internazionale. Ora il Mae, il Mandato di arresto europeo, sembra consentirlo ma è incredibile che venga utilizzato per reati simili…”.

sabato 25 settembre 2021

Gli sponsor tossici della Cop26 - Alessandro Runci

Il prossimo 30 settembre avrà inizio a Milano la 26° edizione della Conferenza delle Parti (COP 26), il massimo summit internazionale sul clima. Quest’anno il vertice sarà ospitato congiuntamente da Italia e Regno Unito e c’è molta attenzione su come i due governi stanno gestendo le sue fasi preparatorie dell’evento.

L’esecutivo italiano ha finalmente rivelato chi saranno gli sponsor del summit milanese. In prima fila c’è proprio l’industria fossile, rappresentata da Enel, Edison e A2A.

Sul sito del ministero della Transizione ecologica non pare vi sia traccia dei contratti stipulati con le tre aziende e rimangono pertanto sconosciuti i profili economici degli accordi.

È chiaro però come i grandi inquinatori siano riusciti ad accaparrarsi visibilità a suon di sponsor durante quello che sarà uno dei più importanti eventi sul clima dell’anno.

Dentro e fuori dal MiCo, il centro congressi che ospiterà gli eventi della COP, il logo di Enel sarà onnipresente, nonostante il gruppo guidato da Francesco Starace abbia intenzione di realizzare due nuove centrali a gas in territori già fortemente impattati dai suoi impianti a carbone, come Brindisi e Civitavecchia. 

Anche A2A vorrebbe convertire a gas la centrale di Monfalcone, raddoppiandone la capacità, mentre Edison è il promotore di un ennesimo mega gasdotto (EastMed-Poseidon) che partirebbe da Cipro per arrivare fino in Puglia, spianando così la strada allo sfruttamento degli enormi giacimenti nel mediterraneo orientale.

Come se non bastasse, a gravare sulle tre società ci sono anche le vicende giudiziarie. Lo scorso maggio, dopo otto anni, si sono concluse le indagini preliminari relative alla centrale di Monfalcone, di proprietà di A2A.

L’ipotesi di reato, su cui a decidere sarà ora il GUP, è quella di disastro ambientale. Ad aprile del 2020, con una sentenza definita storica, il Consiglio di Stato ha condannato Edison ad avviare le bonifiche nell’area di Bussi (PE), riconoscendone dunque la responsabilità per l’inquinamento in quella che è diventata famosa come la discarica di veleni più grande d’Europa.

 

Proprio in questi giorni, a Brindisi, si sta scrivendo l’ennesima pagina del processo che vede coinvolta Enel nell’ambito dell’inchiesta sulle polveri di carbone della centrale di Cerano.

Dopo che la compagnia elettrica era stata condannata in primo e secondo grado, lo scorso anno la Cassazione ha annullato la sentenza d’appello rinviando nuovamente il processo alla Corte di Lecce.

Che il summit milanese rischi di trasformarsi in una vetrina per il greenwashing lo si deduce anche dal calendario degli eventi che si susseguiranno durante la settimana. Saranno ben sei quelli organizzati da Enel, che spazieranno dall’idrogeno alle infrastrutture fino ai progetti energetici in Africa.

Proprio l’idrogeno sarà uno dei temi caldi della Pre-Cop, e su questo vertono molti degli eventi in programma, tra cui anche uno di A2A ed una tavola rotonda organizzata dal governo inglese, alla quale parteciperanno aziende e politici italiani e britannici.

Da tempo, l’industria del gas da tempo spinge l’idrogeno come (falsa) soluzione alla crisi climatica, quando in realtà il 99% di quello che viene prodotto in Europa deriva proprio dal metano.

A guidare quest’azione di lobby è l’Associazione Italiana Idrogeno e Celle a Combustibile (H2IT), di cui fa parte anche Eni, la quale organizzerà un evento dal titolo “Hydrogen Everywhere”.

In teoria, il Cane a sei zampe non potrebbe organizzare eventi durante la Pre-Cop a causa della condanna per traffico illecito di rifiuti arrivata lo scorzo marzo dal Tribunale di Potenza. In pratica, oltre a quella di H2IT, ci sarà anche un’iniziativa promossa dalla Fondazione Eni Enrico Mattei.

Tra gli sponsor della Pre-Cop figura anche UniCredit che, nonostante i passi in avanti fatti sul carbone, lo scorso anno ha finanziato con 5 miliardi di euro le principali società attive nell’espansione di petrolio e gas, come Total e la stess Eni.

Una nota a parte la merita il nucleare, tornato alla ribalta dopo le dichiarazioni fatte dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani qualche giorno fa. Il ministero ha infatti concesso all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica di organizzare tre eventi durante la Pre-Cop, dove promuovere il nucleare come energia sicura e pulita. Una scelta a dir poco inusuale, ma non di certo casuale.

Tutti elementi che denotano quella che sarà la postura dell’esecutivo italiano nell’ambito dei prossimi negoziati. Già lo scorso marzo, ReCommon aveva rilevato l’esistenza di una Cabina di regia interministeriale all’interno della Farnesina in cui governo e industria fossile si riuniscono per concordare il posizionamento italiano nell’ambito dei vertici internazionali sul clima.

L’asse tra Stato e multinazionali energetiche sembra essersi perfino rinsaldato con il governo Draghi, ma sono sempre di più le persone determinate a scuotere questo equilibrio in nome di un cambiamento reale e dal basso.

*Lista completa degli sponsor: Enel, Edison, A2A, UniCredit, BPER, Snaitech, Alcantara

Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common

da qui

martedì 21 settembre 2021

Il “Monopoli” immobiliare del Presidente -

 

Da tempo ormai quel cantiere con vista sul parco naturale regionale del Molentargius – Saline e sulla Sella del Diavolo ha attirato l’interesse di tantissimi cagliaritani.

Saranno non meno di una cinquantina le segnalazioni pervenute (spesso indignate) alla nostra Associazione per fermare quello che appare un vero e proprio ingombro edilizio fuori scala per la zona.

La vicenda, per come viene descritta da Il Fatto Quotidiano, sembra proprio rientrare in un Monopoli immobiliare riferibile all’attuale Presidente della Regione autonoma della Sardegna.

Non abbiamo ulteriori elementi di altra natura, ma il quadro giuridico entro cui si situa il cantiere edilizio a due passi dalle Saline del Molentargius è sostanzialmente il seguente.

In estrema sintesi una norma per consentire l’edificazione nell’area in assenza di preventiva autorizzazione paesaggistica era stata approvata per cercare di “salvare” dalla demolizione un palazzo di sei piani realizzato a Cagliari, in Via Gallinara, a poche decine di metri dalle Saline di Molentargius dalla Progetto Casa Costruzioni s.r.l. in forza di concessione edilizia non munita di preventiva autorizzazione paesaggistica. 

Dopo lunghe vicissitudini giudiziarie, infatti, il Consiglio di Stato aveva deciso (sentenza sez. IV, 16 aprile 2012, n. 2188) per la necessità della preventiva autorizzazione paesaggistica in quanto area tutelata dal piano paesaggistico regionale (P.P.R.).

In origine era la  legge regionale Sardegna 20 ottobre 2012, n. 20  (Norme di interpretazione autentica in materia di beni paesaggistici), denunciata dal GrIG come “legge scempia-stagni”, a fornire a un’ interpretazione autentica delle disposizioni concernenti la fascia di rispetto spondale degli specchi acqueicontenute nel piano paesaggistico regionale (P.P.R.): la sentenza Corte cost. n. 308/2013 ne dichiarò l’illegittimità dell’art. 1, commi 1° e 2°.

 

Tutto da rifare    

Successivamente è stato l’art. 27 della legge regionale Sardegna 23 aprile 2015, n. 8 e s.m.i. a fornire l’interpretazione autentica secondo cui “sono beni paesaggistici le zone umide di cui all’articolo 17, comma 3, lettera g) delle Norme tecniche di attuazione del Piano paesaggistico regionale, individuate e rappresentate nella cartografia di piano nella loro dimensione spaziale. Il vincolo paesaggistico non si estende, oltre il perimetro individuato, alla fascia di tutela dei 300 metri dalla linea di battigia, riferita ai soli laghi naturali e invasi artificiali”.

Norma sempre avversata dal GrIG, senza esito purtroppo.

Così rimarrà in piedi il palazzo di Via Gallinara e saranno esaminati casi analoghi nell’area, che ricade in zona “B 5” (indice volumetrico di 5 metri cubi su metro quadro, lotto minimo edificatorio di 600 metri quadri) del vigente piano urbanistico comunale (P.U.C.) di Cagliari.

Con la vigenza di tale norma sono stati emanati i titoli abilitativi per il cantiere in argomento.

Si ricorda che il D.M. 24 marzo 1977, che individua l’area tutelata con vincolo paesaggistico ai sensi degli artt. 136 e ss. del decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i., comprende lo Stagno di Molentargius e le Saline, ha il confine rappresentato dall’argine.

 

Paradossale è la riviviscenza sostanziale della norma con l’art. 28 della legge regionale Sardegna 18 gennaio 2021, n. 1, secondo cui

 1. Fino all’adeguamento del PPR e delle relative NTA il vincolo paesaggistico relativo alle zone umide di cui all’articolo 17, comma 3, delle vigenti NTA si interpreta sistematicamente con l’articolo 18 delle medesime NTA nel senso che le zone umide rappresentano beni paesaggistici oggetto di conservazione e tutela per l’intera fascia di 300 metri dalla linea di battigia dei laghi naturali, degli stagni, delle lagune e degli invasi artificiali, a prescindere dalle perimetrazioni operate sulle relative cartografie in misura inferiore.

2. Nelle zone urbanistiche A, B, C, D, E ed F dei comuni che non abbiano provveduto all’adeguamento del piano urbanistico comunale al PPR, le aree libere da volumi regolarmente accatastati alla data di approvazione della presente legge, che ricadano nella fascia di tutela di cui al comma 1, sono inedificabili e non possono essere oggetto di alcuna trasformazione urbanistica o edilizia”.

La legge regionale è stata in gran parte impugnata davanti alla Corte costituzionale dal Governo Draghi, anche su segnalazione GrIG, per le numerose disposizioni in violazione delle competenze statali in tema di tutela del paesaggio, ma l’art. 28 no.

Tuttavia, tempus regit actum e, ovviamente, non comporta l’annullamento in via di autotutela (artt. 21 octies e 21 nonies della legge n. 241/1990 e s.m.i.)  dei titoli abilitativi emanati sotto il vigore della norma previgente.

Altrettanto ovviamente gli accertamenti da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari – come riferisce Il Fatto Quotidiano – sono quantomeno opportuni per verificare altri aspetti con poteri e facoltà d’indagine che le sono propri.

Un po’ di sana trasparenza non guasta, no?

Gruppo d’Intervento Giuridico odv


 

da Il Fatto Quotidiano19 settembre 2021

 

Cagliari, ecco l’inchiesta sulla megavilla di Solinas.

Fari dei pm – Aperto un fascicolo conoscitivo sull’abitazione (543 mq, 20 vani e 4 piani) e sulla palazzina adiacente: sorgono a ridosso di un’area protetta(Andrea Sparaciari)

Un enorme faro. È quello acceso a giugno dalla Procura di Cagliari sulla nuova villa – 543 mq, 4 piani, 20 vani, più giardino in una zona residenziale di Cagliari – acquistata dal presidente della Regione, Christian Solinas, il 10 marzo 2021 per 1,1 milioni di euro. Da prima dell’estate il sostituto procuratore Maria Virginia Boi ha aperto un fascicolo conoscitivo, un modello 45, senza indagati, su quella operazione. I magistrati stanno raccogliendo elementi su una palazzina di tre piani di nuova costruzione che sta sorgendo su un terreno originariamente appartenente alla villa stessa. In passato, infatti, il lotto dove si sta edificando era una porzione di giardino della villa e ospitava la piscina.

Il problema è che la nuova casa di Solinas e la nuova palazzina sorgono in un’area sottoposta a vincoli ambientali. Sono infatti situate a meno di 150 metri dal “Parco naturale del Molentargius-Saline”, l’area umida più importante del Mediterraneo per la nidificazione dei fenicotteri. E in molti – a iniziare dagli ambientalisti del Gruppo di intervento giuridico della Sardegna – si sono chiesti come sia stato possibile che i costruttori abbiano ottenuto i permessi per l’edificazione del nuovo complesso. Interrogativi che si sono trasformati in numerosi esposti (molti dei quali anonimi) giunti in Procura. Da qui l’apertura del fascicolo conoscitivo. Neanche le rivelazioni del Fatto circa gli investimenti risalenti al 2013 e al 2020 con i “rogiti spariti” (e con le relative caparre per complessivi 400 mila euro) che stanno a monte dell’acquisto della villa da parte di Solinas dalla famiglia Ciani (possibile grazie anche a un mutuo da 880 mila euro concesso al presidente dal Banco di Sardegna), sono passate inosservate.

In estrema sintesi, il 2 dicembre 2020 Solinas versa alla famiglia allora proprietaria della villa una caparra da 100 mila euro, sottoscrivendo il contratto preliminare, mentre firma il rogito finale per la casa il 10 marzo 2021, versando il restante milione. A destare l’attenzione degli inquirenti, in particolare, è l’operazione datata 4 novembre 2020, un mese prima della firma del preliminare di acquisto della villa, quando Solinas sigla un altro preliminare, col quale s’impegnava a vendere per 550 mila euro dei rustici in località Santa Barbara che aveva comprato nel 2002 a 42 mila euro.

Ad acquistare i rustici è l’imprenditore, fornitore della Regione, Roberto Zedda, che versa una caparra da 200 mila euro, impegnandosi a versarne ulteriori 50 mila entro 10 giorni. Zedda accetta anche di firmare il rogito finale entro il 30 giugno 2021. Rogito che nei documenti dell’Agenzia delle Entrate però non compare. Impossibile sapere se per un errore di trascrizione dell’agenzia, oppure se perché non è mai stato firmato. Né Solinas né Zedda hanno ritenuto necessario dare spiegazioni. Così come non hanno voluto svelare che fine abbiano fatto i 200 mila euro della caparra.

Ma c’è anche una seconda operazione – gemella – risalente al 30 maggio 2013 che avrebbe “stuzzicato” la curiosità dei pm: un’altra compravendita immobiliare, ma di terreni agricoli nel comune di Capocaccia. In quell’occasione Solinas, appena dimessosi da assessore regionale ai Trasporti, aveva siglato un preliminare di vendita per 40.350 mq di terreno a favore dell’imprenditore dei trasporti Antonello Pinna, per 400 mila euro. Anche in quel caso l’acquirente (Pinna) aveva versato una caparra da 200 mila euro a Solinas e si era fissato il rogito entro il 30 maggio 2014. Ma anche di quell’operazione nei documenti dell’Agenzia delle Entrate non v’è traccia. E anche per questa compravendita i protagonisti si sono rifiutati di dare spiegazioni.

da qui

lunedì 20 settembre 2021

Il diritto di accesso al cibo nella prospettiva della sovranità alimentare: vecchie e nuove sfide al tempo delle crisi - Luca Giacomelli , Alessandro Cocchi , Agnese Pacinico *

 

Le ultime crisi globali, da quella finanziaria del 2008 a quella pandemica del 2020-2021, ripropongono con forza all’attenzione dell’opinione pubblica e dei decisori di tutto il mondo il tema dell’autosufficienza e della "sovranità alimentare", intesa come autonomia e controllo nazionale delle risorse alimentari. Il tema ha profonde implicazioni economiche, politiche e giuridiche.

·          

·          

1. «Dobbiamo (…) riconoscere che l’epidemia ha messo in evidenza la rilevanza strategica della sovranità sanitaria, intesa come autonomia nazionale e controllo sui presidi sanitari, i farmaci, le attrezzature, la formazione del personale, ma anche della sovranità alimentare (autonomia e controllo nazionale delle risorse alimentari) (…)». Così scrivevamo un anno fa, riflettendo sulle prospettive della cooperazione internazionale allo sviluppo «nel mondo del dopo-virus»[1]. Allora era tutt’altro che chiaro se e quando saremmo usciti dal tunnel della pandemia né quanto questa avrebbe ulteriormente allargato il divario tra le economie del Nord e del Sud del Mondo. Oggi, alla luce delle macroscopiche asimmetrie con cui i diversi paesi del pianeta riescono ad approvvigionarsi di vaccini e a somministrarli ai propri cittadini, si può affermare con sicurezza che il tema della sovranità sanitaria – ovvero l’abilitazione all’esercizio di un controllo politico ed economico effettivo sulle risorse che garantiscono l’accesso di una collettività alle cure di base – si pone oggi con forza ancor maggiore di un anno fa. L’ipotesi di una temporanea sospensione dei brevetti sui vaccini e di una liberalizzazione della loro produzione per far fronte alla domanda mondiale, è riconducibile proprio alla questione della sovranità sanitaria.

Meno discussa, ma non meno rilevante a livello globale, è il tema della sovranità alimentare, un argomento multidimensionale che nelle prossime pagine si affronta dal punto di vista economico, politico e giuridico. Nella sua declinazione economica, la questione della sovranità alimentare richiama l’incidenza dell’approvvigionamento alimentare sulla bilancia commerciale e il peso strategico che l’autonomia o la dipendenza alimentare dall’estero può avere sul posizionamento economico e politico sul mercato globale di un paese.

Molti paesi del mondo, anche tra i «paesi ricchi», non sono autosufficienti dal punto di vista alimentare, ma compensano l’importazione di prodotti agroalimentari con l’esportazione di materie prime, manufatti e servizi. In molti casi è una scelta obbligata, in quanto la sproporzione tra popolazione residente e risorse agricole proprie è incolmabile, come è il caso ad esempio del Giappone o della Gran Bretagna[2]. Per i colossi del mondo l’autosufficienza alimentare è invece un obiettivo strategico di fondamentale importanza, da perseguire ad ogni costo, al pari della difesa militare dei propri confini.

La Cina, con una popolazione che si aggira intorno al miliardo e quattrocento milioni di abitanti, è sempre stata storicamente dipendente dalle importazioni di cereali dall’estero, soprattutto dagli Stati Uniti (principalmente soia e mais). Pressata dalla guerra dei dazi promossa da Trump, la Cina ha tuttavia reagito dichiarando nel suo Rapporto 2019 sullo Sviluppo del Settore Agricolo della Cina di non temere più di restare a corto di scorte senza gli approvvigionamenti alimentari dall’estero. Secondo questo rapporto, la Cina è pronta a raggiungere «l’autosufficienza alimentare di base in materia di cereali e la sicurezza alimentare assoluta»[3]. L’obiettivo è raggiungibile anche grazie a quella politica di sistematica acquisizione di suoli agricoli nel mondo[4], soprattutto in Africa e in America Latina, conosciuta come land grabbing: accaparramento di terra. Una politica che viene da lontano, perseguita negli ultimi decenni con lungimiranza spietata e applicata dal governo cinese con ogni mezzo, dalla corruzione politica all’evacuazione forzata delle popolazioni native[5].

Nell’Outlook Conference 2021-2030 del Ministero dell’Agricoltura cinese del 23 Aprile 2021, il vice ministro Yu Kangzhen ha dichiarato che nel 2021 la produzione interna cinese assicurerà «absolute security in staples food», assoluta sicurezza in alimenti di base[6].

Anche la Federazione Russa – sotto la spinta delle sanzioni europee che nel 2014 fecero seguito all’occupazione della Crimea da parte delle truppe di Mosca – è oggi completamente autosufficiente in quanto a prodotti alimentari di base e sta attivamente sviluppando il potenziale di esportazione. Negli ultimi sei anni la Russia ha ridotto di un terzo le sue importazioni alimentari, passando da $ 43,3 miliardi nel 2013 a $ 30 miliardi nel 2019. Il costante sviluppo del settore agroindustriale e l'autosufficienza hanno consentito alla Russia di passare da un modello produttivo orientato alla sostituzione delle importazioni a un modello orientato all'esportazione. Le esportazioni agricole russe sono aumentate del 150% e hanno totalizzato $ 25,6 miliardi alla fine del 2019 rispetto ai $ 16,8 miliardi nel 2013[7].

Gli Stati Uniti d’America sono da sempre autosufficienti dal punto di vista alimentare ed esportatori netti di prodotti agricoli, soprattutto cereali. Il Self Sufficiency Ratio[8] degli Stati Uniti d’America supera il 120% e consente loro di utilizzare l’embargo agricolo come deterrente commerciale nelle relazioni internazionali.

L’Italia è divenuta, solo negli ultimissimi anni, un esportatore netto di prodotti agroalimentari, con un saldo attivo della bilancia commerciale del comparto di oltre 3 miliardi di Euro nell’anno della pandemia (2020). L’export agroalimentare italiano «vale» oltre 45 miliardi di Euro e rappresenta circa il 10% dell’intero export nazionale[9]. Una crescita straordinaria se si considera che nel 2007 il SSR italiano era intorno al 63% (FAO).

Il problema dell’autosufficienza alimentare è invece drammatico nei paesi economicamente più fragili, nei paesi più aggrediti dal cambiamento climatico (ad esempio quelli dell’area saheliana) e nei paesi privi di risorse, tanto tecnologiche che naturali: in quelle realtà economiche, insomma, dove il potenziale di interscambio con l’estero è minato da debolezze strutturali dell’apparato produttivo, da un’iniqua distribuzione della terra, da una crescita demografica che eccede la capacità di crescita economica interna o da un rapido deterioramento delle risorse naturali (acqua, suolo). In questi paesi, soprattutto in Africa e in America Latina, l’autonomia alimentare non si misura quindi solo in termini di bilancia commerciale, ma anche e soprattutto in termini di capacità di autodeterminazione tecnologica e normativa, di rispetto di diritti fondamentali – come l’accesso alla terra e all’acqua – e di partecipazione dei produttori alla formazione del valore aggiunto nelle filiere agroalimentari. E’ in queste realtà che nasce e si elabora, fin dalla metà degli anni ’90, l’idea stessa di sovranità alimentare.

Siamo consapevoli che il termine "sovranità" rischia di richiamare alla mente il suo derivato "…ismo", entrato recentemente nel lessico politico italiano come edulcorata alternativa al termine "nazionalismo". Qui cercheremo di restituire a questo termine tutta la dignità politica e giuridica che merita, soprattutto in rapporto al tema dell’alimentazione che, come vedremo, trascina con sé un insieme di corollari collegati direttamente ai diritti fondamentali dell’uomo.

 

2. Il concetto di sovranità alimentare, inteso come autonomia e controllo nazionale delle risorse alimentari, ottiene risonanza internazionale durante il World Food Summit indetto dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) tenutosi a Roma nel 1996. In quell’occasione il Movimento Contadino Internazionale, La Via Campesina, definì la sovranità alimentare come «il diritto dei popoli, delle comunità e dei paesi di definire le proprie politiche agricole del lavoro, della pesca, del cibo e della terra che siano appropriate sul piano ecologico, sociale, economico e culturale alle loro realtà uniche». 

La cornice all’interno della quale si sviluppa il tema della sovranità alimentare è costituita dallo spazio rurale e dalle sue dinamiche, in cui sono inclusi gli abitanti coinvolti in attività di produzione agricola – piccoli e medi proprietari terrieri e contadini –, pastorizia, pesca, o nelle molteplici attività connesse con l’economia forestale. Nonostante le aree rurali e le popolazioni che vi abitano siano tutt’altro che socialmente ed economicamente irrilevanti a livello globale, esse vengono spesso considerate marginali nella duplice declinazione di effettiva marginalità geografica – si parla, nella maggior parte dei casi, dei paesi del Sud del mondo – ed in quella di marginalità politica nell’agenda delle policies nazionali ed internazionali. Questi aspetti fanno sì che, nelle suddette aree, l’accesso al reddito, alle informazioni, ai capitali e a qualsiasi servizio di supporto da parte dello Stato sia altamente limitato, così come la partecipazione ad attività sociali e la possibilità di incidere nelle decisioni collettive.

Con l’avvio della riflessione sul tema della sovranità alimentare promosso da La Via Campesina, si delinea un nuovo approccio al problema dell’insicurezza alimentare, che pone coloro che producono, distribuiscono e consumano alimenti nel cuore dei sistemi e delle politiche alimentari e al di sopra delle esigenze dei mercati e delle imprese. L’approccio che propone La Via Campesina è, infatti, rivoluzionario rispetto al paradigma neoliberista – che tuttora domina il settore agroalimentare e che sottopone il cibo alle logiche di mercato dei beni commerciabili – in quanto dà priorità all’economia e ai mercati locali e nazionali, privilegia l’agricoltura familiare, la pesca e l’allevamento tradizionali, basati sulla sostenibilità ambientale, sociale ed economica.

La definizione della sovranità alimentare data da La Via Campesina si articola, più nello specifico, intorno a sette pilastri che testimoniano la complessità e la multidimensionalità dell’argomento:

1. La tutela universale del diritto al cibo che, mediante una ridefinizione delle norme giuridiche e delle strutture di potere alla base del modello dominante, elimini le contraddizioni sistemiche dell’attuale sistema agroalimentare attraverso l’adozione a livello internazionale di un paradigma che riconosca la centralità e l’unicità del cibo per la vita umana.

2. La riforma agraria che risolva i problemi di iniqua distribuzione della terra e di incertezza dei diritti di proprietà e che contrasti i fenomeni di land grabbing, assicurando un’acquisizione della terra libera da fattori religiosi, di genere, di classe sociale o di razza.

3. La protezione delle risorse naturali a partire da un modello orientato all’agricoltura su piccola scala, non industriale, che faccia riferimento soprattutto alla cosiddetta agro-ecologia.

4. La riorganizzazione del commercio alimentare che preveda, in primo luogo, una produzione finalizzata all’autosufficienza e, in secondo luogo, un accorciamento della filiera produttiva-distributiva utile a garantire migliore accesso al mercato ai piccoli produttori.

5. La fine della globalizzazione della fame tramite la regolamentazione e la tassazione del capitale speculativo e l’applicazione rigorosa di codici etico-giuridici di condotta per le corporazioni transnazionali.

6. La pace sociale indispensabile all’affermazione della sovranità alimentare in considerazione del fatto che i conflitti minacciano la capacità di resilienza dei popoli spesso costretti a ricorrere a metodi distruttivi di sfruttamento delle risorse naturali minando ulteriormente la loro stessa sicurezza alimentare.

7. Il controllo democratico inteso come diritto a partecipare direttamente, in maniera equa e inclusiva, ai processi di formulazione delle politiche agricole a tutti i livelli e più in generale delle decisioni collettive.

È importante poi precisare la differenza tra sicurezza e sovranità alimentare. La sicurezza alimentare (food security) – da non confondersi con food safety che riguarda invece il diverso tema dell’igiene e della salubrità degli alimenti – viene definita dalla FAO come «condizione in cui tutte le persone, in ogni momento, hanno accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti, che garantiscano il soddisfacimento delle loro esigenze e preferenze per condurre una vita attiva e sana». Il modello teorico della sicurezza alimentare si articola intorno a quattro dimensioni: 

· disponibilità in termini di quantità e qualità di prodotti alimentari

· accessibilità fisica ed economica ad alimenti appropriati per una dieta nutriente

· utilizzo efficace degli alimenti, e, infine, 

· stabilità nel tempo che garantisca un approvvigionamento sicuro e adeguato di beni alimentari per tutti ed in ogni momento.

In questo quadro si inserisce, a partire dalla seconda metà degli anni ’90, il dibattito politico intorno alla sovranità alimentare, che concorre a determinare condizioni di sicurezza alimentare tramite un modello di sviluppo che garantisca il rispetto delle quattro dimensioni della sicurezza alimentare e secondo il quale il controllo dal basso dei mezzi di produzione e delle risorse alimentari deve essere integrato con nuove rivendicazioni, anche di natura giuridica. Nell’ambito delle strategie di promozione della sovranità alimentare, inoltre, le questioni della sicurezza alimentare e del diritto al cibo si riconducono ad un processo di ri-territorializzazione, intesa come ri-presa di coscienza e di possesso delle matrici ecologiche e territoriali della civiltà umana come tale. Questa strategia implica il riconoscimento sostanziale dei diritti locali, indigeni e comunitari, al controllo delle risorse per la produzione di cibo e alla definizione delle proprie scelte alimentari.

Come anticipato in premessa, la recente crisi socio-sanitaria derivante dallo scoppio della pandemia da COVID-19 ha senz’altro accentuato e aggravato tendenze negative che il tracollo economico e finanziario del 2008 aveva già fatto emergere, con conseguenze disastrose anche sull’accesso a beni vitali come il cibo, l’acqua o i farmaci essenziali. Già allora erano stati evidenziati i limiti e le iniquità dell’assetto “del” mercato e dei rapporti di forza tra attori privati e istituzioni pubbliche che operano “nel” mercato, dimostrando il fallimento delle politiche economiche e dei meccanismi di regolazione e di controllo dei sistemi economici dominanti. 

Eppure la lezione non è stata appresa, come dimostra impietosamente la questione dell’approvvigionamento dei vaccini dove chi corre nelle somministrazioni sono i Paesi occidentali e quelli più ricchi, mentre tutti gli altri aspettano. Con riguardo al tema dell’accesso al cibo, le cose non sono migliori. Negli ultimi anni, il food divide – ossia la sempre maggiore e diseguale condizione soggettiva di disporre e di accedere concretamente ad una alimentazione adeguata – che da sempre insiste tra le economie del Nord e del Sud del mondo si è ampliato sino ad assumere carattere diffuso su scala globale. All’orizzonte si profila una profonda e preoccupante trasformazione, sintetizzabile nel passaggio dalla dialettica food safety e food security, che ha informato finora il diritto dell’alimentazione, all’emergente situazione di food insecurity[10]. Anche per queste ragioni, la riflessione sulla sovranità alimentare acquista un significato ancora più pregante, soprattutto per il giurista. 

 

3. A prescindere dall’iniziale ispirazione prevalentemente ideologico-politica della sovranità alimentare, tale concetto può essere oggi definito, a tutti gli effetti, quale istituto tipico del diritto dell’alimentazione, con numerosi esempi di attuazione a livello giuridico-costituzionale, alcuni dei quali particolarmente significativi in un’ottica comparativa. Indubbiamente nel concetto di sovranità alimentare rimane vivida la spinta di carattere identitario che si esprime proprio attraverso il riferimento al termine “sovranità” il quale, nell’articolazione dei rapporti tra Stato, individui e risorse, suggerisce interessanti risvolti sotto il profilo sia interno che esterno. Sul piano interno, la sovranità alimentare richiama un’esigenza di autogoverno nella gestione delle fonti e delle risorse alimentari in un’ottica partecipativa di tutti i soggetti che materialmente sono legati alle fonti e alle risorse di produzione e di distribuzione di alimenti da stretti rapporti e vincoli di diversa matrice. Sul piano esterno, invece, il richiamo alla sovranità si ricollega al concetto di indipendenza ed autodeterminazione rispetto alle influenze esterne. In quest’ottica, sono molto preoccupanti fenomeni come quello, già richiamato in precedenza, del land grabbing, termine utilizzato per riferirsi alle acquisizioni di terre effettuate violando i diritti umani, ignorando il principio del consenso “libero, preventivo e informato” delle comunità che utilizzano quella terra, in particolare dei popoli indigeni, ignorando l’impatto sociale, economico e ambientale derivante da tali accordi, evitando la conclusione di contratti trasparenti, contenenti impegni chiari e vincolanti sugli impieghi e sulla divisione dei benefit e bypassando la partecipazione democratica, il controllo indipendente e la partecipazione informata delle popolazioni che utilizzano la terra. 

La sfida culturale, prima ancora che politica e giuridica, è allora il passaggio da una concezione del cibo come merce e come moneta da scambiare sul mercato a una concezione del cibo come bene fondamentale e, dunque, oggetto di un diritto fondamentale. La riflessione sul diritto al cibo, oggetto del più elementare e vitale dei diritti fondamentali, cioè del diritto alla vita e alla sussistenza, rappresenta dunque un essenziale banco di prova[11]. Sotto questo punto di vista appare particolarmente interessante il passaggio dall’approccio verticistico della lotta contro la fame nel mondo a un approccio orizzontale, in cui ciascun Paese ha assunto un ruolo più attivo. Per usare le parole di Stefano Rodotà «siamo di fronte a una vera e propria costituzionalizzazione diffusa di tale diritto, che corrisponde alla più generale costituzionalizzazione della persona, punto di riferimento dei più recenti sviluppi del diritto»[12]. Tale osservazione sembra essere suffragata dagli esiti di un’indagine promossa dalla FAO nel 2011, dalla quale emerge che sono oltre cento le costituzioni nel mondo che riconoscono, se pur attraverso meccanismi di tutela differenti, il diritto al cibo[13]. In questo scenario assumono significato le novità registrate nelle carte fondamentali di quei Paesi che prima di tutti hanno codificato norme sul cibo e sull’alimentazione. Se un riconoscimento esplicito si trova in alcuni testi costituzionali, richiamando o il «diritto al cibo» ovvero il «diritto all’alimentazione» (Bolivia, Brasile, Ecuador, Haiti, Nepal, Sudafrica, Ucraina, Uganda) o la «libertà dalla fame» (Guyana, Kenya, Nicaragua) o il «diritto alla sovranità alimentare» (Nepal, Venezuela, Ecuador e Bolivia), in altri casi è la «sicurezza alimentare» a trovare riconoscimento sotto forma di specifiche obbligazioni poste a capo dei pubblici poteri (Etiopia, India, Malawi, Nigeria, Pakistan, Suriname); disposizioni specifiche sono dettate per assicurare il diritto al cibo a determinate categorie di “soggetti deboli” come i minori (Brasile, Colombia, Costa Rica, Cuba, Guatemala, Honduras, Messico, Panama, Paraguay, Sud Africa), gli anziani (Paraguay). Quando mancano previsioni esplicite, l’alimentazione è oggetto di «tutela in quanto strettamente collegata ad altri diritti», come, in genere, il diritto a uno standard di vita dignitoso, sufficiente, appropriato (Bielorussia, Congo, Malawi, Moldavia).

Il tema è di rilievo ove in tale riferimento la tematica della sovranità alimentare viene affrontata a tutto tondo, con riguardo alla necessità di promuovere investimenti nel settore agroalimentare accompagnati da riforme strutturali in ambito agricolo e non solo.  Si tratta dunque di una visione sintetica – ovvero olistica[14] – della sicurezza alimentare e delle sue diverse componenti, riassunte da un lato, dal diritto al cibo, quanto alle pretese degli individui relative all’accessibilità e all’adeguatezza (anche dal punto di vista ambientale) di cibo e, dall’altro, dai principi propri della sovranità alimentare quanto all’organizzazione delle politiche agrarie e di produzione di alimenti ed alla necessità di promuovere una maggior inclusione dei soggetti che presentano collegamenti più stretti col territorio. 

Questa visione integrata, sensibile al tema dello sviluppo sostenibile, è condivisa anche dalle costituzioni che si ispirano alla dottrina del buen vivir come Bolivia e Ecuador. La costituzione di quest’ultimo, in particolare, contiene uno specifico riferimento alla sovranità alimentare all’art. 281, comma 1, nel quale si afferma che la sovranità alimentare è un obiettivo strategico e rappresenta un’obbligazione per lo Stato affinché garantisca che le persone, le comunità, i popoli e le nazioni raggiungano una permanente autosufficienza nell’accesso ad un cibo sano e culturalmente appropriato[15].

È evidente che di fronte a questi sviluppi normativi, alcuni dei quali anche piuttosto avanguardisti, si pone tuttavia il problema di garantirne l’effettività e la giustiziabilità nel caso di violazioni o omissioni governative. Ad una prima analisi si può sostenere, alla luce della complessa natura dei diritti che discendono dai concetti di sicurezza e di sovranità alimentare, nonché del conflitto potenziale tra gli interessi in gioco, che sono proprio i giudici (nazionali) a svolgere un ruolo fondamentale in materia di garanzia di tali diritti. In altri termini, le corti «costituiscono la via più efficace alla attuazione dei diritti umani in quanto ess(i) sono compost(i) da giudici indipendenti rispetto agli esecutivi; operano secondo un procedimento percepito come legittimo dai cittadini e dalle vittime di violazioni dei diritti umani; per la loro familiarità con il contesto nel quale operano, sono in grado di offrire quelle soluzioni giurisprudenziali che risultano politicamente più accettabili e giuridicamente più efficaci rispetto all’intervento di corti di rango internazionale»[16]. Infatti, le operazioni di bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti e l’applicazione di canoni ermeneutici quali la ragionevolezza, la proporzionalità e l’adeguatezza – che in campo alimentare si costruisce in considerazione di diversi ambiti, quello strettamente economico, ma anche quello sociale, territoriale e culturale –, rimanda in capo ai giudici una grande responsabilità, tale da porli, talvolta, anche in una posizione di potenziale conflitto con gli altri poteri dello Stato nel momento in cui sono chiamati a dare concretezza a diritti fondamentali sì ma, ancora in gran parte, “condizionati” dalle prevalenti condizioni sociali, economiche, culturali, climatiche ed ecologiche. Osservando allora la casistica giurisprudenziale, soprattutto di rango costituzionale – che non è possibile approfondire in questa sede –, si possono trarre alcuni presupposti che condizionano la giustiziabilità del diritto al cibo adeguato: è innanzitutto indispensabile che esso sia consacrato nel sistema giuridico considerato (a prescindere dalla tecnica di tutela costituzionale adottata); che sia invocabile dinanzi a un organo giudiziario o quasi-giudiziario; che sia riconosciuto come giustiziabile da tale organismo; e, soprattutto, che vi sia un meccanismo di accesso alla giustizia da parte dei più svantaggiati, che consenta loro di invocare il diritto violato a nome delle vittime[17]. Senza tutto ciò, la proclamazione del diritto rischia di rimanere, appunto, solo una proclamazione. 


 
[1] Alessandro Cocchi, Luca Fé d’Ostiani, Quale cooperazione internazionale nel mondo del dopo-virus?, in Questione Giustizia, 03/07/2020, https://www.questionegiustizia.it/articolo/quale-cooperazione-internazionale-nel-mondo-del-dopo-virus  

[2] Nel 2018 il tasso di autosufficienza alimentare del Giappone si assestava intorno al 37%, misurato in termini di rapporto tra calorie prodotte e calorie necessarie al soddisfacimento del fabbisogno interno (fonte: Agenzia Nova). Lo stesso tasso si aggira in Gran Bretagna intorno al 50% (Fonte: Agrinotizie).

[3] https://www.agrifoodtoday.it/sviluppo/cina-autosufficienza-alimentare.html

[4] In proprietà, in concessione o per sfruttamento indiretto attraverso l’instaurazione di regimi di monopsonio, ovvero imponendosi come principale se non esclusivo acquirente, come in Argentina per quanto riguarda la soia.

[5] OXFAM, Chi ci prende la terra, ci prende la vita: come fermare la corsa globale alla terra, Briefing note, 2012.

[6] http://english.moa.gov.cn/news_522/202104/t20210428_300641.html

[7] Giovedì 6 agosto 2020, Ministry of Agriculture of the Russian Federation, Russia. https://mcx.gov.ru

[8] «This more pragmatic understanding of food self-sufficiency is captured by what the FAO terms the self-sufficiency ratio (SSR), which is defined as the percentage of food consumed that is produced domestically (FAO, 2012). The SSR is measured using the following equation with respect to food production and trade: Production x 100 / (Production + Imports – Exports). More precise measurements of the SSR also include changes in domestic stock levels (Puma et al., 2015). The SSR is typically measured in calories or in volume of food produced, although it can also be expressed as a ratio of monetary value» (http://www.fao.org/3/i5222e/i5222e.pdf).

[9] http://www.ismeamercati.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/11345

[10] Cfr., L. Costato, Principi e requisiti generali della legislazione alimentare, in L. Costato, A. Germanò, E. Rook Basile (a cura di), Trattato di diritto agrario. Il diritto agroalimentare, Torino, 2011, 19 ss.

[11] A prescindere dalla categoria di diritti in cui il diritto al cibo è di volta in volta ascritto, i suoi elementi descrittivi sono tali da consentire di ricondurlo, anche per il livello di tutela costituzionale comparata, alla categoria dei c.d. “basic rights”, ovvero quei diritti «il cui godimento rende possibile il godimento di tutti gli altri diritti». Così, per esempio, H. Shue, Basic Rights. Subsistence, Affluence and U.S. Foreign Policy, II ed., Princeton (NY), Princeton University Press, 1996, p. 20.

[12] S. Rodotà, Il diritto al cibo, i Corsivi (e-book), 2014, p. 4.

[13] Cfr., FAO, L. Knuth, M. Vidar (a cura di), Constitutional and Legal Protection of the Right to Food around the World, Roma, 2011, disponibile su; www.fao.org (ultimo accesso: 18 giugno 2021).

[14] G. Zagrebelsky, Due concetti costituzionali: sovranità alimentare e olismo, in AA.VV., Carlo Petrini: la coscienza del gusto, Pollenzo, 2014, p. 12 e ss.  

[15] Sullo sviluppo delle politiche pubbliche in materia alimentare nel sistema costituzionale ecuadoriano si rinvia, per i debiti appofondimenti a R. Nehering, Politics and Policies of food sovereignty in Ecuador: New Directions or Broken Promises?, in UNDP-IPC Working Paper no. 106, Brasilia, 2013.

[16] A. Rinella, H. Okoronko, Sovranità alimentare e diritto al cibo, in Dir. pub. comp. eur., 2015, p. 107.

[17] Cfr., C. Golay, The right to food and the access to justice, Roma, FAO, 2009 e M.J. McDermott, Constituzionalizing an enforceable right to food: a new tool for combating hunger, in Boston College International and Comparative Law Review, Volume 35, Issue 2, 2012.

 

[*]

Alessandro Cocchi, agro-economista, Dottore di ricerca in Economia e Territorio, professore a contratto presso la Scuola di Economia dell’Università di Firenze, consulente UE, AICS

Luca Giacomelli, dottore di ricerca in diritto costituzionale e comparato presso l’Università di Milano-Bicocca
 
Agnese Pacinico, dottoressa in Sviluppo Economico, Cooperazione Internazionale Socio-Sanitaria e Gestione dei Conflitti

 

da qui

domenica 19 settembre 2021

La ridefinizione dello scenario sanitario internazionale - Nicoletta Dentico

Il G20 Salute a guida italiana a fine ottobre avrà la sessione decisiva. Mentre al Sud del mondo arriva solo l’1,6% dei vaccini e il Patto di Roma non ha appoggiato lo stop ai brevetti. A vantaggio di Big Pharma che punta a una endemizzazione, non al superamento della pandemia.

A quasi due anni dall’inizio del contagio che piega il mondo, e delle inequivocabili pedagogie che assimilano l’emergenza umana alla emergenza sanitaria del pianeta, la salute domina la scena come scacchiera di una partita geopolitica aspra e confusa.

L’annunciato nuovo coronavirus – che oramai tanto nuovo non è più – non avrebbe mai dovuto diventare una pandemia. Lo ha dichiarato senza fronzoli il rapporto del Panel Indipendente della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): la comunità internazionale aveva tutte le competenze tecniche e le regole operative vincolanti per serrare i confini del primo focolaio virale e farne una epidemia circoscritta geograficamente. Non lo ha fatto. La catastrofe sanitaria in cui ci troviamo ancora, con la fame acuita e la crisi socio-economica che fanno da corollario pandemico, è il frutto avvelenato della incapacità dei governi di aderire alle norme del diritto internazionale e di cooperare, come pur accadeva in passato durante la guerra fredda, sul terreno della salute.

Forse sulla scia di questa responsabilità storica non propriamente interiorizzata, la comunità internazionale continua a incontrarsi – non si sono mai visti tanti appuntamenti multilaterali sulla salute globale come nel 2021 – ma nella totale incapacità di andare oltre le formule di circostanza, che sono il metronomo della nostra vita pubblica. Il sostanziale rigetto di un impulso universalistico, sotto l’egida delle istituzioni internazionali deputate a governarlo, si è infilato come un virus nella Babele di iniziative individuali e di strutture che germinano come schegge di un multilateralismo in frantumi.

Qualche esempio? l’Europa ha avviato a gennaio una demarche a favore di un trattato pandemico in seno all’Oms; a maggio la Svizzera ha lanciato il suo BioHub e la Germania il suo l’Hub globale per la intelligence pandemica ed epidemica. A giugno il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric Lander, è partito con l’idea che un vaccino debba essere pronto in 100 giorni dallo scoppio della prossima pandemia e solo qualche giorno fa il presidente Joe Biden, assai poco propenso all’idea di negoziare un trattato, ha proposto un summit internazionale sul Covid-19 e sulle vaccinazioni in concomitanza con la Assemblea dell’ONU a New York. E’ notizia recente anche il piano di USA ed Europa di resuscitare l’esplosivo Transatlantic Trade and Investment Partnership (notorio come TTIP), dissotterrando il negoziato seppellito nel 2016 per ripescare l’alleanza atlantica in versione anti-Cina. La posta in palio della nuova rotta bilaterale, annunciata prima del G7, non punterà più solo a specifici settori dell’industria, ma all’intelligenza artificiale, alla governance dei dati, agli standard industriali tout court. Il primo incontro del Trade and Tech Council fra Bruxelles e Washington è previsto a Pittsburgh il 29 settembre . 

La pandemia insomma ha ridisegnato i contorni dell’ordine internazionale, non solo sanitario, con impreviste forme di protagonismo e pigli di potere debitamente mascherati dalla retorica della interdipendenza, della cooperazione. La comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico come fosse un destino a cui non può più sottrarsi. Vero: altre pandemie prosperano silenziose – ad esempio la antibiotico-resistenza, per cui l’Italia vanta il record di casi nel contesto europeo; incombe il pericolo di nuovi salti di specie dei virus, in linea di continuità con le incalzanti zoonosi che hanno marchiato l’inizio del millennio – visto che nessuno sembra intenzionato a mettere in discussione il conflitto irriducibile fra capitalismo e sostenibilità ecologica.

Ma la costruzione di uno scenario di “preparazione e risposta alle pandemie” (pandemic preparedness and response), al posto di una loro futura prevenzione, serve eccome a riconfigurare gli assetti della governance sanitaria mondiale. E’ una prospettiva munifica di benefici per quanti indirizzano la salute verso pratiche sempre più securitarie e personalizzate grazie a soluzioni tecnologiche non più obiettabili, perché considerate la strada più economica e affidabile per intercettare ogni avvisaglia futura. I cantori di questa strategia, tutt’altro che neutrale, apparecchiano danni ambientali non trascurabili ma soprattutto non trascurabili profitti per l’industria digitale che nessuno controlla, men che meno in tempo di pandemia. 

Dal canto loro, è chiaro che le aziende che producono vaccini non hanno alcun interesse ad eradicare la pandemia, casomai puntano a endemizzarla, così da prolungare al massimo la grande abbuffata che Covid-19 ha servito su un piatto d’argento. Uno tsunami di investimenti pubblici e zero rischi d’impresa: in un anno la pandemia ha generato 8 nuovi miliardari farmaceutici, 5 dei quali afferiscono alla start up americana Moderna. L’idea di un Global Health Threats Board and Fund per gestire le emergenze sanitarie, avanzata dal Panel indipendente dell’Oms e dal G20 con la benedizione della amministrazione americana, va dritta in questa direzione: l’ennesimo dispositivo multi-stakeholder per una nuova immuno-politica farmaco-digitale. Con lauti finanziamenti pubblici, l’industria farmaceutica terrà ben stretto il coltello dalla parte del manico per sfornare le tecnologie bioinformatiche e le soluzioni biomediche per future pandemie. 

Nell’aprile 2020, la creazione dell’Access to Covid-19 Tool Accelerator (ACT-A) per la ricerca e distribuzione globale dei rimedi contro il Covid – proposto dalla Fondazione Gates con l’estatica accoglienza della Commissione Europea e della presidenza francese, e l’imprimatur della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – ha decretato la scelta della comunità internazionale di affidare a partnership pubblico-private la gestione internazionale della prima crisi di salute planetaria. Sono entità di diritto privato e densamente popolate da Big Pharma come Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI) e Coalition for Epidemic Preparedness and Innovation (CEPI), che detengono la conduzione operativa della emergenza su scala globale, finanziata dai governi. Con inspiegabile euforia, l’analista brasiliano Carlos Federico Pereira da Silva Gama scrive che il pilastro vaccinale di ACT-A, COVAX, è il trampolino di lancio della nuova governance della salute globale dopo la pandemia. Peccato che COVAX sia “una sorta di banca d’affari che usa capitali pubblici per conformare l’industria della preparazione dei vaccini e il mercato dei consumatori nel Sud del mondo”, con grave vulnus per la cooperazione multilaterale, secondo l’ex diplomatico Harris Gleckman. 

Nella retrocessione e deformazione del ruolo dello Stato, i governi dei paesi più influenti non risultano quasi più distinguibili dal settore privato, ingabbiati come sono in politiche che generano iniquità, ma condite di parole positive che vengono di volta in volta profanate, sfigurate: People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership. La adesione governativa alle classiche istituzioni sanitarie multilaterali si è friabilizzata con la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati degli ultimi venti anni. 

Oggi la surreale incapacità di un impegno governativo adeguato alla razionale pedagogia di Covid-19 non risparmia nessuno. Ne è un recente esempio la sessione ministeriale del G20 salute tenutasi a Roma il 5 e 6 settembre con il banner ufficiale “Together Today for a Healthier Tomorrow” (“Insieme oggi per un domani in miglior salute”). Questa si è conclusa con il cosiddetto “Patto di Roma”, un documento di undici pagine infarcite di aspirazioni altisonanti sistematicamente smentite dalla realtà di apartheid sanitario nella gestione della pandemia. Il ministro Roberto Speranza ha dichiarato che il Patto di Roma “manda un messaggio fortissimo al mondo: che il globo è unito”. Ma le fonti raccolte alla vigilia dell’incontro, e il suo svolgimento seguito in diretta dai colleghi del G-20, raccontano di tensioni insanabili all’interno. Soprattutto, ma non solo, fra Stati Uniti e Cina. Tali per cui non si va oltre i luoghi comuni e la vaghezza operativa. 

Così, nel secondo anno pandemico, la salute resta terreno di un confronto aspro. D’altronde, la disuguaglianza nella distribuzione e somministrazione globale dei vaccini restituisce una realtà molto netta: la solidarietà resta un miraggio, impigliata com’è nei fili spezzati di un multilateralismo di facciata. L’IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker, il dispositivo che fornisce i dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento certe o attese di vaccini in rapporto alla popolazione, spiega come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata tra 200 e 400% della loro popolazione. Ursula von der Leyen ha annunciato il 70% di copertura in Europa a fine agosto. Ma le 5,3 miliardi di dosi somministrate finora hanno raggiunto solo l’1,6% della popolazione del Sud del mondo, con la prima iniezione. E così 3,5 miliardi di persone attendono la prima vaccinazione, in uno scenario tecnicamente complicato da vaccini Covid inadatti ai paesi con scarse strutture sanitarie – si pensi alla improbabile catena del freddo, o alla necessità della doppia dose in assenza di registri vaccinali centralizzati.  

Si contano 4,6 milioni di decessi a causa di Covid-19, ma il numero reale potrebbe essere almeno il doppio, visto che la pandemia è sempre più concentrata nei paesi del Sud globale. Così, mentre COVAX rivede al ribasso le proiezioni di fine anno per la distribuzione dei vaccini, lo iato tra accaparramento vaccinale dei paesi ricchi – oggi concentrati sulla terza dose – e la radicale penuria di vaccini nei paesi impoveriti si aggrava, soprattutto in Africa.

Si stima che la popolazione africana raggiungerà il 60% di copertura vaccinale solo nella metà del 2023 – con una perdita di PIL calcolata in ragione di 2,3 miliardi di miliardi di dollari tra il 2022 e il 2025. Nella sola Italia a presidenza G20 (60,36 milioni di abitanti) sono stati somministrati più vaccini di quanto non siano stati iniettati in tutto il continente africano (1,3 miliardi di persone). Come all’inizio, questa condizione spiana la strada alla cinetica del virus, più ostica in forza delle nuove varianti. E infatti i casi, le ospedalizzazioni, le morti stanno in risalita in molte parti del pianeta. Israele, la nazione apripista per le spregiudicate strategie vaccinali dell’inizio 2021, si ritrova in piena ripresa del contagio con la variante Delta dominante e la Mu che emerge sulla scena: 1.000 casi su 1 milione di abitanti, il numero più elevato al mondo. 

Ma il G20 salute non demorde. Neppure il rutilante Patto di Roma, in cui i paesi del G20 si impegnano a fare di tutto, si azzarda ad osare un minimo accenno alla concreta misura politica, prevista dal diritto internazionale, che riguarda la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver). Fra i suoi Stati membri, il G20 annovera India e Sudafrica promotori della proposta: in febbrile discussione mentre scriviamo al Consiglio dei TRIPS, al WTO. Non basta l’insistenza di diversi governi del G20 in favore del waiver per trovarne un riferimento nel documento della ministeriale: la stucchevole retorica sul vaccino bene comune si incaglia per la seconda volta, dopo il summit sulla salute globale del G20 del 21 maggio, nel silenzio tombale su questa ipotesi di lavoro sostenuta da oltre cento paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e da molte istituzioni internazionali.

La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale forzerebbe una transizione verso la logica di cooperazione tra Stati, spesso del tutto inconsapevoli dei meccanismi che regolano l’industria farmaceutica. Indicherebbe una possibilità di nuove rotte per immunizzare la comunità internazionale dal feudalismo della economia della conoscenza. Ma no: questo waiver non s’ha da fare, secondo il G20. Né ora né mai. 

Anzi, la politica è in piena fase regressiva su questa materia. Covid ha dato alla UE il pretesto per rivedere il Piano di Azione sulla proprietà intellettuale a sostegno della strategia di Ripresa e Resilienza, per indirizzarlo al sconcertante rafforzamento della proprietà intellettuale e alla promozione sperticata delle licenze volontarie come “la via maestra per la condivisione della conoscenza”. La stessa cosa sta facendo in Italia il MISE con il piano di riforma della proprietà industriale. Non deve dunque sorprendere la sindrome da rimozione del G20 e del Patto di Roma. Il documento cita sì la necessità di diversificare e rafforzare le produzioni medicali nel Sud del mondo, abbattendo però solo gli ostacoli commerciali e doganali. Il G20 prevede un complesso meccanismo di spinta pubblica alle aziende farmaceutiche perché trasferiscano le loro tecnologie con licenze volontarie che lasciano intatti i monopoli della scienza medica. Uno scenario che si sta dinamizzando da qualche mese, ma anche con vicende paradossali. Alla vigilia del G20 Salute, Ursula von der Leyen ha accettato alla fine di rimandare in Africa milioni di dosi di vaccini anti-Covid prodotti dalla joint venture di Johnson & Johnson e la sudafricana Aspen Pharmacare: erano stati esportati in Europa! 

Intanto le decisioni del G20 che contano sulla salute saranno forse prese nella sessione congiunta salute-finanze di fine ottobre. Il sito del ministero della Salute lo annuncia: sarà la sede “per affrontare in particolare la questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità”. Spetta dunque alle logiche finanziarie sancire le priorità sanitarie da sostenere, in uno schema di gioco che rischia di ripetere quanto già visto dagli anni ’90 in poi con Banca Mondiale e FMI. Non c’è di che stare tranquilli: uno studio della Initiative for Policy Dialogue della Columbia University segnala uno tsunami di politiche di austerity in arrivo. Le analisi delle proiezioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) indicano che nuove misure di austerity sono attese in 154 paesi nel 2021 e in 159 paesi entro il 2022 – una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, l’85% della popolazione mondiale, e con una tendenza patologica destinata a durare fino al 2025.

David Quammen ha scritto che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. Forse è questo il vero virus che uccide molto più di Covid.


da qui