venerdì 3 settembre 2021

senz'acqua


L’acqua della Mesopotamia: la contesa che prosciuga il Medio Oriente - Anna Corrente 

 

Nasce dalla confluenza del Kara e del Murat, il fiume Eufrate: l’immenso corso d’acqua che si estende dalla Turchia in direzione sud verso lo Shatt al-Arab, fiume dell’Iraq meridionale. Qui, prima di sfociare nel Golfo Persico, l’Eufrate si ricongiunge con il Tigri, nato anch’esso in territorio turco, ai piedi della catena montuosa del Tauro. Nel mezzo, come abbracciata dai due corsi d’acqua, c’è la Mesopotamia: il ventre placentare della civiltà. Dell’antico splendore di una terra un tempo rigogliosa e ricca di risorse naturali, oggi altro non resta che le pagine dei libri di storia che la raccontano. La Mesopotamia è ormai asfittica e completamente schiacciata dalla morsa degli interessi politici ed economici legati alla gestione delle acque dei due grandi fiumi. I principali protagonisti della contesa sono la Turchia, l’Iran e l’Iraq. I primi due muovono le pedine fondamentali di questo gioco strategico, approfittando della loro posizione geografica e dell’attuale debolezza dell’amministrazione irachena, la quale soccombe invece sotto il peso delle scelte economiche delle altre, da un lato, e dell’inadeguata regolamentazione per la tutela ambientale, dall’altro.

Se sono tre i Paesi direttamente coinvolti nella gestione delle risorse, il numero delle popolazioni travolte dalle conseguenze di questo conflitto d’interesse è molto più grande. Il bacino idrico del Tigri-Eufrate interessa anche la Siria (colpita a sua volta da un conflitto esacerbato proprio dalla carenza d’acqua), l’Arabia Saudita e marginalmente anche la Giordania e il Kuwait. Dalla disponibilità idrica dei due fiumi dipendono innumerevoli comunità territoriali, che vivono di pesca e agricoltura, e che subiscono le conseguenze più dure della crisi dell’acqua.

L’inquinamento e la lotta per l’egemonia sul corso dei due fiumi stanno devastando la mezzaluna fertile e generando una crisi tanto umanitaria quanto politica nel sud-ovest asiatico, a conferma di quanto l’oro blu rappresenti un fattore geopolitico chiave per la sicurezza della regione e, più in generale, dell’intera comunità internazionale. 

Gli interessi turchi e iraniani per l’acqua della Mesopotamia

L’origine della crisi relativa all’uso delle risorse idriche del Tigri e dell’Eufrate è da ricondursi al collasso dell’Impero Ottomano. Il crollo del regno multietnico e la ritrovata sovranità delle diverse comunità impedirono che una sola autorità politica riuscisse ad esercitare il controllo sulle risorse, la cui gestione non fu mai regolata da accordi ufficiali se non alla fine del Novecento. Da allora, lo sfruttamento idrico è stato gestito dalle singole amministrazioni nazionali che hanno fatto dell’acqua un elemento proprio della loro sovranità. Già all’inizio del XX secolo iniziarono a sorgere le prime opere di sbarramento sull’Eufrate ad opera dell’Iraq, dove si distribuisce circa il 46% dell’intero bacino idrico. Dighe e canali vennero costruiti dall’amministrazione irachena per fronteggiare l’aumento esponenziale della popolazione e per gestire le opere di irrigazione necessarie ad implementare le riforme agrarie degli anni Cinquanta.

Fu tra gli anni Sessanta e Settanta che la relazione privilegiata dell’Iraq con le acque dei due fiumi si incrinò. Nel 1958 la Turchia presentò il Grande progetto di sviluppo regionale nel Sud-Est  Anatolia, noto come GAP, che prevede la costruzione di 22 grandi dighe e 19 centrali idroelettriche entro il 2023, lungo il bacino del Tigri e dell’Eufrate. Complice anche la posizione strategica “a monte” del bacino, le ambizioni politiche ed economiche di Ankara hanno esasperato lo sfruttamento delle risorse e hanno letteralmente contingentato la disponibilità d’acqua degli Stati a sud dei corsi fluviali come la Siria e l’Iraq.

La controversia più grande del progetto è quella relativa alla costruzione della diga Ilisu lungo il fiume Tigri. Lo sbarramento mette a repentaglio la vita delle comunità siriane e irachene che, sconvolte dalla guerra e dalla siccità, dal 1975 hanno intrapreso una vera e propria lotta tra poveri per cercare di assicurarsi minimi approvvigionamenti idrici. In particolare, l’inondazione causata dalla costruzione della diga ha tolto terreni fertili ai curdi della zona, contro i quali l’acqua è impiegata come vera e propria arma politica dal governo turco. Lo sbarramento dei corsi d’acqua infatti, non serve solo a investire sul rilancio energetico della Turchia, ma torna utile anche per indebolire le popolazioni curde vicine al PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, spina nel fianco del governo Erdogan), costringendole ad abbandonare i territori lungo il fiume.

Come la Turchia, anche l’Iran gode di un certo vantaggio strategico. Pur collocandosi a sud-est della regione, il governo iraniano disciplina l’accesso ad importanti affluenti del Tigri e del Shatt Al-Arab e, riducendo i flussi d’acqua da est, mette in ulteriore difficoltà l’Iraq. Teheran ha inoltre adottato posizioni particolarmente intransigenti nei confronti del governo iracheno, in risposta all’ inasprimento delle tensioni dopo le guerre al tempo di Saddam Hussein. Si calcola che circa 42 corsi d’acqua siano stati deviati o prosciugati per mano iraniana, con disastrose conseguenze sui territori limitrofi.

L’Iraq in ginocchio, a un passo dalla crisi umanitaria

Se Turchia e Iran posseggono i mezzi politici, militari ed economici per perseguire i propri obiettivi strategici, è impossibile attribuire le stesse capacità all’ Iraq, dilaniato da un tale stallo politico da non avere alcun potere contrattuale sulla gestione delle risorse.
Secondo 
un’analisi del 2013, il Tigri e l’Eufrate rappresentano la principale fonte d’acqua dell’Iraq ma la combinazione di fattori quali il cambiamento climatico, l’aumento della popolazione e la costruzione delle infrastrutture legate al GAP, rischia di prosciugare il bacino entro il 2040. La scarsità d’acqua si è già tradotta nel riversamento della popolazione nei grandi centri urbani e nell’abbandono di migliaia di ettari di terreno agricolo. Tra il 2018 e il 2019 inoltre, a Ninive, sono state vietate le colture di riso, sesamo e grano poiché la loro produzione risultava troppo dispendiosa per le disponibilità idriche della regione. Quella per l’acqua è una guerra senza bombardamenti né armi in cui l’Iraq, privo di un governo stabile dopo il conflitto vissuto fino al 2011, sta lentamente soccombendo.

La crisi è quindi economica ma soprattutto umanitaria, dal momento che le ultime risorse disponibili sono sottoposte, per giunta, alla deleteria amministrazione dello Stato iracheno. L’inesistenza di regolamenti ambientali e le negligenze di Baghdad hanno portato ad un tale deterioramento delle falde acquifere che, solo nel 2018 a Basra, circa 118mila persone sono state ricoverate per sintomi riconducibili a intossicazione da acqua inquinata. Agricoltura e pesca, principali fonti di reddito della popolazione irachena, sono ormai compromesse.

In questo contesto instabile, le organizzazioni terroristiche come l’ISIS trovano terreno fertile. Favorite dalla rassegnazione civile e dalle rivalità geopolitiche, in certe aree dell’Iraq la loro influenza è tale da garantire il pieno controllo sulla gestione delle infrastrutture idriche.

Le incerte prospettive regionali

Già nel 2013, l’Onu aveva fatto appello alla diplomazia multilaterale tra gli Stati del Medio Oriente e Nord Africa (MENA) affinché cooperassero per cercare soluzioni alla questione. Nell’aprile del 2019, sotto l’ombrello di Save the Tigris e con la collaborazione di ricercatori, attivisti e ong locali, è nato il primo Mesopotamian Water Forum per elaborare un modello di governance dal basso, in grado di tutelare le comunità locali.

Nonostante la partecipazione al forum di Turchia e Iran, nessuna delle due potenze sembra intenzionata a smettere di utilizzare l’oro blu come arma di soft power, approfittando della debolezza dell’Iraq, definito da alcuni come uno Stato ormai fallito. In Iraq però, la società civile pare intenzionata a continuare a combattere per il proprio diritto all’acqua. Campagne come quella del “Make Rojava Green Again”, dimostrano come là dove gli Stati falliscono, è la mobilitazione dal basso a fungere da unica nutrice della speranza di questi territori.

da qui



Siria ed Iraq tra i primi in Medio Oriente - Nancy Drew

L’estate 2021 è stata particolarmente dura per tutti i Paesi intorno al Mar Mediterraneo, sia climaticamente per le temperature oltremodo fuori misura, e soprattutto perché la maggioranza di essi hanno dovuto lottare con vasti ed innumerevoli incendi. Questi ultimi sappiamo essere anche attività criminali e di piromani, ma altresì particolarmente facilitata a causa dei cambiamenti climatici in atto sul nostro Pianeta ( https://www.theblackcoffee.eu/il-mediterraneo-brucia/ ).

La siccità è uno dei più importanti effetti del surriscaldamento globale.

A loro volta gli incendi sono facilitati dalle alte temperature e dalla siccità, in un vortice di concause che si intrecciano tra loro e si autoalimentano.

Tra i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo orientale, il più colpito da questi fenomeni è stata la Siria e il confinante lraq.

Secondo il Norwegian Refugee Council, in questi due Paesi sono 12 milioni gli abitanti che stanno perdendo l’accesso all’acqua, sia essa potabile – insostituibile per la vita umana – che utile per irrigare i campi che poi daranno i raccolti per il sostentamento delle famiglie. Altre attività che ne hanno fortemente risentito, spesso a conduzione familiare, sono gli allevamenti dei pesci.

In Siria del Nord e dell’Est, sono circa 5 milioni le persone che dipendono dal fiume Eufrate, mentre proprio in queste settimane l’Amministrazione Autonoma AANES rende noto di aver terminato la ricostruzione di alcuni importanti allacciamenti idraulici alle città di Hasakah e Deir ez Zor, distrutti dall’Isis durante le sue scorribande.

Qui, circa 400 chilometri quadrati di terreno agricolo rischiano la siccità totale, mentre due dighe nel nord del Paese, che servono tre milioni di persone con la produzione di elettricità, rischiano la chiusura imminente. Lo stesso succede in Iraq, dove in vaste aree gli agricoltori non sono riusciti a portare a termine le loro produzioni di cereali – quali il grano – che risulterà diminuito dal 50 al 70 per cento. Particolarmente colpiti risultano la regione di Ninewa e del Kurdistan.

La questione delle dighe – in Siria e in Iraq – è strettamente legata anche alle politiche idriche della Turchia, dove i maggiori fiumi Eufrate e Tigri che attraversano i due Paesi mediorientali, hanno le loro sorgenti.

Nelle ultime decadi – a monte – la Turchia ha costruito immense dighe, che solo per questo hanno diminuito la portata di acqua nel corso dei due fiumi del 30 per cento ( https://www.theblackcoffee.eu/acqua-bene-comune-o-elemento-di-ricatto-bellico/). Oltre all’approvvigionamento per le proprie necessità interne, questo meccanismo agito dalla Turchia – deciso in autonomia senza il confronto con gli altri due Paesi confinanti – è divenuto palesemente un ricatto politico e bellico.

Carsten Hansen – direttore regionale del Consiglio norvegese per i rifugiati – ha affermato che il crollo totale della produzione di acqua e cibo per milioni di siriani ed iracheni è imminente. Questo effetto disastroso porterà altre centinaia di migliaia di iracheni e di siriani – di cui molti tuttora sfollati per salvare le loro vite dalla furia del Califfato Islamico – a dover ancora cambiare area per trovare sostentamento alle famiglie.

La crisi idrica in corso – secondo Hansen – diventerà presto una catastrofe senza precedenti che spingerà sempre più verso lo sfollamento interno o verso i Paesi confinanti.

da qui

Nessun commento:

Posta un commento