martedì 31 marzo 2020

La Terra senza di noi - Bob Holmes



.
Gli esseri umani sono senza dubbio la specie più invadente mai vissuta sulla Terra. In poche migliaia di anni ci siamo appropriati di più di un terzo delle terre emerse, occupandole con le nostre città, i nostri campi e i nostri pascoli. Secondo alcune stime, ormai controlliamo il 40 per cento della capacità produttiva del pianeta. E ci stiamo lasciando alle spalle un bel disastro: praterie arate, foreste rase al suolo, falde acquifere prosciugate, scorie nucleari, inquinamento chimico, specie invasive, estinzioni di massa. E ora anche lo spettro del cambiamento climatico. Se potessero, le altre specie con cui dividiamo la Terra ci caccerebbero senza esitare. E se il loro desiderio si avverasse? Cosa succederebbe se tutti gli esseri umani che vivono sulla Terra – almeno 6,5 miliardi – fossero deportati in un campo di rieducazione in una galassia lontana?
Escludiamo l’idea di un flagello che ci spazzi via, se non altro per evitare la complicazione di tutti quei cadaveri. Abbandonata di nuovo a se stessa, la natura comincerebbe a riprendersi il pianeta: i campi e i pascoli tornerebbero a essere praterie e foreste, l’aria e l’acqua si purificherebbero dalle sostanze inquinanti e le strade e le città diventerebbero polvere.
“La triste verità è che il paesaggio migliorerebbe notevolmente una volta usciti di scena gli esseri umani”, sostiene John Orrock, un biologo della conservazione del National center for ecological analysis and synthesis di Santa Barbara, in California. Ma i segni dell’umanità sparirebbero del tutto o abbiamo modificato a tal punto la Terra che anche tra un milione di anni si troverebbero le tracce di una società industriale ormai estinta?
Inquinamento luminoso
Se domani non ci fossero più esseri umani, il cambiamento sarebbe subito evidente perfino dall’orbita terrestre: il bagliore delle luci artificiali che illuminano le nostre notti comincerebbe lentamente a spegnersi. Osservare la distribuzione della luce artificiale è il modo migliore per rendersi conto di quanto dominiamo la Terra. Secondo alcune stime, l’85 per cento del cielo europeo è inquinato dalla luce. Gli Stati Uniti sono al 62 per cento e il Giappone al 98,5 per cento. In paesi come la Germania, l’Austria, il Belgio e i Paesi Bassi non c’è più cielo notturno privo di inquinamento luminoso.
“In poco tempo – uno o due giorni – comincerebbero i primi blackout, perché nessuno alimenterebbe più le centrali”, spiega Gordon Masterton, presidente dell’Istituto di ingegneria civile di Londra. Le fonti di energia rinnovabili come le turbine a vento e i pannelli solari manterrebbero automaticamente accese un po’ di luci, ma senza la manutenzione della rete di distribuzione anche quelle sarebbero fuori uso in poche settimane. Senza elettricità si fermerebbero le pompe idrauliche, gli impianti per il trattamento dei liquami e tutti gli altri macchinari della società moderna.
La mancanza di manutenzione renderebbe fatiscenti edifici, strade, ponti e altre strutture. Le costruzioni moderne sono progettate per durare in media sessant’anni – i ponti arrivano a 120 anni e le dighe a 250 – ma questa durata presume che qualcuno li mantenga puliti, blocchi le perdite e risolva eventuali problemi alle fondamenta. Senza le persone che svolgono questi compiti apparentemente insignificanti le cose andrebbero rapidamente a rotoli. Un buon esempio è la città di Pripjat. Questo centro nelle vicinanze di Cernobyl, in Ucraina, fu abbandonato dopo il disastro nucleare di vent’anni fa ed è rimasto deserto.
 “Da lontano si ha ancora l’impressione che sia una città viva, ma gli edifici stanno lentamente andando in rovina”, spiega Ronald Chesser, un biologo dell’ambiente del Politecnico di Lubbock, nel Texas, che ha lavorato a lungo nella zona di esclusione intorno a Cernobyl. “L’elemento più invasivo sono le piante: le loro radici si sono infilate nel cemento, dietro i mattoni, negli stipiti delle porte, e stanno rapidamente distruggendo le strutture. Non ci rendiamo conto di quanto sia importante intervenire nelle nostre case per evitare fenomeni di questo tipo. È incredibile vedere come le piante riescono a invadere ogni più piccolo angolo”.
Se nessuno si occupasse più delle riparazioni, ogni temporale, inondazione o gelata si porterebbe via un pezzo degli edifici abbandonati, e nel giro di qualche decennio i tetti comincerebbero a cedere. A Pripjat sta già succedendo. Le case di legno e altre strutture di piccole dimensioni, costruite con criteri meno rigorosi, sarebbero le prime a crollare. Subito dopo toccherebbe quasi certamente alle strutture di vetro che oggi apprezziamo tanto. “Gli eleganti ponti sospesi e gli edifici dalle forme leggere risulterebbero più vulnerabili”, aggiunge Masterton. “Sono meno resistenti degli edifici costruiti con mattoni, archi e volte”. Ma anche se le costruzioni crollassero, le loro rovine – soprattutto quelle di pietra e cemento – probabilmente resterebbero lì per migliaia di anni.
“Ci sono ancora i resti di civiltà vissute tremila anni fa”, osserva Masterton. “I segni di quello che abbiamo creato resterebbero per molti millenni. Una strada in calcestruzzo potrebbe sgretolarsi in diversi punti, ma ci metterebbe molto tempo prima di diventare invisibile”. La mancanza di manutenzione avrebbe conseguenze particolarmente drammatiche per le 430 centrali nucleari attualmente in funzione nel mondo. Le scorie nucleari già depositate in contenitori di cemento e metallo raffreddato ad aria non creerebbero problemi. Quei contenitori sono progettati per sopravvivere a migliaia di anni di oblio, alla fine dei quali il loro tasso di radioattività – essenzialmente sotto forma di cesio 137 e stronzio 90 – sarà diminuito di mille volte, spiega Rodney Ewing, un geologo dell’università del Michigan specializzato nella gestione delle scorie radioattive.
Per i reattori attivi la questione non è così semplice: se l’acqua di raffreddamento cominciasse a evaporare o a fuoriuscire a causa di qualche perdita, probabilmente il nocciolo del reattore potrebbe prendere fuoco o fondersi, emettendo grandi quantità di radiazioni. L’effetto di queste emissioni, tuttavia, potrebbe essere meno disastroso di quanto molti pensano. La zona intorno a Cernobyl ha permesso di verificare con quanta rapidità la natura è capace di riprendersi i suoi spazi. “Mi aspettavo di trovare un deserto nucleare”, racconta Chesser, “e invece sono rimasto sorpreso. Nella zona di esclusione si è sviluppato un ecosistema molto ricco”.
Nei primi anni dopo l’evacuazione i ratti e i topi si erano moltiplicati, e branchi di cani selvatici avevano invaso l’area nonostante gli sforzi per sterminarli. Ma l’era di questi animali non è durata a lungo, e la fauna locale ha già cominciato a prendere il loro posto. I cinghiali sono da 10 a 15 volte più numerosi all’interno della zona di esclusione rispetto al territorio circostante; i grandi predatori stanno tornando in massa. “Non ho mai visto un lupo in tutta l’Ucraina. Lì dentro, invece, ce ne sono molti”, spiega Chesser.

Rapidità di ripresa
Senza gli esseri umani anche nella maggior parte degli altri ecosistemi la natura dovrebbe riprendersi i suoi spazi, ma la rapidità potrebbe variare. Nelle regioni calde e umide, dove gli ecosistemi tendono a evolversi più rapidamente, il ritorno alle origini richiederebbe meno tempo rispetto alle regioni più fredde e aride. Ovviamente nelle zone ancora ricche di specie indigene la ripresa sarebbe più veloce rispetto ai sistemi che hanno subìto alterazioni più gravi. Nelle foreste boreali dell’Alberta settentrionale, in Canada, l’intervento umano è consistito essenzialmente nella costruzione di strade e condutture e nell’occupazione di piccole strisce di terreno sottratte alle foreste.
Se scomparissero gli esseri umani, le foreste ricoprirebbero l’80 per cento di queste superfici nel giro di una cinquantina di anni, e dopo due secoli non ne resterebbe più del 5 per cento, secondo le simulazioni di Brad Stelfox, un ecologo indipendente di Bragg Creek, nello stato di Alberta. Nei luoghi in cui le foreste originarie sono state sostituite da un’unica specie di alberi, invece, ci potrebbero volere diversi secoli prima che tutto torni allo stato naturale. Anche le distese di terreno coltivate a riso, grano e granturco in tutto il mondo potrebbero impiegare parecchio tempo prima di ospitare nuovamente specie indigene. Alcuni ecosistemi, tuttavia, potrebbero non tornare mai come prima perché hanno raggiunto una nuova “condizione di stabilità”.
Alle Hawaii , per esempio, le piante introdotte dagli esseri umani spesso generano incendi, e questo impedirebbe alle foreste originarie di reinsediarsi anche se avessero la libertà di farlo, spiega David Wilcove, un biologo della conservazione dell’università di Princeton. Anche i discendenti selvatici di animali e piante domestici probabilmente si aggiungerebbero in modo permanente a molti ecosistemi. In alcuni posti è quanto hanno già fatto cavalli e maiali selvatici. Le specie altamente addomesticate come i bovini, i cani e il frumento, che sono il prodotto di secoli di selezioni e incroci, grazie all’accoppiamento casuale probabilmente tornerebbero ad assumere forme più resistenti e meno specializzate.
“Se l’uomo dovesse scomparire, vi aspettereste di vedere branchi di barboncini che vagano per le praterie?”, chiede Chesser. Naturalmente no, ma al loro posto ci sarebbero probabilmente branchi di robusti bastardi. Perfino i bovini e gli altri tipi di bestiame allevati per ottenere carne e latte hanno molte chance di sopravvivere, anche se in numero molto più ridotto. E i prodotti agricoli geneticamente modificati? Ad agosto Jay Reichman e i suoi colleghi del laboratorio dell’Agenzia per la protezione ambientale (Epa) di Corvallis, nell’Oregon, hanno reso noto che si è insediata nel deserto una versione geneticamente modificata della pianta perenne Agrostis stolonifera (cappellini comuni), proveniente da un appezzamento di terreno dov’erano in corso alcuni esperimenti. Come la maggior parte delle piante geneticamente modificate, tuttavia, è stata progettata per resistere ai pesticidi, il che implica un costo metabolico per l’organismo: se non venisse irrorata con i pesticidi, infatti, sarebbe svantaggiata rispetto alle altre piante e probabilmente morirebbe.

Condannate
La nostra scomparsa non significherebbe la salvezza per tutte le specie che sono minacciate dall’estinzione. I biologi calcolano che nell’85 per cento dei casi il problema principale di queste specie è la perdita dell’habitat. La maggior parte, quindi, dovrebbe trarre vantaggio dal ritorno del proprio habitat alle condizioni originarie. Quelle più a rischio, però, potrebbero aver già superato la soglia oltre la quale vengono a mancare la diversità genetica e la massa critica ecologica necessarie per riprendersi. Queste “specie condannate a morte” – i ghepardi e i condor della California, per esempio – probabilmente scomparirebbero in ogni caso.
Invertire la tendenza nei casi di scomparsa delle specie non legati alla perdita di habitat potrebbe essere ancora più difficile. Circa la metà delle specie a rischio, per esempio, è minacciata almeno in parte dai predatori o dalla concorrenza di specie invasive introdotte dall’uomo. Alcune di queste specie aliene – come i passeri, che sono originari dell’Eurasia ma ora sono presenti anche in molte città del Nord America – comincerebbero a diminuire se scomparissero i giardini e le vaschette di mangime per uccelli delle nostre case. Ma altre specie, come i conigli in Australia e il forasacco dei tetti nell’ovest degli Stati Uniti, non hanno bisogno dell’aiuto umano e probabilmente resterebbero in circolazione a lungo, continuando a estromettere le specie indigene a rischio.
Paradossalmente alcune specie a rischio – quelle che hanno attirato l’attenzione degli ambientalisti – se la caverebbero peggio senza la protezione degli esseri umani. La dendroica di Kirtland – uno degli uccelli più rari del Nord America, ridotto ormai a poche centinaia di esemplari – non soffre solo per la perdita di habitat nella zona dei Grandi Laghi ma anche a causa dei molotri, che depongono le uova nei nidi delle dendroiche e le ingannano costringendole ad allevare i loro piccoli. Grazie a un intenso programma per la cattura dei molotri, il numero delle dendroiche è tornato ad aumentare, ma una volta scomparsi gli esseri umani sarebbero di nuovo nei guai. Nel complesso, tuttavia, una Terra senza esseri umani sarebbe un luogo con meno rischi per la biodiversità: “Le specie che ne trarrebbero vantaggio sarebbero più di quelle che ne risentirebbero”, osserva Wilcove.

I grandi predatori
Negli oceani la popolazione ittica si riprenderebbe gradualmente dagli eccessi della pesca. L’ultima volta che gli esseri umani hanno più o meno smesso di pescare è stato durante la seconda guerra mondiale, quando pochi pescherecci si avventuravano lontano dai porti. All’epoca la popolazione di merluzzi del Mare del Nord salì alle stelle. Oggi, invece, il numero di merluzzi e altri pesci importanti per l’alimentazione è molto al di sotto dei livelli degli anni trenta, e la ripresa potrebbe richiedere più di cinque anni. Il problema è che ormai i merluzzi e gli altri grandi predatori sono così pochi che non riescono più a tenere sotto controllo le popolazioni di specie più piccole come i pesci cappone. Anzi, i pesci più piccoli hanno rovesciato la situazione: si sono messi in concorrenza e sono arrivati anche a mangiare i giovani merluzzi, tenendo così sotto controllo i loro vecchi predatori.
Nei primi anni dopo la fine della pesca la situazione potrebbe solo peggiorare, perché le popolazioni di pesci più piccoli, che mangiano più rapidamente, crescerebbero come le erbacce in un campo abbandonato. Alla fine, però, un numero sufficiente di grandi predatori riuscirebbe a raggiungere la maturità e a ristabilire l’equilibrio normale. Una transizione del genere potrebbe richiedere da qualche anno a qualche decennio, afferma Daniel Pauly, un biologo marino dell’università della British Columbia a Vancouver. Se i motopescherecci a strascico smettessero di agitare i fondali marini, gli ecosistemi vicini alle coste tornerebbero a uno stato relativamente povero di sostanze nutrienti. Questo risulterebbe evidente soprattutto dal calo della fioritura di alghe dannose, come le maree rosse che spesso affliggono le zone costiere.
Intanto, i coralli e gli altri organismi che vivono sulle barriere coralline più profonde comincerebbero lentamente a ricrescere, restituendo una struttura complessa e tridimensionale agli habitat dei fondali oceanici, ormai diventati piatti e deserti. Dopo la scomparsa degli esseri umani dalla Terra, inoltre, le sostanze inquinanti smetterebbero di uscire dai tubi di scappamento delle automobili, dalle ciminiere delle fabbriche e dalle discariche. Le conseguenze di questa interruzione sarebbero varie, e dipendono dalle caratteristiche chimiche di ogni sostanza. Alcune, come gli ossidi d’azoto e di zolfo e l’ozono – la sostanza inquinante a livello del terreno, non lo strato protettivo che si trova nella stratosfera –, sparirebbero dall’atmosfera nel giro di poche settimane. Altre, come i clorofluorocarburi, le diossine, il ddt, ci metterebbero più tempo. Altre ancora resterebbero per decenni.
Anche i nitrati e i fosfati in eccesso, che possono trasformare i laghi e i fiumi in una zuppa di alghe nel giro di qualche decennio, scomparirebbero almeno dalle acque di superficie. Qualche fosfato potrebbe restare molto più a lungo nelle falde freatiche, dove è meno soggetto alla conversione in azoto atmosferico da parte dei microbi. “Le falde freatiche sono la memoria a lungo termine dell’ambiente”, osserva Kenneth Potter, un idrologo dell’università del Wisconsin a Madison. L’anidride carbonica, che oggi preoccupa il mondo a causa del suo ruolo nel riscaldamento globale, avrebbe un destino molto diverso. Buona parte dell’anidride carbonica emessa dai combustibili fossili verrebbe prima o poi assorbita dagli oceani.
Alle acque di superficie basterebbero poche decine di anni, mentre le profondità dell’oceano impiegherebbero circa un millennio per assorbire la loro parte. E anche dopo il raggiungimento di quell’equilibrio, circa il 15 per cento dell’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili resterebbe nell’atmosfera: la sua concentrazione sarebbe di 300 parti su un milione, mentre in epoca preindustriale era di 280. “Se gli essere umani smettessero di produrla, l’anidride carbonica resterebbe nell’atmosfera e continuerebbe a influire sul clima per più di mille anni”, afferma Susan Solomon, una chimica dell’atmosfera della National oceanic and atmospheric administration (Noaa) di Boulder, nel Colorado.
Alla fine gli ioni di calcio emessi dai sedimenti del fondo marino permetterebbero al mare di assorbire l’ulteriore eccesso in circa ventimila anni. Anche se le emissioni di anidride carbonica s’interrompessero domani, il riscaldamento globale andrebbe avanti per un altro secolo e le temperature medie salirebbero ancora di qualche grado. Gli scienziati dell’atmosfera parlano di committed warming. Questo fenomeno si verifica perché gli oceani impiegano molto più tempo a riscaldarsi rispetto all’atmosfera. In pratica si comportano come un gigantesco condizionatore d’aria, mantenendo l’atmosfera più fredda di come dovrebbe essere con gli attuali livelli di anidride carbonica.
La maggior parte delle persone che prendono decisioni in ambito politico non tiene conto di questo tipo di riscaldamento, spiega Gerald Meehl, che costruisce modelli climatici per il National center for atmospheric research, sempre di Boulder. “Pensano che se le cose si metteranno male potremo sempre fermarci. Ma non possiamo fermarci e sperare che tutto torni a posto da un momento all’altro, perché questo tipo di riscaldamento è già avviato”. Questo riscaldamento “extra” rende incerto anche il destino di un altro importante gas serra, il metano, che causa circa il 20 per cento dell’attuale riscaldamento globale. Il metano resta nell’atmosfera solo una decina di anni e quindi la sua concentrazione potrebbe rapidamente tornare ai livelli preindustriali se venissero interrotte le emissioni.
L’incognita, tuttavia, è legata al fatto che esistono enormi riserve di metano sotto forma di idrati sui fondali marini e nel permafrost. Un ulteriore aumento delle temperature potrebbe destabilizzare queste riserve, che rilascerebbero la maggior parte del metano nell’atmosfera. “Noi possiamo anche smettere di emettere metano, ma forse il cambiamento climatico è arrivato al punto che la sua emissione dipenderebbe da processi che non possiamo controllare”, afferma Pieter Tans, uno scienziato dell’atmosfera della Noaa di Boulder. Nessuno sa quanto la Terra sia vicina a questa soglia. “Le nostre reti di misurazione globali non hanno ancora rilevato nulla, ma a livello locale abbiamo le prove che la destabilizzazione del permafrost è già in corso, con il conseguente rilascio di metano”, aggiunge. Solomon, invece, pensa che questa soglia sia ancora lontana.

Una civiltà avanzata
Tutto sommato basterebbero poche decine di migliaia di anni al massimo per veder sparire ogni traccia della nostra presenza. Se qualche alieno visitasse la Terra centomila anni dopo, non troverebbe segni evidenti di una civiltà avanzata. Ma se quegli alieni avessero strumenti scientifici abbastanza sofisticati, potrebbero ancora trovare qualche segno della nostra esistenza.
Innanzitutto, l’analisi dei fossili dimostrerebbe che c’è stata un’estinzione di massa nella nostra epoca, compresa l’improvvisa scomparsa dei grandi mammiferi nel Nord America alla fine dell’ultima era glaciale. Scavando un po’ potrebbero anche trovare le affascinanti tracce di un’antica civiltà intelligente. Per esempio forti concentrazioni di scheletri di una grande scimmia bipede, alcuni dei quali avrebbero denti d’oro o gioielli. E se gli alieni si imbattessero in una delle attuali discariche, potrebbero ancora trovare frammenti di vetro e di plastica, forse anche di carta. “Sono quasi sicuro che ci sarebbero tracce di questo tipo”, dice William Rathje, un archeologo dell’università californiana di Stanford. “È veramente incredibile come si conservano le cose. Pensiamo che i nostri manufatti resistano poco nel tempo, ma in certi casi durano moltissimo”.
Il carotaggio dei sedimenti oceanici dimostrerebbe che per un breve periodo sono state depositate grandi quantità di metalli pesanti, come il mercurio. La stessa fascia di sedimenti mostrerebbe anche la concentrazione di isotopi radioattivi lasciata dalla fusione dei reattori nucleari seguita alla nostra scomparsa. L’atmosfera conterrebbe tracce di alcuni gas che non esistono in natura, soprattutto perfluorocarburi come il cf4, e che hanno un’emivita di decine di migliaia di anni.
Infine, una serie di onde radio continuerebbe a diffondersi nella galassia e anche oltre dimostrando – a chiunque volesse e potesse ascoltare – che un tempo avevamo qualcosa da dire e un modo per dirlo. Ma sarebbero fragili ricordi, patetiche memorie di una civiltà che un tempo pensava di essere il culmine dell’evoluzione. Nel giro di qualche milione di anni, l’erosione e forse una o due nuove ere glaciali cancellerebbero quasi tutte queste labili tracce. Se un’altra specie intelligente si evolvesse sulla Terra – e non è detto, considerato da quanto tempo esisteva la vita prima della nostra comparsa – potrebbe non avere idea della nostra esistenza, se non per qualche strano fossile e per pochi resti pietrificati. Un fatto che dovrebbe renderci più umili, ma anche confortarci, è che la Terra ci dimenticherebbe molto presto.

Questo articolo è uscito il 12 gennaio 2007 nel numero 675 di Internazionale, a pagina 38. L’originale era uscito su New Scientist.


lunedì 30 marzo 2020

Lettera aperta al sindaco di Cagliari Paolo Truzzu - Stefano Deliperi


Egregio signor Sindaco,
le scrivo questa lettera aperta perché – piaccia o non piaccia a lei e a me – è il sindaco della Città dove sono nato, dove vivo e che amo moltissimo.
Come a lei piace, userò toni schietti e duri.  
Molto probabilmente non leggerà nemmeno quanto le scrivo, ma ci provo ugualmente.
La sua campagna di presunta informazione su rischi e comportamenti legati alla tragica epidemia di coronavirus COVID 19 fa acqua da tutte le parti.
Fuori tempo (con toni diversi avrebbe avuto un senso a fine febbraio-inizio marzo), colpevolizzatrice della cittadinanza, priva di informazioni utili.
Proveniente, fra l’altro, da chi solo un paio di settimane fa incitava a vivere la città.
Se lo ricorda?
Cartelloni, video, interviste disegnano una cittadinanza irresponsabile, fonte di contagi a dismisura, bisognosa di essere istruita come un bambino dell’asilo.
A Cagliari i contagi sono pochissimi (97 in tutta la Città metropolitana al 28 marzo 2020, non risultano reperibili dati cittadini ufficiali), i residenti in larghissima maggioranza si stanno comportando con grande senso di responsabilità, pochissime le auto in circolazione.
Afferma senza alcuna fonte dei dati che “a Cagliari ancora oggi entrano ogni giorno 57mila macchine” (L’Unione Sarda, 26 marzo 2020), dandosi anche la zappa sui piedi, visto che i veicoli in ingresso a Cagliari non sono certo dei cagliaritani che lì già vivono.
Senza contare che molte persone continuano a recarsi al posto di lavoro, viaggiano i trasporti pubblici e i rifornimenti alimentari.
Insulta e inveisce contro chi la critica, mostrando di non comprendere nemmeno la natura del cagliaritano: più strilli come un caporale di giornata e più ti prendono per i fondelli, senza usare ipocriti francesismi, e rincara la dose sul palcoscenico di Barbara D’Urso: si faccia una panoramica delle reazioni sul web e sui social network e avrà un’idea su cosa ne pensano i cagliaritani.
Altro che “acide commentatrici” e “confusi giovanotti”, sono centinaia e centinaia di suoi concittadini, ci sono parecchi suoi elettori.
Lei pensa che suoi predecessori come Paolo De Magistris o, in tempi più recenti, Mariano Delogu si sarebbero comportati nello stesso modo?
Faccia, invece, qualcosa di utile e apprezzabile.
Per esempio, promuova e coordini un servizio facilmente attivabile dagli interessati di espletamento e consegna a domicilio della spesa per le tante persone anziane e poco o nulla autosufficienti che vivono in Città.
Coinvolga strutture della grande distribuzione, servizi comunali e associazioni del volontariato. Istituisca un numero verde e lo faccia conoscere, questo sì, con una campagna di informazione capillare.
Farà qualcosa di estremamente utile, rientrante nelle competenze comunali di assistenza sociale e, magari, migliorerà anche la sua considerazione fra i cagliaritani.  
Con i più cordiali saluti e auguri per la nostra Città.




domenica 29 marzo 2020

La spesa ai tempi del Covid-19 - Simona Savini


Mentre compilo l’autocertificazione prima di uscire a fare la spesa mi fermo un attimo… “Ma andrà bene se scrivo che sto andando al mio GAS? Se le forze dell’ordine mi fermano per un controllo”? Poi mi rispondo “Ma sì! In caso glielo spiego”!
Mai come in questo momento infatti sono contenta di far parte di un Gruppo di Acquisto Solidale (GAS): mi permette di avere accesso a cibi freschi e genuini… e senza fare la fila al supermercato!
In questa assurda, immobile primavera vista dalla finestra è infatti evidente come la natura continui invece il suo ciclo, e questo nei campi significa fruttaverduraortaggi che continuano a crescere… e forse mai come in questo momento anche nelle nostre case il cibo e la cucina stanno acquistando un posto centrale: un po’ per noia, un po’ per il piacere di mangiare bene, avendo ora il tempo di farlo.
È innegabile:  a tratti ci sentiamo in un film post apocalittico, ma abbiamo la fortuna di non doverci nutrire solo di cibo in scatola, potendo invece riscoprire concetti ascoltati magari distrattamente in tempi “normali”, e costruendo le basi per un ritorno alla normalità che sia più in armonia con la natura.
Piccoli produttori che adottano tecniche sostenibili al posto dei colossi dell’agroindustria, filiera corta al posto dei cibi che viaggiano per centinaia di chilometri, vendita diretta al posto della grande distribuzione organizzata, una dieta con tanti prodotti freschi a base vegetale invece di consumi eccessivi di carne e cibi processati e meno plastica e imballaggi.
Perché non gettare le basi proprio adesso di questo cambiamento?
In questa fase la piccola distribuzione organizzata può essere un’alternativa valida: esistono centinaia di reti di distribuzione in Italia che permettono di ordinare online da piccoli produttori locali, e di ritirare presso i punti di raccolta nella propria zona. Punti di raccolta nei quali naturalmente devono essere rispettate le prescrizioni legate al contenimento del Covid19, ma che sicuramente hanno il vantaggio di non rappresentare un sito di aggregazione spesso affollato come la coda davanti ai supermercati. Molte di queste reti si stanno inoltre organizzando per effettuare consegne a domicilio, per andare incontro alle esigenze di chi ha maggiore difficoltà a uscire di casa in questo momento.
Un sistema “buono” (anche nel senso del gusto) per noi consumatori, ma anche vitale per i piccoli produttori, per non rimanere schiacciati tra un calo complessivo dei consumi e provvedimenti governativi che potrebbero rischiare di destinare risorse più al supporto delle grandi aziende che delle piccole realtà.
Ogni città, e spesso ogni quartiere, ha il suo “nucleo” di distribuzione alternativa. Alcune reti come Kalulu, sono molto attive in città come Roma, altre, come i Gruppi di Acquisto Solidale, nascono nel territorio e hanno una diffusione ormai piuttosto capillare: una ricerca online mirata alla propria città permetterà di trovare e contattare la soluzione più vicina a casa. Ci si può aiutare con un progetto work in progress, che cerca proprio di costruire la mappa dell’Italia senza supermercato, oppure cercare mappe ed ecoguide locali, come quella creata da Greenpeace gruppo locale di Pisa (questa la mappa).
Infine, non sottovalutiamo le tante aziende agricole che effettuano vendita diretta e spediscono a casa nostra agrumi dalla Sicilia o verdure e cereali di cui abbiamo tanto bisogno per stare in salute, adesso più che mai! Usiamo questo periodo per curare la nostra salute e anche per imparare a fare una spesa più sana e giusta, amica del clima e del pianeta che continua a vivere fuori dalla nostra porta.

Le difese naturali contro virus e batteri - Carlo Alberto Zaccagna

sabato 28 marzo 2020

Sammy che non ha niente, a parte la felicità - Padre Renato Kizito Sesana




I bambini sono sempre una luce. Vorrei potervi mostrare due foto di Sammy, ma non si può fare, le regole non lo permettono, giustamente. Ne ho una di quando arrivò a Ndugu: si vede un bambino di una decina d’anni dallo sguardo triste, arrogante e impaurito allo stesso tempo, scalzo, un paio di calzoni stracciati, una maglietta che una volta era dei colori della Roma trovata chissà dove.
Ne ho un’altra fatta ieri pomeriggio quando sono andato a Tone la Maji per vedere la sistemazione dei nuovi arrivati. Ero un po’ stanco, e probabilmente si vedeva. Sammy appena mi ha visto mi è venuto incontro correndo a braccia allargate per abbracciarmi. Ho teatralmente rifiutato l’abbraccio, gridando: «No, no, coronavirus!». Sammy mi ha scansato e si è buttato sul prato, rotolandosi e ridendo. L’immagine della felicità. Poi mi ha detto: «Padre, qui tutto è così bello! Grazie!». Lo guardavo e vedevo un bambino che non ha nulla, solo quello che indossa adesso, nient’altro. Niente. Sammy non possiede niente di materiale. Non è ciò che ha, è ciò che è, un nodo di relazioni con gli altri. Ciò che possiede è tutto e solo interiore, le ferite del passato e la gioia del presente. Spero che a Tone la Maji abbia una lunga crescita che riporti equilibrio nella sua vita.

Dove finisce la tua plastica - Giuseppe Ungherese*


Che l’inquinamento da plastica sia ormai un problema è noto a tutti noi. Quasi ogni giorno vediamo le immagini di spiagge in giro per il mondo coperte da grandi quantità di rifiuti, oppure quelle di animali marini come balene, capodogli e tartarughe che soffrono l’inquinamento da plastica sia perché la ingeriscono, sia perché restano intrappolati in cumuli di rifiuti.

CI SONO DIVERSI MODI PER COMBATTERE questa contaminazione che assume proporzioni sempre più allarmanti. Gran parte delle persone pensa di fare la sua parte non abbandonando i rifiuti nell’ambiente e facendo una corretta raccolta differenziata. Iniziative lodevoli che fanno parte del dovere civico di ognuno di noi, ma che sono veramente sufficienti? Purtroppo no. Se analizziamo il sistema di riciclo nel nostro Paese, nemmeno tra i peggiori a livello europeo, scopriamo che solo poco più del 40 per cento della plastica da imballaggi che differenziamo correttamente ogni giorno nelle nostre case viene effettivamente riciclata. Ma perché così tanta plastica non viene riciclata? Le ragioni possono essere molteplici. Ad esempio, molti imballaggi sono costituiti da più materiali, come plastica e metallo, i cosiddetti poliaccoppiati di difficile riciclo. Alcuni casi? La stragrande maggioranza dei tubetti di dentifricio, oppure la confezione grigia che contiene sottovuoto il caffè in polvere. Anche il prezzo delle materie prime influenza il sistema di riciclo, e nello specifico la domanda di plastica riciclata sul mercato.

COME DOCUMENTATO DA UN RECENTE rapporto Ocse, a seconda del prezzo del petrolio, la plastica vergine potrebbe essere più conveniente rispetto a quella riciclata. E infine c’è il problema delle plastiche eterogenee miste (film, pellicole e plastiche monostrato) che possono rappresentare una quota consistente dello scarto della raccolta degli imballaggi (tra il 20 e il 50 per cento a seconda della piattaforma di selezione). Quest’ultima tipologia di plastiche è, sì, tecnicamente riciclabile ma molto spesso non viene richiesta sul mercato, finendo per rappresentare una sorta di rifiuto del rifiuto che crea non pochi problemi di gestione. In alcuni casi viene spedita addirittura all’estero, viaggiando per migliaia di chilometri via terra o via mare, per essere avviata a riciclo. Ma quella spedita oltre i confini nazionali viene effettivamente riciclata?

SECONDO LE ULTIME INDAGINI condotte dall’unità investigativa di Greenpeace sembrerebbe di no. Nelle scorse settimane abbiamo infatti scoperto un traffico illegale di rifiuti in plastica spediti dall’Italia ad aziende malesi, pari a più di 1.300 tonnellate solo nei primi nove mesi del 2019 quando, su un totale di 65 spedizioni dirette in Malesia, 43 sono state inviate a impianti privi dei permessi per importare e riciclare rifiuti stranieri. Oltre all’analisi documentale, un nostro team si è recato in Malesia e – con l’ausilio di telecamere nascoste – è riuscito raccogliere testimonianze video in alcune delle aziende malesi disposte a importare illegalmente i nostri rifiuti, tra cui plastica contaminata e rifiuti urbani. Inoltre, ha documentato la presenza di rifiuti plastici provenienti dall’estero, Italia inclusa, abbandonati all’aperto in enormi discariche a cielo aperto senza alcuna sicurezza per l’ambiente e la salute umana, in barba ai regolamenti europei vigenti. Infatti, secondo la normativa comunitaria di riferimento (Regolamento n. 1013/2006), i Paesi europei possono spedire i propri rifiuti fuori dall’Ue esclusivamente per “riciclo e recupero”, in impianti con standard ambientali e tecnici pari a quelli comunitari e che operano con “metodi ecologicamente corretti” ovvero “in conformità di norme in materia di tutela della salute umana e ambientale grosso modo equivalenti a quelle previste dalla normativa comunitaria”. Ma come è possibile che i nostri rifiuti possano viaggiare senza intoppi e raggiungere nazioni così lontane non rispettando la normativa europea? Secondo quanto riportato dalla Direzione Distrettuale Antimafia, interpellata da Greenpeace, una delle ragioni è da individuare nei pochi controlli. Infatti, meno del 2,5 per cento dei container che spediamo dai porti italiani è ispezionato con visita merci e molti porti non hanno addirittura aree adatte per aprire e controllare i container.

QUELLO DOCUMENTATO IN MALESIA non è però un caso isolato. Nei mesi scorsi ci siamo imbattuti in un caso analogo in Turchia, scoprendo un sito illegale di stoccaggio di rifiuti in plastica molto probabilmente provenienti dalla nostra raccolta differenziata, e nel sud della Polonia dove almeno cinquanta balle di rifiuti in plastica di provenienza italiana erano abbandonate in un ex distributore di carburante.

QUESTE SITUAZIONI SONO INACCETTABILI e non appartengono a un Paese che può definirsi civile e inoltre evidenziano, ancora una volta, alcune delle numerose criticità legate alla gestione delle materie plastiche a fine vita. Se consideriamo che di tutta la plastica prodotta al mondo a partire dagli anni Cinquanta, solo il 9 per cento è stato effettivamente riciclato, non sorprende imbattersi in pratiche di presunto riciclo. Il sistema di riciclo su scala globale, più volte invocato da aziende e governi come la principale soluzione per risolvere il problema dell’inquinamento da plastica, da solo non può essere considerato una soluzione efficace. Con una produzione di plastica globale che, entro il 2050, quadruplicherà i volumi del 2015, è possibile che la situazione peggiori ulteriormente e le pratiche illegali aumentino in modo vertiginoso. Che fare allora? Continuare a differenziare correttamente i rifiuti è doveroso ma, anche per non vanificare gli sforzi quotidiani di milioni di cittadini italiani, bisogna che governi e aziende riducano subito la produzione di plastica monouso, spesso inutile e superflua, che da sola oggi costituisce il 40 per cento della produzione globale. Solo così riusciremo a impedire che la Terra si trasformi in un Pianeta di plastica.

* responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace Italia


venerdì 27 marzo 2020

Strategie psicologiche per affrontare il virus a occhi aperti – Silvia Vessella




Partirei innanzitutto da quale mondo abitiamo. Guerre, invasioni e morte, terrorismo, fenomeni e squilibri ambientali violenti causano in intere popolazioni paura e incertezza. E’ diffuso nella maggioranza della popolazione un senso di sfiducia, indifferenza, ritiro individuale e chiusura sociale. Oggi poi a causa del Covid19 siamo ancor più preda della preoccupazione se non di un timore generalizzato, che rende utile una riflessione sulle ricadute psicologiche sul singolo e sulla società di questa epidemia.
Siamo consapevoli che la fretta serve poco a individuare strategie adeguate, mentre l’arma del pensiero riduce la possibilità di errore legata a soluzioni scientificamente sbrigative o democraticamente non risolutive.
Se partiamo da quelle che sono segnalate come le origini di una buona parte dei problemi, la responsabilità si attribuisce prevalentemente agli squilibri provocati dai grandi e troppo veloci cambiamenti avvenuti nelle società, dovuti anche alla proliferazione di sempre nuove tecnologie. Infatti la globalizzazione economica ha smantellato conquiste e sicurezze nei lavoratori, provocando nella popolazione disorientamenti profondi, con perdita di fiducia in chi la rappresenta e nelle ideologie solidali. I lavoratori hanno perso le sicurezze legate alla propria capacità lavorativa, con il timore, lo sconforto o la vergogna per non essere in grado di mantenere le proprie famiglie. Le nostre competenze lavorative infatti danno fondamento alla nostra identità, compresa quella sociale.
Gli esperti denunciano da tempo il profilarsi di nuove patologie psichiche, che stanno assumendo un carattere endemico, e quindi divengono patologie sociali. Sono il risultato di tentativi di fuga dal dolore psichico, spesso il prodotto di una rincorsa affannosa per stare al passo coi tempi, mentre si è superati da sempre nuove macchine, adombrando lo spettro della disoccupazione insieme con quello dell’impossibilità di una soluzione.
Uno stato di difficoltà si osserva soprattutto fra i giovani. Diffuse insicurezze esistenziali portano a ritiro, indifferenza, oppure a un aumento delle soluzioni legate allo “sballo” delle nuove droghe.
OGGI QUINDI il Covid 19 spaventa. Prima di tutto i tempi lunghi delle notizie, partite da lontano, hanno aumentato l’incubazione nella mente dei timori. Sicuramente poi il fatto che l’epidemia cammina, è globale collega le emozioni all’impossibilità di vie di fuga. Ci si sente sempre più inermi di fronte a un evento troppo enorme. Ai tempi infine delle fake news non dimentichiamo una incertezza generale rispetto al “vero – non vero” e la sfiducia nella verità dei fatti e delle notizie.
La paura di un pericolo invisibile, impalpabile, onnipresente, che rappresenta il peggiore degli incubi, porta con sé l’urgenza di trovare una via d’uscita. Il rischio è che la paura metta fretta, accechi, non trovi pensiero e parole, e divenga panico. Non porti ascolto e riflessione ma “faccia massa”.
Se vince la paura, l’emozione prende spazio, si allarga il contagio emotivo e con esso l’impulso a “fare qualcosa”, che provoca ad esempio l’esagerata corsa ai supermercati e nelle farmacie.
Il risultato negativo più pericoloso è la sensazione di essere soli, soli contro tutti. Di certo questo è un primo aspetto traumatico sia a livello individuale sia collettivo.
Ci sono molte strategie psicologiche per chiudere con la paura e quelle troppo sbrigative spesso sono poco efficaci. Il bambino di fronte al pericolo si copre gli occhi, immaginando che ciò che non vede non esiste. Alcuni poi si proteggono dietro l’individuazione di qualcuno o qualcosa, un colpevole. Può essere il dire “E’ colpa dei cinesi, dei migranti degli italiani” ecc.
Si trova un capro espiatorio, che però essendo divisivo delle forze in gioco, diviene pericoloso. Se una cosa infatti oggi è divenuta chiara, anche se complessa nella realizzazione, è che il problema è globale e solo tutti insieme lo si può risolvere. Una risposta adeguata, difficile all’oggi visto il panorama di sfiducia generalizzata, è legata non al rifugio in affidamenti fideistici, ma al credere nella capacità tutta umana di affrontare un problema. Mi riferisco alla capacità di tollerare con la paura l’incertezza. E questa forza la si rintraccia mantenendo il coraggio degli occhi aperti. E’ così che possiamo iniziare a dialogare con la paura, ricostruire una cauta fiducia in noi stessi e negli altri e insieme la speranza nel futuro, che ci riconnette con la saggezza dell’esperienza e con l’umanità.
DOMANI torneremo alla vita “normale” e sarà vitale riflettere su una situazione ampiamente traumatica come questa. La globalizzazione, nata come movimento egualitario sull’onda della diffusione di internet, veicolava l’idea di un uscita collettiva dalle differenze ricchi-poveri. Una sorta di fantasia di diffusione planetaria della conoscenza alla portata di chiunque e un’accessibilità generalizzata ai mezzi tecnologici induceva a sognare l’ingresso nel mondo dell’uguaglianza planetaria. Allo stato attuale si segnala tutt’altro. La caduta dei “muri” ideologici, che fungevano da barriera di contatto in equilibrio instabile fra mondi diversi, e la conseguente globalizzazione, guidata dalla finanza, ha prodotto soluzioni squilibrate e pericolose estremizzazioni delle differenze. È noto quanto l’idea di uguaglianza da sempre abbia creato grandi speranze e sogni e anche quanto non abbia retto alla prova del “reale”potere economico e politico. La sensazione di onnipotenza, che l’accelerazione delle tecnologie e della globalizzazione ha prodotto in prima battuta però ha rivelato molti punti deboli. La morale del “posso fare o essere ciò che voglio” ha necessità di più attente valutazioni.
Occorre mettere al centro della riflessione gli indicatori di sofferenza del sistema “globalizzazione”, per cercare risposte adeguate. Il primo indicatore è la diffusione globale del Covid 19, che oggi appare chiaro che chiama all’alleanza delle forze scientifiche, politiche e umane, come unica fonte possibile. Un altro segnale sono gli ormai ubiquitari movimenti migratori. Trovo particolarmente interessante il fatto che gli eventi attuali hanno sconfessato sui tempi lunghi il fatto che ” la Storia la scrive chi vince”. Ed hanno portato in primo piano le vicende di popoli che erano ai margini e che evidentemente, in un fenomeno carsico,hanno lavorato sotterraneamente per giungere a portare in piena luce le proprie ragioni. Paesi e popolazioni che sembravano sottomessi, passivamente adattati alla Storia di civiltà diverse dalla loro, oggi, proprio forse grazie alla diffusione del mondo web, anche se non con parole o stendardi, vengono a presentare il conto.
Altro indicatore, e ci spostiamo nel micro-cosmo del singolo e delle famiglie, è la diminuzione della natalità. Fermo restando che la procreazione debba essere una scelta, proprio per questo è un indicatore interessante rispetto a quello che si ritiene il destino umano. Altro segnale ancora è l’aumento della violenza. Penso come esempio al bullismo o ai femminicidi, spesso inspiegabili e inspiegati dagli stessi che hanno fatto l’agito violento. E’ frequente osservare come spesso ci sia una distanza, una cesura, una scollatura tra ciò che si è e l’immagine stereotipata che ci offre il mondo virtuale, alcuni media o la pubblicità. Così in alcuni, immersi nella bolla di un mondo virtuale, con una vita reale molto al di sotto dei sogni, l’agito violento diviene un tentativo di cancellare la realtà della propria, per loro insostenibile, fragilità, spesso con l’imitazione di eroi negativi, non essendo in grado di fare quel delicato calcolo costo-ricavi che è il risultato di un pensiero più intimo. E l’esito è drammatico.
Tutti questi sono segnali di disagio, e a livelli sia del micro sia del macro-cosmo, hanno bisogno di essere ben individuati e “curati”. E “medicati” a livello globale.
Questa epidemia, almeno momentaneamente, ha reintrodotto, insieme alla paura, una preziosa consapevolezza della fragilità umana. Un indicatore positivo, piccoli eubiquitari segnali di consapevolezza, sono le tante manifestazioni nel mondo, aggregazioni spontanee di masse, anche molto differenti tra loro, che mostrano uno stato di sofferenza o di disagio, che dovrebbero essere ascoltati. Occorre rivedere e riequilibrare i progetti per uno sviluppo sostenibile, tenendo conto di tutti i soggetti in gioco. Da Noè in poi si è sempre saputo che la salvezza risiede nello stare tutti su una stessa barca. Sarebbe un grosso errore sottovalutare tanti segnali. E’ tutto da studiare perché sappiamo bene cosa sia la guerra e molto poco invece la pace.

il virus è nel mondo

David Quammen: «Questo virus è più pericoloso di Ebola e Sars»


(Intervista di Stella Levantesi)

Otto anni fa, nel 2012, il divulgatore scientifico e autore David Quammen ha scritto nel suo libro Spillover (Adelphi, 2014), una storia dell’evoluzione delle epidemie, che la futura grande pandemia («the Next Big One») sarebbe stata causata da un virus zoonotico trasmesso da un animale selvatico, verosimilmente un pipistrello, e sarebbe venuto a contatto con l’uomo attraverso un «wet market» in Cina.
Ma non si tratta di una profezia, Quammen è arrivato a queste conclusioni attraverso ricerche, inchieste e interviste accompagnate dai dati scientifici degli esperti.
Dalla sua casa in Montana, Quammen ci aiuta a comprendere meglio la pandemia di coronavirus, la sua genesi e il suo sviluppo.

Come avviene lo «spillover»?
Spillover è il termine che indica quel momento in cui un virus passa dal suo «ospite» non umano (un animale) al primo «ospite» umano. Questo è lo spillover. Il primo ospite umano è il paziente zero. Le malattie infettive che seguono questo processo si chiamiamo zoonosi.

Una delle sezioni del suo libro si chiama «Tutto ha un’origine», in che modo la distruzione della biodiversità da parte dell’uomo e l’interferenza dell’uomo nell’ambiente creano le condizioni per la comparsa di nuovi virus come il coronavirus?
Nei nostri ecosistemi si trovano molti tipi diversi di specie animali, piante, funghi, batteri e altre forme di diversità biologica, tutte creature cellulari. Un virus non è una creatura cellulare, è un tratto di materiale genetico all’interno di una capsula proteica e può riprodursi solo entrando all’interno di una creatura cellulare.
Molte specie animali sono portatrici di forme di virus uniche. Ed eccoci qui come potenziale nuovo ospite. Così i virus ci infettano. Così, quando noi umani interferiamo con i diversi ecosistemi, quando abbattiamo gli alberi e deforestiamo, scaviamo pozzi e miniere, catturiamo animali, li uccidiamo o li catturiamo vivi per venderli in un mercato, disturbiamo questi ecosistemi e scateniamo nuovi virus.
Poi siamo così tanti – 7,7 miliardi di esseri umani sul pianeta che volano in aereo in ogni direzione, trasportano cibo e altri materiali – e se questi virus si evolvono in modo da potersi trasmettere da un essere umano all’altro, allora hanno vinto la lotteria. Questa è la causa alla radice dello spillover, del problema delle zoonosi che diventano pandemie globali.

La distinzione tra zoonosi e non zoonosi aiuta in qualche modo a spiegare perché l’uomo ha sconfitto certe malattie e non altre? In altre parole, è più difficile “curare” le zoonosi? E se sì, perché?
Sì, è così. Il 60% delle malattie infettive umane sono zoonosi, cioè il virus è stato trasmesso da un animale in tempi relativamente recenti. L’altro 40% delle malattie infettive proviene da altro, da virus o altri agenti patogeni che si sono lentamente evoluti nel tempo insieme all’uomo.
Quindi possiamo sradicare le non zoonosi, il cui virus si è adattato solo a noi e non vive in altri animali. Il caso più famoso è il vaiolo, che abbiamo sradicato e ora esiste solo nei laboratori e non circola nella popolazione umana. Siamo riusciti a farlo perché non vive anche negli animali.
Se il vaiolo vivesse in un pipistrello o in una specie di scimmia, allora non potremmo liberarcene nella popolazione umana se non ce ne liberassimo anche in quell’animale, dovremmo uccidere tutti quei pipistrelli o curare anche loro dal vaiolo.
Ecco perché possiamo sradicare una malattia come il vaiolo ed è per questo che alla fine non potremo mai sradicare una zoonosi, a meno che non uccidiamo gli animali in cui vive.

Quindi, se un virus ci arriva dai pipistrelli, qual è la soluzione? Dovremmo uccidere tutti i pipistrelli?

No, la soluzione è lasciare i pipistrelli in pace, perché i nostri ecosistemi hanno bisogno dei pipistrelli.

Riguardo ai pipistrelli, il fatto che siano mammiferi come gli esseri umani rende più facile la trasmissione del virus da loro a noi? È proprio perché siamo entrambi mammiferi che lo «spillover» è più probabile?
Sì, è così. Molti dei virus che hanno causato le zoonosi negli ultimi 60 anni hanno trovato il loro ospite nei pipistrelli. Sono mammiferi come noi e i virus che si adattano a loro hanno più probabilità di adattarsi a noi rispetto a un virus che è in un rettile o in una pianta, per esempio.
La seconda ragione è che i pipistrelli rappresentano un quarto di tutte le specie di mammiferi sul pianeta, il 25%. È naturale, quindi, che sembrino sovra rappresentati come fonti di virus per l’uomo.
Ci sono un altro paio di cose oltre a questo che rendono i pipistrelli ospiti più probabili, vivono a lungo e tendono a rintanarsi in enormi aggregazioni. In una grotta, potrebbero esserci anche 60.000 pipistrelli e questa è una circostanza favorevole per far circolare i virus.
C’è un’altra cosa che gli scienziati hanno scoperto da poco: il sistema immunitario dei pipistrelli è più tollerante ad «estraneità» presenti nel loro organismo rispetto ad altri sistemi immunitari.

Da quanto ho capito le epidemie della storia non sono indipendenti l’una dall’altra ma, in qualche modo, sono collegate e ricorrenti per i motivi di cui abbiamo parlato prima, quindi dove vanno a finire i virus quando non presentano una minaccia diretta agli esseri umani?
Questa epidemia è talmente diffusa che potrebbe non scomparire del tutto, ma provo a fare un esempio diverso: l’Ebola nel 2014 in Africa occidentale. Non conosciamo ancora l’ospite con certezza ma sospettiamo che si tratti di pipistrelli. Si scatena un’epidemia che uccide migliaia di persone, medici e scienziati rispondono alla minaccia e finalmente rallentano l’epidemia che poi sparisce. Dove va a finire il virus? Se ne va? No, è ancora nell’ospite.
I virus non tornano dall’essere umano all’ospite ma il virus continua a risiedere nell’ospite. E questo è ciò che accade con la maggior parte di queste epidemie. Arrivano, colpiscono gli esseri umani, le persone soffrono, muoiono, gli esperti sanitari rispondono, l’epidemia viene messa sotto controllo, l’epidemia scompare e poi passano diversi anni prima che si ripeta. Dov’è il virus nel frattempo? È nell’ospite.

C’è una correlazione tra l’aumento del tasso di inquinamento in alcune zone e un impatto più forte del virus sulla popolazione di quella zona?
Sì, penso che ci possa essere una correlazione tra l’inquinamento dell’aria e i danni ai polmoni e alle vie respiratorie delle persone e quindi la loro suscettibilità a questo particolare virus. Credo che questa sia una domanda importante. Non abbiamo ancora risposte certe ma è una domanda che merita ricerca e attenzione.
È del tutto possibile che il danno ai polmoni delle persone, anche quando non si nota in circostanze normali, possa essere presente e sufficiente a renderle più vulnerabili a questo virus.

Un altro aspetto è che i sintomi arrivano più tardi del contagio. Quindi non c’è nessun allarme da parte dell’organismo che dice: «Sei infetto». Questo può rendere il Covid-19 più pericolosa di altre malattie che mostrano i sintomi prima?
Sì, la rende più pericolosa. Credo di aver scritto in Spillover che siamo stati fortunati con la Sars perché era un virus molto pericoloso: si diffondeva facilmente da un essere umano all’altro e aveva un alto tasso di mortalità, quasi il 10%, eppure, sarebbe stato peggio se le persone fossero state contagiose ancor prima di manifestare i sintomi. E ho scritto: «Dio non voglia che avremo a che fare con un virus grave come la Sars che si diffonde dalle persone prima che si vedano i sintomi». In questo momento abbiamo esattamente questo caso di virus.
Dicono che quando un proiettile ti colpisce non senti mai il colpo, perché il proiettile arriva prima e poi il suono arriva dopo. Questo virus funziona così.

Ho notato che la disinformazione scientifica che riguarda il coronavirus ha molti punti di contatto con le dinamiche della disinformazione climatica. Qual è la sua opinione al riguardo? E quanto è importante affrontare la disinformazione scientifica?
È estremamente importante affrontare la disinformazione scientifica. C’è sicuramente una sovrapposizione rispetto al cambiamento climatico. Ci sono persone che sono impazienti, arrabbiate e poco informate. Ricevono notizie da fonti inaffidabili e hanno appetito per una forma negativa di eccitazione. Hanno più interesse per le cospirazioni che per la scienza. La disinformazione si diffonde facilmente.

Dov’è la soglia limite tra l’offerta di notizie accurate, credibili, trasparenti e accessibili a tutti e il bombardamento continuo di “notizie” sul virus?
Esiste un limite e di informazione può essercene troppa. Viviamo in un mondo dove i media sono attivi 24 ore su 24 e vogliono aggiornamenti e occhi. Vogliono che la gente consulti la loro piattaforma perché hanno qualcosa un minuto prima di un’altra. È un tipo di competizione che non fa bene a nessuno – a parte agli azionisti della piattaforma stessa. Quindi penso che noi, come consumatori di notizie, dobbiamo resistere all’ossessione di sapere quale sia l’ultimo dato, l’ultimo caso, l’ultima notizia dell’ultima ora.
Dobbiamo seguire l’informazione sul virus, prestare attenzione al problema ma abbiamo bisogno anche di altre cose. Abbiamo bisogno di una copertura sul coronavirus che approfondisca le cause e gli effetti, ma anche di storie che non riguardino il coronavirus. Abbiamo bisogno di musica, di comicità, di arte, di persone che parlano di libri – e non solo del mio.

Che ruolo ha il sentimento di paura nelle dinamiche di comportamento collettivo durante una pandemia?
La paura è umana ed è naturale. Ma non è utile. Dobbiamo imparare di più su questo virus e prendere misure adeguate per controllarlo. Dobbiamo stare attenti, poi, che l’allontanamento sociale e l’autoisolamento non portino all’allontanamento emotivo e non cominciamo a vedere l’altro come una minaccia o un nemico. Quindi distanza sociale sì, ma con una connessione emotiva.

Cosa possiamo imparare da questa pandemia?
Prima di tutto possiamo imparare che le zoonosi possono essere molto pericolose e costose e dobbiamo essere preparati nell’affrontarle. Dobbiamo spendere molte risorse e molta attenzione nella preparazione.
Più posti letto in ospedale, più unità di terapia intensiva, più ventilatori, più mascherine, più formazione del personale sanitario, più formazione degli scienziati. Studiare piani di emergenza a livello locale, regionale, nazionale e tutto questo costa denaro.
L’altra cosa che dobbiamo imparare è che il modo in cui viviamo su questo pianeta ha delle conseguenze, delle conseguenze negative. Noi dominiamo questo pianeta come nessun’altra specie ha mai fatto. Ma ci sono conseguenze e alcune prendono la forma di una pandemia da coronavirus. Non è una cosa che ci è capitata. È il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Tutti ne siamo responsabili.

Ovviamente nessuno conosce davvero la risposta a questa domanda, ma come vede il mondo dopo il coronavirus? Cosa pensa che cambierà per le società e per la vita delle persone?
Spero che alla fine anche persone come Donald Trump imparino a prendere sul serio queste cose. Dobbiamo fare degli aggiustamenti. Potrebbe essere che inizieremo a ridurre il nostro impatto in termini di clima, di tutti i combustibili fossili che bruciamo, in termini di distruzione della diversità biologica, di invasione dei diversi ecosistemi. Forse cominceremo ad avere un passo più attento e più leggero su questo pianeta. Questo è quello che spero, ed è l’unico bene che può venire da questa esperienza.

da qui



Il virus è la malattia del pianeta stressato - Gianni Tamino

(Intervista di Francesco Bilotta)
Intorno alla pandemia causata dal nuovo coronavirus si sta sviluppando un intenso dibattito sugli aspetti sanitari. Anche nel campo delle scienze sociali, per l’impatto che il virus sta avendo sulle nostre abitudini e stili di vita, si stanno producendo riflessioni ed analisi.
Si è sviluppato solo parzialmente, invece, il dibattito sul rapporto che intercorre tra la condizione ambientale e l’insorgenza di una epidemia. Per contribuire a colmare questo vuoto ci siamo messi in contatto con il professor Gianni Tamino (docente di Biologia generale all’Università di Padova, dove attualmente svolge attività di ricerca nel campo dei rischi legati alle applicazioni biomolecolari), impegnato da molti anni a indagare il rapporto tra ambiente e salute.
Quale relazione esiste tra questa pandemia e le profonde trasformazioni che il pianeta sta subendo? Lei ha più volte fatto riferimento alla capacità di carico e al deficit ecologico che sta caratterizzando il pianeta.

Sulla base della capacità di carico si può misurare la capacità rigenerativa del pianeta. Nel caso della popolazione umana si parla di «impronta ecologica». L’Overshoot Day indica il giorno in cui il consumo delle risorse supera la produzione che la Terra mette a disposizione per quell’anno. Per il 2019, il giorno è stato il 29 luglio. Significa che in sette mesi abbiamo esaurito tutte le risorse che il pianeta rigenera in un anno. Bisogna risalire agli anni ’80 per trovare un equilibrio tra risorse consumate e risorse rigenerate dalla Terra. Si è determinato un deficit ecologico che comporta esaurimento delle risorse biologiche e, nello stesso tempo, produzione di rifiuti, effetto serra, alterazione della biodiversità, con squilibri che sono alla base dell’insorgenza di molte malattie. Quanto più si superano i limiti della disponibilità del territorio e si altera l’ambiente, tanto maggiore sarà la frequenza con cui si manifestano carestie, guerre, epidemie. Il rapporto del 1972 su I limiti dello sviluppo anticipava molte delle questioni attuali.

Le risorse naturali vengono consumate a un ritmo sempre più accelerato e cresce la produzione agricola, ma non si riescono a soddisfare le esigenze alimentari della popolazione. Il cibo prodotto sarebbe sufficiente per tutti, ma malattie e malnutrizione sono presenti in diverse aree del pianeta.

La Fao calcola che la produzione attuale di cibo sarebbe in grado di sfamare fino a nove miliardi di persone, ben al di sopra dell’attuale popolazione. Sta di fatto che un miliardo di persone soffre la fame a causa di forme di produzione non sostenibili e una iniqua distribuzione. La riduzione delle terre coltivabili, la perdita di fertilità dei suoli, l’estensione delle monocolture, l’inquinamento ambientale, sono alcuni dei fattori che incidono sulla disponibilità di cibo. Il 70% della superficie agricola è destinata alla produzione di mangimi per animali. La biomassa del miliardo e mezzo di bovini che viene allevato è molto di più della biomassa umana. Inoltre, lo spreco alimentare, pari al 30% di tutta la produzione che si verifica nel corso di tutto il processo produttivo e distributivo, aggrava la situazione.
I cambiamenti climatici e l’alterazione degli habitat creano le condizioni favorevoli all’insorgenza di malattie cronico degenerative e di epidemie. Quale è il legame tra un ambiente degradato e la diffusione di una epidemia?
Le enormi quantità di energia di origine fossile che abbiamo impiegato a partire dalla Rivoluzione Industriale hanno prodotto una situazione che rischia di diventare irreversibile. I cambiamenti climatici e l’inquinamento del pianeta rappresentano una seria minaccia per il mantenimento degli ecosistemi e della biodiversità. L’inquinamento ambientale sta producendo gravi conseguenze sulla salute umana ed è responsabile della morte prematura di almeno 10 milioni di persone ogni anno nel mondo. L’incremento di malattie cronico degenerative sta determinando un indebolimento di ampie fasce della popolazione, che risulta meno idonea a difendersi dalle malattie infettive e dalle nuove epidemie.

Il contatto sempre più ravvicinato con gli animali selvatici e i loro patogeni rendono più facile il salto di specie, ma anche gli allevamenti intensivi rappresentano una condizione potenzialmente pericolosa per la diffusione di epidemie.
Il salto di specie di un virus da un animale all’uomo è sempre un evento preoccupante, sia che si tratti del pipistrello (per il nuovo coronavirus) o dei polli e suini (per l’influenza aviaria e suina), perché la popolazione è priva di difese immunitarie specifiche e il virus non trova ostacoli. Per questo è necessario contenere la diffusione riducendo i contatti tra le persone. In questi mesi stiamo affrontando una pandemia virale, ma il futuro potrebbe riservarci pandemie causati da batteri resistenti ad ogni trattamento farmacologico. Negli allevamenti intensivi, a causa dell’elevata concentrazione di animali e del massiccio impiego di antibiotici, si creano le condizioni favorevoli allo sviluppo di ceppi batterici resistenti. Se una salmonella o un ceppo di Escherichia coli sviluppassero resistenza agli antibiotici, si determinerebbe una situazione drammatica perché non saremmo in grado di controllare il contagio.

Un rapporto dell’OCSE del 2018 afferma che nei prossimi 10 anni avremo più di 600 milioni di persone residenti in aree segnate da conflitti, in condizioni di povertà ed esposte a epidemie.
Si tratta dell’80% della popolazione più povera del mondo che si trova all’interno di stati fragili e che vive una condizione di emergenza a causa dei cambiamenti climatici. Le popolazioni fragili e indebolite di questi paesi sono «terreno fertile» per la diffusione di epidemie. La precaria condizione sanitaria non consente di affrontare le epidemie che dovessero insorgere e che le inevitabili migrazioni trasformerebbero in pandemie.

Recentemente ha affermato che questa pandemia può essere un «utile avvertimento» per evitarne di nuove e più gravi.
Il Covid-19 è una reazione allo stato di stress che abbiamo causato al pianeta. Questa pandemia non ha una letalità elevata, anche se è alta la contagiosità. Nella Pianura Padana, soprattutto in Lombardia, sta colpendo una popolazione anziana e indebolita da patologie pregresse. E l’inquinamento dell’ambiente svolge un ruolo fondamentale nell’insorgenza di queste patologie. Riusciamo a tenere in vita più a lungo le persone, ma non siamo in grado di garantire una vita sana. A fronte di una età media più elevata, la nostra «aspettativa di vita sana» si è ridotta. Per arginare le future epidemie dobbiamo modificare il nostro rapporto con l’ambiente, ma anche potenziare le strutture sanitarie pubbliche che vengono smantellate in tutti i paesi.