lunedì 9 marzo 2020

Maestre e maestri di lungimiranza - Franco Lorenzoni



Mercoledì 26 febbraio si sono incontrate a Oxford Greta Thunberg e Malala Yousafazai. In questi giorni (22 febbraio) ricorre anche il compleanno di Alexander Langer. Greta ha 17 anni, Malala 22 e Alex di anni ne avrebbe compiuti 74. Ripubblico qui un articolo dedicato ad Alexander Langer, l’amico di cui più sento la mancanza, ricordando l’impegno inflessibile di queste due straordinarie ragazze, perché in comune hanno la “malattia” della lungimiranza, cioè il sentire e l’incarnare pienamente temi e problemi che noialtri percepiamo appena. Sono certo che Alex avrebbe amato e sostenuto la battaglia di Malala per l’istruzione di bambine e ragazze di ogni parte del mondo contro ogni fanatismo, così come la cocciuta mobilitazione di Greta per la salvaguardia del pianeta. “Fare pace tra gli uomini e fare pace con il creato” è stato, per Alexander Langer, l’impegno di tutta la sua vita. Cerchiamo di capire cosa ciascuno di noi può fare, facendo tesoro di lezioni da non dimenticare.
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Nelle nostre società “deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita” (…) “La convivenza pluri-etnica, pluri-culturale, pluri-religiosa, pluri-lingue, pluri-nazionale appartiene e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione”. (…) “In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all’esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’integrazione”.
Così scriveva Alexander Langer nel 1994, nel Tentativo di decalogo per la convivenza interetnicauno dei suoi testi più profondi e generativi che, fosse per me, lo ripubblicherei di continuo e lo consiglierei per le antologie scolastiche. In uno dei punti del decalogo sottolineava “l’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”.
In quegli anni si era nel pieno del conflitto che stava insanguinando le regioni dell’ex-Jugoslavia e Alex fu tra i pochi politici italiani ed europei che si impegnò, con tutto se stesso, per tentare una soluzione pacifica e tenere aperta la comunicazione tra coloro che si opponevano al conflitto, dando vita con altri al Verona Forum per la pace e la riconciliazione nei territori dell’ex Jugoslavia, che fu un luogo dove si riunirono gli oppositori alla guerra provenienti delle diverse regioni in conflitto.
Langer sentiva la violenza interetnica nella sua carne perché era nato nel 1946 a Vipiteno, nel Südtirol di lingua tedesca. Suo padre, nato a Vienna, era ebreo non praticante e sua madre era convintamente laica. Vissuto in una famiglia aperta al dialogo, scelse di frequentare il liceo italiano dei francescani a Bolzano, città dove con altri ragazzi fondò la sua prima rivista, chiamata Offenes Wort, Parola aperta e, più tardi, la rivista Il ponte, Die Brücke: un simbolo che avrebbe incarnato per tutta la vita, sia nell’audacia del segno capace di collegare due sponde distanti, sia nella fatica concreta del cercare e trovare e trasportare le pietre che possano incastrarsi tra loro per tenere su l’arco.
Il modo originale con cui Alex ha vissuto la difficile convivenza nell’Alto Adige – Südtirol, lo ha portato a ragionare intorno alle contraddizioni interetniche in modo non ideologico, rifiutando ogni semplificazione.
Alex era perfettamente bilingue per scelta e il plurilinguismo in lui, che passava continuamente nei suoi ragionamenti dal tedesco all’italiano, era un piccolo allenamento quotidiano di immedesimazione nei pensieri e nelle ragioni dell’altro perché – come scrisse citando Ivan Illich – aiuta a
“ripristinare, nelle nostre menti prima di tutto, con una solida base storica di quel che è stato e non di quel che potrebbe essere, la multiforme varietà del mondo”.
Quando studiava nella Firenze di La Pira e della Comunità del dissenso cattolico dell’Isolotto, tradusse in tedesco Lettera a una professoressa, scritta dai ragazzi della Scuola di Barbiana di don Milani. La sua velocità di traduttore era proverbiale, tanto che riuscì a rendere in simultanea in tedesco, sulla scena, il rapido affabulare e i molteplici dialetti portati in teatro da Dario Fo nel suo Mistero Buffo, al tempo della sua tournée in Germania.
Alex era profondamente convinto che una “Storia” unica e condivisa da tutti non esista. Che esistano sempre tante storie legate ai corpi delle persone, al loro sentire, al loro vivere, al loro pensarsi. L’essere nato in una regione plurilingue lo aveva infatti vaccinato per sempre dall’illusione dell’unicità.
Del resto il suo spirito profondamente libero e ribelle gli ha sempre reso insopportabili tutti i confini, a partire da quelli che delimitavano il proprio campo. Nel 1977 a Roma, durante una manifestazione sfociata in violenti scontri, Alex non esitò a passare dall’altra parte per soccorrere un poliziotto ferito perché era evidente, per lui, che ogni vittima va soccorsa al di là di ogni schieramento, perché il suo imperativo morale lo portava a stare sempre a fianco di chi era più fragile e vulnerabile.
Tenere sempre presente il punto di vista dell’altro è stato lo sforzo umano e intellettuale che ha dato forma alla sua vita. Ascoltate ad esempio il modo in cui racconta dei rom e dei sinti,
“popolo mite e nomade, che non rivendica sovranità, territorio, zecca, divise, timbri, bolli e confini, ma semplicemente il diritto di continuare ad essere quel popolo sottilmente “altro” e “trascendente” rispetto a tutti quelli che si contendono territori, bandiere e palazzi. Un popolo che, un po’ come gli ebrei, fa parte della storia e dell’identità europea. (…) A differenza di tutti gli altri, rom e sinti hanno imparato a essere leggeri, compresenti, capaci di passare sopra e sotto i confini, di vivere in mezzo a tutti gli altri, senza perdere se stessi, e di conservare la propria identità anche senza costruirci uno stato intorno. La distruzione inesorabile di un mondo conviviale (…) ha tolto agli zingari il loro mondo naturale: non si può togliere l’acqua ai pesci e poi stupirsi se i pesci non riescono più ad essere agili, gentili e autosufficienti come una volta. Eppure bisogna che l’Europa con quella sua stragrande maggioranza di “sedentari” accolga, anche nel proprio interesse, la sfida gitana e faccia posto a un modo di vivere che decisamente non si inquadra negli schemi degli stati nazionali, fiscali, industriali e computerizzati”.
Pensare che scelte di vita radicalmente altre possano essere di nutrimento per tutti è stata una delle convinzioni visionarie che Alex non ha mai abbandonato. Ma in queste sue parole riconosciamo anche dei tratti del suo carattere, perché Alex ha sempre desiderato passare “sopra e sotto i confini” di ogni genere, da incessante viaggiatore e tessitore di relazioni qual’era.
Provando a condensare in affermazioni icastiche il suo pensiero, a volte Alex formulava quelle che chiamava “regolette”. Eccone una: “Ciascuno di noi non dovrebbe consumare nulla di più di quanto non possano consumare tutti i 6 miliardi di abitanti del pianeta”. Questa regoletta limpidamente kantiana è, al tempo stesso, evidentemente necessaria eppure difficilmente attuabile, perché chi vive nel nord opulento del mondo difficilmente rinuncerebbe ai suoi privilegi. Eppure,
“perché ci sia un futuro ecologicamente compatibile – spiega Langer in un altro suo scritto – è necessaria una conversione ecologica della produzione, dei consumi, dell’organizzazione sociale, del territorio e della vita quotidiana. (…) Bisogna riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo) attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero “regresso” rispetto al motto olimpico del più veloce, più alto, più forte”, da trasformare in “più lentamente, più profondamente, più dolcemente e soavemente”.
Alex, grazie alle sue frequentazioni tedesche, fu tra i primi in Italia a cercare di dare vita a un movimento verde che avesse anche rappresentanza istituzionale. Ma per indole, pur costruendo di continuo luoghi concreti di scambio, non si è mai accontentato di coltivare qualche piccolo orto o consolidare posizioni di potere stando nelle istituzioni. Pur essendo stato molto apprezzato per il suo lavoro nel Parlamento europeo, in quel luogo sentiva di essere testimone di passaggio, rilanciando sempre in avanti il suo impegno, attento a ciò che sentiva più urgente e necessario.
Quando ideò nel 1988, insieme ad altri, la Fiera delle Utopie Concrete a Città di Castello, volle che in quell’appuntamento internazionale fossero presenti rappresentanti dell’Europa dell’est ben prima della caduta del muro di Berlino. E poiché il tema della conversione ecologica riguardava tutti, gli sarebbe piaciuto che Città di Castello si trasformasse in una sorta di moderna Santiago di Compostela, cioè un luogo di pellegrinaggio laico europeo, dove recarsi per ascoltare e mostrare e condividere progetti concreti di conversione ecologica nei campi più diversi. L’immagine di Santiago mostrava bene come ad Alex premeva l’idea del lungo cammino, insieme individuale e collettivo, necessario a che le idee di trasformazioni radicali sentite come necessarie avessero il tempo di prendere corpo in individui concreti e in piccole comunità capaci di sperimentare concretamente le trasformazioni auspicate.
Il desiderio di essere “più lento” è condizione che negli ultimi anni è sempre meno riuscito a vivere, perché incapace di sottrarsi a impegni e urgenze sempre più pressanti. Ma quando uno si rende disponibile all’apertura all’altro senza remore, come Alex ha cercato di fare tutta la vita, la sua vulnerabilità diventa assoluta.
Il pomeriggio del 3 luglio 1995, a 49 anni, Alex si è tolto volontariamente la vita impiccandosi a un albicocco a Pian dei Giullari, alle porte di Firenze. Eppure, anche in quel momento di massima disperazione, ha sentito il bisogno di rassicurare gli amici, scrivendo nell’ultimo dei suoi tanti bigliettini: “Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto”.
Tre anni prima, quando si era tolta la vita la leader verde tedesca Petra Kelly, Alex l’aveva ricordata con queste parole:
“Forse è troppo arduo essere individualmente degli Hoffnungsträger, dei portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande l’amore di umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere”.
Quest’anno il premio Alexander Langer è stato assegnato ad Adopt Sebrenica, un gruppo di giovani di diversa nazionalità impegnati a tessere un dialogo nel paese dove nel luglio del 1995 si è consumato il più violento episodio di pulizia etnica dell’Europa del dopoguerra, con il genocidio di 8372 musulmani di Bosnia da parte delle truppe di Ratko Mladić. Venticinque anni fa Alexander Langer, il più lungimirante tra i nostri politici, ci ha lasciato “più disperato che mai”. Ma i suoi pensieri e il suo esempio credo abbiano ancora molto da insegnare a chi non voglia accettare che il mondo viva sotto il ricatto dell’etnocentrismo, che Alex definì “l’ego-mania collettiva più diffusa oggi”.
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Questo articolo è stato pubblicato su Internazionale.it. Per chi voglia sapere di più su Langer, molti suoi testi sono stati pubblicati dopo la sua morte in Alexander Langer, Il viaggiatore leggero edito da Sellerio. Altri materiali e una ricca documentazione la si può trovare nel sito http://www.alexanderlanger.org/it


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