martedì 30 gennaio 2024

Una centrale agrivoltaica sui campi, le terre collettive, le domus de janas di Martis, Tula, Chiaramonti - Gruppo d’Intervento Giuridico

Il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) ha inoltrato un atto di intervento (29 gennaio 2024) nell’ambito del procedimento di valutazione d’impatto ambientale (V.I.A.) relativo al progetto di realizzazione della centrale agrivoltaica “19185 – Martis” da parte di Luce Martis s.r.l., società energetica emiliana, in località dell’agro di Martis, Tula e Chiaramonti (SS).

Un nuovo progetto di centrale agrivoltaica insistente pressoché sullo stesso ambito territoriale, dove insistono altri numerosi progetti di impianti produttivi di energia da fonti rinnovabili.

Il progetto “19185 – Martis” interessa una superficie complessiva di oltre 84 ettari, per una potenza nominale massima complessiva pari a 39,2 MW.   Moduli fotovoltaici, poi linee elettriche di collegamento alla rete elettrica nazionale, viabilità, una cabina di raccolta, una nuova stazione elettrica, sbancamenti, viabilità, cavidotti in zone ricche di corsi d’acqua e macchia mediterranea, come chiaramente indicato anche dal piano paesaggistico regionale (P.P.R.), un pesante impatto ambientale nell’Anglona.

 

Presenza di vincolo paesaggistico e di vari beni culturali (Domus de Janas di Su MurroneDomus de Janas di Baldedu) sottoposti a tutela (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), con una fascia di rispetto estesa (purtroppo solo) cinquecento metri dal limite delle zone tutelate con vincolo culturale e/o con vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), posta dall’art. 6 del decreto-legge n. 50/2022, convertito con modificazioni e integrazioni nella legge n. 91/2022, in attesa della prevista individuazione delle aree non idonee all’installazione degli impianti di produzione energetica da fonte rinnovabile.

Una parte delle opere (cavidotti, collegamenti alla rete elettrica, stazione elettrica) rientra addirittura nel demanio civico di Tula, area assolutamente non fruibile se non dai cittadini di Tula.

Il GrIG ha chiesto al Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica di esprimere formale diniego alla compatibilità ambientale dell’impianto industriale in progetto e ha informato, per opportuna conoscenza, il Ministero della Cultura, la Regione autonoma della Sardegna, la Soprintendenza per Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Sassari e i Comuni di Tula, Martis e Chiaramonti.



I motivi del “no” al Far West energetico in Sardegna.

Essere a favore dell’energia prodotta da fonti rinnovabili non vuol dire avere ottusi paraocchi, non vuol dire aver versato il cervello all’ammasso della vulgata dell’ambientalismo politicamente corretto.

Ma non sono solo le associazioni e i comitati realmente ambientalisti a sostenerlo.

La Soprintendenza speciale per il PNRR, dopo approfondite valutazioni, ha evidenziato in modo chiaro e netto: “nella regione Sardegna è in atto una complessiva azione per la realizzazione di nuovi impianti da fonte rinnovabile (fotovoltaica/agrivoltaica, eolico onshore ed offshore) tale da superare già oggi di ben 7 volte quanto previsto come obiettivo da raggiungersi al 2030 sulla base del FF55, tanto da prefigurarsi la sostanziale sostituzione del patrimonio culturale e del paesaggio con impianti di taglia industriale per la produzione di energia elettrica oltre il fabbisogno regionale previsto” (nota Sopr. PNRR prot. n. 27154 del 20 novembre 2023).

Altro che la vaneggiata sostituzione etnica di Lollobrigidiana memoria, qui siamo alla reale sostituzione paesaggistica e culturale, alla sostituzione economico-sociale, alla sostituzione identitaria.  

E questo vale per tutto il territorio nazionale: “tale prospettiva si potrebbe attuare anche a livello nazionale, ove le richieste di connessione alla RTN per nuovi impianti da fonte rinnovabile ha raggiunto il complessivo valore di circa 318 GW rispetto all’obiettivo FF55 al 2030 di 70 GW” (nota Sopr. PNRR prot. n. 27154 del 20 novembre 2023).


Per comprendere meglio.

In tutto il territorio nazionale le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a. (gestore della rete elettrica nazionale) al 30 settembre 2023 risultavano complessivamente ben 5.138, pari a 314,73 GW di potenza, suddivisi in 3.300 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare per 135,94 GW (43,19%), 1.702 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra per 88,97 GW (28,27%) e 136 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica  a mare 89,81 GW (28,54%)..

In Sardegna, e istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a.(gestore della rete elettrica nazionale) al 30 settembre 2023 risultavano complessivamente ben 711, pari a 52,21 GW di potenza, suddivisi in 446 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare per 20,13 GW (38,55%), 236 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra per 15,23 GW (29,17%) e 29 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica  a mare 16,85 GW (32,27%).

52,21 GW significa più di 27 volte gli impianti oggi esistenti in Sardegna, aventi una potenza complessiva di 1,93 GW (i 1.926 MW esistenti, di cui 1.054 MW di energia eolica a terra + 872 di energia solare fotovoltaica, dati Terna, 2021).

Un’overdose di energia che non potrebbe esser consumata sull’Isola (che già oggi ha circa il 38% di energia prodotta in più rispetto al proprio fabbisogno), non potrebbe esser trasportata verso la Penisola (quando entrerà in funzione il Thyrrenian Link la potenza complessiva dei tre cavidotti sarà di circa 2 mila MW), non potrebbe esser conservata (a oggi gli impianti di conservazione approvati sono molto pochi e di potenza estremamente contenuta).

Significa energia che dovrà esser pagata dal gestore unico della Rete (cioè soldi che usciranno dalle tasse dei contribuenti.

Gli unici che guadagneranno in ogni caso saranno le società energetiche.

Insomma, siamo all’overdose di energia producibile da impianti che servono soltanto agli speculatori energetici.

 

Che cosa si potrebbe fare.

Cosa ben diversa sarebbe se fosse lo Stato a pianificare in base ai reali fabbisogni energetici le aree a mare e a terra dove installare gli impianti eolici e fotovoltaici e, dopo coinvolgimento di Regioni ed Enti locali e svolgimento delle procedure di valutazione ambientale strategica (V.A.S.), mettesse a bando di gara i siti al migliore offerente per realizzazione, gestione e rimozione al termine del ciclo vitale degli impianti di produzione energetica.

Siamo ancora in tempo per cambiare registro.

In meglio, naturalmente.

Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG)

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lunedì 29 gennaio 2024

Dalla Cop 28 alla 29, e poi la 30… - Alberto Acosta

 

“L’essere umano è l’unico animale che inciampa
ventotto volte sulla stessa pietra”

Gustavo Duch 

Dopo aver studiato i risultati della 28a Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP) a Dubai, tenutasi alla fine del 2023, possiamo anticipare quale sarà la situazione del pianeta e dei suoi abitanti quando inizierà, alla fine del prossimo anno, la nuova COP, che si terrà a Baku, in Azerbaigian. Possiamo dire, senza timore di smentita, che i gravi problemi ecologici non avranno trovato la maniera di essere superati e non avremo nemmeno cominciato a superare la dipendenza dai combustibili fossili, come è stato strombazzato in pompa magna alla chiusura della COP degli Emirati Arabi Uniti.

La Terra continuerà a registrare temperature record, con estati sempre più calde e fluttuazioni precedentemente sconosciute. I fenomeni naturali scatenati dal Capitalocene saranno innumerevoli, siano essi siccità o alluvioni, tifoni o maremoti. Guerre e genocidi continueranno spinti dall’inarrestabile desiderio di accumulare, nel totale disinteresse che la vita della Natura sia soffocata. I flussi migratori climatici continueranno a ritmi crescenti. Il divario di disuguaglianza ecologica aumenterà, in un momento in cui il 10% della popolazione che inquina di più genera la metà delle emissioni globali, ma subisce solo il 3% delle perdite dovute al collasso ecologico. Anche lo spreco energetico resterà inarrestabile, tanto che la stessa Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (OPEC) prevede già che nel 2024 la domanda di idrocarburi raggiungerà una “crescita sana” di 2,2 milioni al giorno, raggiungendo un ritmo giornaliero di oltre 104 milioni di barili. E tutto questo in scenari di governo sempre più dominati da “negazionisti” dei più diversi schieramenti ideologici, siano essi libertari di estrema destra o progressisti che si autodefiniscono socialisti.

A questo punto la domanda che sorge spontanea riguarda il futuro delle prossime COP, in particolare quella di Belém do Pará, in Brasile, alla fine del 2025.
 

Tanto rumore e poche noci

Riassumiamo brevemente quanto realizzato a Dubai, senza dubbio una delle più grandi capitali mondiali dello spreco energetico, ma che è riuscita ad essere proiettata come “Città Sostenibile” nel 2017 dalla prestigiosa rivista National Geographic, come frutto di quello che avrebbe dovuto essere un costoso reportage pubblicitario.

Una volta conclusi i tempi formali, nell’Emirato petrolifero è stato raggiunto un accordo. Nel documento finale, i negoziatori di quasi 200 paesi hanno riconosciuto espressamente la necessità di abbandonare per la prima volta i combustibili fossili in occasione di una COP. Questa accettazione, a prima vista importante, ha suscitato una intensa ovazione, da parte dei convenuti. L’emozione ha contagiato la quasi totalità dei circa 100 mila partecipanti, siano essi funzionari internazionali o governativi, lobbisti del petrolio e rappresentanti di ONG, giornalisti, etno-viaggiatori ed eco-turisti. E fuori dal vertice, come accaduto soprattutto dopo la COP 21, tenutasi a Parigi nel 2015, la contentezza, alimentata da migliaia di superficiali comunicati stampa, si è diffusa in ampi settori del mondo…prima di tornare alla vita quotidiana, cioè al percorso normale della civiltà dei combustibili fossili, con tutte le sue brutali conseguenze.

Al di là dell’aspetto simbolico del riconoscimento ottenuto, la realtà è che quanto ottenuto non cambia praticamente nulla. Anche il modo con cui vengono usate le parole dimostra la perversità dell’accordo. Dai concetti di eliminazione progressiva  (phase-out) e di riduzione progressiva (phase-down) dei combustibili fossili (il testo cita esplicitamente solo il carbone), si è aperta la strada a un nuovo concetto: transitare verso l’abbandono dei combustibili fossili (transiting away). Con questo aggiustamento linguistico si è riusciti a sbloccare il vertice all’ultimo momento. Si è così arrivati ​​ad un finale che alcuni considerano storico mentre altri lo vedono direttamente come deludente, insufficiente e caratterizzato da vulnerabilità. E’ sufficiente prendere nota della reazione negativa dei piccoli paesi insulari, come Samoa, che già soffrono direttamente gli impatti del collasso climatico, per constatare, ancora una volta, quali siano le priorità.

Dietro le quinte di una perenne truffa

Analizziamo alcuni punti concreti di fronte alla complessa realtà che stiamo attraversando, tenendo conto anche che il tempo per affrontare il riscaldamento ambientale, e il conseguente riscaldamento sociale, sta esaurendo. L’accordo prevede gli obiettivi di decarbonizzazione raccomandati dalla comunità scientifica per garantire un futuro abitabile per l’intero pianeta. Sembra motivante. Si è concordato di ridurre le emissioni almeno del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019, al fine di raggiungere la neutralità del carbonio nel 2050.

Cerchiamo di capire cosa significa questo. Nelle COP successive – quest’ultima non fa eccezione – non è stata richiesta alcuna riduzione reale, ma sono stati invece lanciati appelli ad adottare misure per raggiungere la “neutralità climatica” o raggiungere lo “zero netto” delle emissioni entro il 2050. Questo concetto di “zero netto” è ingannevole, poiché presuppone che le emissioni di gas serra (GHG) possano continuare e persino aumentare purché  “compensate” attraverso i mercati del carbonio e/o rimuovendo i gas serra dall’atmosfera, attraverso le cosiddette “soluzioni climatiche basate sulla natura” o “ tecnologie di rimozione del carbonio” (ovvero tecniche di geoingegneria).

Questo è un punto complesso. Nello specifico, è consentita l’estrazione e l’utilizzo di carbone, petrolio e gas considerati “abbattuti” o “mitigati”, in quanto relazionati a impianti di cattura e stoccaggio del carbonio o ad altre forme di “rimozione” del carbonio una volta emesso, come ad esempio cattura diretta dall’aria e bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio. Di conseguenza, è stata consolidata la tecnologia di Cattura e Stoccaggio del Carbonio (CCS). Questa tecnologia non è nuova, è stata sviluppata dall’industria petrolifera per accedere alle riserve petrolifere profonde iniettando anidride carbonica. Originariamente si chiamava Enhanced Oil Recovery (EOR). E ora questa vecchia tecnologia entra nella lista delle tecnologie climatiche – come la geoingegneria, le compensazioni, i mercati del carbonio, compresa l’energia nucleare e lo stesso gas, tra le altre -: attività che potranno persino beneficiare di finanziamenti pubblici e ottenere crediti di carbonio per finanziare l’estrazione di più combustibili fossili e allo stesso tempo generare nuovi meccanismi di profitto attraverso la cattura e i mercati del carbonio.

In altre parole, queste “soluzioni climatiche” manterranno aperte le opzioni per continuare a utilizzare gli idrocarburi e le possibilità di accumulazione di grandi capitali, molti dei quali direttamente responsabili della distruzione ecologica di cui soffriamo. E nonostante questa constatazione, ci sarà più di un esperto che dalla COP 28 si aspettava iniziative specifiche per continuare ad espandere la logica del capitalismo verde.

Un altro punto. Nemmeno la questione dei finanziamenti adeguati per una transizione giusta potrebbe essere risolta, superando la perversità della mercificazione della Natura, come nel caso del mercato del carbonio. Anche la questione dei sussidi multimilionari ai combustibili fossili non è stata affrontata.


Una strada per l’inferno lastricata di buone intenzioni

Per chiudere questa breve analisi, evidenziamo un punto chiave: il testo lascia ai paesi la scelta della formula per ottenere queste riduzioni delle emissioni, auspicando che siano rapide, profonde e durature, in linea con quanto dicono gli scienziati e in conformità con le circostanze, i percorsi e gli approcci nazionali.

Nello specifico, come è già successo, ad esempio, alla COP di Parigi, che funge da ottimo riferimento per gli ultimi vertici, non abbiamo a portata di mano un accordo vincolante. È un’affermazione che si inserisce nella logica dominante, cioè non avanza affatto verso una costruzione effettiva di alternative sistemiche. È un compito complesso, senza dubbio pieno di aberrazioni, come supporre che la Cina sia un paese sottosviluppato che le permette di godere di un trattamento preferenziale, quando questa economia, la più grande del pianeta, è quella che inquina di più al mondo.

I risultati non solo sono pieni di ipocrisia, ma, come abbiamo appena accennato, lasciano la porta aperta a false soluzioni, come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, o addirittura notano battute d’arresto in alcuni punti come la copertura sanitaria universale. Inoltre, attraverso diversi accordi specifici di alcuni attori che hanno partecipato alla COP, continueranno i processi perversi, che potrebbero rientrare nelle iniziative aziendali di transizione energetica, come la “Carta per la decarbonizzazione del petrolio e del gas”, sottoscritta da 52 aziende di combustibili fossili e lanciata congiuntamente con l’Arabia Saudita. Infatti, il cosiddetto Decarbonization Consensus (Maristella Svampa e Breno Bringel, dixit), apre le porte a nuove e più perverse forme di colonizzazione ecologica attraverso l’espansione dell’estrattivismo di litio, rame e terre rare, per citarne solo un paio di esempi.

Riconosciamolo: finché non vengono toccati gli interessi dei grandi inquinatori, siano essi stati o società transnazionali – in particolare quelle energetiche, automobilistiche, aeree, marittime e militari – questi tipi di accordi saranno insufficienti e persino controproducenti. Finché non cambieremo rotta e non comprenderemo che la crescita economica permanente è un motore di tutti i tipi di distruzione e di disuguaglianze, non sarà possibile raggiungere soluzioni veramente strutturali. Pertanto, finché la sfida non viene affrontata con equità e radicalità, sulla base di un’effettiva comprensione della giustizia sociale e della giustizia ecologica, i risultati raggiunti non hanno alcun significato.
 

Un colpo di timone di fronte all’imminente naufragio

Insomma, l’esito della COP 28 non è affatto incoraggiante. E al ritmo a cui stiamo andando, la COP 29 di Baku, in un altro paese con un regime autoritario e un’economia dipendente dal petrolio, sarà un altro fallimento. Aspettarsi altri risultati ripetendo la stessa cosa, inciampando sempre sulla stessa pietra, è una goffaggine che non possiamo più tollerare. I discorsi verdi incoraggiano pratiche inquinanti. In questa linea, il futuro delle COP è il passato.

 

Stando così le cose, se non ci saranno cambiamenti fondamentali, anche la COP 30 in Brasile alla fine del 2025 sarà una delusione. Ecco perché sorgono dubbi e ci si chiede se il Paese ospitante avrà la capacità di compiere uno sforzo serio per rompere questa inerzia caratterizzata da insensatezza e irresponsabilità. Nello specifico, ci chiediamo se il governo Lula, che ha annunciato l’ingresso del Brasile nell’OPEC, capirà la gravità del momento e sarà in grado di favorire un cambiamento sostanziale basato su proposte provenienti dalle basi delle società del pianeta…

Per questo motivo, torniamo alla richiesta del Patto Ecosociale e Interculturale del Sud di convocare e organizzare un Vertice Mondiale sul Clima della Madre Terra e dei Popoli, formulato nel 2022. Si tratta di un incontro che non può essere manipolato dal potere e che ha la capacità di affrontare urgentemente tutte queste questioni. Un conclave che riunisca tutto il mondo della militanza attiva dei popoli e delle società, impegnate in un orizzonte di transizione eco-sociale radicale e democratica, con una giustizia ecologica e sociale globale, interculturale e pluriversale che trasformi sia il settore energetico che quello industriale e agricolo, che dipendono da sistemi energetici fossili, così come la logica insostenibile dei disumanizzanti processi di urbanizzazione.

In breve, abbiamo bisogno di un vertice che comprenda che una vita dignitosa per tutti gli esseri umani sarà possibile solo se vivremo in armonia con la nostra Madre Terra.

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domenica 28 gennaio 2024

Il territorio come comune - Stavros Stavrides

 

Siamo abituati a considerare il territorio come lo spazio connesso con un atto di sovranità. Il potere sovrano definisce lo spazio da governare e le leggi che descrivono i limiti e le condizioni della sua giurisdizione. Questo, ovviamente, si verifica nel caso di accordi di potere che si basano su processi di legalità e relative sanzioni. Il potere, tuttavia, può anche fondare il proprio dominio su un territorio e sui suoi abitanti (umani e non umani) sulla pura violenza: l’espressione di una volontà di dominio e un insieme di pratiche che tentano di garantire l’obbedienza.

Il territorio può essere concepito anche in un altro modo: i popoli indigeni dell’America, ad esempio, equiparano il territorio alla produzione della vita in tutte le sue forme. La terra per loro è la Madre Terra e si sentono obbligati a proteggerla piuttosto che a controllarla, considerandola come un insieme di relazioni da governare. Governare la terra in un contesto del genere sembrerebbe totalmente contrario alle pratiche di cura della terra. Le persone che rivendicano il ruolo di custodi del territorio trascendono il problema della giurisdizione e, quindi, degli obblighi derivanti da uno specifico insieme di leggi o di direttive di potere.

Da questo insieme di pratiche e visioni del mondo emerge un diverso tipo di rapporto con il territorio: invece di essere definito come risorsa ed entità concreta che appartiene a chi lo utilizza come risorsa, il territorio diventa una condizione di dipendenza reciproca: le comunità hanno bisogno del territorio tanto quanto il territorio ha bisogno delle loro cure. La cura è, quindi, il contrario dell’estrazione, se con quest’ultima parola si può indicare una riduzione del territorio ad area di saccheggio: saccheggio del lavoro umano e della creatività che crescono in un certo territorio, così come dell’abitare e inorganici che costituiscono il territorio stesso.

Naturalmente, alla base stessa dell’approccio estrattivista, così come a quella della definizione sovrana di territorio, ci sono quelle istituzioni sociali che sanciscono le regole dell’appropriazione. Chi e a quali condizioni può appropriarsi di un determinato territorio per il proprio interesse? “Di chi è questo territorio?” sembra essere una domanda che condensa i dilemmi dell’appropriazione. La proprietà è forse il modo più ovvio per rispondere a tali dilemmi. Tuttavia, si è sviluppata una storia ricca e complicata riguardo alle condizioni e allo status della proprietà nelle diverse società. Nel capitalismo, la proprietà incarna la confluenza delle regole di sovranità con i diritti di appropriazione delle risorse. Il proprietario è il “governatore” sovrano e legittimo utilizzatore della sua proprietà. E leggi, i documenti e le decisioni politiche (come nel caso dell’esproprio forzato delle terre a causa delle condizioni coloniali) assicurano che questa sovranità sia protetta.

Il territorio è stato però considerato in diverse società come proprietà collettiva di una famiglia, di una comunità o di un insieme di comunità. È il caso, per esempio, degli aborigeni australiani che definiscono il loro territorio attraverso canti che attraversano un continente e assicurano gli scambi e la comunicazione tra persone diverse.

E se invece il territorio potesse essere nuovamente considerato come la condizione della vita collettiva, la sua fonte e il suo significativo sostegno? Cosa accadrebbe se, al di là dell’estrattivismo e dell’appropriazione violenta e discriminatoria, potessimo vedere ancora una volta il territorio come il modo più inclusivo di intendere la società: la società, dunque, come un insieme complesso di relazioni che si dispiega in continua interazione con lo spazio che occupa?

Questo significherebbe semplicemente cercare una sorta di armonia con la natura? Oppure implicherebbe un nuovo insieme di istituzioni sociali destinate a riformulare il problema della governance così come quello dell’appropriazione? La caratteristica più importante delle istituzioni cercate sarebbe sicuramente una etica rinnovata della collaborazione. La collaborazione può offrire un percorso al di là dell’appropriazione selettiva, così come al di là di un ethos estrattivista che tratta gli altri (compresi i non umani) come mezzi piuttosto che come partner. La collaborazione può diventare la via per stabilire rapporti di reciprocità, uguaglianza, cura e sostegno reciproco.

Il territorio, così, può trasformarsi nella spazialità della collaborazione. Sarà sia ciò che modella come anche il risultato della collaborazione. Inoltre, sviluppando forme di collaborazione per trattare i territori come partner, le società umane potranno sviluppare modi per prevenire l’accumulo di potere sia all’interno dei limiti di ciascuna società sia, in alcune di esse, in relazione alle altre. Né soggetti privilegiati che si appropriano né governatori autoproclamati, dunque. Territorio come comune: questo significa aprire la vita sociale a pratiche di condivisione e sviluppare regole del mettere in comune basate sull’uguaglianza e sul sostegno reciproco. Una società emancipata, pertanto, è una società che non lotta per garantire che il proprio territorio sia un’area di emancipazione, ma piuttosto una società che cerca con tutte le sue forze di garantire che i territori siano aree di scambi comuni.


 

Fonte: Desinformemonos

Traduzione per Comune-info: marco calabria

Stavros Stavrides è un architetto e attivista nato in Grecia, docente alla Scuola di Architettura dell’Università Tecnica Nazionale di Atene, dedito al lavoro sulle reti urbane di solidarietà e sostegno reciproco e alla comprensione degli atti e dei gesti sparsi di tacita disobbedienza nelle metropoli.

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sabato 27 gennaio 2024

Militarismo, genocidio e clima - Silvia Ribeiro

 

L’11 gennaio 2024, il Sudafrica, sostenuto da più di 60 paesi e 900 organizzazioni civili, ha presentato una solida causa contro Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite per il crimine di genocidio. Sono state prodotte prove convincenti di intenzionalità e molteplici violazioni da parte di Israele della Convenzione sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio.

Israele ha sostenuto che l’attacco di guerra sistematico contro la popolazione civile palestinese è una risposta e una difesa contro l’attacco indubbiamente terribile del movimento Hamas del 7 ottobre 2023, con centinaia di morti civili. Evita opportunamente di menzionare che Hamas è stato originariamente creato con il sostegno dello stesso Israele per dividere i movimenti palestinesi, in particolare per indebolire l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, allora guidata da Yasser Arafat, che contava su un importante sostegno presso le Nazioni Unite. Questa non è una teoria del complotto, ma un fatto pubblicamente riconosciuto dal generale israeliano Yitzhak Segev al New York TimesPer Israele, Hamas avrebbe rappresentato un importante fattore di divisione interna in Palestina, ma anche un elemento più aggressivo e radicale che sarebbe stato più facile da condannare dall’esterno.

Con oltre 23mila morti in soli tre mesi – il 70% dei quali sono stati donne, bambini e bambine –, più di 60mila feriti – nella stragrande maggioranza civili – e il 90% degli edifici distrutti, soprattutto ospedali, scuole, abitazioni e servizi, è difficile pensare che il genocidio in corso da parte del governo israeliano contro il popolo palestinese a Gaza possa avere un impatto più devastante. Tuttavia, le ripercussioni negative di questa guerra colpiscono anche il resto del pianeta a livelli più profondi di quanto pensiamo.

Uno studio condotto da ricercatori di università del Regno Unito e degli Stati Uniti, recensito dal quotidiano britannico The Guardianha rivelato che le emissioni di gas serra (GHG) nei primi 60 giorni di guerra a Gaza hanno superato le emissioni totali di oltre 20 paesi altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici.

Pubblicato il 5 gennaio, lo studio stima che in 60 giorni, a partire dal 7 ottobre, siano state rilasciate 281mila tonnellate di anidride carbonica (CO2), il 99% delle quali è stato attribuito ai bombardamenti aerei e all’invasione di terra di Israele a Gaza.

I ricercatori hanno preso in considerazione solo le attività con la maggiore intensità nella generazione di gas serra, ma non tutte le fonti di emissioni, quindi si tratta certamente di una stima al ribassoLe emissioni derivanti dalla “risposta” militare israeliana all’attacco di Hamas in 60 giorni equivalgono alla combustione di 150mila tonnellate di carbone. Questo calcolo include la CO2 generata dalle missioni di bombardamento aereo, il carburante per i carri armati e altri veicoli, nonché i gas generati dall’esplosione di bombe, artiglieria e razzi. Non include la stima di altri gas serra, come il metano. La metà delle emissioni stimate corrispondono agli aerei cargo statunitensi che trasportano materiale bellico in Israele.

I razzi lanciati da Hamas nello stesso periodo sono stati stimati in 713 tonnellate di CO2, equivalenti alla combustione di 300 tonnellate di carbone, in questo senso lo studio evidenzia anche un esempio dell’enorme differenza tra gli apparati bellici impiegati.

Gli autori della ricerca stimano che la ricostruzione dei 100.000 edifici distrutti comporterà l’emissione di almeno 30 milioni di tonnellate aggiuntive di carbonio. Sottolineano poi che lo studio su Gaza è solo un’istantanea dell’immensa impronta climatica ed ecologica del militarismo e dei conflitti bellici. Riferiscono infatti che, secondo altri studi precedenti, se venissero presi in considerazione tutti gli elementi della catena industriale-militare che emettono CO2 o equivalenti, le emissioni di gas serra risultanti sarebbero da cinque a otto volte maggiori.

Il militarismo e le guerre, oltre alla massiccia perdita di vite umane e ad essere fonte di devastazione e inquinamento ambientale, di distruzione della natura e degli esseri viventi, sono anche un fattore molto importante nella crisi climatica, cosa che genera più sofferenze, migrazioni e perdita di vite umane.

Sebbene diversi studi sull’argomento stimino che essi causino tra il 5 e il 6% delle emissioni globali di gas serra (più di tutte quelle causate dai trasporti commerciali aerei e marittimi messi insieme), la maggior parte delle attività militari non vengono prese in considerazione al momento in cui si calcolano le emissioni per paese nel database della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Anche per questo, nella recente COP28 tenuta negli Emirati Arabi Uniti, le proteste di organizzazioni e movimenti contro il genocidio di Gaza sono state costanti, così come quelle contro tutte le guerre e l’aumento del militarismo in generale, che è inseparabile e contribuisce ad aumentare l’ingiustizia climatica.

Ricercatrice del Gruppo ETC

https://comune-info.net/militarismo-genocidio-e-clima/

venerdì 26 gennaio 2024

Israele e la presunta etica della carne coltivata - Grazia Parolari

 

“Israele è il primo Paese ad approvare la vendita di carne coltivata. Si tratta di una svolta globale nel campo delle proteine alternative e di notizie importanti per la sicurezza alimentare, la protezione dell’ambiente e l’attenzione per gli animali”.

Queste le parole con cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha commentato l’annuncio, dato il 18 gennaio, dell’approvazione della vendita di carne coltivata a base di manzo da parte di Israele, primo Paese al mondo a prendere tale decisione.

Il permesso è stato accordato all’azienda Aleph Farms che, da quando è stata fondata nel 2017, ha raccolto circa 140 milioni di dollari e annovera l’attore Leonardo DiCaprio come membro del comitato consultivo.

La carne viene coltivata da cellule prelevate da ovuli fecondati raccolti da una mucca Black Angus di prima qualità, Lucy. L’azienda afferma che si è trattato di un processo unico attraverso il quale ora hanno una raccolta di ovuli fecondati di Lucy e da cui si aspettano di coltivare migliaia di tonnellate di bistecche.

Anche il rabbinato capo di Israele ha dato la sua approvazione alla società. Il rabbino capo ashkenazita David Lau ha stabilito che la carne coltivata di Aleph è kosher perché la carne viene coltivata da cellule staminali prelevate da un ovulo fecondato, anziché da cellule estratte dal tessuto muscolare.

Questa sentenza significa che Aleph potrebbe iniziare a vendere ai ristoranti entro pochi mesi, e al dettaglio in un secondo momento.

Israele è un importante hub per la carne coltivata. Al di fuori della Silicon Valley californiana, Israele ospita il maggior numero di startup biotecnologiche e impianti pilota al mondo dedicati alla produzione di carne coltivata. Quasi il 40% di tutti gli investimenti globali nella carne coltivata vengono investiti in aziende israeliane. E recentemente, questa cifra ha incluso anche gli investimenti delle svizzere Nestlé e Migros.

L’immagine di un Paese moderno e all’avanguardia, “terra di risultati” e “faro delle nazioni”, è sempre stata parte integrante della politica di re-branding di Israele, atta a oscurare l’idea di uno Stato colonialista che pratica l’apartheid. Più che l’attenzione all’ambiente o alla sensibilità verso gli animali, anche l’interesse per la produzione di carne coltivata rientra in questo progetto, e alla necessità di esaudire la richiesta di carne che, nel “Paese più vegan al mondo”, non si è mai fermata. Nel 2021, Israele si è classificato al quarto posto nel consumo di carne bovina tra i paesi OCSE, dopo Stati Uniti, Argentina e Brasile. Ma a differenza di questi Paesi, Israele non produce molta carne bovina. La sua industria locale della carne dipende dalla carne refrigerata importata e dai carichi di animali vivi, trasportati via mare dall’Australia in condizioni così terribili da essersi meritati un’inchiesta del Guardian.

La penuria di carne è sempre stata una caratteristica del mercato Israeliano fin dall’inizio della colonizzazione. Ancora alla fine del XIX, la carne era scarsa, in quanto la Palestina era una terra con pascoli e bestiame limitato, con caratteristiche climatiche che non favorivano l’allevamento su larga scala. Il commercio del bestiame, che si svolgeva a livello locale, rimase nelle mani degli arabi fino a che l’aumentata richiesta di carne da parte dei coloni non spinse quest’ultimi a riallacciare i rapporti con i commercianti europei, al fine di importare bestiame di dimensioni più grandi e con maggiore resa, tanto da eliminare del tutto, nelle fattorie israeliane, l’allevamento di bovini locali. I coloni bramavano la carne come manifestazione materiale del raggiungimento di un’utopia di prosperità e abbondanza, contrastando in questo uno degli obiettivi dello Stato sionista, quello dell’autosufficienza. ​

Ben presto la carne divenne un alimento base, più che una minaccia, e il Paese, incapace di espandere la sua “tradizionale” industria di carne bovina, dovette ricorrere alle importazioni, non senza avere utilizzato nel frattempo l’aumentata richiesta di carne e di pascoli come strumento per l’espansione degli insediamenti e della colonizzazione.

Appare quindi chiaro come ciò che muove l’interesse per la carne coltivata, non è “la protezione dell’ambiente e l’attenzione per gli animali”, come dichiarato da Netanyahu, ma la risposta a un desiderio storico di carne in un ambiente naturale che non la supporta, con il contemporaneo desiderio di farne non solo fonte di orgoglio nazionale, ma parte imprescindibile della politica sionista.

Il Paese più vegan del mondo, idea che un’efficace utilizzo del veganwashing ha saputo veicolare, continua quindi sulla strada di un veganismo falso e strumentale, che invia a Gaza soldati e soldatesse vegan con scarponi vegani e razioni da combattimento vegane a compiere quello che si sta prefigurando come un genocidio , massacrando animali umani e non umani , e che ha sviluppato una tecnologia innovativa non per risparmiare la vita di migliaia di esseri senzienti, ma per poter continuare a consumare carne senza dipendere da mercati esteri.

Il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) è una campagna contro i prodotti israeliani avviata il 9 luglio 2005 da 171 organizzazioni non governative palestinesi a sostegno della causa palestinese. Ad essa hanno aderito numerose organizzazioni in tutto il mondo, di varia ispirazione politica e religiosa, comprese organizzazioni ebraiche Ad oggi, si è dimostrato l’unico mezzo efficace capace di danneggiare Israele, tanto da essere stato incluso nella lista di associazioni terroriste da Israele stesso.

È facile immaginare come ben presto la carne coltivata israeliana arriverà anche nei mercati esteri, se non in Italia.

Non sono affatto certa che la scelta di non acquistarla, che considero limpida e chiara, sarà condivisa da tutti e tutte coloro che si dichiarano vegan.

 

Fonti:

·       Time of Israel 

·       Israeli Government 

·       “Milk and Honey”  di Tamar Novick – MIT Press  -2023

da qui

giovedì 25 gennaio 2024

aspettando le elezioni in Sardegna, di Omar Onnis

Dichiarazione politica-elettorale e qualche riflessione - Omar Onnis

La campagna elettorale sarda non è ancora ufficialmente iniziata, ma le sue fasi preparatorie sono ormai a uno stadio avanzato. Chiarisco la mia posizione.

Come dicevo in un altro post (questo), non intendo parlare della campagna elettorale imminente. Non perché la reputi poco interessante, tutt’altro, ma per correttezza. Sono parte in causa.

Dall’anno scorso sto seguendo il percorso di Sardegna chiama Sardegna, lo spazio politico aperto con la chiamata pubblica del 6 novembre 2022. Non si tratta (ancora) di un’organizzazione, tanto meno di un partito, ma piuttosto di un tentativo di rivitalizzare la politica sarda in termini democratici e partecipativi, con lo sguardo centrato sull’isola ma ben aperto sul contesto internazionale.

È un percorso difficile e accidentato, per ragioni oggettive interne ed esterne. Quelle interne discendono dalla sua natura post-ideologica e dalla sua composizione anagrafica (prevalentemente persone intorno ai trent’anni in gran parte con poca o nulla esperienza di militanza politica).

Post-ideologico non significa privo di valori di riferimento e di obiettivi strategici, ma semplicemente che non esiste un ancoraggio dogmatico alle scuole di pensiero ereditate dal secolo scorso. Post-ideologico e anche, come ha lucidamente evidenziato Maurizio Onnis, post-indipendentista. Non nel senso di considerare chiusa la prospettiva indipendentista, ma nel senso di cercare una via per superarla in avanti, tenendo conto della crisi epocale dello stato-nazione e dello scenario globale.

E qui veniamo alle ragioni esterne della difficoltà del percorso di ScS. Nel contesto sardo, così debilitato e in fase di ulteriore involuzione, è faticosissimo rispondere alla crisi presente con un rilancio democratico fatto di ottime intenzioni, metodi nuovi e una prospettiva non banalmente elettoralistica. È un’impresa che giusto una generazione giovane ma già matura può concepire. Dare una mano a tale tentativo, per quel che si può, è il minimo, per quanto mi riguarda.

Non ho mai concepito l’impegno intellettuale come una sfera diversa e distinta dall’impegno politico e sociale. Tutto ciò che è pubblico – ossia rivolto alla polis, alla collettività di cui si è parte – è interconnesso. Tutto è politica, potremmo dire in sintesi. Che ci piaccia o no. O anche: se non ti interessi della politica, la politica comunque si interesserà a te.

Dopo un lungo e non semplice dibattito interno, ScS ha scelto di partecipare alla tornata elettorale prossima ventura e di farlo con le proprie forze. Il quadro politico tuttavia al momento non è affatto così semplice come lo vorrebbero i fautori a oltranza del bipolarismo maggioritario e presidenzialista. Tale schema non ha mai corrisposto alle reali articolazioni sociali e ideali della comunità sarda, tanto meno nella vigenza della scandalosa legge elettorale regionale approvata nel 2013 proprio per bloccare qualsiasi tentativo di opporsi all’assetto oligarchico e consociativo al potere.

Paradossalmente, a scardinare il disegno oligarchico in queste settimane è proprio un soggetto che ne ha fatto parte, sia pure a modo suo, fino a poco fa: Renato Soru.

Di Renato Soru si possono evidenziare pregi e difetti, sbagli e scelte indovinate. Non è un personaggio pubblico facile da interpretate e ha sempre costituito un’anomalia nel sistema sardo. Per questo detestato e combattuto fin dai suoi esordi in politica, e dalla sua parte non meno che dagli avversari conclamati.

La sua esperienza da presidente della RAS, nel 2004, ha avuto un primo biennio di grande impatto, di rottura totale con le esperienze del passato, compresa la giunta Melis degli anni Ottanta, figlia del “vento sardista”. Quelle premesse tuttavia sono state in larga misura tradite. Anche per scelte sbagliate dello stesso Soru. (Beninteso, non pretendo che la mia idea di scelte sbagliate sia universalmente condivisa. In ogni caso, non è questo l’oggetto principale del post.)

La sua mancata rielezione, davanti a un concorrente non certo irresistibile come Ugo Cappellacci, fu conseguenza prima di tutto di una delusione generalizzata, certo alimentata dai suoi avversari, ma spesso sincera. L’indipendentismo organizzato, allora in ascesa, fu respinto da Soru medesimo, che non ne comprese fino in fondo le ragioni profonde, al di là degli ideologismi. Si era obiettivamente esaurita la spinta rinnovatrice del 2004. Le forze conservatrici, comprese quelle interne al centrosinistra, ebbero la meglio. Le giunte regionali successive smantellarono diverse innovazioni e molte misure virtuose e soprattutto rinnegarono l’approccio complessivo della prima giunta Soru, ripiombando l’isola indietro di dieci o vent’anni.

Alla luce di quanto precede, per come la vedo io, Renato Soru è politicamente in debito con la Sardegna. Che provi oggi a ripagarlo, a me sta bene. Mi interessano poco le motivazioni personali che lo hanno spinto a cimentarsi in questa prova. Trovo sbagliato il ragionamento secondo cui le critiche rivolte da me e altri a esperienze del passato debbano inficiare o impedire prese di posizione odierne. Già il solo fatto che stia contribuendo fattivamente a disarticolare l’apparato di potere coloniale che ha dominato la scena fin qua e a cui egli stesso è stato in qualche modo organico mi fa apprezzare la sua decisione di rompere col centrosinistra italiano e lanciare questa sfida.

La considero in linea con la prospettiva aperta a suo tempo da Progetto Sardegna, poi in larga misura ripresa, precisata e irrobustita teoricamente, da Sardegna Possibile 2014 (nell’incomprensione di molti, compreso Renato Soru, che ora – guarda caso – subisce un trattamento analogo). Riaprire tale prospettiva oggi è ancora (e forse persino più) necessario, possibilmente in una versione forte e non immemore dei precedenti.

In questo senso, è doveroso evidenziare come molte delle partite aperte dalla giunta Soru nel 2004 fossero strategicamente importanti, anche a dispetto della loro conclusione o del loro mancato compimento. Dalla modernizzazione delle istituzioni, all’enfasi posta sulla scuola e sulla formazione. Dal ragionamento su una sanità efficiente e non vincolata agli appetiti clientelari, alla pianificazione urbanistica virtuosa. Dal rilancio della questione linguistica (ricordiamo la fondamentale indagine socio-linguistica del 2006), alla nuova attenzione sui beni culturali. Fino ai trasporti interni ed esterni e al contrasto dell’asservimento militare della Sardegna. Tutte materie in cui allora ci fu una svolta a tratti epocale.

Sono temi tornati finalmente in agenda, con un taglio lontano dalla superficialità e dalla cialtroneria a cui ci hanno abituato negli anni cdx e csx (compresa la disastrosa giunta “dei professori”), così come aveva provato a fare Sardegna Possibile 2014. Temi e taglio su cui si può discutere, entrando nel merito, valutando le opzioni del passato per adeguarle al presente oppure abbandonarle a favore di altre, ma non se ne può negare la forza e la rilevanza.

Il processo decisionale che ha condotto Sardegna chiama Sardegna ad aderire alla Coalizione Sarda non è stato facile. Come tutte le decisioni collettive serie. Le condizioni di contesto, i rapporti di forza e la normativa elettorale vigente non lasciavano molte alternative. ScS non poteva limitarsi a fare testimonianza, correndo da sola (posto che ce ne fossero i presupposti concreti), senza possibilità di avere un peso reale. E tuttavia la partecipazione alle elezioni era un passo importante e necessario, per un percorso in fase di definizione, che ha bisogno di collaudarsi e di “far fare le ossa” alle/ai sue/suoi aderenti. Ma ci sono anche buone ragioni di merito che giustificano questa scelta.

La maggior parte dei punti programmatici elaborati da ScS sono nell’agenda della nascente Coalizione Sarda. Tutto il contrario della risposta del csx, avvicinato da ScS in funzione di un’apertura politica reale verso le lotte in corso e verso la costruzione un programma di forte rilancio democratico.

L’adesione alla coalizione soriana di forze residuali del progressismo e dell’indipendentismo (iRS e ProgReS) mi pare anch’essa figlia delle circostanze, ma non scontata. Con iRS e ProgReS ScS formerà una lista unitaria. Certo che c’è del calcolo, perché mai non dovrebbe esserci? È la stessa forma della competizione elettorale a richiederlo. Poi, chiaro, non è detto che gli obiettivi di tutte le componenti coincidano fino in fondo, ma in questi casi l’importante è che ci sia una condivisione di solidi punti programmatici e un rispetto e una lealtà di fondo. La politica è essenzialmente l’arte del possibile, è negoziazione, è fare i conti con i dati di realtà.

Naturalmente ogni critica è lecita. Che non piaccia lo scenario elettorale così come si è delineato è comprensibile. Non piace fino in fondo nemmeno a me. Ma mi pare migliore di una riproposizione stantia e sempre meno presentabile del finto duopolio cdx/csx.

Le possibili forze alternative, in questa fase, sono o a fine ciclo, come pressoché tutto l’indipendentismo organizzato e il progressismo borghese (che alternativo in realtà non è mai stato), o ancora in fase di emersione, come appunto ScS. Sarà il post-elezioni a dirci qualcosa di più su come si configurerà lo scenario politico prossimo venturo. I sommovimenti sociali e le nuove forme di aggregazione e azione politica già in campo animano una possibile, nuova domanda democratica, secondo l’andamento ciclico della storia contemporanea sarda. Bisognerà vedere se si troverà una forma per politicizzare e portare fin dentro le istituzioni tale movimento.

Dopo aver letto e sentito in proposito, in Rete e di persona, commenti più o meno autorevoli e più o meno disinteressati (di solito meno), non voglio concludere senza dire qualcosa su un problema generale della sfera politica sarda.

In Sardegna la democrazia è così debole (a bassa intensità, si dice qualche volta) anche perché non disponiamo di un dibattito pubblico all’altezza delle necessità. I mass media sardi sono perlopiù schierati, ma quasi sempre senza dichiararlo. I presunti osservatori esterni non sono quasi mai né esterni né obiettivi, e anche qui troppo spesso senza chiarire in modo trasparente i loro posizionamenti e la loro agenda. L’intellighenzia sarda, accademica e non, troppo organica ai centri di potere, preferisce tacere o al limite delegittimare possibili outsider e oppositori dello status quo.

La discussione pubblica in Sardegna è pesantemente inquinata dalla televisione italiana e dalle pessime forme della comunicazione politica derivate da oltre Tirreno. Soffriamo di evidenti deficit relazionali, dovuti sia alla scomparsa delle forme di partecipazione politica novecentesca, sia all’abuso dei social media. È difficilissimo imbastire un confronto che non sfoci nella mera contrapposizione tifosa o nel banale sabotaggio dialettico. La mediocrità dilagante della politica e dell’informazione produce effetti di diseducazione democratica che si riverberano ad ampio spettro sulla vita associata, disincentivando la partecipazione attiva e precludendo alla cittadinanza la possibilità di formarsi un’idea compiuta, basata su fatti e su dati reali, dei problemi e delle possibili soluzioni.

Non è un contesto nel quale sia facile fare politica, specie se si concepisce la politica non come possibilità di arricchimento e/o carriera personale ma come partecipazione libera e costruttiva alla sfera pubblica. Eppure mai come nelle situazioni complicate è necessario provarci. Bisogna provare a resistere alla corrente, bisogna costruire appoggi e punti di approdo solidi. Bisogna immaginare e perseguire un futuro diverso da quello, che oggi sembra segnato, fatto di impoverimento e spopolamento.

Se non ci sono le forze per imporre un cambio di rotta deciso, bisogna almeno sapersi destreggiare tra i flutti, salvaguardando una scialuppa di salvataggio accogliente per chi non voglia arrendersi. Che in termini elettorali significa offrire alla cittadinanza una possibilità di voto diversa e non organica al sistema di potere vigente.

Io la vedo così e mi regolo di conseguenza. Beninteso, fino all’inizio della campagna elettorale vera e propria potranno esserci sorprese. Non sarebbe la prima volta. Tuttavia, al momento, la scelta fatta da Sardegna chiama Sardegna mi pare sensata, per quanto complicata. Le elezioni passeranno e allora bisognerà riprendere il discorso, facendo tesoro anche di questa esperienza.

da qui

 

  

L’irresistibile pulsione razzista dei media italiani verso la Sardegna - Omar Onnis

Un articolo sul giornale (un tempo) progressista La Repubblica parla dell’imminente campagna elettorale sarda e in particolare della rottura di Renato Soru col centrosinistra a guida PD. E, come per magia, spuntano fuori paternalismo fuori luogo, ignoranza crassa e stereotipi razzisti. Non è un caso e non è un caso isolato.

Neanche finito di dire che non mi sarei occupato della campagna elettorale sarda, e mi ritrovo qui a smentire me stesso. In realtà, però, non parlerò della campagna elettorale. Ma la campagna elettorale sarda, non per la prima volta, offre spunti di ragionamento su tematiche in questo caso collaterali, ma che in generale fanno parte integrante dell’irrisolta “questione sarda”.

Sul giornale Repubblica si sono accorti che in Sardegna sono avviate le manovre preliminari in vista della prossima scadenza elettorale, ma anziché spiegare appunto che ci saranno le elezioni in Sardegna e analizzare le questioni aperte e i movimenti in corso, preferiscono dedicarsi a quella che loro vedono come una spaccatura nel fronte del centrosinistra a guida PD.

È legittimo. È il loro campo politico di riferimento. Poi però dipende da come lo fai.

Inevitabilmente, lo sguardo è quello esterno (rispetto all’isola), centrato sull’Italia e sugli interessi del suo establishment politico-affaristico, della cosiddetta classe dirigente italiana (o di una sua parte). Come vede la Sardegna la classe dirigente italiana? Be’, sarebbe tema per uno studio approfondito e per un saggio ben documentato e referenziato. Del resto, c’è materiale in abbondanza. Io ne ho già accennato qualcosa, su SardegnaMondo (per esempio, qui e qui).

Nella circostanza presente, il cronista Stefano Cappellini si dedica a raccontare a lettrici e lettori lo strano caso del “derby” (gergo calcistico, mai manchi!) o, per meglio dire, della “faida” (si parla di Sardegna, dopo tutto) tra Renato Soru e Alessandra Todde.

Lascerei stare i contenuti politici (che comunque nell’articolo non ci sono) e analizzerei il taglio e il lessico del pezzo.

È nel titolo che si descrive lo scontro come “derby”, ma, dato che appunto si tratta di un “derby sardo”, non può che essere “feroce”. Ed è un fatto rilevante perché tale dissidio può “regalare l’isola alla destra”.

Lasciamo stare la faccenda della destra e della sinistra, su cui ci sarebbe da discutere. Faccio solo notare che inquadrando così la vicenda già si nega in radice ogni possibile soggettività alla cittadinanza sarda, si sottrae qualsiasi agency (per dirla in termini politologici) all’ambito politico locale e all’elettorato isolano. Non contano niente i problemi concreti, le istanze ideali in campo, le aspettative, i conflitti sociali e culturali aperti. Tutto ruota intorno allo schema – fallace e tossico – del bipolarismo all’italiana.

Nel sommario del pezzo, altre cose degne di nota:

Si vota il 24 febbraio. Tredici liste al fianco dell’ex viceministra: “Solo uniti si può tornare a vincere”. Il comizio in dialetto stretto del fondatore di Tiscali agli indipendentisti

Ci si riferisce a Soru come al fondatore di Tiscali (vero), ma si precisa subito che fa “un comizio” rivolto “agli indipendentisti” e soprattutto lo fa in “dialetto stretto”.

Ora, non so cosa sia, se esiste, un dialetto largo, a meno che non si intenda dire che Soru, nell’occasione dell’assemblea di presentazione della lista “Vota Sardigna” a Oristano, domenica scorsa, ha parlato nel suo sardo di Sanluri. Ma non credo che il senso sia questo. È solo che evidentemente risulta spontaneo associare un termine denigratorio come “dialetto” a un “comizio” rivolto agli “indipendentisti”. Tutte cose brutte, sporche e cattive. Che non fosse nemmeno un comizio in senso stretto e che Soru non si rivolgesse (solo) agli indipendentisti poco importa.

Nel pezzo vero e proprio sono rilevabili diversi ulteriori elementi significativi. Il taglio è piuttosto ironico, al limite della satira, a dispetto della serietà delle questioni in ballo e anche della drammaticità della situazione in cui versa la Sardegna attuale.

Nel primo paragrafo c’è già praticamente tutto (grassetti miei):

Prima di introdurre i protagonisti di questa storia va detto che, nel pur ricchissimo repertorio di divisioni della sinistra italiana, la vicenda sarda svetta per il livello della faida, più intricata della trama d’un cesto di pane Carasau: partiti contro partiti, pezzi di un partito contro pezzi dello stesso partito, figlie contro padri, amicizie interrotte, tessere stracciate, alleanze rimescolate con il criterio della legge del beduino: il nemico del mio nemico è mio amico.

La scelta lessicale non è fortuita né accessoria. Se c’è un dissidio politico in Sardegna non può che degenerare in una faida. Se devi usare un’ardita allegoria, non puoi rinunciare a tirare in ballo, anche a sproposito, il pane carasau (con una maiuscola reverenziale fuori luogo, forse usata erroneamente invece del corsivo, chissà). E le divisioni politiche sono etichettate in modo spregiativo – e razzista – come effetti di una pretesa “legge del beduino”.

Faccio solo notare che il cronista accenna anche nel testo al sardo usato da Soru in pubblico (sommo scandalo), ma definendolo “lingua sarda” (bontà sua). Salvo poi incorrere nel solito vezzo da italiani ammiccanti (quelli che “io amo la Sardegna: ci vado in vacanza e ho anche amici sardi”): una frase in sardo buttata lì, più o meno a caso. La frase, come quasi sempre, è scritta in modo scorretto: asibiri a tottusu. Troppo sforzo preoccuparsi dell’ortografia.

(Che poi, se pure il cronista avesse chiesto lumi in proposito, a seconda dell’interpellato/a locale la risposta potrebbe essere stata: “scrivilo come ti pare, tanto non esiste una norma ufficiale”. E va be’, siamo messi così. Ma è un altro discorso.)

Sempre a proposito di lingua sarda, nel prosieguo dell’articolo il cronista precisa quanto segue:

Per raccontare cosa Soru ha detto agli indipendentisti è necessario aspettare la traduzione a cura di giornalisti indigeni.

Chiaro, che altro aggettivo puoi usare per definire persone native di un luogo esotico come la Sardegna, dove si parla addirittura una lingua incomprensibile, se non “indigeni”?

Il resto della lettura è del tutto perdibile, non fosse altro che per la sua inutilità. Non serve a chiarire nulla di quello che sta succedendo in queste fasi preparatorie della campagna elettorale. Serve solo a piegare l’intera faccenda dentro le cornici predeterminate della propaganda di parte a cui ormai è patologicamente votata la cronaca politica anche dei maggiori organi di stampa italiani.

Quel che intendo far notare, però, al di là del contenuto informativo e della scarsissima qualità giornalistica dell’articolo, è proprio la postura del cronista verso l’oggetto di cui tratta il suo testo.

Ripeto, non è un fatto occasionale e nemmeno eccezionale. Esiste una casistica mastodontica di esempi analoghi, a volte anche peggiori. Non da oggi. I luoghi comuni razzisti e colonialisti a proposito della Sardegna e delle vicende sarde sono una costante di tutta la storia italiana, da che esiste lo stato italiano.

A ciò si aggiunge, coerentemente, il fastidio e, oltre un certo livello, la preoccupazione suscitati nei gruppi dominanti italiani da qualsiasi proposta politica e/o culturale sarda realmente autonoma, non eterodiretta, che irrompa sulla scena normalizzata e sedata del nostro dibattito pubblico.

Tanto più se appare, anche solo vagamente e/o impropriamente, come “indipendentista”. Quindi, minacciosa. Non tanto per questioni teoriche o ideali, ma perché rischia di minare corposi interessi materiali e, in generale, il fondamento stesso della necessaria (per loro) subalternità della Sardegna. In tali casi, ecco scattare immediatamente l’allarme “pensiero indipendente” (che non vuol dire necessariamente indipendentista, mi tocca precisarlo).

Ne abbiamo avuto assaggi in molte occasioni. Una soprattutto, in cui ero coinvolto direttamente, è stata la campagna elettorale (guarda un po’) del 2014, con Michela Murgia e Sardegna Possibile. Non mi stupisce se le stesse reazioni, interne e esterne, comincia a suscitarle questa proposta politica, pur differente e nata in un contesto a sua volta diverso, della Coalizione Sarda di Renato Soru.

A tale atteggiamento generalizzato e sistematico dei media e dell’establishment italiano non risponde mai – MAI! – una vera reazione compatta e forte dell’intellighenzia, del mondo politico e dei mass media isolani. La mancata reazione e, a monte, la mancata assunzione di responsabilità in queste evenienze è conseguenza della storica attitudine dei gruppi dirigenti sardi a volersi integrare negli omologhi gruppi italiani. Quasi sempre senza molto successo, ma con ostinazione e, non di rado, imbarazzante sfoggio di opportunismo e servilismo.

Anche questo è un problema consolidato con cui dobbiamo fare i conti. Prima di tutto acquisendone coscienza. Perciò, a parte l’indignazione momentanea, in realtà, in casi come questo, bisognerebbe in un certo senso essere grati. Sono occasioni in cui è più facile far risaltare l’evidente necessità storica di un affrancamento collettivo che va oltre la contingente lotta politico-elettorale. E che resterà sul tappeto comunque vadano le prossime elezioni.

da qui


mercoledì 24 gennaio 2024

Apologia del vandalismo nonviolento

 

La giustizia è di classe, forte coi deboli: debole coi forti, debole coi ricchi: forte coi poveri, debole con i ladri specie se politici, debole con gli inquinatori: forte con gli inquinati. Forte con gli inquinati: repressiva contro gli ambientalisti. A cui è concessa tutta la libertà di lamentarsi ma…