La morte della piccola Michelle di sei anni, folgorata dalla corrente elettrica il 13 gennaio in via Carraffiello a Giugliano, non è un incidente. È la diretta conseguenza di un sistema che ha relegato centinaia di persone a vivere in condizioni talmente disumane che il vero miracolo è che notizie del genere non ci colpiscano come pugni ogni giorno. La responsabilità della morte di Michelle ricade su tutte le amministrazioni pubbliche, sui politici e su un’intera collettività che consentono che a pochi passi dalle proprie case, accanto ai campi coltivati di frutta e verdura che finiscono nei mercati e sulle tavole di tutti, famiglie composte per lo più da giovani adulti, adolescenti, bambini, vivano arrangiandosi come possono, in condizioni che dovrebbero generare una rivolta permanente. Quel che è accaduto invece viene in qualche modo accettato, facendo prevalere una sorta di fatalismo – significa che così doveva andare – da parte delle vittime perché in qualche modo devono spiegarsi una tragedia così enorme che potrebbe essere un trauma, tra i molti altri, insuperabile; e da parte degli altri perché in fondo “se la sono un po’ cercata” a voler vivere in quel modo…
Questa logica aberrante e distorta
espressa dalla maggioranza, con in testa i media e i politici, serve
sostanzialmente a far ricadere la responsabilità interamente sulle vittime,
colpevoli di appartenere a una comunità discriminata da un esplicito razzismo
istituzionale che si traduce nella totale assenza di politiche e in una
quotidianità fatta di soprusi, abusi, diritti negati; serve a non assumersi
alcun onere, neanche attenendosi ai propri doveri di amministratori, per
esempio in termini di pianificazione urbana e abitativa. Da generazioni, intere
comunità vengono ripudiate, isolate, disprezzate, annullate. Se a Cupa
Perillo a Scampia, l’antica comunità di rom in gran
parte proveniente dalla Serbia, si sta piano piano frammentando, sradicandosi da un territorio nel quale
aveva creduto di poter vivere in pace, a Giugliano l’altrettanto
antica comunità proveniente dalla Bosnia, ancora numerosa, è
rimasta nel pantano – letteralmente – di amministrazioni inette e colpevoli di
non avere voluto trovare alcuna soluzione – voluto e non potuto perché l’Unione
Europea da almeno un decennio mette a disposizione fondi, strategie e
competenze per il superamento delle evidenti discriminazioni che i rom
subiscono in tutta Europa e in tutti gli ambiti. Da quando nel
2013 è stata versata qualche lacrima da esponenti della Commissione
diritti umani del Senato in visita al campo
autorizzato di Masseria del Pozzo costruito su una discarica
tossica ufficialmente riconosciuta come tale – un campo poi smantellato – non è
cambiato molto per i rom di Giugliano, molti dei quali
cittadini italiani.
Le comunità rom di Giugliano sono
presenti sul territorio da circa trenta anni, con almeno due generazioni di
nati sul suolo italiano. Molti hanno ottenuto i permessi di soggiorno e anche
la cittadinanza italiana, ma lo status giuridico, sebbene in gran parte
regolare, è nettamente in contraddizione con la totale precarietà abitativa,
lavorativa, sociale in cui vivono centinaia di persone. La diaspora dei rom di
Giugliano va avanti da molti anni, nell’invisibilità totale e nel silenzio
delle istituzioni – locali e nazionali – che hanno consentito la tragedia umanitaria
del campo autorizzato di Masseria del Pozzo – sorto nel 2013
in base alla deliberazione del commissario prefettizio in luogo
dell’amministrazione comunale commissariata per infiltrazioni della camorra –
dove sono state allocate 384 persone di cui 218 minori, con fondi del ministero
dell’interno. Secondo un dossier presentato nel 2014 alla Commissione
diritti umani del Senato da un gruppo di lavoro
composto da attivisti, giuristi, associazioni, il luogo dove sorgeva il campo
era noto per la gravissima situazione ambientale, sorgendo nei pressi di
discariche illegali già riconosciute, sequestrate e oggetto di indagini. Il
campo di Masseria del Pozzo ha rappresentato un lampante
esempio di violazione dei diritti umani fondamentali, in spregio di quanto da
anni raccomandato dagli organismi europei e dalle linee guida contenute
nella Strategia nazionale di inclusione RSC adottata dal
governo per gli anni 2012/2020. Nel 2016, in seguito ai falliti tentativi di
trovare soluzioni abitative dignitose e misure di sostegno all’affitto,
condotti peraltro solo da gruppi di volontari, il campo è stato sgomberato ma
senza alcuna soluzione alternativa, e per i rom di Giugliano è
cominciata una nuova diaspora.
Per Michelle, vorremmo
nominare ancora una volta chi riteniamo maggiormente responsabile di questa
situazione, oltre alle amministrazioni locali: la regione Campania,
del tutto inadempiente e lontanissima dalle politiche europee, non avendo mai
attivato il tavolo, o per lo meno senza alcun risultato, e non avendo mai
chiarito la sua strategia di inclusione per le comunità rom, che restano di
fatto escluse dalla vita civile, tranne che nei pochi casi di pratiche dal
basso che favoriscono contesti di partecipazione e convivenza civile.
A Giugliano, all’interno
della società civile non è stato portato avanti con la necessaria
determinazione e continuità un discorso politico e culturale che garantisse i
diritti di base e rafforzasse valori come l’accoglienza, il rispetto,
l’intercultura. Basti pensare all’atteggiamento delle scuole locali: nessuna di
esse ha voluto accogliere i minori rom, che per anni sono stati costretti ad
affrontare un viaggio di venticinque chilometri tutte le mattine per
raggiungere le scuole di Scampia, in un altro comune. Solo in
tempi recenti si sono aperte a questa possibilità e grazie unicamente a chi,
nell’ambito del volontariato religioso, ha combattuto per anni in prima persona
per garantire il diritto allo studio e l’accesso alla scuola delle bambine e
dei bambini rom di Giugliano. Tra questi, Michelle, che
oggi sarebbe dovuta andare a scuola con i suoi compagni, e che non vedeva l’ora
che questo suo sogno si realizzasse.
La narrazione mediatica di una tragedia
che dovrebbe farci vergognare e contemporaneamente urlare, ha invece
sottolineato la reazione scomposta dei familiari di Michelle in
una presunta devastazione del pronto soccorso che, al contrario, secondo tutti
i presenti non è avvenuta in alcun modo, se non nei termini di una disperazione
difficile da contenere. Ma il decoro e la moderazione sono diventati
evidentemente valori superiori alla vita umana. Vogliamo ricordare ancora una
volta a chi si occupa di informazione che con questa infamante narrazione
pubblica si rendono complici e responsabili allo stesso modo di chi ci governa,
anzi ne diventano la voce diretta che infierisce sui più deboli e sugli
oppressi.
Nessuna istituzione si è presentata a fare
le condoglianze alla famiglia e a una comunità intera che piangerà a lungo la
morte di Michelle. Si sono presentati però i vigili del fuoco
e l’Enel che ha provveduto, sembra una beffa, a mettere sotto
sequestro la centralina elettrica senza preoccuparsi di offrire una soluzione
alternativa e lasciando l’intero campo al buio, inclusa la baracca in cui si
svolge la veglia di queste ore.
Con la Giornata della memoria che
si avvicina, ci approssimiamo a ricordare ufficialmente le vittime dell’Olocausto del
passato per ripulirci la coscienza. Ma è ora di coalizzarci per fronteggiare un
presente e un futuro che non esistono più finché moriranno bambini che escono
di casa per andare a prendere l’acqua perché non ce l’hanno
garantita.
Per Michelle, per la sua
memoria e per il rispetto che non le abbiamo mostrato in vita, non possiamo
fare altro che ammettere tutte le nostre responsabilità e costringere ad
ammetterle chi se ne lava le mani.
Michelle ora per volontà della famiglia se
ne torna in Bosnia – una terra colpita dalla guerra e dalla
pulizia etnica da cui altrimenti forse i suoi nonni non sarebbero mai partiti.
L’Italia non la merita più.
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