venerdì 26 gennaio 2024

Israele e la presunta etica della carne coltivata - Grazia Parolari

 

“Israele è il primo Paese ad approvare la vendita di carne coltivata. Si tratta di una svolta globale nel campo delle proteine alternative e di notizie importanti per la sicurezza alimentare, la protezione dell’ambiente e l’attenzione per gli animali”.

Queste le parole con cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha commentato l’annuncio, dato il 18 gennaio, dell’approvazione della vendita di carne coltivata a base di manzo da parte di Israele, primo Paese al mondo a prendere tale decisione.

Il permesso è stato accordato all’azienda Aleph Farms che, da quando è stata fondata nel 2017, ha raccolto circa 140 milioni di dollari e annovera l’attore Leonardo DiCaprio come membro del comitato consultivo.

La carne viene coltivata da cellule prelevate da ovuli fecondati raccolti da una mucca Black Angus di prima qualità, Lucy. L’azienda afferma che si è trattato di un processo unico attraverso il quale ora hanno una raccolta di ovuli fecondati di Lucy e da cui si aspettano di coltivare migliaia di tonnellate di bistecche.

Anche il rabbinato capo di Israele ha dato la sua approvazione alla società. Il rabbino capo ashkenazita David Lau ha stabilito che la carne coltivata di Aleph è kosher perché la carne viene coltivata da cellule staminali prelevate da un ovulo fecondato, anziché da cellule estratte dal tessuto muscolare.

Questa sentenza significa che Aleph potrebbe iniziare a vendere ai ristoranti entro pochi mesi, e al dettaglio in un secondo momento.

Israele è un importante hub per la carne coltivata. Al di fuori della Silicon Valley californiana, Israele ospita il maggior numero di startup biotecnologiche e impianti pilota al mondo dedicati alla produzione di carne coltivata. Quasi il 40% di tutti gli investimenti globali nella carne coltivata vengono investiti in aziende israeliane. E recentemente, questa cifra ha incluso anche gli investimenti delle svizzere Nestlé e Migros.

L’immagine di un Paese moderno e all’avanguardia, “terra di risultati” e “faro delle nazioni”, è sempre stata parte integrante della politica di re-branding di Israele, atta a oscurare l’idea di uno Stato colonialista che pratica l’apartheid. Più che l’attenzione all’ambiente o alla sensibilità verso gli animali, anche l’interesse per la produzione di carne coltivata rientra in questo progetto, e alla necessità di esaudire la richiesta di carne che, nel “Paese più vegan al mondo”, non si è mai fermata. Nel 2021, Israele si è classificato al quarto posto nel consumo di carne bovina tra i paesi OCSE, dopo Stati Uniti, Argentina e Brasile. Ma a differenza di questi Paesi, Israele non produce molta carne bovina. La sua industria locale della carne dipende dalla carne refrigerata importata e dai carichi di animali vivi, trasportati via mare dall’Australia in condizioni così terribili da essersi meritati un’inchiesta del Guardian.

La penuria di carne è sempre stata una caratteristica del mercato Israeliano fin dall’inizio della colonizzazione. Ancora alla fine del XIX, la carne era scarsa, in quanto la Palestina era una terra con pascoli e bestiame limitato, con caratteristiche climatiche che non favorivano l’allevamento su larga scala. Il commercio del bestiame, che si svolgeva a livello locale, rimase nelle mani degli arabi fino a che l’aumentata richiesta di carne da parte dei coloni non spinse quest’ultimi a riallacciare i rapporti con i commercianti europei, al fine di importare bestiame di dimensioni più grandi e con maggiore resa, tanto da eliminare del tutto, nelle fattorie israeliane, l’allevamento di bovini locali. I coloni bramavano la carne come manifestazione materiale del raggiungimento di un’utopia di prosperità e abbondanza, contrastando in questo uno degli obiettivi dello Stato sionista, quello dell’autosufficienza. ​

Ben presto la carne divenne un alimento base, più che una minaccia, e il Paese, incapace di espandere la sua “tradizionale” industria di carne bovina, dovette ricorrere alle importazioni, non senza avere utilizzato nel frattempo l’aumentata richiesta di carne e di pascoli come strumento per l’espansione degli insediamenti e della colonizzazione.

Appare quindi chiaro come ciò che muove l’interesse per la carne coltivata, non è “la protezione dell’ambiente e l’attenzione per gli animali”, come dichiarato da Netanyahu, ma la risposta a un desiderio storico di carne in un ambiente naturale che non la supporta, con il contemporaneo desiderio di farne non solo fonte di orgoglio nazionale, ma parte imprescindibile della politica sionista.

Il Paese più vegan del mondo, idea che un’efficace utilizzo del veganwashing ha saputo veicolare, continua quindi sulla strada di un veganismo falso e strumentale, che invia a Gaza soldati e soldatesse vegan con scarponi vegani e razioni da combattimento vegane a compiere quello che si sta prefigurando come un genocidio , massacrando animali umani e non umani , e che ha sviluppato una tecnologia innovativa non per risparmiare la vita di migliaia di esseri senzienti, ma per poter continuare a consumare carne senza dipendere da mercati esteri.

Il BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni) è una campagna contro i prodotti israeliani avviata il 9 luglio 2005 da 171 organizzazioni non governative palestinesi a sostegno della causa palestinese. Ad essa hanno aderito numerose organizzazioni in tutto il mondo, di varia ispirazione politica e religiosa, comprese organizzazioni ebraiche Ad oggi, si è dimostrato l’unico mezzo efficace capace di danneggiare Israele, tanto da essere stato incluso nella lista di associazioni terroriste da Israele stesso.

È facile immaginare come ben presto la carne coltivata israeliana arriverà anche nei mercati esteri, se non in Italia.

Non sono affatto certa che la scelta di non acquistarla, che considero limpida e chiara, sarà condivisa da tutti e tutte coloro che si dichiarano vegan.

 

Fonti:

·       Time of Israel 

·       Israeli Government 

·       “Milk and Honey”  di Tamar Novick – MIT Press  -2023

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