“Israele è il primo
Paese ad approvare la vendita di carne coltivata. Si tratta di una svolta
globale nel campo delle proteine alternative e di notizie importanti per la
sicurezza alimentare, la protezione dell’ambiente e l’attenzione per gli
animali”.
Queste le parole con
cui il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha commentato l’annuncio, dato il 18
gennaio, dell’approvazione della vendita di carne coltivata a base di manzo da
parte di Israele, primo Paese al mondo a prendere tale decisione.
Il permesso è stato
accordato all’azienda Aleph Farms che, da quando è stata fondata nel 2017, ha
raccolto circa 140 milioni di dollari e annovera l’attore Leonardo DiCaprio
come membro del comitato consultivo.
La carne viene
coltivata da cellule prelevate da ovuli fecondati raccolti da una mucca Black
Angus di prima qualità, Lucy. L’azienda afferma che si è trattato di un
processo unico attraverso il quale ora hanno una raccolta di ovuli fecondati di
Lucy e da cui si aspettano di coltivare migliaia di tonnellate di bistecche.
Anche il rabbinato
capo di Israele ha dato la sua approvazione alla società. Il rabbino capo
ashkenazita David Lau ha stabilito che la carne coltivata di Aleph è kosher
perché la carne viene coltivata da cellule staminali prelevate da un ovulo
fecondato, anziché da cellule estratte dal tessuto muscolare.
Questa sentenza
significa che Aleph potrebbe iniziare a vendere ai ristoranti entro pochi mesi,
e al dettaglio in un secondo momento.
Israele è un
importante hub per la carne coltivata. Al di fuori della Silicon Valley
californiana, Israele ospita il maggior numero di startup biotecnologiche e
impianti pilota al mondo dedicati alla produzione di carne coltivata. Quasi il
40% di tutti gli investimenti globali nella carne coltivata vengono investiti
in aziende israeliane. E recentemente, questa cifra ha incluso anche gli
investimenti delle svizzere Nestlé e Migros.
L’immagine di un Paese
moderno e all’avanguardia, “terra di risultati” e “faro delle nazioni”, è
sempre stata parte integrante della politica di re-branding di Israele, atta a
oscurare l’idea di uno Stato colonialista che pratica l’apartheid. Più che
l’attenzione all’ambiente o alla sensibilità verso gli animali, anche
l’interesse per la produzione di carne coltivata rientra in questo progetto, e
alla necessità di esaudire la richiesta di carne che, nel “Paese più vegan al
mondo”, non si è mai fermata. Nel 2021, Israele si è classificato al quarto
posto nel consumo di carne bovina tra i paesi OCSE, dopo Stati Uniti, Argentina
e Brasile. Ma a differenza di questi Paesi, Israele non produce molta carne
bovina. La sua industria locale della carne dipende dalla carne refrigerata
importata e dai carichi di animali vivi, trasportati via mare dall’Australia in
condizioni così terribili da essersi meritati un’inchiesta del Guardian.
La penuria di carne è
sempre stata una caratteristica del mercato Israeliano fin dall’inizio della
colonizzazione. Ancora alla fine del XIX, la carne era scarsa, in quanto la
Palestina era una terra con pascoli e bestiame limitato, con caratteristiche climatiche
che non favorivano l’allevamento su larga scala. Il commercio del bestiame, che
si svolgeva a livello locale, rimase nelle mani degli arabi fino a che
l’aumentata richiesta di carne da parte dei coloni non spinse quest’ultimi a
riallacciare i rapporti con i commercianti europei, al fine di importare
bestiame di dimensioni più grandi e con maggiore resa, tanto da eliminare del
tutto, nelle fattorie israeliane, l’allevamento di bovini locali. I coloni
bramavano la carne come manifestazione materiale del raggiungimento di
un’utopia di prosperità e abbondanza, contrastando in questo uno degli
obiettivi dello Stato sionista, quello dell’autosufficienza.
Ben presto la carne
divenne un alimento base, più che una minaccia, e il Paese, incapace di
espandere la sua “tradizionale” industria di carne bovina, dovette ricorrere
alle importazioni, non senza avere utilizzato nel frattempo l’aumentata
richiesta di carne e di pascoli come strumento per l’espansione degli
insediamenti e della colonizzazione.
Appare quindi chiaro
come ciò che muove l’interesse per la carne coltivata, non è “la
protezione dell’ambiente e l’attenzione per gli animali”, come dichiarato da
Netanyahu, ma la risposta a un desiderio storico di carne in un ambiente
naturale che non la supporta, con il contemporaneo desiderio di farne non
solo fonte di orgoglio nazionale, ma parte imprescindibile della politica
sionista.
Il Paese più vegan del
mondo, idea che un’efficace utilizzo del veganwashing ha saputo veicolare,
continua quindi sulla strada di un veganismo falso e strumentale, che invia a
Gaza soldati e soldatesse vegan con scarponi vegani e razioni da combattimento
vegane a compiere quello che si sta prefigurando come un genocidio ,
massacrando animali umani e non umani , e che ha sviluppato una
tecnologia innovativa non per risparmiare la vita di migliaia di esseri
senzienti, ma per poter continuare a consumare carne senza dipendere da mercati
esteri.
Il BDS (Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni) è una campagna contro i prodotti israeliani avviata
il 9 luglio 2005 da 171 organizzazioni non governative palestinesi a sostegno
della causa palestinese. Ad essa hanno aderito numerose organizzazioni in tutto
il mondo, di varia ispirazione politica e religiosa, comprese organizzazioni
ebraiche Ad oggi, si è dimostrato l’unico mezzo efficace capace di danneggiare
Israele, tanto da essere stato incluso nella lista di associazioni terroriste
da Israele stesso.
È facile immaginare
come ben presto la carne coltivata israeliana arriverà anche nei mercati
esteri, se non in Italia.
Non sono affatto certa
che la scelta di non acquistarla, che considero limpida e chiara, sarà
condivisa da tutti e tutte coloro che si dichiarano vegan.
Fonti:
·
“Milk and Honey” di Tamar Novick – MIT Press
-2023
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