martedì 30 marzo 2021

Il futuro impossibile di Aliya partita prima - Mauro Armanino

Aliya sarebbe senz’altro diventata una delle ultime principesse. La favola era stata scritta dai genitori. Lui di origine liberiana e lei di origine togolese. Le migrazioni combinano e sciolgono matrimoni, alleanze, fatue promesse ed eterne amicizie. La loro storia era nata a Niamey, nel Niger e più precisamente nel quartiere popolare chiamato Gamkallé. La mamma aveva due figli da una precedente unione e il papà di Aliya aveva accettato di tutto cuore di prenderli come suoi. Con lei, principessa di un regno di sabbia che ancora non era stato concepito da queste parti. Regno di un re qualunque, senza territorio e senza popolo da governare, un titolo nobiliare da annoverare tra le importanti inutilità della storia umana. Una principessa d’altri tempi con tanto di reggia e un parco per le visite degli altri dignitari del regno e dei principati vicini. I suoi genitori erano fieri di lei che li avrebbe ricompensati dei tanti sacrifici per farla crescere, studiare e soprattutto coltivare le doti che avevano scoperto in lei. Li avrebbe fatti felici e coeredi della sua fortuna.

Aliya, il cui nome di presunta origine araba significa ‘forza’ o ‘robustezza’. Questo nome potrebbe però anche avere radici linguistiche germaniche e, in questo caso, il nome vorrebbe dire ‘nobile’. Questo spiegherebbe la sua prima vocazione al titolo di principessa senza peraltro precludere altri cammini non meno nobili. In effetti Aliya sarebbe senz’altro diventata una migrante come i suoi genitori. Il papà liberiano, fuggito dalla guerra in Ghana e poi, una volta non tornata la pace, ha viaggiato più volte nei Paesi del Maghreb cercando, senza riuscirvi, di raggiungere l’Altro Mondo di cui così tanto gli avevano parlato gli amici. L’ultimo suo tentativo in Algeria aveva abortito perché aveva saputo che questo Paese ributtava indietro migranti e rifugiati. Si era convinto che sarebbe stato inutile continuare ed era tornato alla capitale Niamey dove aveva infine trovato lei, la Sua Sola Terra, e si era sposato. Aliya avrebbe continuato il viaggio del padre e quello della madre che, di mestiere parrucchiera, aveva aperto un minuscolo e dignitoso salone per signore nel quartiere. Aliya sarebbe andata più lontano, fino al paese che ancora non si è inventato.

Aliya sarebbe senz’altro diventata donna e forse madre, un giorno. Avrebbe imparato ad innamorarsi con la vita e poi ai tradimenti dell’amore. Avrebbe contato i giorni di festa, i vestiti secondo l’occasione e il trucco leggero agli occhi con il profumo che l’avrebbe resa unica tra le tante. Avrebbe scoperto che i giorni sono diversi a seconda degli occhi che la guardavano e che, da ragazza com’era, la facevano sentire una donna del tutto speciale per qualcuno. La prima volta le sarebbe capitato come per caso e poi avrebbe scoperto i misteri del suo corpo e dei sentimenti, come l’amore che si avvicina così tanto alla morte, le dicevano. L’avrebbero consigliata di sposarsi per diventare una donna come le altre e tra le altre. E un giorno sarebbe rimasta incinta senza saperlo e senza volerlo. Avrebbe avuto paura di trovarsi sola in quel momento e sentiva timore di dirlo a sua madre e soprattutto a sua padre che l’aveva minacciata apertamente nel caso questo fosse accaduto. Contro tutto e tutti non aveva voluto separarsi dal frutto del suo grembo di madre.

Aliya sarebbe senz’altro diventata rivoluzionaria come solo le donne sanno esserlo quando possono. Era diventata una militante per i diritti delle donne da quando aveva scoperto che l’unico rivoluzionario degno di questo nome era Dio, differente da quello che gli avevano raccontato da piccola. Aliya sarebbe diventata senz’altro tutto questo e forse ancora più solo avesse potuto. Aliya è nata il 22 dicembre del 2020 e il mercoledì 10 febbraio scorso, non ancora due mesi di vita, è morta di disidratazione acuta alle 11. 30, mandata da una clinica all’altra. Suo padre si chiama David e sua madre Yawa. Due mesi di vita e un fiore di sabbia piantato sulla tomba.

da qui

lunedì 29 marzo 2021

Il capitalismo non si è fermato qui! Espropriazione e brutalità in tempi di pandemia. Cos'ha da dirci l'Amazzonia?

di Bruno Cezar Malheiro, Fernando Michelotti, Thiago Alan Guedes Sabino


Questo studio è una doccia fredda sulle speranze di chi, all'inizio della pandemia, aveva vaticinato l'avvento della fine del capitalismo.
Dimostra come la dinamica dell'accumulazione in Brasile, lungi dall'essere stata paralizzata dalla pandemia, è diventata ancora più brutale a causa dell'accelerazione dei processi di espansione delle merci. Infatti, negli stessi mesi in cui crescevano i contagi, assieme ai prezzi dei beni di prima necessità e alla fame dei brasiliani, crescevano al contempo anche le esportazioni di materie prime alimentari sul mercato mondiale, i profitti dell'agribusiness, i processi di deforestazione e la violenza in Amazzonia, con un ritmo più intenso rispetto ai periodi precedenti. Si va ad approfondire, in questo modo, il processo di reprimarizzazione dell'economia brasiliana, intesa come regressione da un'economia basata sulla produzione manifatturiera e di tecnologie di punta ad un assetto dove torna a prevalere l'estrazione di materie prime per l'esportazione. Un processo già iniziato ai tempi delle presidenze Lula e Rousseff, ma che con Bolsonaro tende a superare violentemente ogni limite normativo, sociale e naturale.
Gli autori, ricercatori della Universidade Federal do Sul e Sudeste do Parà, danno una misura di questi fenomeni incrociando i dati sulle esportazioni, sulle superfici coltivate, sulla fame, sulla deforestazione e gli incendi.
Concludono con l'analisi della correlazione fra l'estendersi dei contagi e le attività d'esplorazione mineraria dell'impresa Vale S.A. nella provincia di Carajás.

 

Proponiamo qui la traduzione di alcuni paragrafi:


Il Brasile della fame trascura il cibo e abbraccia le merci

L'attacco sistematico dell'attuale governo ai piccoli agricoltori e, in generale, alle popolazioni rurali ha consolidato la scelta politica di smantellare la produzione di alimenti a favore della produzione di merci.

Si tratta di un attacco operato sia attraverso lo smantellamento di leggi, codici e strumenti di protezione ambientale, che tramite una narrativa criminalizzante e un'offensiva contro gli organismi di controllo dell'ambiente, della riforma agraria e della politica indigenista.
Questa scelta, che non è di oggi, e che ha determinato una crescita sostanziale della superficie coltivata a soia e mais in Brasile tra il 1999 e il 2018 - mentre la superficie coltivata a riso, fagioli e manioca è diminuita drasticamente nello stesso periodo  - si è radicalizzata attraverso la deregulation totale del controllo del mercato e la concentrazione monopolistica della produzione e della distribuzione alimentare che, logicamente, già produce fame su larga scala.
L'effetto della pandemia ha già determinato nel Paese un aumento notevole del prezzo del paniere alimentare di base, come dimostra un'indagine condotta da Dieese [Departamento Intersindical de Estatística e Estudos Socioeconomicos] in 17 capitali, che rileva come in 16 fra queste, fra marzo e aprile, vi sia stato un aumento del prezzo dell'insieme degli alimenti basilari.
Secondo l'economista Daniel Balaban, capo dell'ufficio brasiliano del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, la fame, che già da prima della pandemia era una realtà per circa cinque milioni di brasiliani, dovrebbe raggiungere i 14,7 milioni entro la fine del 2020. Si tratta di circa il 7% della popolazione, dato che riporta il paese sulla mappa della fame, da dove era uscito dal 2014.

Ed è proprio in questo momento, di accelerazione dei decessi per coronavirus e di crescita della piaga della fame nel Paese, che le nostre dinamiche della produzione agraria hanno approfondito il percorso univoco verso la produzione di commodities a scapito della produzione di cibi sani. Questa scelta che, come abbiamo avvertito in precedenza, attraversa l'intero panorama politico da sinistra a destra, si è rafforzata dall'inizio del 21° secolo in Brasile e nel resto dell'America Latina.
È quello che Maristella Svampa (2013) ha chiamato "consenso delle commodities", ma che può anche essere definito come "un regime di relazioni sociali che fagocita le energie vitali come mezzo per l'accumulazione presumibilmente infinita di valore astratto" (Machado Aráoz, 2016).
I dati sulle esportazioni brasiliane sono eloquenti, mostrano il processo di reprimarizzazione delle esportazioni brasiliane a partire dagli anni 2000, con le materie prime che superano i prodotti della manifattura nel 2009. Da allora le materie prime hanno mantenuto un maggior peso relativo nell'agenda delle esportazioni, con una leggera flessione tra il 2015 e il 2016, quando, al primo segnale di incertezza dell'assetto economico che aveva sostenuto i profitti, le forze conservatrici si sono riorganizzate attorno al colpo di stato.

L'export di prodotti primari ha ricominciato a crescere nel 2016, ha raggiunto oltre il 50% del totale delle esportazioni nel 2019, superando così l'insieme delle esportazioni dei prodotti della manifattura e dei semilavorati, per un totale assoluto di 119 miliardi di US $.

Questo processo è stato fortemente segnato dalle esportazioni di prodotti primari verso la Cina, balzate da 0,4 miliardi di dollari nel 1999 a 56,4 miliardi di dollari nel 2019, valori che rappresentano un aumento dal 3,6% al 47,4% del quota proporzionale del mercato cinese sulle esportazioni totali di prodotti di base in Brasile.

Quando siamo arrivati al 2020, nel contesto della pandemia, ci siamo resi conto che, nonostante i limiti imposti ai flussi a causa della diffusione del virus nel mondo, le esportazioni verso la Cina continuavano a crescere. Tra gennaio e aprile 2020 il valore delle esportazioni verso il paese asiatico ha raggiunto i 20,8 miliardi di dollari USA, un valore superiore ai 18,7 miliardi registrati tra gennaio e aprile 2019…

continua qui

domenica 28 marzo 2021

MiTE: ha davvero senso impiantare un Ministero della transizione ecologica nella pancia del capitalismo? - Flavia Negozio

Il 26 febbraio è stato approvato il decreto “Ministeri”, con il quale, tra gli altri, si è sancita la nascita del MiTE, Ministero della Transizione ecologica. Il nuovo Ministero è stato accolto positivamente dai più, ma a fronte di un’attenta analisi la sua istituzione appare come un’operazione di facciata.

MITE: cos’è e quali sono i suoi obiettivi

Il neonato dicastero, denominato MiTE, sostituisce il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. Le politiche di riferimento del Ministero della Transizione vanno dall’energia allo sviluppo sostenibile, includendo la mobilità green e la lotta ai cambiamenti climatici. Il ministro Roberto Cingolani, esperto di innovazione tecnologica, ha dichiarato:

E’ una sfida imponente. Il governo intero è impegnato nella realizzazione di questa nuova visione. Recuperare la virtù della mitezza avendo a cuore le future generazioni”

E fin qui tutto bene, se non fosse che il lavoro di questo nuovo super ministero, al fine di rendere il suo operato davvero efficace e fattivo, dovrebbe sostanzialmente mettere in discussione l’essenza stessa del capitalismo.

Ecologia e transizione ecologica

Cominciamo dalle basi: cosa significa ecologia? L’ecologia è il rapporto tra gli organismi e l’ambiente in cui essi vivono. Si sta parlando dunque della nostra relazione con la tanto bistrattata Gaia, intesa come ambiente complesso e composto da soggetti interagenti.

Con il termine transizione ecologica intendiamo il passaggio a sistemi di produzione e consumo sostenibili. La sostenibilità prevede che il capitale naturale non venga intaccato dalle attività umane e che il prelievo o il consumo di risorse sia in linea con i tassi di rinnovamento delle risorse stesse.

Attualmente ci troviamo in una strettoia a imbuto: da una parte siamo minacciati dalla scarsità di materie prime e dall’altra dall’aumento vertiginoso dei rifiuti. Perché il Ministero possa dare una reale svolta green al nostro Paese dovrebbe abbattere il concetto stesso di capitalismo, cioè quell’ideologia che alimenta un distruttivo vortice bulimico di produzione e consumo. E per fare questo serve un sguardo attento all’interazione complessa degli attori in campo e una buona dose di coraggio.

Proposte alternative alla revisione del capitalismo

Se è vero che il programma del neo ministro punta ad aumentare l’efficienza, soprattutto tramite il potenziamento tecnologico, simultaneamente dovrebbe tendere a una progressiva riduzione dei consumi e della produzione. La riduzione o decrescita (so che gli economisti non apprezzeranno il termine) presuppone proprio la virtù della mitezza di cui parla Cingolani. Ma tale virtù è  raggiungibile solo attraverso una trasformazione profonda dell’economia.

Francesco Gesualdi, fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo, propone un piano d’azione che include:

·          

o    la costituzione di una fitta rete di biblioteche pubbliche per garantire il diritto alla lettura a basso impatto ambientale

·          

o    implementazione del servizio di trasporto pubblico per disincentivare l’utilizzo di mezzi privati

·          

o    ampi interventi di ristrutturazione edilizia sulla base di importanti contribuiti pubblici.

Se volessimo andare ancora più a fondo, la transizione ecologica, per essere davvero incisiva, dovrebbe coinvolgere ogni aspetto delle nostre vite, dal lavoro all’educazione, dalla politica all’etica. Papa Francesco ha parlato di ecologia integrale, sintetizzando il concetto in queste parole:

È un invito a una visione integrale della vita, a partire dalla convinzione che tutto nel mondo è connesso e che, come ci ha ricordato la pandemia, siamo interdipendenti gli uni dagli altri, e anche dipendenti dalla nostra madre terra”

Ridurre la produzionericonvertire le aziende altamente inquinanti, rivedere le politiche di accoglienza e assistenza alla persona, riqualificare le aree urbanerisanare l’agricoltura: sono scelte difficili, ma le uniche in grado di offrirci una possibilità concreta di uscire dall’attuale crisi ecologica.

La bolla del MiTE

Dunque, il Ministero della Transizione ecologica corre il rischio di essere una bolla, di essere un’opportunità sprecata perché si basa sulla fallace illusione che si possa continuare ad andare avanti sulla scia di un capitalismo opportunamente revisionato. C’è il timore che la tutela dell’ambiente sia solo l’assunto su cui il sistema capitalistico ha deciso di basare la sua autolegittimazione in questo momento di completo stallo.

Rivolgiamo un appello ai soli che sono in grado di fare la differenza: che vengano messe da parte l’ipocrisia e le operazioni di facciata, che la transizione sia reale e che abbia come scopo primario la cura della natura e delle società, a qualunque costo.

da qui

sabato 27 marzo 2021

In nome del progresso e dello sviluppo - Alexik


Espressioni come una protesta ‘pacifica’ sono, dunque, non particolarmente utili per descrivere le nostre lotte. Protesta ‘pacifica’ non significa niente, perché dal punto di vista dello Stato e del Capitale, quando qualcuno si impegna in una protesta è, per definizione, non più in pace: l’atto di protestare è un rifiuto. È il rifiuto di uno status pacificato, è il rifiuto della pretesa che si debba accettare ogni cosa che viene imposta nel nome del progresso e dello sviluppo. Quando l’espropriazione viene contrastata dal rifiuto del soggetto, il soggetto diventa un nemico”.


Potremmo partire dalle parole di Mark Neocleous, pronunciate proprio a Melendugno nell’ottobre 20181, per commentare le sentenze di tre procedimenti contro il Movimento No TAP, conclusi in primo grado il 19 marzo scorso con 88 condanne a pene variabili dai 3 mesi ai 3 anni abbondanti. Condanne raddoppiate, e a volte triplicate, rispetto alle richieste del PM, o inflitte anche a fronte della richiesta di assoluzione da parte del PM stesso.

Sanzionati, dunque, i “muri umani” eretti per impedire il passaggio dei mezzi del cantiere TAP, muri di persone indisponibili ad “accettare ogni cosa imposta nel nome del progresso e dello sviluppo”, come la costruzione di un’opera devastante, pericolosa, inquinante, climalterante. Sanzionate le corna innalzate verso le truppe antisommossa e il dito medio contro l’elicottero in volo, i lanci di uova e di ciclamini, le violazioni dei fogli di via e le “inosservanze di provvedimenti dell’autorità”. Condannati con il massimo edittale anche 17 compagne e compagni a cui è stato negato lo status di parti lese, dopo essere stati braccati, feriti, umiliati, sequestrati mentre erano di ritorno dai cancelli del cantiere, dove avevano semplicemente intonato dei cori2. Inutile dire che nessuno procederà contro i loro aguzzini.

Per molti versi questa vicenda processuale infonde una persistente sensazione di dejavu, di cose già viste a circa 1.200 km a nord ovest, presso il Tribunale di Torino. Per esempio, accomuna gli uffici giudiziari torinesi e salentini la costruzione di maxiprocessi “omnibus”, che raggruppano ipotesi di reato per  fatti commessi in diversi tempi e luoghi e, nel caso del maxiprocesso leccese,  anche completamente scollegati.
Potpourri giudiziari con tantissimi imputati, che tradiscono più la fretta di arrivare a condanna che la volontà di approfondire contesti, dinamiche e reali responsabilità.
Altro particolare comune è l’attrazione che esercitano i movimenti territoriali per i magistrati antimafia. Se Gian Carlo Caselli ha lasciato in Val di Susa un ‘ricordo indelebile’, il maxi processo No TAP ha potuto giovarsi sia di un PM che del giudice monocratico provenienti dai processi alla Sacra Corona Unita. Non si tratta probabilmente di un caso fortuito:

 

“La nomina di un magistrato antimafia si inserisce in un solco già tracciato a livello nazionale, per cui si adottano le prerogative dell’antimafia nei reati di ordine pubblico. Da anni questa tendenza sempre più generalizzata associa i reati tipicamente ascrivibili all’area del dissenso e della conflittualità politica a quelli della criminalità organizzata, e lo fa attraverso l’accostamento dell’antimafia all’antiterrorismo… In questo modo nella prassi giudiziaria e nella strutturazione e interpretazione delle norme si è assottigliata, fino quasi a scomparire, la distinzione tra l’ambito del conflitto sociale e quello dell’eversione”3.

Nella stessa direzione si colloca la scelta delle aule bunker come location dei  processi contro i movimenti,  scelta atta a suggerirne l’equiparazione con le grandi organizzazioni criminali.
Anche a Lecce, come a Torino, ci sono testimoni che pesano come piume ed altri come montagne. Infatti, secondo le dichiarazioni del giudice monocratico, “la testimonianza di un pubblico ufficiale è da considerarsi già di per sé veritiera”.

Anche a Lecce, come a Torino, i procedimenti che tutelano le grandi opere dalle proteste popolari corrono “ad alta velocità4. I tre processi contro il movimento No TAP, con 126 imputati, sono arrivati a sentenza di primo grado in appena 7 mesi, con udienze pressoché settimanali, addossando alla difesa un carico di lavoro immane, anche per la mole di materiale videoregistrato da consultare. Mentre il calendario delle udienze contro il movimento, nonostante l’emergenza COVID-19, non ha subito modifiche, un altro processo, che vede imputata per disastro ambientale la multinazionale TAP e le aziende appaltatrici, è stato rinviato per pandemia. Forse nella prospettiva di poter onorare anche questa volta l’antica tradizione italica della chiusura in prescrizione dei procedimenti che riguardano i reati ambientali.

A Torino il Tribunale ha fatto da tempo da apripista nel comminare condanne pesanti anche nei casi il cui l’opposizione alle grandi opere si è espressa attraverso modalità assolutamente “gandhiane”.
Emblematiche a proposito le carcerazioni di Dana, Fabiola, e prima ancora di Nicoletta, condannate per aver parlato al megafono o tenuto uno striscione durante una breve manifestazione sull’autostrada A32 .
Il Salento ha seguito l’esempio, e anche sulle condanne del 19 marzo contro il movimento No TAP è stato buttato il carico da 11. Divers* compagni e compagne potrebbero varcare nel tempo la soglia del carcere se la situazione non viene modificata nei successivi gradi di giudizio.
Molte delle condotte sanzionate, in altri tempi (sempre più lontani), probabilmente non avrebbero comportato nemmeno l’apertura di un processo.
Ma c’era bisogno di dare un segnale, perché il gasdotto vuole continuare la sua corsa verso nord, sotto le forme di “Rete Adriatica Snam”, e non tollera altri ostacoli.

 

Nel dicembre 2020 il Consiglio Europeo ha approvato “l’obiettivo vincolante di una riduzione interna netta di almeno il 55% delle emissioni di gas serra entro il 2030“, da raggiungere  …. anche tramite “tecnologie di transizione come il gas”, avvallando in questo modo la prospettiva dell’utilizzo del gas come sostituto del carbone. [Che, per inciso, oltre ad essere un combustibile fossile, è un gas serra molto più potente della CO2, e la sua estrazione e trasporto comportano emissioni fuggitive in atmosfera tali da renderne l’utilizzo più climalterante del carbone stesso.]

Non vengono messi a rischio quindi dal Green New Deal europeo (anzi!) i 32 progetti di interconnessione del gas considerati “di interesse comune” dall’U.E., compresi il TAP, l’EastMed  (dai giacimenti al largo di Israele e Gaza fino alla costa di Otranto) e la Rete Adriatica Snam.
Quest’ultima promette di solcare con un tubo di 120 cm di diametro pieno di gas le aree a maggior rischio sismico della penisola, come la Valle Peligna, i paesi dell’hinterland aquilano, quelli dell’Umbria, delle Marche e dell’Emilia, fino a Minerbio. In pratica, sfiorando gli epicentri dei più forti terremoti che hanno interessato l’Italia dal 1997 a oggi.

Attualmente il processo di autorizzazione della Rete Adriatica Snam nel tratto Sulmona/Foligno è ancora fermo in attesa di un adeguato studio sulla sismicità, ma esperienza insegna che spesso non bastano le barricate di carta a fermare opere devastanti. Quando si renderà necessario anche in Abruzzo, Umbria, Marche ed Emilia innalzare “muri umani” contro le ruspe, l’esempio della sentenza salentina rappresenterà un sinistro precedente.

Per questo è il momento di dare un segnale di controtendenza, dimostrando che anche davanti a queste squallide operazioni siamo uniti e solidali con chi subisce rappresaglie per aver difeso i territori, con i loro ecosistemi e comunità umane, in Salento come altrove.
E anche per gratitudine, perché non dimentichiamo che proprio grazie alla Carovana No TAP e all’intervento informativo dei compagni salentini, si è innescato a Minerbio (BO) quel processo di coinvolgimento e attivazione di realtà locali che ha portato al blocco di un pericoloso progetto di sovrappressione degli impianti di stoccaggio del gas gestiti dalla Stogit. E di questo va dato atto proprio a quei compagni e a quelle compagne che oggi subiscono la criminalizzazione giudiziaria.

Support the fight!

Avanti NO TAP!


1.      Mark Neocleous, What is Pacification?, intervento al workshop “Policing Extractivism: Security, Accumulation, Pacification”, Melendugno (LE)5-6-7 ottobre 2018. QUI la traduzione in italiano. 

2.      Ne abbiamo già parlato su Carmilla nella puntata n.  5 di “Il nemico interno” 

3.      Lecce: processo No Tap, aggiornamenti e qualche riflessione, Comunella Fastidiosa, 12/03/21. 

4.      Sulla velocità dei processi contro il Movimento No Tav, si veda, su Carmilla, la puntata n. 6 di “Il nemico interno“. 

L’articolo è uscito già su carmillaonline

da qui

Finanza globale e caos climatico - Luca Manes

L’edizione 2021 di “Banking on Climate Chaos” rivela che, da quando nel 2016 è entrato in vigore l’Accordo di Parigi sul clima e fino al 2020, le principali banche mondiali hanno concesso al comparto dei combustibili fossili prestiti per ben 3.800 miliardi di dollari.

 

Il rapporto, a cura di Rainforest Action Network, Banktrack, Indigenous Environmental Network, Oil Change International, Reclaim Finance e Sierra Club, è stato lanciato oggi ed è disponibile su bankingonclimatechaos.org.

 

Cattive notizie sul fronte italiano. Intesa Sanpaolo e UniCredit, le due principali istituzioni finanziarie italiane, sono molto attive nell’alimentare la crisi climatica in corso attraverso il loro ostinato supporto all’industria fossile, responsabile di disuguaglianze sociali, violazioni dei diritti umani, migrazioni forzate e dell’aggravarsi della salute dell’ambiente e delle persone.

Intesa Sanpaolo, tra le prime 30 banche mondiali per asset totali e “banca di sistema” italiana, fra il 2016 e il 2020 ha stanziato 13,7 miliardi di dollari all’industria fossile, la maggioranza dei quali a società che stanno espandendo il loro business nel comparto oil&gas come Eni, Exxon, Novatek, Equinor, Cheniere Energy e Kinder Morgan. Attraverso le loro attività esplorative, di produzione o midstream, queste aziende stanno devastando ecosistemi già fragili che, per il rovescio della medaglia, se intaccati ulteriormente potrebbero alimentare a loro volta la crisi climatica in corso.

È il caso, per esempio, dei progetti di Eni ed Equinor nel Mare di Barents, all’interno del Circolo polare artico, e di quelli di Novatek nella Penisola di Gydan, nell’Artico russo, che rischiano di causare fuoriuscite di petrolio e metano, nonché di accelerare il sempre più rapido scongelamento del permafrost sulla terraferma.

L’esposizione di Intesa desta particolare preoccupazione per due ragioni. Innanzitutto per una debole strategia di lungo-termine per allinearsi con l’Accordo di Parigi sul clima, mancante della pubblicazione delle emissioni di CO2 associate ai suoi finanziamenti. In seconda battuta, per l’assenza di impegni concreti relativi al settore oil&gas: «L’adozione di policy non può essere sostituita da vaghi discorsi relativi a un’esposizione net-zero», commenta Simone Ogno di Re:Common, «nell’anno della CoP-26 e del G20 italiano, Intesa deve porre rimedio alla sua debole policy sul carbone e adottarne una robusta anche su petrolio e gas, se vuole dimostrare che quelle su clima e ambiente non sono false promesse».

UniCredit non può invece più nascondersi dietro gli impegni presi sul settore del carbone, riconosciuti a livello internazionale come tra i più all’avanguardia in ambito finanziario. Azzerare al 2028 la sua esposizione al più inquinante dei combustibili fossili è sicuramente un primo passo, ma serve a poco se a fare da contraltare ci sono 8 miliardi di dollari accordati a società che espandono il loro business fossile, su cui spiccano Total, Repsol e nuovamente Eni.

Proprio Total è emblematica delle scarse ambizioni della banca di Piazza Gae Aulenti in materia di petrolio e gas, che ha una policy deficitaria soprattutto in riferimento al midstream, senza trascurare esplorazione e produzione nelle regioni artiche, escludendo operazioni offshore ma non quelle onshore. I progetti di Total nell’Artico russo – in partenariato con Novatek – si trovano proprio sulla terraferma.

A livello globale, le prime quattro posizioni sono occupate da banche statunitensi: JPMorgan, Citi, Wells Fargo e Bank of America. Con un totale di 317 miliardi di dollari, JP Morgan guarda dall’alto tutte le altre istituzioni finanziarie, insediata solo recentemente da Citi.

Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common

da qui

venerdì 26 marzo 2021

21 deputati europei contro la Torino-Lione

 

Egregio vice-presidente esecutivo CE per il Green Deal europeo, Frans Timmermans
Egregio commissario CE all’Ambiente, l’Oceano e la Pesca, Virginijus Sinkevičius 

Vi scriviamo per esprimere la nostra preoccupazione per le posizioni recentemente assunte dalla Commissione rispetto alla compatibilità dei progetti infrastrutturali di bandiera della rete TEN-T, e in particolare il collegamento ferroviario ad alta velocità Torino-Lione, con il Green Deal europeo [EGD] (https://volerelaluna.it/tav/2020/12/16/il-green-europeo-alla-prova-del-tav-e-delle-grandi-opere/).

Negli ultimi 30 anni, questo “megaprogetto” infrastrutturale, che l’UE finanzia attraverso il Meccanismo per collegare l’Europa, è diventato “famoso” per la completa mancanza di coinvolgimento delle popolazioni locali e la repressione delle voci di protesta nelle valli alpine. Oggi emergono sempre più preoccupazioni rispetto al bilancio di carbonio dell’opera, calcolato in termini di emissioni incorporate lungo il ciclo di vita dell’infrastruttura. Studi indipendenti puntano verso l’inquietante scenario che il collegamento ad alta velocità Torino-Lione produca emissioni almeno fino al 2055, come delineato dal Rapporto speciale n. 10/2020 della Corte dei conti europea (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/06/23/conti-fatti-e-misfatti/) e come portato alla vostra attenzione da un gruppo di esperti, capeggiati da Luca Mercalli della Società Meteorologica Italiana onlus, nella loro lettera del 17 dicembre 2020 (https://volerelaluna.it/tav/2020/12/22/la-torino-lione-e-coerente-con-la-strategia-climatica-dellunione-europea/).

Malgrado questo scenario, la Commissione sta mostrando un supporto risoluto a questo progetto come parte dell’EGD. Nella sua risposta alla lettera di Mercalli, la Commissaria Vălean descrive il Torino-Lione come «un progetto veramente europeo», «un progetto della solidarietà e unità europea» e «un’infrastruttura transfrontaliera moderna ed ecologica» che permette di «trovare una soluzione efficace e sostenibile all’attraversamento delle Alpi» e dare benefici alle economie e alle popolazioni UE (https://volerelaluna.it/tav/2021/02/18/la-torino-lione-e-coerente-con-la-strategia-climatica-dellunione-europea-2/). Analogamente, in risposta all’interrogazione parlamentare E-003690/2020, la Commissaria Vălean affermava che «la nuova galleria segnerà una svolta per il trasporto di merci e persone nelle valli alpine ecologicamente sensibili».

Siamo del tutto favorevoli e a sostegno del più rapido passaggio possibile dalla strada alla ferrovia, al fine di ridurre le emissioni del settore dei trasporti e rendere la mobilità UE più forte e più sostenibile, specialmente a livello regionale e locale, come chiesto recentemente dalla risoluzione parlamentare del 20 gennaio 2021 sulla revisione delle linee guida TEN-T. Tuttavia, alcuni studi1 mostrano che la costruzione di gallerie rende impossibile alla ferrovia ad alta velocità compensare le proprie emissioni incorporate.

A fronte di da ciò, vi poniamo le domande seguenti:

– La Commissione è in possesso di stime sulle emissioni del collegamento Torino-Lione che suggeriscano uno scenario differente? Se così non fosse, come può essere compatibile con l’EGD un progetto infrastrutturale che è probabile produca emissioni almeno fino al 2055?

– La Commissione è impegnata ad assicurare coerenza tra la legislazione in corso e prossima, gli obiettivi climatici e l’EGD? Se sì, la revisione del Regolamento TEN-T includerà obblighi di valutazione delle emissioni sul ciclo di vita per megaprogetti come la Torino-Lione, comprese le emissioni “Scope 3” e possibilmente in base a valutazioni indipendenti?

– La Commissione intende tener conto dell’impatto sulla biodiversità prima di finanziare progetti con fondi UE?

Il raggiungimento di un’economia circolare e neutrale rispetto al clima in Europa entro il 2050 è un obiettivo di per sé ambizioso, ma richiede, a partire da oggi, passi sufficientemente ambiziosi e attenti. Proprio come bisogna smettere di finanziare le fonti fossili il più presto possibile, crediamo che un’esecuzione seria e coerente del Green Deal europeo richieda alla Commissione di fermare il finanziamento del collegamento Torino-Lione e analoghi megaprogetti infrastrutturali.

In fede
22 marzo 2021

i deputati e le deputate al Parlamento europeo Eleonora Evi, Leila Chaibi, Marie Toussaint, Michèle Rivasi, Rosa D’Amato, Martin Buschmann, Manuel Bompard, Piernicola Pedicini, Sira Rego, Manu Pineda, Ignazio Corrao, Manon Aubry, Gwendoline Delbos-Corfield, Anna Deparnay-Grunenberg, Jutta Paulus, Ciarán Cuffe, Michael Bloss, Yannick Jadot, Tatjana Ždanoka, Philippe Lamberts, Alexis Georgoulis.

 

Note

(1) A titolo esemplificativo: J. Westin & P. Kågeson, Può la ferrovia ad alta velocità compensare le sue emissioni incorporate? [Can high speed rail offset its embedded emissions?], Transportation Research Part D, n. 17, 2012, pp. 1-7.

da qui

giovedì 25 marzo 2021

Bill e il clima dei miliardari - Silvia Ribeiro

 


Bill Gates, il terzo uomo più ricco del pianeta, ha pubblicato il 16 febbraio 2021 il suo libro How to Avoid a Climate Disaster [Come evitare il disastro climatico]. Gates non sapeva nulla del cambiamento climatico fino a pochi anni fa, anche se la sua impronta climatica personale e imprenditoriale è enorme, migliaia di volte superiore a quella di ogni persona della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. Non propone nulla per cambiare questa realtà. La sua ricetta è che si applichi un mix di tecnologie estreme ad alto rischio (energia nucleare, nuovi transgenici e geoingegneria), mercati del carbonio e fondi di investimento, e che i governi appoggino le imprese in questa azione con incentivi economici, normative a loro favore e infrastrutture realizzate con denaro pubblico.

Il libro non aggiunge nulla alle sue ben note proposte. È piuttosto un riassunto organico per governi, imprese e ricercatori, una sorta di “Come salvare il pianeta per dummies” (“tonti”, un termine usato nei manuali per riferirsi ai principianti). In una recente intervista con il giornalista Anderson Cooper, Gates dice che il primo libro sul clima che ha letto 10 anni fa è stato Weather for dummies (Il clima per principianti). Nel libro chiarisce che, oltre ad altre letture, esperti come i promotori della geoingegneria David Keith e Ken Caldeira l’hanno informato sull’argomento.

L’elenco delle tecnologie che vengono proposte fa venire le vertigini: Gates non ha dubbi sulla manipolazione di ogni cosa, dagli atomi ai genomi e al clima. La sua mentalità ingegneristica che vede il mondo, la natura, il clima e i popoli come parti di una macchina in cui tutto può essere modificato con la tecnologia e l’intelligenza artificiale, contrasta con le sue roboanti dichiarazioni di fede che nulla di tutto ciò creerà dei problemi, o almeno nessun problema che non si possa affrontare con più tecnologia. Gates propone, ad esempio, il dispiegamento massiccio di reattori per l’energia nucleare – che, garantisce, ora non porranno problemi come invece avvenuto nei disastri di Chernobyl o Fukushima; nuove mega-piantagioni di agrocombustibili, che essendo realizzate con semi transgenici e microrganismi da biologia sintetica non entreranno in competizione con la produzione alimentare, così come un maggior numero di coltivazioni di soia e mais transgenici per produrre carne sintetica in laboratorio, anche con microrganismi geneticamente manipolati. Promuove sia la geoingegneria per la rimozione del carbonio che la geoingegneria solare. Finanzia la tecnologia dei gene drives per estinguere specie, una tecnologia che, pur essendo presentata come una lotta contro la malaria, ha principalmente applicazioni nell’agricoltura industriale e chimica.

La sfida più grande per l’umanità, spiega Gates, è ridurre a zero le emissioni di anidride carbonica entro il 2050. Un obiettivo troppo lontano per ottenere che non si superi un aumento della temperatura globale di oltre 1,5 gradi, secondo il Gruppo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC). Molte imprese transnazionali inquinanti e il Forum Economico di Davos hanno annunciato impegni per raggiungere zero emissioni nette in pochi decenni. È una trappola: Gates chiarisce nel libro che si riferisce a zero emissioni nette, vale a dire che si può continuare a emettere gas, e persino ad aumentare le emissioni, perché si possono associare compensazioni (offset) in modo che la somma sia zero. Queste compensazioni verrebbero realizzate con mercati del carbonio e tecnologie di geoingegneria per rimuovere il carbonio dall’atmosfera una volta emesso. Nulla di tutto ciò ha funzionato per affrontare il caos climatico, né funzionerà. Gates lo sa, quindi raccomanda anche di sostenere, come piano B, lo sviluppo della geoingegneria solare per abbassare la temperatura impedendo che una parte dei raggi solari raggiunga la Terra, anche se riconosce che ciò comporta grandi rischi.

 

Una delle tecniche di geoingegneria presentate nel libro è la cattura diretta dall’aria, portata avanti in particolare da Carbon Engineering, di cui Gates è un azionista insieme a Chevron, Occidental Petroleum e la società mineraria BHP Billiton. Per catturare e filtrare il carbonio dall’atmosfera, la tecnica richiede così tanta di energia da generare un aumento delle emissioni totali di CO2 se si tiene conto dell’intero ciclo, a meno che non si ricorra a mega-impianti di energie non fossili, che in ogni caso richiederanno materiali, suolo, acqua e entreranno in competizione con migliori utilizzi di tali fonti di energia. Il fondatore (e azionista) di Carbon Engineering è David Keith, che dirige anche dall’Università di Harvard il programma di geoingegneria solare, finanziato da Gates e da altri miliardari. In questo momento, Keith è nell’occhio del ciclone per il suo contestato progetto ScoPEx rivolto a sperimentare nei territori indigeni le tecniche per bloccare la luce solare (si veda il mio articolo “L’avanzata della geoingegneria in territorio indigeno”). 

Sebbene Gates dichiari che lui e la Gates Foundation hanno ritirato i loro investimenti nelle industrie petrolifere, un illuminante articolo di Tim Schwab mostra il contrario. Inoltre, le società in cui investe, come Microsoft e Carbon Engineering, continuano a fare affari con quelle industrie. Anche se Gates promuove le proprie aziende, afferma Schwab, non è perché ha bisogno di più denaro. Il punto più importante che emerge dall’articolo non riguarda il clima, ma il potere che i miliardari esercitano sui governi, per portare avanti quello che vogliono, ottenendo che questi spianino loro la strada.


Fonte: “Bill Gates: el clima de los billonarios”, in La Jornada.

Traduzione a cura di Camminardomandando.


da qui

mercoledì 24 marzo 2021

Kivu, un non-luogo: l’habitat autosostenibile di traffici e milizie - Angelo Ferrari


«In un viaggio del 2003, ho incontrato un vecchio amico, Lino, nella capitale Kinshasa. Era appena arrivato dalla città di Kikiwit. La strada che porta da Kinshasa a Kikiwit, circa 600 chilometri, l’avevamo percorsa insieme nel 1993 e ci avevamo impiegato circa 8 ore. Dieci anni dopo Lino ha impiegato 15 giorni per lo stesso percorso. La rete viaria completamente distrutta. E oggi non è cambiato nulla. Ma alle aziende minerarie non servono le strade, si muovono con aerei ed elicotteri». Riprendiamo da qui il viaggio nella zona dei Grandi Laghi africani, nel Kivu, un non-luogo le cui risorse arricchiscono un mondo già ricco e predatorio, e dove milizie e rivalità si spartiscono il territorio ai danni di una popolazione sempre più povera la cui identità è smarrita e spesso dimenticata.

 

Il quadro storico e quello dei traffici: guerre mondiali e per procura

La Repubblica democratica del Congo (RdC) è un non-lieux. Un non-luogo che non trova pace, attraversato da conflitti aspri o a bassa intensità, snaturato dalle pressioni da oltreconfine di una nazione devastata e irriconoscibile per gli smarriti autoctoni; nella definizione di Marc Augé “non-luogo” è quello che non riesce a essere identitario (non contrassegna univocamente l’identità di chi lo abita), relazionale (non c’è comune appartenenza nei rapporti tra tutti i soggetti della regione), storico (le singole comunità non si riconducono a comuni radici). Nessuno, fino a ora, è riuscito a dare in sessant’anni una speranza a oltre 84 milioni di abitanti di un paese ridotto a supermercato di risorse da taccheggiare. Anche se le elezioni del 2019, con la vittoria di Felix Tshisekedi, figlio dell’oppositore storico di Mobutu Sese Seko e di Kabila padre, hanno portato il Congo Kinshasa verso una parvenza di stabilità, l’oggetto del contendere rimane, ovvero il paese stesso. Ciò che il suo sottosuolo contiene: tutto quello che il mondo libero desidera.

Non a caso quelle aree sono ricche di risorse minerarie, cambiano nome, affiliazione, ma l’obiettivo è sempre quello: coltan, diamanti, oro, legname, petrolio… e per impossessarsene si è combattuta una guerra che l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright definì la “Guerra mondiale africana” (1996-2004). Sul terreno si sono dispiegati gli eserciti di Angola, Burundi, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe; si sono contesi pezzi di territorio e le aeree di più intenso conflitto corrispondevano a quelle più ricche di risorse naturali.

Da quella guerra che vide combattersi 8 eserciti nazionali e 21 milizie sono nate decine di formazioni di guerriglieri al soldo di quelle stesse nazioni o di altre più lontane; nell’area ora si confrontano oltre venti gruppi etnici con propri miliziani che operano tuttora in tutto il paese e in particolare nel Kivu e nel Nordest del paese, continuando a contendersi quella spartizione bellica. Guerre di mercenari per procura, che proseguono (ciascuno cambiando nazioni di riferimento in base al prezzo) quel conflitto panafricano che ha provocato più di 4 milioni di morti, la maggior parte per fame e non per armi da fuoco. Il paese è arretrato di 100 anni: alla fine della guerra la popolazione non aveva nulla e così le ong hanno cominciato a ripristinare, innanzitutto, dispensari e ospedali, ma nessuno vi accedeva: la gente si vergognava ad andare in ospedale perché non aveva di che coprirsi, i vestiti erano un lusso.

Invece paesi come l’Uganda sono diventati improvvisamente esportatori di oro. Il Ruanda del preziosissimo coltan, che si trova solo in Congo nella regione del Kivu dove si muovono milizie e faccendieri spregiudicati che lo trasportano oltre confine e il Pil di Kigali cresce a dismisura.

Per riportare la “pace” è stata istituita una missione dell’Onu composta da oltre 17.000 uomini, Monusco è il tentativo di stabilizzazione di una regione più grande e impegnativo mai messo in campo dalle Nazioni Unite. Oggi la missione è ancora al suo posto (i suoi budget stratosferici di più di un miliardo all’anno fanno parte del sistema economico del Kivu), la guerra non è finita e la pace lontana: spariti gli eserciti stranieri, sono rimasti i guerriglieri che infestano il territorio, lo rendono insicuro e si battono per lobby economiche e politiche, persino di potenze regionali interessate alle risorse.

 

Contrabbando e saccheggio

Questo paese è un non-lieux. Come per la corsa all’oro, le aree dei ritrovamenti diventano la meta di disperati in cerca di fortuna. Ma non solo. Sono la meta delle multinazionali, degli stati di mezzo mondo che vogliono approfittare delle risorse del Congo.

«Il requisito principale di un non-luogo non è attribuibile a un generico elenco di luoghi progettati, ma dipende dalla percezione collettiva, che gli utenti hanno di quel determinato contesto spaziale» (Paolo Campanella, 2006), perciò riconduciamo quella definizione se non a tutta la repubblica congolese, almeno alla regione del Kivu, una zona di razzia; il luogo delle guerre fratricide, vendute come tribali, ma combattute proprio per le risorse minerarie.

In Rdc si trova di tutto: legno, rame, cobalto, coltan, diamanti, oro, zinco, uranio, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio e petrolio. Materie prime che fanno gola a mezzo mondo.

La Repubblica democratica del Congo è lo stato più ricco di risorse naturali dell’Africa, gli oltre 84 milioni di abitanti potrebbero vivere nel benessere, solo se i suoi governanti investissero le royalties ricavate dalle estrazioni minerarie nel paese. Invece no: l’economia del paese è tradizionalmente orientata alle esportazioni, fortemente dipendente dalle commodities primarie. I diamanti hanno sostituito rame e cobalto come principale voce delle esportazioni (un terzo del contrabbando della zona dei Grandi Laghi): il cobalto finisce tutto nelle mani dei cinesi; i diamanti, oltre 22 milioni di carati, sono nelle mani delle multinazionali; il coltan – estratto praticamente solo in Congo – prezioso per l’industria della telefonia mobile e per quella aerospaziale, è gestito dal Ruanda. Il Congo possiede la seconda foresta pluviale al mondo, da cui si ricava legname pregiato. L’autosufficienza alimentare in molte aree del paese è un miraggio. Le terre coltivate rappresentano solo il 4 per cento del totale, nonostante il 75 per cento della popolazione attiva si occupi di agricoltura, per lo più di sussistenza; il Pil pro-capite è di circa 450 dollari, uno tra i più bassi al mondo, e l’indice di sviluppo umano è 0,433 che colloca la Repubblica democratica del Congo al 176° posto al mondo.  E la stragrande maggioranza della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno.

 

La “fluidità” delle milizie abita territori porosi

Secondo il Gec (Gruppo di studio sul Congo), almeno 125 gruppi armati sono censiti nelle regioni orientali del Nord Kivu e del Sud Kivu, teatro da oltre 20 anni di quello che è stato definito da più fonti un “lento genocidio”, la metà dei quali è tutt’ora in attività.

Nella regione orientale della Repubblica democratica del Congo si muovono decine di milizie. Difficile tracciarne una mappa. La loro ragion d’essere è la fluidità, cambiare “padrone”, seguire gli affari economici e, dunque, concentrarsi sulle risorse minerarie e lì mettere in atto la loro azione di controllo e gestione del territorio. Storicamente nell’area agiscono i miliziani Mayi Mayi – storica formazione nata tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila come sorta di autodifesa dalle truppe ruandesi che per alcuni anni hanno occupato quell’area – sono tornati a essere molto attivi nella regione.

I Mayi Mayi, tuttavia, sono semplicemente un nome, infatti comprendono milizie guidate dai signori della guerra, dagli anziani delle tribù, dai capi villaggio, da faccendieri economici. I gruppi hanno perso anche la loro aura mistica: un tempo combattevano solo con il machete forti del potere che gli derivava dall’acqua che li proteggeva dalle pallottole. Quell’epoca è finita. E agli inizi degli anni Duemila dalla loro lotta di “autodifesa” dei villaggi sono passati alla difesa del territorio contro l’occupazione ruandese. Occupazione che Kigali ha sempre negato, evidente nei primi anni Duemila proprio nell’area di Goma. L’esempio più eclatante della presenza ruandese e del controllo del territorio era che il prefisso telefonico internazionale per chiamare quelle zone era quello del Ruanda. Un abitante di Kinshasa, la capitale della Repubblica democratica del Congo, per parlare con un parente di Goma doveva comporre il prefisso internazionale del confinante Ruanda e viceversa. Quell’occupazione, giustificata da Kigali con il pretesto della lotta contro le milizie hutu responsabili del genocidio fuggite nel Kivu, si è presto trasformata in un’azione predatoria nei confronti delle risorse della regione, in particolare il coltan di cui Kigali è diventato esportatore. La milizia dei Mayi Mayi si è presto trasformata, data la sua fluidità, in una lobby d’affari armata, partecipando alla cosiddetta “guerra del coltan”. Da mesi il gruppo ha ripreso vigore nella regione. Ai Mayi Mayi è stata attribuita la responsabilità di 82 attacchi, che hanno provocato 81 morti.

Nel Nordest della Repubblica democratica del Congo è stato attivo anche il famigerato movimento, il Lord’s Resistence Army (Lra), esercito di resistenza del Signore, guidato dal famigerato Joseph Koni, che ha fatto della religione la motivazione della sua lotta. Il movimento nato in Uganda si è presto trasformato in gruppo terroristico e ha allargato il suo raggio di azione sconfinando, tra gli altri paesi, nel vicino Congo e le motivazioni religiose sono scomparse. L’Lra ha rapito e costretto più di 60.000 bambini a combattere nelle sue fila. La ferocia di Koni ha trasceso ogni ragione politica e religiosa della sua lotta. Questo movimento, tuttavia, ha ridotto le sue attività, ma non è scomparso. L’Lra è rimasto acefalo per l’incriminazione all’Aia del suo capo e si è diviso in cellule al soldo del miglior offerente.

 

Gli eredi del genocidio: l’influenza ruandese

In tutto questo disordine e povertà non poteva mancare la penetrazione del terrorismo islamista. I jihadisti vivono di disordine e povertà (forse meno di religione): il loro brodo di coltura. È nato, infatti, l’Islam State Central Africa Province, una sorta di emanazione del Califfato del defunto al-Baghdadi. Ed è proprio nel Nordest della Repubblica democratica del Congo che avvengono la maggior parte degli attentati; svariati gruppi volta per volta li rivendicano, ma la maggior parte di queste azioni criminali sono attribuite al gruppo nato in Uganda e di ispirazione salafita, Allied democratic Forces (Afd). Guidata da Jamil Mukulu, un ex cattolico convertito all’islam, è considerata vicina al movimento sunnita Tablighi Jamat e secondo molte fonti ufficiali è legata all’Isis e alle reti del terrorismo internazionale. Gli attacchi messi in atto da questo gruppo dall’ottobre scorso sono più di una decina e hanno provocato 10 morti, evidenziando l’espansione del terrorismo islamico nella regione dei Grandi Laghi. Azioni che hanno come obiettivo le ricchezze minerarie. Queste milizie, che hanno ripreso vigore proprio grazie alla sua affiliazione all’Isis, sono diventate una sorta di attore “parastatale” creando scuole, ospedali e riscuotendo le tasse. Ma gli introiti maggiori arrivano dal commercio illegale dell’oro e del legno. L’Adf, tuttavia, è molto attento a non entrare in conflitto con i Mayi Mayi e con il Fronte democratico di liberazione del Ruanda.

Ma da dove nasce l’Adf?

 

Prima guerra africana

Il Fronte democratico di liberazione del Ruanda è nato nel 2000, dopo aver assorbito l’Esercito di liberazione del Ruanda (ALiR), gruppo armato costituito per lo più da ex militari delle Forze armate ruandesi (Far), che difendevano l’ideologia dell’Hutu Power, sconfitte durante il genocidio del 1994 contro i tutsi e gli hutu moderati, che portò al potere il tutsi Kagame. A luglio 1994, dopo l’ascesa al potere di Kagame, l’Esercito patriottico del Ruanda ha sostituito le Far, un gran numero di esponenti del quale ha attraversato il confine, scappando in Congo dove si erano rifugiati decine di migliaia di cittadini hutu. Dal 1995 al 1996 le ex Far si sono riorganizzate per formare l’Esercito di liberazione del Ruanda, il cui obiettivo era quello di riprendere il potere a Kigali, lanciando incursioni in territorio ruandese dalle sue basi congolesi. Per arginare questi ribelli hutu, il presidente Kagame ha fornito armi e fatto addestrare delle milizie tutsi banyamulenge che gravitano nella provincia del Sud Kivu.

In modo concertato con l’Uganda queste milizie si sono amalgamate con militari dell’esercito ruandese e ugandese, formando un movimento ribelle al soldo di Kagame, l’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo (Afdl), diretta da un gruppo di oppositori all’allora presidente congolese, il dittatore Mobutu.

In un gioco complesso di alleanze incrociate, i due movimenti ribelli ruandesi – quello hutu e quello tutsi – seminarono terrore nel confinante Congo a partire dal 1997, con l’Afdl impegnato in una guerra di invasione delle province orientali dell’ex Zaire, scatenando la Prima guerra del Congo e portando al potere nel mese di luglio 1997 il suo portavoce Laurent Désiré Kabila, autoproclamatosi presidente e ribattezzando il paese in Repubblica democratica del Congo.

 

Seconda guerra africana

I tutsi ruandesi, alleati con il nuovo presidente, si trovarono in una posizione di forza, spingendo 300.000 rifugiati ruandesi a fuggire in altre regioni del Congo e altre migliaia a fare ritorno in Ruanda. Fu allora che l’Esercito di liberazione del Ruanda (hutu) si rese responsabile del massacro di altre migliaia di civili in una controffensiva nell’Est della Rdc, anche nel Parco nazionale del Virunga, e nel Nord del Ruanda.

Nel 1998 in Rdc scoppiò la Seconda guerra africana, dopo che il presidente Kabila aveva chiesto ai soldati ruandesi e ugandesi, suoi alleati, di uscire dal territorio nazionale, ma questi ultimi crearono un nuovo movimento ribelle, il Raggruppamento congolese per la Democrazia (Rcd) per ribaltare il potere di Kinshasa. Per difendersi Kabila strinse un accordo militare con gli hutu ruandesi dell’ALiR, rifornendoli di armi e munizioni, che alla stregua di altri gruppi armati rivali si resero protagonisti di gravi crimini contro l’umanità sia nell’Est della Rdc che in Ruanda e persino in Uganda.

Dopo l’assassinio del presidente Kabila, il 18 gennaio 2001, e la successione del figlio Joseph, l’ALiR ha consolidato la sua alleanza con l’organizzazione hutu ruandese delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda – basata a Kinshasa, la capitale –, che lo ha progressivamente assorbito. Le Fdlr sono l’emanazione del Comitato di coordinamento della resistenza, un gruppo di esiliati ruandesi hutu, dissidenti dell’Esercito di liberazione del Ruanda, che hanno dato vita al nuovo gruppo nel maggio 2000.

Le guerre, anche a bassa intensità, che si combattono nella regione del Kivu, servono alle varie milizie presenti sul territorio proprio per impadronirsi dei giacimenti di coltan e quindi poter esercitare il monopolio dell’estrazione, (utilizzando manodopera minorile, veri e propri schiavi che muoiono di fatica e malattie portate dal contatto con questo minerale) contrabbandare il minerale nei paesi vicini – come il Ruanda che è diventato uno dei maggiori esportatori, pur non avendone dei giacimenti, per poi venderlo alle industrie produttrici di componenti elettronici. Lo sfruttamento incontrollato di questa risorsa congolese ha costretto l’Onu ad accusare, in un rapporto del 2002, le compagnie impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Congo – quindi anche il coltan – di favorire indirettamente i conflitti civili nell’area.

da qui


martedì 23 marzo 2021

Dieci centesimi per sopravvivere - Deborah Lucchetti

 

Una coalizione di oltre 200 organizzazioni per chiedere ai marchi e ai distributori della moda di pagare alle lavoratrici e ai lavoratori tessili quanto dovuto: rinunciando soltanto a 10 centesimi di profitto su ciascuna t-shirt venduta, aziende come Amazon, Nike e Next potrebbero permettere a queste persone di sopravvivere alla pandemia.

Sul nuovo sito della coalizione, pubblicato oggi, tutte le informazioni e le richieste ai marchi.

Milioni di lavoratori hanno lottato per sfamare le proprie famiglie da quando i marchi li hanno abbandonati lo scorso marzo.

Le aziende hanno risposto alla crisi rifiutandosi di pagare gli ordini e utilizzando la diminuzione della domanda di abbigliamento per ottenere prezzi ancora più bassi dai fornitori.

Questo ha comportato una diffusa perdita di posti di lavoro e di reddito, spingendo tante persone sempre più a fondo nella povertà e nella fame.

A un anno dall’inizio della crisi, molti marchi sono tornati a fare profitti, raggiungendo persino traguardi record, mentre i lavoratori nelle loro catene di fornitura lottavano per sopravvivere.

Next e Nike sono dei cosiddetti “Super Winners” essendosi ripresi rapidamente dalle perdite della pandemia e iniziando a realizzare nuovamente profitti. Amazon ha fatto ancora meglio e ha registrato un aumento di quasi il 200% dei profitti, salendo a ben 6,3 miliardi di dollari nel primo anno della pandemia. Queste aziende possono e devono garantire che i lavoratori non paghino il prezzo della pandemia con i loro salari di povertà.

Abbiamo calcolato che se i marchi rinunciassero a intascare solo dieci centesimi per t-shirt potrebbero garantire ai lavoratori il reddito di cui hanno bisogno per sopravvivere alla pandemia e rafforzare le protezioni contro la disoccupazione per il futuro. Si tratta del minimo che i marchi dovrebbero assicurare subito mentre salari dignitosi dovranno essere lo standard per un’industria davvero sostenibile post-pandemica. I marchi e distributori che affermano il contrario, stanno anteponendo i profitti al benessere dei loro lavoratori.

 

La campagna #PayYourWorkers, che riunisce 200 sindacati e organizzazioni della società civile di 35 diversi Paesi, chiede ai marchi di fornire immediato sollievo ai lavoratori dell’abbigliamento e di sottoscrivere impegni vincolanti per riformare il loro settore in rovina.

In particolare chiediamo che aziende come Amazon, Nike e Next paghino quanto dovuto ai lavoratori durante la pandemia, rispettino il diritto di organizzarsi e i contratti collettivi, si assicurino che i lavoratori non vengano mai più lasciati senza un soldo se la loro fabbrica fallisce aderendo alla proposta di fondo negoziato di garanzia per le indennità di fine rapporto e disoccupazione.

I lavoratori in Cambogia, ad esempio, hanno perso milioni di dollari di salari durante la pandemia a causa delle azioni dei marchi. È tempo che le aziende riconoscano la posizione di potere che occupano nelle catene di fornitura di abbigliamento e calzature e si assumano la responsabilità dei salari dei lavoratori che gli garantiscono miliardi di dollari di profitti ogni anno

Tra i 200 aderenti troviamo Filcams-CGIL, che rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi, e le organizzazioni FAIR, Altraqualità, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti onlus, Movimento Consumatori, Manitese, Fairwatch, FOCSIV, IFE Italia, Lungotavolo45, Attac Italia, Corodinamento Nord Sud del mondo. Durante tutta questa settimana i sindacati e gli attivisti saranno impegnati in azioni di piazza e online per far sentire la voce dei lavoratori.

da qui