lunedì 30 gennaio 2023

Mai più schiavi. La lotta contro lo sfruttamento dei lavoratori del distretto tessile di Prato - Dario Nicheri

 

Per decenni la manodopera straniera ha patito condizioni di lavoro al limite della schiavitù. Ma a Prato oggi i lavoratori si stanno organizzando e, nonostante le difficoltà, stanno ottenendo risultati importanti

 

Avevo appuntamento con Sarah al presidio di fronte alla Iron & Logistic un venerdì pomeriggio di ottobre. Ventidue lavoratori dell’azienda di proprietà italiana erano stati licenziati senza preavviso (la mattina si erano presentati a lavoro e qualcuno, via citofono, aveva detto loro di tornare a casa) e, da allora, non avevano più abbandonato l’ingresso della ditta; secondo il Cobas la loro unica colpa sarebbe quella di essere iscritti al sindacato e di aver preteso il rispetto dei propri diritti.

Era il mese di ottobre più caldo di cui avessi memoria, perciò cercavo riparo all’ombra tenue dei cordoli del capannone. Lei l’avevo già incontrata altre volte, di fronte a una fabbrica di grucce, seduta insieme agli operai in picchetto permanente, nella tenda dei ragazzi della stamperia a conduzione cinese Texprint, che per otto mesi avevano protestato contro licenziamenti illegittimi e condizioni di lavoro disumane dormendo di fronte allo stabilimento, e nel piazzale del tribunale di Prato, ad attendere il rilascio di quattro sindacalisti, portati dentro perché si erano rifiutati di lasciare la piazza del comune dove erano in sciopero della fame da tre giorni.

Sarah è una ragazza minuta, con gli occhi chiari incorniciati da un paio di grossi occhiali da vista e lunghi capelli castani raccolti dietro la nuca, ed è anche la coordinatrice pratese di Sì Cobas (Sindacato Intercategoriale Cobas). Quando arrivo, però, lei non c’è. Un minuto dopo mi squilla il telefono. «Scusami, possiamo vederci domani? avevo bisogno di andare a casa, di riposare», mi dice «dormire dentro alle tende sul marciapiede non è il massimo».

Anche le facce dei ragazzi, sdraiati su dei materassini di lattice addossati al muro scrostato del capannone sono stravolte; non sono stati giorni semplici, è arrivata la polizia e le conseguenze della visita non sono state piacevoli: occupazione di suolo pubblico, passeggiata in questura dei resistenti al pubblico ufficiale e denuncia di rito, senza contare che durante l’assenza degli scioperanti qualcuno si è portato via tutto quello che era rimasto al presidio. Succede anche di peggio da queste parti, più volte squadre di picchiatori pagati dai padroni delle fabbriche sono saltate fuori da camion con i vetri oscurati picchiando gli scioperanti e distruggendo i banchini.

Da un anno a questa parte il distretto tessile pratese è in ebollizione perché una sorta di cartello, costituito da aziende di proprietà cinese e italiana, controlla il mercato e impone ai lavoratori condizioni di estremo sfruttamento: i turni sono di 12 ore al giorno per sette giorni la settimana, paghe in nero e la negazione di tutti i diritti, anche quelli più elementari, come le ferie e i riposi festivi. Gli operai, per lo più africani, bengalesi e pakistani hanno capito che i diritti si rivendicano con la lotta e le vittorie recenti (il reintegro dei lavoratori della Texprint deciso dal tribunale del lavoro di Prato e la certificazione da parte dell’ispettorato del lavoro delle condizioni di sfruttamento a cui erano sottoposti) hanno mostrato che l’unione e la perseveranza, a volte, pagano; in tutto questo il ruolo del sindacato è stato fortissimo.

«Il tessuto sociale in cui si è instaurato il sistema è autoctono, e anche se la cosa non deve assolutamente essere normalizzata, c’è da dire che qui si è sempre lavorato così, da ben prima che arrivassero i cinesi», mi dice Sarah quando, il giorno seguente, riusciamo a incontrarci. «All’inizio di tutta questa storia, la cosa più assurda era vedere con quanta incredulità gli imprenditori italiani reagivano alle richieste dei lavoratori che chiedevano orari da contratto nazionale; a Prato si fa il nero e si lavora 12 ore al giorno da cinquant’anni e voi venite a chiedere le otto ore e il riposo la domenica, ma siete matti?».

In una zona come questa, che fu operaia e di sinistra, i lavoratori in sciopero dovrebbero essere accolti a braccia aperte, eppure non lo sono. Questi uomini sono fantasmi che si muovono invisibili all’interno di una comunità anacronisticamente ancorata a un passato dove il comparto tessile costituiva ancora il motore unico dell’economia indigena, talmente importante da aver plasmato alle proprie esigenze tessuto urbano e cittadini.

La città è particolare, con il vecchio distretto industriale e i suoi capannoni a mattoni rossi che ancora si schiacciano alle antiche mura comunali, quasi a voler ricordare gli antichi fasti produttivi ai vicoli gentrificati del centro storico. Quel quartiere, dopo la Seconda guerra mondiale, era infatti sede del primo dei molti comparti manifatturieri cittadini, costruito con una morfologia il cui tratto distintivo è la vicinanza, se non addirittura l’integrazione, tra spazi di lavoro e abitazione. Al piano terra le macchine, al primo piano la casa.

Poi il mercato globalizzato e le cattive abitudini lavorative hanno favorito l’arrivo di una crisi che ha stravolto la natura della città. Molti dei vecchi stanzoni di famiglia, una volta fiore all’occhiello dei piccoli imprenditori locali, sono stati prima chiusi e poi venduti – a prezzi maggiorati – ai cittadini asiatici che, in massa, sono immigrati qui negli anni Novanta. Così i vecchi capannoni, che gli italiani avevano abbandonato e lasciato cadere nel degrado, sono stati rioccupati da cittadini originari della regione cinese del Zhejiang che hanno trasformato il vecchio distretto tessile nella China Town più grande della Toscana.

La particolare conformazione urbana ha facilitato molto gli imprenditori cinesi, consentendogli di far arrivare i compatrioti senza doversi preoccupare degli alloggi, bastava stipare gli operai dentro al piano adibito ad abitazione e il gioco era fatto.

Il rapporto tra i vecchi abitanti di Prato e i nuovi, di origine cinese, non è mai stato idilliaco. Gli stessi che si sono approfittati della loro presenza, vendendogli immobili al triplo del valore reale, li hanno poi sempre mal sopportati. La situazione non è cambiata neppure quando le ditte asiatiche hanno iniziato a far girare cifre di denaro importanti, coinvolgendo i grossi marchi della moda italiana attratti dai prezzi bassi e incuranti delle condizioni di lavoro degli operai.

Per rendersi conto del contesto prossimo alla schiavitù che sta dietro al fenomeno basta ricordare il rogo del 2013, dove morirono sette operai che lavoravano e vivevano dentro una fabbrica, stretti all’interno di loculi di cartongesso. Un episodio talmente drammatico che i soccorritori trovarono una delle vittime carbonizzata dentro a un bagno di fortuna, con una mano fuori dal vetro della finestra che aveva rotto nel vano tentativo di salvarsi. Una tragedia largamente prevedibile, frutto di circostanze tanto gravi quanto note.

«In un contesto industriale come questo, però, è difficile distinguere tra aziende buone e aziende cattive, tra imprenditori italiani e imprenditori cinesi, è naturale che il distretto funzioni come una rete di relazioni funzionali e interdipendenti, è un sistema che coinvolge quasi tutti», racconta Sarah davanti al pezzo di focaccia che si concede alle sei del pomeriggio, dopo aver passato la giornata a cercare un camper che li aiutasse a rendere meno pesanti le notti ai picchetti.

«C’è una netta separazione tra i lavoratori, anche dentro le fabbriche a proprietà locale. Magari i padroni e i quadri più alti sono italiani, ma gli operai sono per lo più immigrati e le condizioni di lavoro a cui sono costretti a sottostare sono le stesse delle fabbriche cinesi. I pratesi hanno sempre fatto così, è solo cambiata la provenienza della manodopera, prima la manovalanza veniva dal Sud Italia, adesso dal Sud del mondo».

Il distretto è tuttora una realtà enorme (45.000 lavoratori dipendenti per quasi 7.000 aziende attive nel 2021, con un fatturato che ha superato abbondantemente i tre miliardi di euro) e in continua evoluzione. In termini prettamente numerici, nei passati vent’anni, è stata la piccola imprenditoria tessile orientale a rendersi protagonista di una vera e propria ascesa e, quando la parziale frenata dell’immigrazione cinopopolare ha coinciso con l’avvio di ondate migratorie da altre parti del mondo, le ditte cinesi hanno iniziato a impiegare anche lavoratori pakistani, bengalesi e africani; il tutto sotto gli occhi di una città che si rifiuta di vedere cosa succede agli ultimi, ossatura invisibile della narrazione locale sul distretto dell’eccellenza tessile.

Le lotte più recenti del sindacato di base nel territorio pratese, di Campi Bisenzio e Calenzano

Quello che cittadini e istituzioni si rifiutano di vedere, però, riesce a vederlo benissimo il sindacato di base.

«Le ditte asiatiche avrebbero volentieri fatto a meno di aprirsi ad altri gruppi etnici, ma cominciavano a mancare gli operai», continua Sarah, «gli operai cinesi sono più facilmente sfruttabili perché la loro comunità lavorativa è un mondo chiuso, gli imprenditori fanno arrivare i lavoratori direttamente dalla Cina e li mettono in condizione di essere completamente dipendenti dal padrone, che gli dà l’alloggio, lo stipendio ed è presente in ogni aspetto della loro vita. La lingua poi è un ostacolo enorme, è molto difficile per loro imparare l’italiano, tanto che hanno bisogno di qualcuno che traduca anche soltanto per una semplice richiesta all’Inps, è chiaro che in queste condizioni l’autonomia si riduce moltissimo. Per i pakistani, per esempio, non è così; hanno meno difficoltà a comunicare e, di conseguenza, anche a comprendere quali sono i loro diritti; e poi non hanno un padrone che controlla ogni aspetto della loro vita, così qualcuno di loro si è avvicinato al sindacato e il passaparola all’interno della comunità ne ha portati altri. Vedere che con la lotta si riesce a far valere i propri diritti è contagioso, perciò il giochino dello sfruttamento ha cominciato a incepparsi».

“Sfruttamento” è decisamente la parola corretta per definire il sistema a cui gli operai si ribellano e che prevede, tra le altre cose, finti contratti part time per giornate di lavoro che vanno ben oltre le dodici ore, oppure contratti a termine di due o tre mesi dopodiché i lavoratori vengono fatti stare a casa, con una continua turnazione di disperati che, in questo modo, non riescono mai a entrare pienamente nella legalità. In un contesto come questo avvicinarsi al sindacato non è una cosa semplice e, spesso, comporta l’inserimento del lavoratore all’interno di un regime vessatorio volto all’emarginazione (come l’operaio della Pelletteria Due Generazioni, licenziato dopo essersi avvicinato al sindacato, i ragazzi delle fabbriche di grucce, marginalizzati perché partecipanti a uno sciopero, o i ventidue della Iron & Logistic, anche loro allontanati per la loro vicinanza al Cobas), perciò la solidarietà è così importante.

«Tutti gli operai sono con noi, ma molti hanno paura», mi aveva raccontato Shahid qualche mese prima, durante uno sciopero. Il ragazzo, pakistano, addetto nel settore grucce per l’abbigliamento, ventidue anni che sembrano diciassette e barba rasata di fresco, aveva poi continuato: «Il padrone non vuole che stiamo insieme, ci vuole divisi, soprattutto non vuole che fraternizziamo con gli operai cinesi, a loro infatti offre 400 euro in più al mese, a nero ovviamente, e gli dà pure la casa, mentre noi siamo trattati come schiavi. Io però non ho paura, ne ho passate tante prima di venire qui».

Racconta del suo viaggio dal Pakistan alla Turchia, poi il gommone per la Grecia, il campo nell’isola di Lesbo, le botte dei poliziotti greci, la rotta balcanica, il freddo, di nuovo le botte in Serbia, poi le bastonate in Bosnia, le notti nascosti nei boschi, i tentativi di passare la frontiera, una, due, anche tre volte, fino all’arrivo in Italia.

«Il cugino di uno di noi è stato anche rapito, da qualche parte tra la Turchia e la Macedonia, non so dove con precisione», aveva aggiunto Syed, compagno di lavoro e di lotta di Shadid: «Succede a tanti di noi, qualche parente che è in viaggio scompare, poi arriva un video sul telefono di qualcuno che è già qui a lavorare e si chiedono soldi per liberarlo, di solito facciamo una colletta e paghiamo».

La prima volta che ho incontrato un gruppo di questi operai per fotografarli ho avuto l’impressione di stare guardando attraverso una macchina del tempo, facce da un’altra epoca osservavano con timidezza l’obbiettivo. Occhi vivaci, barbe curate e sorrisi sfuggenti incorniciavano volti che sembravano provenire da una litografia del secolo scorso, l’epoca del mondo che ha visto gli ultimi battersi per la dignità del lavoro di tutti.

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domenica 29 gennaio 2023

Da "Event 201" al “Catastrophic Contagion”: le 'simulazioni pandemiche' un attacco alla sanità pubblica - Francesco Santoianni


Dilagano le Giornate Internazionali indette dall’Onu. Ce n’è per tutti: da quella contro il fumo, contro l’abuso sugli anziani, per la promozione della lingua materna, per la protezione delle Api, delle vedove, delle banche… Non varrebbe la pena di occuparsene se non fosse per la ricorrenza della Giornata internazionale della Copertura Sanitaria (12 dicembre) diventata occasione (nonostante le tematiche ufficiali della Giornata) per sbandierare in tutte le TV l’istituendo Trattato internazionale pandemia dell’OMS  (qui la bozza più recente del trattato) che, sostanzialmente, affida alla sola OMS, esautorando gli stati, la pianificazione e la gestione delle misure, legalmente vincolanti secondo il Diritto internazionale. per fronteggiare una epidemia.

Per questa bozza di trattato, gli USA, per tutelare i propri brevetti, hanno già chiesto sostanziali modifiche soprattutto per quanto riguarda l’obbligo, durante una emergenza pandemica, da parte degli stati di fornire all’OMS dati biologici inerenti l’agente infettivo.

A tal riguardo, ci sia concesso di spezzare una lancia a favore della Cina che, già nel gennaio 2020, senza nessun trattato che la obbligasse, pubblicava l’intera sequenza genomica del virus SarsCov2 incurante che questo poteva permettere a stati concorrenti di superarla nella corsa ai vaccini. Nonostante ciò, la Cina e la Russia hanno già annunciato che non firmeranno il trattato, così come configurato nella bozza. Ufficialmente, perché non sono disposte a cedere, se pur parzialmente, all’OMS la loro sovranità. E in più, aggiungiamo noi, perché non si fidano affatto di una OMS (in gran parte finanziata da aziende farmaceutiche) che si è distinta con talmente tante stupidaggini  (vedi, ad esempio, qui) da poterci scrivere una enciclopedia.

Un altro ottimo motivo per chiudere per sempre in un cassetto questa bozza di trattato (tra l’altro, sorprendentemente atipico secondo studiosi del Diritto internazionale) è dato da quanto previsto nell’articolo 16 della bozza. E cioè l’affidamento all’OMS, da parte degli stati, del contrasto alla “disinformazione”. Contrasto che potrà essere ottenuto (art. 14) anche con la collaborazione tra Oms e non meglio precisati “attori non statali”.

Sì, ma questo cosa potrà comportare durante la prossima “emergenza epidemica?

Durante l’emergenza Covid, la censura riguardava i media mainstream, non così il web, ad esempio Telegram, dove, tutto sommato, si poteva discutere quasi liberamente e dove medici, non disposti a piegarsi alla “Tachiprina e vigile attesa”, potevano, ad esempio, confrontarsi su cure agli inizi vituperate e oggi accettate della “Scienza”. Tutto questo non sarà certo possibile in un futuro dominato dal Trattato dell’OMS dove, essendo ferrea e planetaria la censura non ci sarebbe nemmeno la speranza di un ravvedimento quale quello che oggi sta colpendo milioni di vaccinati e non pochi medici. Tra l’altro, essendo delegata all’OMS la gestione dell’emergenza pandemica, ci sarebbe da chiedersi che fine farebbero governi come quello della Svezia che, avendo rifiutato la logica del lockdown imposta dall’OMS, ha avuto, tra i paesi europei, la più bassa mortalità in eccesso.

Intanto, in questi giorni, merita un posto sui media l’esercitazione “Catastrophic Contagion” (tenutasi a novembre a Bruxelles e organizzata dai soliti OMS & Bill & Melinda Gates Foundation) formalmente finalizzata a come affrontare una epidemia prodotta da un virus molto più letale di quello del Covid e che uccide soprattutto bambini. Uno scenario probabile? Assolutamente no. E se proprio vogliamo preoccuparci per la certa sorte di tanti bambini, forse sarebbe meglio occuparsi delle infezioni intestinali che ne uccidono mezzo milione ogni anno. Ma che importa? Con un Bill Gates che, dall’alto dei suoi miliardi di dollari, blatera di imminenti e catastrofiche epidemie, santificando il suo GAVI Alliance per la diffusione di sempre più vaccini, chi volete che si occupi più di sanità pubblica?

C’è comunque una ultima considerazione da fare sulla esercitazione “Catastrophic Contagion” che, per molti, sarebbe il contraltare dell’esercitazione “Event 201”, tenutasi nell’ottobre 2019 che simulava il dilagare di una pandemia e, quindi, la “prova generale” della prossima emergenza pandemica. In realtà se si dà una scorsa alle decine di esercitazioni per emergenze pandemiche tenutesi in Occidente (qui quelle in Gran Bretagna) ci si renderà conto (come qui documentato) che queste, essendo sostanzialmente delle sceneggiate ad uso dei media, non sono servite affatto a testare la vulnerabilità dei sistemi preposti alle emergenza sanitarie ma a fare accettare alla gente un asservimento psicologico e quindi politico. Così la gente dà carta bianca a scienziati, governanti, militari, forze dell’ordine… e finisce per accettare con gratitudine misure che il Potere aveva pianificato da tempo per tutti altri scopi. È lo stesso motivo per il quale i media ci terrorizzano con “notizie” quali casi di legionella, meningite, morbillo….

E così continuano da anni a rifilarci cucchiaiate di paura. E li ringrazieremo quando, conclusa l’“emergenza”, saremo ancora vivi. Certo, come strategia di controllo sociale non è un granché. Ma in tempi come questi, nei quali si direbbe cancellarsi il domani, può bastare.

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sabato 28 gennaio 2023

Quel che sarà dell’agricoltura italiana - Paolo Riva

 Il 2022 dell’agricoltura italiana è stato duro. Con il 2023 prende il via la nuova Politica Agricola Comune Ue. Ma il rischio è che a farne le spese sarà l’ambiente 

Per l’agricoltura europea, quello appena cominciato sarà un anno importante. Il 2023 segna l’avvio della nuova Politica agricola comune (Pac), che è la voce più importante del bilancio Ue nonché un sostegno fondamentale per gli agricoltori in tante parti del continente. L’Italia non fa eccezione, ma arriva a questo appuntamento affaticata. Per l’agricoltura italiana l’anno che si è appena concluso è stato difficile, per tante ragioni. E per questo, merita di essere rivissuto, a partire dall’estate 2022, che rischia di essere ricordata come una delle più aride degli ultimi cinquecento anni.

«Non cresce», dice Nicholas Fusar Poli accarezzando una piantina di erba medica che si alza appena una ventina di centimetri dal terreno secco. È la seconda metà di luglio e questo giovane agricoltore mostra i danni che la mancanza d’acqua ha causato alla sua azienda di Arluno, a ovest di Milano.

L’esperienza di Fusar Poli, che viene da una famiglia giunta alla quarta generazione di contadini, è esemplare delle difficoltà che stanno vivendo molti agricoltori italiani, stretti tra la crisi climatica, l’aumento dei prezzi e le ricadute della guerra in Ucraina.

 

 

«Abbiamo 91 ettari di terreno e 110 mucche da latte – spiega Fusar Poli, che ha 24 anni e ha fatto l’istituto agrario -. Avevo piantato più erba medica per comprare meno mangimi proteici, ma poi c’è stata la siccità: la medica non è cresciuta e il mais sarà molto meno del solito», dice tra lo sconsolato e l’arrabbiato. Come capita spesso in Pianura padana, anche nell’azienda di Fusar Poli, gli animali vengono nutriti da quel che viene coltivato, soprattutto mais ma anche orzo, sorgo ed erba medica. Se il raccolto va male, le mucche devono comunque essere nutrite e il necessario va acquistato. Quest’anno, a prezzi particolarmente cari.

«Il mercato agricolo sale e scende, è così. I prezzi erano già cresciuti prima [del conflitto], ma con la guerra in Ucraina sono saliti, saliti, saliti…», dice l’agricoltore.

La dipendenza italiana

Nel 2022, in tutto il mondo, i prezzi sul mercato dei beni alimentari hanno raggiunto livelli record. «L’aumento ha caratterizzato soprattutto i beni di cui Russia ed Ucraina sono principali esportatori e si è aggiunto all’aumento dei prezzi trainato dalla crescita post pandemica della domanda di beni rispetto ad una produzione che è cresciuta più lentamente», ha scritto il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria – Crea in un rapporto dell’ottobre 2022.

Il fenomeno, spinto anche dalla speculazione di banche e fondi, ha toccato il nostro Paese soprattutto in alcuni settori. «La crisi internazionale – prosegue il Crea – ha posto maggiore attenzione sulla dipendenza dell’Italia dall’estero per alcune produzioni, importanti per la nostra industria agroalimentare, tra cui i cereali, gli oli vegetali e i mangimi per la zootecnia».

Lo scorso anno, stando alle elaborazioni di Coldiretti su dati Istat, l’Italia aveva importato dall’Ucraina il 15% del mais destinato all’alimentazione degli animali, per un totale di 785 milioni di chili. Una quota che, dopo lo scoppio del conflitto, è stata sostituita in larga parte da quella proveniente da altri Paesi come il Brasile o gli Usa. Questi ultimi, scrive l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare – Ismea, «non figurano tra i nostri principali fornitori ma nel semestre in esame hanno aumentato le spedizioni con tassi di crescita di tre cifre sia in valore che in volume per raggiungere nei primi sei mesi del 2022 circa 24 milioni di euro per 70 mila tonnellate».

Nutrire gli animali, quindi, è diventato più costoso. Ma non si è trattato dell’unico rincaro che gli agricoltori come Fusar Poli hanno dovuto affrontare.

A marzo, poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, sempre il Crea aveva stimato che, a fronte della situazione internazionale, le aziende italiane avrebbero potuto «subire incrementi dei costi correnti di oltre 15.700 euro» all’anno. A settembre ha rivisto i numeri, praticamente raddoppiandoli e spiegando come tra i settori più colpiti c’è la produzione di latte.

«L’impatto medio aziendale nazionale stimato è di 29.060 euro, mentre sugli allevamenti da latte sale addirittura a 90.129 euro. Tali aumenti sono legati all’eccezionale rincaro (a livello medio aziendale) delle spese per l’energia elettrica (+35.000 euro), per l’acquisto di mangimi (+34.000 euro) e dei carburanti (+6.000 euro)», dettaglia il report.

Lo scorso ottobre Coldiretti ha confermato, segnalando aumenti dei costi che vanno dal +170% dei concimi al +129% per il gasolio fino al +300% delle bollette per pompare l’acqua per l’irrigazione dei campi. E, la scorsa estate, i raccolti hanno avuto bisogno di molta acqua.

Aziende agricole a rischio

L’estate del 2022 verrà ricordata in tutta Europa per la mancanza d’acqua. La siccità, soprattutto nel nord dell’Italia, si è sommata agli altri problemi che l’agricoltura stava già affrontando e ha inciso negativamente sulla resa di diverse colture.

Nel caso del grano duro, per esempio, a fine luglio Isema stimava che la produzione italiana 2022 «potrebbe essere inferiore di circa il 16% rispetto all’anno precedente, prevalentemente a causa del deficit idrico registrato durante la fase post semina e delle elevate temperature degli ultimi mesi». Il calo riguarda molte regioni, pur con intensità diverse, e anche altri paesi Ue come la Francia.

Per quanto riguarda il mais, il quadro è ancora più fosco. Cesare Soldi, imprenditore agricolo in provincia di Cremona, membro di Confagricoltura e presidente dell’Associazione maiscoltori italiani – Ami, prova a fare i conti. «Quest’anno, come associazione, stimiamo un calo del 35% della produzione di mais rispetto al 2021», dice. Si tratta di una media nazionale che nasconde una forte eterogeneità, ma il dato è comunque forte. «Da una parte – riprende Soldi -, c’è la siccità e, dall’altra, ci sono la situazione incerta pre Covid e la guerra che hanno portato all’aumento dei costi. È un mix esplosivo che ci porta, per l’ennesima volta negli ultimi anni, a produrre sotto costo».

In pratica, nonostante i prezzi elevati dei generi alimentari, i produttori di mais ricevono per il loro prodotto meno di quanto spendono per coltivarlo. È una situazione insostenibile che ha ragioni specifiche legate al tipo di coltura, ma che quest’anno rischia di riguardare anche le aziende di altri settori.

Nello stesso studio in cui il Crea stimava l’aumento dei costi per le imprese agricole, l’istituto concludeva che «l’attuale crisi internazionale congiunturale può determinare in un’azienda agricola su dieci l’incapacità di far fronte alle spese dirette necessarie a realizzare un processo produttivo» e che «il 30% delle aziende su base nazionale» potrebbe «avere reddito netto negativo». Prima dell’attuale crisi, i due dati erano rispettivamente l’1% e il 7%.

«Il conflitto avrà conseguenze sulla gestione economica e finanziaria delle aziende agricole. Le imprese a bassa capitalizzazione rischiano di uscire dal mercato. Potrebbe esserci una riorganizzazione in termini di efficienza, con impatti sociali non da poco», sostiene Alessandra Pesce, direttrice del Centro politiche e bioeconomia del Crea. In pratica, secondo la ricercatrice, gli agricoltori senza sufficienti risorse economiche potrebbero non farcela ad affrontare un periodo così impegnativo. Le loro aziende agricole potrebbero essere acquisite da altre oppure fallire.

Per Pesce, l’impatto maggiore è sui «costi di gestione e approvvigionamento di materie prime energetiche, di fertilizzanti e di mangimi». Fusar Poli, per esempio, dato che l’erba medica non è cresciuta a sufficienza per la siccità, ha dovuto comprare più mangimi proteici, i cui prezzi nel frattempo erano fortemente aumentati. Lo ha fatto rivolgendosi a Cargill, uno dei principali attori mondiali del settore. «Vorrei essere sempre meno dipendente da queste aziende, ma quest’anno non è stato possibile», dice.

Lo stesso accade in provincia di Cremona, poco lontano dal Po e dalle sue acque che, a luglio, erano estremamente basse per la mancanza di piogge.

Stefania Soldi osserva la grande mietitrebbia che passa sul campo di mais appartenente alla sua azienda zootecnica. «Cerchiamo di essere autonomi, ma con questo clima mai visto prima abbiamo dovuto comprare una parte dei mangimi», spiega. E anche in questo caso, i prezzi sono saliti. La crescita era già iniziata prima del conflitto e ha accelerato dopo l’invasione russa dell’Ucraina, anche a causa della speculazione finanziaria. Come a Fusar Poli, anche a Soldi, per acquistare il mais da destinare alle sue mucche, è capitato di rivolgersi a Cargill, che ha un impianto proprio poco lontano dalla sua azienda, nel comune di Sospiro in provincia di Cremona.

Il ruolo dei grandi player

L’Italia è uno dei settanta Paesi in cui Cargill opera, per un totale di 155 mila dipendenti e un fatturato che, nel 2020, ha superato i 134 miliardi di dollari. L’azienda, che non è quotata in borsa, è un trader di materie prime agricole e quindi è coinvolta in tutte le fasi della produzione e del commercio di questi prodotti: dall’origine alla lavorazione, dalla commercializzazione agli strumenti finanziari, dalla gestione del rischio alla distribuzione. Secondo un recente rapporto dell’ong Etc Group, che da decenni si occupa di sistemi alimentari, Cargill è il leader di questo settore, seguita dalla cinese Cofco, dalle statunitensi Archer-Daniels-Midland (ADM) e Bunge (rispettivamente terza e quinta per fatturato) e da Wilmar, con sede a Singapore.

 

Aziende come Cargill o Cofco rappresentano molto chiaramente il processo di consolidamento dell’industria agroalimentare mondiale in corso, attraverso fusioni e acquisizioni sia orizzontali sia verticali. Questo, scrive sempre Etc in un altro rapporto, rafforza «il modello alimentare e agricolo industriale, esacerbando le sue ricadute sociali e», «aggravando gli squilibri di potere esistenti» e rendendo «gli agricoltori sempre più dipendenti da una manciata di fornitori e acquirenti». La pubblicazione era del 2017 ma, cinque anni dopo, il fondatore di Etc Pat Mooney, conferma che la situazione non è cambiata. Anzi.

«Il livello di concentrazione è ulteriormente aumentato e il sistema industriale sta mostrando enormi problemi nelle catene di approvigionamento che non dipendono solo dalla situazione in Ucraina e che erano già stati riscontrati durante la pandemia», spiega Mooney.

Negli ultimi mesi, Cargill ha registrato un aumento del 23% dei ricavi, raggiungendo la cifra record di 165 miliardi di dollari (140 miliardi di sterline) per l’anno conclusosi il 31 maggio 2022; ADM ha realizzato i profitti più alti della sua storia nel secondo trimestre di quest’anno mentre le vendite di Bunge sono aumentate del 17% su base annua nel secondo trimestre, anche se i profitti sono stati influenzati da oneri precedentemente sostenuti.

Se da un lato un aumento dei ricavi è logico all’aumentare dei prezzi, dall’altro, secondo diverse organizzazioni non governative, questi colossi stanno approfittando della situazione e avrebbero potuto fare di più per evitare la crisi attuale.

Quel che è certo è che gli agricoltori come Fusar Poli si ritrovano inseriti in un sistema agroalimentare industriale che non li favorisce, esposti alle ripercussioni internazionali in materia di prezzi e schiacciati dagli effetti della crisi climatica, che in estati come quella appena trascorsa si è manifestata con particolare forza. «Devi continuamente adattarti. Sei sul filo del rasoio, non puoi sbagliare», dice Fusar Poli.

Più o meno consapevolmente, però, a stringere la morsa nella quale si ritrovano sono anche gli stessi agricoltori. Soprattutto quelli che producono cereali per la zootecnia. Come ha spiegato l’associazione Terra!, in Italia il 58% dei terreni sui quali si semina (i seminativi) è destinato ad alimentare animali, non persone. Nel caso specifico del mais, l’82 per cento del prodotto disponibile è destinato all’uso zootecnico.

Il punto è che gli allevamenti producono una grande quantità di emissioni di gas serra, che contribuiscono a peggiorare la crisi climatica. Nel 2020, il settore agricolo ha generato il 9% di tutte le emissioni italiane mentre, secondo l’ong Iatp, le prime venti aziende europee di carne e latticini producono l’equivalente di oltre la metà delle emissioni di Regno Unito, Francia e Italia. Anche per questo, la nuova Politica agricola comune Ue, in vigore dall’inizio del 2023, ha tra i suoi obiettivi quello di rendere il settore primario europeo più sostenibile dal punto di vista ambientale.

L’alba di una nuova PAC

Il primo gennaio 2023, dopo una serie di rinvii causati dalla pandemia, è iniziata la nuova programmazione della la Politica agricola comune dell’Unione europea (Pac), che proseguirà fino al 2027. Tra le principali novità di questa ultima versione della Pac, che è già stata oggetto di altre riforme in passato, vi sono maggiore attenzione all’ambiente e più autonomia per gli Stati…

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venerdì 27 gennaio 2023

Chi e come può accedere alla nostra eredità digitale - Giuditta Mosca

  

Lo scorso 27 settembre il New York Times ha diffuso la notizia dell’imminente pubblicazione di una biografia postuma e non autorizzata di Anthony Bourdain, noto cuoco e personaggio televisivo morto suicida nel 2018. Due giorni dopo il sito Slate ha approfondito l’argomento chiedendosi quanto fosse lecito che persone estranee potessero accedere ai dati di un defunto, considerato che la biografia è stata scritta attingendo a piene mani sia al computer sia ai dispositivi mobili dello stesso Bourdain, “parte della sua eredità”.

Se qualcuno ha potuto accedere ai suoi dati privati, inclusi i messaggi, significa che anche i nostri potranno essere non solo letti ma anche diffusi pubblicamente dai nostri eredi? si è chiesto Slate. O magari i dati di qualcuno che non c’è più e con cui avevamo un rapporto di qualche tipo? Più in generale, chi ha il diritto di accedere ai dati di un defunto, in quali situazioni e in base a quali autorizzazioni? E quali sono i limiti legali e tecnici che potrebbero rendere difficile o impossibile per degli eredi accedere a dispositivi, profili e magari anche portafogli online? C’è infatti anche da considerare che i dispositivi di chi è mancato possono essere protetti da password. O che possedesse delle criptovalute, e qui le possibili complicazioni sono diverse.

 

Il dilemma di cosa fare con un dispositivo personale

Che sia protetto da password (codice di sblocco) o accesso mediante dati biometrici (impronta digitale o riconoscimento del volto) ci si trova davanti a un bivio: sbloccare o non sbloccare lo smartphone di un defunto? Nell’ipotesi di riuscire a trovarne il codice di sblocco, esiste davvero il diritto di scartabellare nei rapporti che il defunto ha intrattenuto con altre persone (ancora vive) e che, magari, avrebbe voluto mantenere inaccessibili ai propri familiari?

Eppure, accedere ai dati del defunto rientra nelle pratiche da svolgere quando una persona cara passa a miglior vita, infatti, ci sono buone possibilità che avesse sottoscritto online vari tipi di contratti (per la fornitura di energia elettrica o del gas, così come non è del tutto fuori luogo immaginare che avesse una relazione bancaria online o degli abbonamenti a contenuti multimediali in streaming). Esistono diversi tipi di rapporti commerciali che prevedono la totale (o quasi totale) assenza di corrispondenza cartacea, sostituita da comunicazioni via email. 

Dal punto di vista tecnico-tecnologico, sbloccare uno smartphone può non essere una missione impossibile, soprattutto quando si tratta di modelli non recenti. Ma la questione va oltre: con quale diritto lo si può sbloccare (in assenza di indicazioni chiare del suo precedente proprietario)?

 

Cosa dice la legge italiana: accesso consentito ma con limiti

Per la legge i defunti hanno diritto alla privacy, come spiega Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università degli studi di Milano e autore, sull’argomento, del volume: “Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network” (Utet, 2017): “Da tempo la normativa sulla protezione dei dati tratta anche il problema della protezione dei dati delle persone decedute. Il motivo è che è riconosciuto anche alle persone decedute una sorta di controllo sui propri dati anche post-mortem. Già il Codice Privacy disciplinava, prima del Gdpr, questo tema, e anche post-GDPR la normativa italiana – opportunamente adeguata – continua a disporre delle regole sul punto. In estrema sintesi, la normativa stabilisce che si possano ottenere i dati personali di una persona deceduta soltanto per ragioni familiari meritevoli di protezione, per chi ha un interesse proprio o se agisce a tutela dell’interessato come mandatario. Il riferimento è l’articolo 2-terdecies del Codice Privacy. Se ci pensiamo, è un segnale di civiltà cercare di trovare un compromesso tra la privacy dei defunti e permettere, comunque, a chi dovesse avere necessità di quei dati di ottenerli. Le ragioni degli affetti , ossia le ragioni familiari, escludono però l’accesso ai dati per mera curiosità. Occorre una ragione meritevole di protezione. In sintesi, quindi, è consentito un accesso ai dati di una persona deceduta ma con dei limiti ben stabiliti dalla legge. 

Un caso recente, che ha riguardato un giovane chef morto in un incidente d’auto, si è concluso con un invito da parte del Tribunale di Milano alla piattaforma di collaborare per recuperare dei dati del defunto da dare alla famiglia: si trattava di un insieme di ricordi, di ricette, di foto e video che i parenti volevano custodire come memoria. In questo caso, la ragione degli affetti è stata vista dal Tribunale come centrale per poter ottenere quei dati.
La domanda relativa al diritto alla privacy dei defunti non ha però sempre una risposta ben definita ma multistrato. L’argomento non può ritenersi esaurito perché, nell’impossibilità di stabilire per quale motivo il defunto non si sia fatto cruccio di fare avere agli eredi le password per accedere ai suoi dispositivi, si dà per scontato che non lo abbia fatto perché non voleva farlo. 

 

Distinguere tra i ricordi e le conversazioni private con terzi

Questo ha delle conseguenze sia sul piano giuridico, sia su quello pratico, come spiega ancora Ziccardi: “Il problema principale, in questo caso, non riguarda l’accesso in sé, ma i contenuti. I contenuti ritrovati su un dispositivo di una persona deceduta, e trattati dai parenti (perché anche la semplice consultazione è un trattamento di dati) possono essere di due tipi: contenuti legati a ricordi, ad esempio foto, video, messaggi, che hanno un valore affettivo e per così dire sentimentale per i parenti, e contenuti che riguardano anche altre persone (si pensi a corrispondenza riservata, chat con soggetti terzi, documenti di lavoro segreti o da non rendere pubblici).
A mio avviso, – prosegue Ziccardi – nel caso gli eredi dovessero entrare in possesso di dati digitali contro la volontà del defunto (che, ad esempio, non aveva volontariamente comunicato ai parenti il pin o i codici di accesso, né aveva nominato eredi digitali), occorrerebbe prestare particolare attenzione a mantenere riservati e, nel caso, distruggere il secondo tipo di dati, soprattutto perché possono coinvolgere persone ancora vive. La motivazione dei parenti è comunque, solitamente, la prima: cercare di recuperare più ricordi possibili in tutti i formati. D’altro canto, può esistere un defunto che in vita abbia manifestato l’intenzione chiara di escludere tutti i parenti dall’accesso ai suoi dati (ad esempio prevedendo codici e password particolarmente complessi e non rivelandoli)”.

 

La possibilità di nominare “eredi digitali” sulle piattaforme

Tuttavia, anche lasciare i codici di sblocco alle persone care o agli eredi equivale a un testamento digitale subordinato alle norme dei codici di legge: “Tutti i sistemi più usati permettono, oggi, di nominare degli eredi digitali che potranno operare sui dati secondo le indicazioni date dal defunto – spiega Ziccardi – ad esempio, la persona deceduta potrà sia trasferire i suoi codici di accesso, per permettere la consultazione di tutti i suoi dati, ma anche, ad esempio, indicare all’erede di cancellare tutte le informazioni, o di trasformare il proprio profilo in commemorativo. Occorre, però, fare attenzione al tipo di beni, e ambienti, cui si potrà accedere. È chiaro che se, ad esempio, sarà garantito l’accesso all’home banking o a un conto corrente online, andranno comunque rispettate le regole tradizionali dell’eredità e delle ripartizioni previste per legge”. 

Allo stesso tempo vi sono defunti che hanno accumulato comunque un grandissimo valore con la loro presenza online: si pensi al valore di un sito, o di un profilo, o ancora di un canale YouTube, calcolato in base ai follower o all’indotto pubblicitario. “Anche in questo caso andranno seguite le regole ‘tradizionali’ che disciplinano le eredità”, spiega Ziccardi.

Tutto ciò vale tanto per i dati fisicamente custoditi nei dispositivi quanto per quelli online e non potrebbe essere che così, poiché i servizi di cloud computing raccolgono copie di ciò che c’è sui dispositivi fisici. Il professor Ziccardi evidenzia come i dati siano trattati senza discriminazioni a prescindere dalla loro archiviazione: “Tendenzialmente i dati sono trattati tutti allo stesso modo, indipendentemente dalla loro collocazione. Anzi, in molti casi sono gli stessi dati che sono presenti in più ‘luoghi’.” 

Si pensi, ad esempio, al backup del nostro cellulare che può essere almeno in altri due luoghi: il nostro computer e su un servizio di cloud. Spesso si possono trovare dati che sono cifrati in un luogo (ad esempio: sul telefono) a cui non si riesce ad accedere ma non sono cifrati, ad esempio, sul cloud o in un servizio di backup.
“È prassi, quindi, domandare ai gestori di tali servizi l’accesso. Può anche essere una buona strategia ‘investigativa’: nel caso il dispositivo del defunto fosse bloccato, o inaccessibile, il cercare di capire se i dati possano essere in altri luoghi, online o offline, o in diversi dispositivi”.

 

Come si comportano le piattaforme

Facebook ha una procedura, chiamata contatto erede, che consente a ogni utente di nominarne un altro, quale curatore del proprio account dopo il suo decesso. In assenza di questa scelta che l’utente deve fare prima del suo decesso, Facebook non concede l’accesso ad account di persone defunte.
Pure nominando un erede, questo non gode di totale libertà, potendo scegliere tra due opzioni: o la cancellazione dell’account o trasformarlo in un profilo commemorativo che, di suo, prevede funzionalità ridotte, limitandosi a permettere ai contatti di condividere ricordi. Gli account commemorativi si riconoscono dalla dicitura “In memoria di” posta accanto al nome della persona a cui il profilo è intestato.

Instagram adotta la medesima filosofia di Facebook con l’unica differenza che non prevede la figura del contatto erede e che, di conseguenza, dietro richiesta validata da un certificato di morte, un account può essere trasformato in commemorativo.

Twitter sostiene di non essere in grado di concedere l’accesso all’account di un defunto a chicchessia e a prescindere dal grado di parentela dimostrato, permettendo però di cancellarne il profilo riempiendo un modulo che poi verrà esaminato dalla stessa Twitter prima di essere accettato. Tra i documenti che occorre allegare alla richiesta figurano sia il certificato di morte sia copia del documento di identità del richiedente.

Linkedin permette di rendere commemorativo o di chiudere l’account di una persona passata a miglior vita, e in entrambi i casi chiede copia del certificato di morte.

TikTok non prevede altro che la cancellazione di un profilo e, dopo avere inviato un email all’indirizzo feedback@tiktok.com, verranno inviate le istruzioni relative ai documenti da inviare. 

Google ha un modello simile e prevede anche che ognuno possa impostare la cancellazione dell’account dopo un periodo prolungato di non utilizzo o, in alternativa, permette di scegliere fino a 10 contatti con i quali condividere dati e informazioni.

 

I memoriali

Sono procedure, spiega il professor Ziccardi, che hanno un fondamento giuridico: “Occorre cercare sempre di equilibrare le politiche delle piattaforme, che assumono valore per gli utenti, con le norme previste dai vari ordinamenti. Ad esempio, nel caso un utente morisse e i familiari volessero continuare a farlo ‘vivere’ aggiornando il suo profilo come se fosse lui/lei a parlare (perché in possesso delle credenziali dell’account), se la piattaforma venisse informata con una “death proof” (ad esempio: un articolo di giornale) della morte di quell’utente, trasformerebbe immediatamente quell’utenza in utenza commemorativa togliendone la disponibilità ai parenti. Questo, come è chiaro, per tutelare la fiducia degli altri utenti e, in un certo senso, per preservare l’ambiente online. Le piattaforme sono in generale molto preoccupate circa la presenza di profili di persone decedute (anche da un punto di vista dell’immagine) e cercano, pertanto, di controllarli o di confinarli in determinate aree”.

 

Quando l’eredità digitale è anche economica: il caso delle criptovalute

Come devono comportarsi gli eredi se il defunto avesse accumulato delle criptovalute? “Qui abbiamo due problematiche tecniche – spiega a Guerre di Rete il consulente informatico forense Paolo Dal Checco – se le credenziali sono relative a cambiavalute online (exchange), ovvero aree online dove il defunto aveva messo le sue criptovalute, può essere inutile conoscerle perché ormai non sono quasi mai utilizzate da sole. Oltre alle credenziali è sempre presente anche l’autenticazione a due fattori e quindi occorrono l’accesso alla posta elettronica, al cellulare del defunto oppure alle sue app di autenticazione come Google Authenticator”.
Questo significa che, anche conoscendo le credenziali, non è detto che gli eredi riescano ad accedere, a meno di non contattare l’exchange dimostrando di essere legittimati ad accedere, ma potrebbe essere più difficile con gli exchange esteri.

“Se, invece – prosegue Dal Checco –  il defunto ha comunicato agli eredi le chiavi private di un wallet locale (la parte crittografica del protocollo, diversa dalle credenziali d’accesso richieste da un exchange online) a quel punto non c’è nessuna difficoltà tecnica. L’aspetto giuridico sarà affrontato dai giudici che stabiliranno come gli eredi avranno diritto di muovere le criptovalute, ma dal punto di vista tecnico, gli eredi devono solo importare le chiavi private nei vari wallet per avere accesso al loro contenuto. 

Può darsi anche che il defunto abbia lasciato un wallet hardware, oggetti che sembrano delle pendrive e che in alcuni casi, soprattutto se obsoleti, possono essere forzati, ma non è una cosa comunque facile”.

 

La privacy dei morti è anche quella dei vivi

Uta Kohl, professoressa della University of Southampton (Regno Unito) ha offerto degli spunti interessanti tracciando un parallelo tra la privacy post-mortem e la confidenzialità in ambito medico partendo da un presupposto elementare: così come un medico è tenuto a mantenere il riserbo sul quadro clinico del defunto, deve esistere anche un riserbo digitale.

Secondo la professoressa Kohl, “la riservatezza – e, per estensione, la privacy delle informazioni – raramente può essere collocata in un’unica relazione binaria isolata tra un portatore di doveri e un titolare di diritti, ma è invischiata nella grande e disordinata socialità della vita, che comporta molteplici relazioni di fiducia che si sovrappongono e sono interdipendenti”. Inoltre: “Ciò che la cosiddetta privacy post-mortem ci dice sulla privacy è che questa ha un chiaro orientamento verso il futuro; alla morte del titolare dei diritti, si concentra sui vivi, come strumento per prendere decisioni autonome e libere dallo sguardo pubblico. La privacy post-mortem amplifica anche il fatto che la privacy si situi nelle relazioni e come tale sia profondamente sociale; non è protettiva dell’individuo rispetto alla comunità, ma degli individui all’interno delle comunità”.
L’eredità digitale, conclude la professoressa Kohl, non sconvolge i fondamenti della privacy ma ne accentua il significato, rafforzando l’argomentazione sulla natura profondamente sociale della privacy.

da qui

giovedì 26 gennaio 2023

come buon senso domanda... – Enrico Euli

  

Non hai la patente? Ma come fai a vivere senza automobile?

Non hai il portafoglio? Ma come fai a non perdere i soldi?

Non hai lo smart phone? Ma come fai a socializzare?

Non hai lo sciacquone? Ma come fai a tenere pulito il water?

Non sei sposato e non hai figli? Ma non ti senti solo?

Ti fai la doccia due volte alla settimana? Ma non puzzi?

Vuoi andare a vivere in paese? Ma come puoi rinunciare alla città?

Vuoi smettere di lavorare? Ma non ti sentiresti inutile?

Non vuoi entrare nei negozi? E com'è che ti vesti?

Usi ancora gli sms e le mail? Non ti senti fuori?

Hai la stessa casa da venticinque anni? E non l'hai neppure ammodernata?

Continui a comprare e leggere molti libri di carta? E dove li metti?

Continui a voler fare le lezioni solo in presenza? Quante persone escludi così?

Il tuo blog ha solo 120 followers? Che senso ha scrivere per i tuoi amichetti?

Non fai sport, palestra, pilates? Non ti senti fuori forma?

Perchè ti tieni le rughe e la barba bianca? Vuoi sentirti vecchio?

Perchè non fai più politica? Non è troppo facile criticare e basta?

Perchè non aiuti i poveri? Ma non eri cattolico un tempo?

Non voti? Ti vuoi tenere l'estrema destra al governo?

Non ti piacciono le feste? Ma è possibile che non ti sia mai saputo divertire come gli altri?

Profetizzi catastrofi? Ma perché non la smetti e ti godi la vita?

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mercoledì 25 gennaio 2023

E quindi uscimmo a riveder le stelle (ci riusciremo?)

 

L’inquinamento luminoso è alle stelle - Valentina Guglielmo

Più di 50mila cittadini di Europa e Nord America hanno osservato il cielo a occhio nudo per 11 anni, vedendo sempre meno stelle. L’inquinamento luminoso sta letteralmente rubando le stelle e l’oscurità al cielo: a questo ritmo di cambiamento, un bambino nato in un luogo in cui dieci anni fa erano visibili 250 stelle sarà in grado di vederne solo 100 al compimento dei 18 anni

Non si vedono più le stelle. La maggior parte dei cieli che possiamo vedere dalla Terra non diventa mai scuro, e permane in una sorta di eterno crepuscolo. La colpa, ancora una volta, dell’uomo. E di una forma di inquinamento che deriva dalle tante, troppe, luci che utilizziamo nei centri abitati. Luci che, in molti casi, sono superflue, in altri sono utili ma vengono progettate male e risultano troppo diffuse o orientate in modo sbagliato. Luci che, addirittura, sconvolgono la fauna notturna e influiscono negativamente sui ritmi circadiani di flora, fauna, persone. E offuscano le stelle. E secondo uno studio pubblicato su Science, stiamo messi peggio di quanto pensavamo: nell’arco di circa 11 anni, dal 2011, la luminosità del cielo è aumentata del 7-10 per cento all’anno nella banda visibile, quella che possiamo apprezzare con i nostri occhi.

Per valutare la variazione dell’intensità luminosa del cielo dal 2011 al 2022, gli scienziati hanno analizzato le osservazioni di 51.351 citizen scientist che hanno preso parte al programma di scienza partecipata Globe at Night, gestito dal NoirLab. Il progetto raccoglie dati sulla visibilità stellare ogni anno dal 2006 e chiunque può inviare osservazioni attraverso l’omonima applicazione che funziona su desktop o smartphone. Dopo aver inserito la data, l’ora e la località di riferimento, ai partecipanti viene mostrata una serie di mappe stellari. I partecipanti registrano quale corrisponde meglio a ciò che possono vedere nel cielo senza telescopi o altri strumenti. In questo modo si ottiene una stima della cosiddetta magnitudine limite a occhio nudo, che misura quanto deve essere luminoso un oggetto per essere visto. Si tratta già di una stima della luminosità del cielo, perché quando il cielo si illumina, gli oggetti più deboli scompaiono dalla vista.

La maggior parte delle osservazioni utilizzate nello studio ha coperto i cieli di Europa e Nord America, con un buon campionamento sia temporale (le osservazioni venivano fatte ogni anno) sia spaziale (la distribuzione è abbastanza uniforme sui due continenti). Si tratta della prima valutazione nella variazione di luminosità del cielo su larga scala (cioè su scala continentale).

«In passato abbiamo già esaminato le tendenze dei dati satellitari globali, ma finora le pubblicazioni delle tendenze della luminosità del cielo riguardavano solo singoli siti o un numero ridotto di siti», spiega a Media Inaf Christopher Kyba, ricercatore all’istituto di Remote Sensing and Geoinformatics del Deutsches GeoForschungsZentrum a Potsdam, in Germania, e primo autore dell’articolo. «L’altra grande novità è che si basa interamente sulla visione umana, piuttosto che sulle osservazioni strumentali».

Una scelta che potrebbe suonare bizzarra, quella di basare la valutazione del cielo interamente sull’esperienza umana anziché su una strumentazione oggettiva, ma che se effettuata su larga scala si può rivelare molto potente. Gli scienziati, infatti, sono ben consapevoli che ci sia una variazione sostanziale e soggettiva nel numero di stelle che le persone possono vedere. In generale, i giovani possono vedere più stelle degli anziani e gli osservatori più esperti possono vederne di più rispetto a chi osserva le stelle per la prima volta. Queste differenze rendono poco sensato e affidabile osservare le tendenze in un singolo luogo e fare una misura precisa di come il cielo stia cambiando, ma se le testimonianze raccolte sono in numero sufficiente (decine di migliaia, in questo caso), statisticamente la variabilità tra gli osservatori si annulla.

Per rendersene conto, basta osservare il grafico accanto. Sebbene la differenza fra le singole osservazioni possa essere significativa, l’errore associato a tutte le osservazioni – dato il loro grande numero – si riduce e la differenza fra il 2011 e il 2021 risulta lampante. «La tendenza che si legge nella figura è molto più drammatica di quanto mi aspettassi», commenta Kyba. «L’aumento annuale della luce che abbiamo visto dal satellite era piuttosto piccolo in confronto».

La valutazione, dicevamo, riguarda soprattutto Europa e Nord America, e l’andamento che si è delineato potrebbe non essere valido per gli altri continenti. Il trend “globale” di cui parlano gli autori deve quindi essere inteso come relativo alle località del mondo in cui si effettuano osservazioni del globo notturno.

«Sarebbe fantastico se potessimo ottenere un maggior numero di osservazioni, non solo a livello mondiale, ma anche in Europa e negli Stati Uniti. Se avessimo un numero di osservazioni dieci volte superiore ogni anno, potremmo iniziare a esaminare le tendenze dei singoli Paesi. Sarebbe molto interessante, per verificare, ad esempio, se la legge nazionale di regolamentazione dell’inquinamento luminoso della Francia ha avuto un effetto».

Per quanto riguarda la differenza tra ciò che vediamo qui e ciò che vedono i satelliti, di cui si fa menzione sopra, gli autori spiegano che ci sono due possibilità che potrebbero spiegare i dati. La prima è che la luce che il satellite vede quando guarda in basso non proviene dalle stesse fonti di luce che le persone vedono quando guardano in alto. Per esempio, i satelliti hanno difficoltà a vedere i cartelli, perché brillano soprattutto lateralmente, non verso l’alto. Ma la luce laterale ha un peso molto importante e costituisce forse il contributo maggiore nella produzione del bagliore del cielo. L’altra possibilità è che la differenza di visione sia legata a una diversa finestra di sensibilità alle lunghezze d’onda dello spettro.

«L’unico satellite di osservazione globale attivo al momento non è in grado di rilevare la luce blu (sotto i 500 nm), quindi il passaggio dalle lampade arancioni al sodio ad alta pressione ai Led bianchi appare come un oscuramento nel set di dati satellitari», spiega Kyba. «Per quanto riguarda la luminosità del cielo però, la luce blu è la più problematica, perché il cielo è in grado di diffonderla molto bene. Inoltre, la luce blu ha un effetto più forte sulla visione umana di notte, e quindi il contributo di questa discrepanza risulta ancora più significativo se si valuta la brillanza del cielo a occhio nudo».

Per saperne di più:

§  Leggi su Science l’articolo Citizen scientists report global rapid reductions in the visibility of stars from 2011 to 2022“, di Christopher C. M. Kyba, Yigit Öner Altintas, Constance E. Walker, and Mark Newhouse

 da qui

 

 

Atlante del numero di stelle visibili a occhio nudo

Intervista di Luca Nardi a Fabio Falchi

Un nuovo studio condotto da due ricercatori italiani ha cercato di trovare un metodo per stimare quante stelle sono visibili nel cielo notturno da qualunque località del mondo tenendo conto anche dell’inquinamento luminoso. Ne parliamo con Fabio Falchi, uno dei due autori della ricerca

L’inquinamento luminoso è una fra le più gravi minacce all’amore per il cielo notturno che tutti, chi più chi meno, condividiamo. Se la risposta alla domanda “quante stelle ci sono nell’universo?” non è per nulla scontata, quella a “quante stelle possiamo vedere dalla Terra?” non è certo da meno. Nel calcolo del numero di stelle visibili da un qualunque luogo della Terra entrano infatti in gioco molti fattori, tra cui anche l’inquinamento luminoso.

Hanno provato a dare una risposta a questa domanda due ricercatori italiani, Pierantonio Cinzano e Fabio Falchi dell’Istituto di Scienza e Tecnologia dell’Inquinamento Luminoso di Thiene.

Innanzitutto, dottor Falchi, qual è l’obiettivo del vostro studio?

«Il nostro obiettivo è quello di tracciare la via su come calcolare il numero di stelle visibili da ogni località. Questo numero potrebbe sembrare semplice da ottenere, dopotutto basterebbe contare quante stelle ci sono più brillanti di quelle di sesta magnitudine (mediamente il limite per l’occhio umano) e il gioco parrebbe fatto».

Come mai è invece così complicato capire quante stelle si possono osservare da una località?

«Il problema è che la magnitudine non basta: il numero di stelle dipende anche da numerosi altri fattori, tra i quali la trasparenza atmosferica, la luminosità di fondo del cielo, sia naturale che artificiale, l’acutezza visiva e l’esperienza dell’osservatore. Se in cielo ci sono cinquemila stelle più brillanti della sesta magnitudine, non basta quindi dividere il numero per due per ottenere quante ne sono visibili in un emisfero. Ad esempio, se siamo sul livello del mare e allo zenit riusciamo a vedere una stella di sesta magnitudine, a venti gradi di altezza sull’orizzonte vedremo solo stelle di quinta magnitudine perché la luce avrà dovuto attraversare una distanza tripla nell’atmosfera terrestre. Se siamo in montagna la trasparenza atmosferica maggiore ci permetterà di vedere stelle più deboli. L’inquinamento luminoso dipende poi anche dalle caratteristiche del sito da cui osserviamo e varia in ogni posizione in cielo».

Come avete fatto, quindi, a tenere in considerazione tutti questi fattori?

«Abbiamo diviso la volta celeste in molte aree all’interno delle quali i fattori descritti possono essere considerati uniformi: principalmente la luminosità di fondo dovuta all’inquinamento e l’estinzione atmosferica, a loro volta dipendenti da molti fattori come l’altitudine del sito e la distribuzione delle sorgenti di luce nel raggio di circa 200 km. A quel punto possiamo calcolare la magnitudine limite, cioè quali sono le stelle più deboli visibili in ognuna di queste aree. Poi, in base alla densità delle stelle, cioè al numero di stelle di una data luminosità per area di cielo, possiamo ottenere il numero di stelle in ogni area di cielo. Infine sommando tutto si ottiene il numero totale visibile in ogni particolare sito».

Quelle che vediamo alzando gli occhi al cielo…

«Più precisamente, il numero di stelle che vedrebbe un osservatore medio. Per osservatori esperti e con vista acutissima il numero può anche triplicare. La mappa di esempio che abbiamo pubblicato (immagine a sinistra) mostra come, per ottenere il massimo numero di stelle visibili, sia necessario essere in siti incontaminati e, allo stesso tempo, a quote elevate. In Italia non abbiamo mai queste condizioni, tranne in un’area piccolissima della Sardegna e due altre, altrettanto piccole in Sud Tirolo, al confine con l’Austria. In tutta la Val Padana nove decimi delle stelle sono nascoste dal chiarore del fondo cielo dovuto a milioni di luci artificiali. Nelle grandi città, poi, rimangono visibili solo le stelle più luminose».

Il vostro studio si intitola “Verso un atlante del numero di stelle visibili”. Per quando è prevista la pubblicazione di questo atlante?

«Non ci siamo posti una scadenza definita. L’atlante del numero di stelle visibili potrebbe far parte del progetto della terza versione dell’atlante mondiale della brillanza del cielo, che comunque non vedrà la luce prima di tre anni. Speriamo che nel frattempo la nuova minaccia al cielo stellato dovuta alle megacostellazioni di satelliti non ci costringa a cambiare il titolo della nostra ricerca in “atlante del numero di satelliti visibili”… Confidiamo che la SpaceX e le altre compagnie con progetti simili riescano a contenere i danni scientifici e naturalistici che potrebbero arrecare al cielo notturno».


Per saperne di più:

§  Leggi su Journal of Quantitative Spectroscopy and Radiative Transfer l’articolo “Toward an atlas of the number of visible stars”, di P. Cinzano e F. Falchi

 

da qui