È difficile parlare del docufilm L'acqua,
l'insegna la sete di Valerio Jalongo (1) senza pensare a Le cose belle
di Ferrente e Piperno (2). l'idea base, le storie di alcuni ragazzi riprese in
un momento della loro vita e poi di nuovo anni dopo, è la stessa. Ma il luogo,
Roma al posto di Napoli, rende la distanza tra i due particolarmente
significativa. Sarebbe facile osservare che manca la napoletanità; Roma è
buzzurra e i marginali romani coatti. Sordi e Verdone al posto di Totò e
Troisi. Eppure i ragazzi sono gli stessi, anelano all'identico bisogno di
esserci. Un esserci che vorrebbe trovare un qualche interesse da parte di una
società che è invece pronta a giudicarli, a valutarli e classificarli e che, al
contempo, è del tutto indifferente (per non dire ostile) all'affermazione di
ciò che a loro necessita per rendere la propria vita, più o meno, riuscita.
Siamo qui, in una classe di una scuola professionale, l'Istituto Superiore
Statale Roberto Rossellini che prepara giovani tecnici e professionisti per la
TV e il cinema. Nel 2004 il professore Gianclaudio Lopez e il regista Jalongo,
suo collega, iniziano l'esperienza di un video-diario in una classe, la 1^E,
scelta in base al caso, un sorteggio. È già un inizio significativo che, lo si
voglia o no, non può non farci pensare a quanto il destino di questi ragazzi
dipenda dalla fortuna, dal rotolare di una pallina in una o altra direzione, molto
di più di quanto non lo sia normalmente per chiunque. C'entra sempre il caso,
ma in ultimo, come in Le cose belle è poi l'occhio del regista a
scegliere, a decidere. Qui no! Poteva essere la 1^A o C o... e i tre anni
successivi avrebbero avuto altri protagonisti, altre storie, altri epiloghi.
Quindici anni dopo si riprende il filo della storia, si va a vedere il
risultato del loro esperimento. Topolini bianchi, chi è sopravvissuto, come
stanno, cosa fanno? E “poi c'è il professor Lopez che anche in pensione
continua a pensare ai suoi ragazzi e vuole dare loro ancora un'altra
possibilità.” (3) ma occorre chiedersi: a loro o a se stesso? Perché è forse
questa la prima cosa da affrontare per capire cosa e chi interessa questo
documento di vita. È possibile aver cura degli altri se in cima a questo non si
mette la cura di sé stessi? Alcuni nella sua figura vi hanno letto un po' di
amarezza, ma a ben guardare c'è più divertimento e piacere, che certo non posso
essere disgiunti dal dolore e dalla fatica; mai. Ma è palese che al professor
Lopez giocare la vita con questi ragazzi rende la sua, quantomeno, più gioiosa.
Non c'è la triste figura del missionario che si dedica sacrificandosi. Del
resto i sei giovani protagonisti di cui si segue la vita successiva non hanno
un semplice ricordo, una memoria di un'esperienza un po' diversa dal normale
iter scolastico. Hanno avuto un vero e proprio incidente, hanno trovato in quel
prof. una pietra d'inciampo. Si è verificato un evento dalla portata
difficilmente calcolabile per la loro vita. Lo si evince dal loro modo di
raccontarsi nel presente di quindici anni dopo e nel rivivere quei lontani
momenti. Che abbiano o no proseguito la scuola (tre sì e tre no) quello che è
successo ha modificato il loro modo di vedere e stare al mondo. Non hanno
imparato, non hanno gareggiato per essere i migliori. Si sono guardati mentre
venivano filmati, hanno filmato a loro volta chi li filmava, ma nessuna gara si
è imposta tra loro. Una scuola che, indipendentemente dalla volontà e dal valore
degli insegnanti, si configura sempre più come fucina di nuove soggettività per
nuove forme di assoggettamento capillari e pervasive, da quella scuola, per
quell'evento, una classe non ha correttamente seguito i binari a lei
assegnategli. Il sottotitolo alla splendida poesia di Emily Dickinson (4) ci
parla di una “storia di classe”. Ed è proprio così, o almeno potrebbe essere
così, se l'aiutiamo a leggersi così. Storia di classe in gestazione, che si
racconta come evento, che fa nascere consapevolezza priva di nostalgia. Una
classe che non solo accetta ma rivendica il proprio fallimento come sfida a
tutto ciò che significa non fallire in una società come quella attuale. La vita
è un fallimento, il graffito sul muro prima della nuova imbiancatura ci avverte
che “moriremo tutti”. Ed è da qui, da questa consapevolezza condivisa che si
può e si deve ripartire. Perché se è vero, come scrive Yari nel suo compito in
classe “tutti nell'abisso incatenati come me” è vero che poi aggiunge un “e io
mi dispero” che è l'incipit di qualsivoglia rivolta possibile all'ordine
esistente. Un ordine mortifero che ha sostituito alla vecchia religione il cui
dio mandava il proprio figlio a sacrificarsi per la nostra salvezza, una nuova
che chiede a noi di sacrificarci per la sua di salvezza. È questo che si legge
nei volti e nelle parole dei ragazzi e nelle strade anomale e irrequiete che
hanno scelto, anche grazie a quell'incidente con quel vecchio prof. un po'
matto, un po' irrequieto, anche lui: un ragazzo!
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