Una volta, i ricchi erano colti. Sapevano parlare
almeno due lingue, citavano Seneca in latino e conoscevano la differenza tra
Platone e un piatto gourmet. Si vantavano dei libri letti, non dei follower.
Certo, erano sfruttatori anche allora, ma si vergognavano abbastanza da
finanziare biblioteche, musei, teatri. Oggi, invece, il nuovo status symbol è
l’ignoranza. Ma quella di lusso: con jet privato, villa a Dubai e citazioni
sbagliate da fonti mai verificate.
Nel 2025, i ricchi sono poveri di tutto ciò che non si
può comprare. Pensiero, cultura, empatia, ironia. È l’élite dell’ignoranza a
guidare il mondo. E non è un modo di dire: sta scritto nei bilanci, nei social,
nei talk show.
Un tempo, per salire al potere bisognava dimostrare di
essere almeno più svegli della media. Oggi basta avere una startup e saper
twittare. Elon Musk, per esempio, ha costruito un impero tecnologico e poi lo
ha distrutto a colpi di post paranoici e meme da gamer frustrato. Mentre
l’umanità si interroga su come governare l’intelligenza artificiale, lui posta
battute su Joe Biden e la marijuana.
Jeff Bezos ha fondato un impero che ha rivoluzionato
il commercio, ma appena ha avuto tempo libero è salito su un razzo a forma di
fallo per fare “ciao ciao” all’atmosfera, portandosi dietro cappellini da
cowboy e il nulla cosmico in valigia. La sua concezione di cultura è una serie
Amazon Prime con rating 4 stelle.
Mark Zuckerberg, dal canto suo, ha fatto crollare il
livello medio di attenzione mondiale da 8 a 3 secondi. Poi si è dedicato al
metaverso: un mondo finto in cui puoi essere chi vuoi, purché senza gambe. Dice
di voler “connettere il mondo”, ma nel frattempo ha disconnesso l’empatia, la
realtà e ogni residuo di buon senso.
Un tempo si fingeva cultura per sembrare all’altezza.
Ora si finge ignoranza per sembrare “pop”. È il nuovo populismo aristocratico:
Briatore che fa lo youtuber tra una bottiglia da 5.000 euro e un commento sul
“merito” dei poveri che non lavorano abbastanza. Un uomo che crede che il
lavoro nobiliti, ma solo se è quello degli altri.
Daniela Santanchè, ministra del Turismo e
imprenditrice con un talento per l’esibizione di sé, ha trasformato ogni
apparizione pubblica in una sfilata tra cliché, gaffe e rivendicazioni
autoreferenziali. Non si sa cosa pensi, ma lo dice con tono deciso, e basta. Il
suo concetto di cultura turistica è un aperitivo con vista e due bandiere
italiane ben stirate.
In questo contesto, essere ignoranti è diventato un
atto di potere. Non studiare, non approfondire, non sapere: tutto questo è
cool. Più si è superficiali, più si è virali. E la cultura? Una perdita di
tempo.
I ricchi di un tempo costruivano cattedrali. I ricchi
di oggi investono in NFT. I primi si circondavano di poeti e architetti. I
secondi di influencer e consulenti per l’ottimizzazione fiscale. Un tempo la
cultura era una forma di responsabilità dell’élite. Oggi è una spesa da
tagliare.
I musei si trasformano in eventi brandizzati, le
mostre d’arte si fanno nei mall. I concerti sono esperienze premium con area
vip, e perfino la beneficenza culturale deve avere un ritorno d’immagine.
Nessuno legge, ma tutti sponsorizzano festival letterari con la speranza che
nessuno faccia domande.
Nel 2023, la spesa delle famiglie italiane per libri
era in calo del 10% rispetto a cinque anni prima. Nello stesso anno, la spesa
per dispositivi smart home – gli assistenti vocali che leggono al posto tuo – è
cresciuta del 22%. Delegare il pensiero è più comodo che farlo.
La nuova povertà culturale non è solo una disgrazia: è
una strategia. Un’élite ignorante può parlare senza freni, senza filtri, senza
dubbi. Non ha bisogno di convincere: basta ripetere. Il modello di Berlusconi
prima e oggi di Trump, ha fatto scuola, e ora i ricchi di ogni paese vogliono
essere “uno di noi” mentre firmando decreti che ci faranno a pezzi.
Anche in Italia, l’ignoranza è diventata una forma di
rappresentanza. Il successo di figure come Briatore e Santanchè non dipende
dalla loro preparazione, ma dalla loro capacità di mostrarsi “liberi”,
“autentici”, “fuori dagli schemi”. Peccato che lo schema sia sempre lo stesso:
mostrare il nulla e venderlo come verità.
Quando chi comanda non ha cultura, chi subisce non ha
difese. Le politiche si fanno a colpi di slogan, le scuole si smantellano pezzo
per pezzo, e la cultura viene vista come una “spesa improduttiva”. Il sapere
diventa un lusso che i ricchi non vogliono e i poveri non possono permettersi.
Nel 2024, l’Italia ha speso lo 0,9% del PIL per la
cultura, contro il 2,5% della Francia. Ma il vero problema non è il bilancio: è
l’idea che la cultura serva solo per il tempo libero, mentre la realtà si
governa con Excel, algoritmi e cocktail nei rooftop.
La povertà vera, oggi, non è nei quartieri
dimenticati, ma nei piani alti dei grattacieli. Non è quella dei corpi, ma
quella delle menti. Non sapere nulla è diventato un segno di potere, un
privilegio per chi può permettersi di non capire.
Ma alla lunga, l’ignoranza di chi comanda ricade su chi obbedisce.
E forse, a questo punto, l’unica vera rivoluzione
possibile non è quella dei poveri, ma quella dei curiosi. Perché l’unico
capitale che non si tassa, non si ruba e non si brucia è la voglia di capire. E
da questo, i ricchi di oggi, sembrano davvero i più poveri di tutti.
https://diogenenotizie.com/lignoranza-dei-ricchi-e-la-vera-emergenza-culturale/
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