domenica 23 marzo 2025

La storia siamo noi? Il ministro e la ”centralità culturale” dell’Occidente - Marco Aime,Stefano Allovio e Adriano Favole

 

«Solo l’Occidente conosce la Storia […]. Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia». Inizia così il paragrafo dedicato alla Storia delle “Nuove Indicazioni 2025. Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione. Materiali per il dibattito pubblico”, formulate da una Commissione nominata dal Ministero dell’istruzione e del merito, con affermazioni perentorie, che non poggiano su nessuna base scientifica. Sostenere che solo l’Occidente conosce la Storia significa negare che grandi civiltà come quella indiana, cinese, persiana, ma anche società più piccole numericamente abbiano avuto coscienza del loro passato, affermazione che, dal punto di vista della ricerca antropologica, è assolutamente inaccettabile. Ogni società conosciuta riflette sul proprio passato; ogni società, compresa la nostra, seleziona aspetti del passato considerandoli più o meno importanti e ne mette in ombra altri, ogni società interpreta la storia. Intere discipline come l’antropologia storica e l’etnostoria hanno lavorato e lavorano oggi sulle dimensioni storiche delle società umane.

Nel testo si legge che grazie al Cristianesimo «si affermò così l’idea di una storia dal tempo lineare, fatta interamente dagli uomini», in opposizione a un’idea «[nell’antichità largamente dominante] circa una presunta ciclicità della storia». Anche qui emerge un inaccettabile eurocentrismo, un evidente errore scientifico: non è assolutamente vero che l’idea del tempo lineare sia un’esclusiva occidentale e cristiana. Sebbene con sistemi di calcolo diversi, popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’Oceania e delle Americhe hanno conosciuto e utilizzato calendari “lineari”. Allo stesso modo, le società europee e occidentali e, in generale, anche la società globalizzata conosce e pratica forme di tempo ciclico: non dividiamo forse il giorno in ore, i mesi in settimane, gli anni in stagioni? Se un antropologo venuto da Marte ci osservasse da vicino, non vedrebbe forse il ritorno ciclico di Natale, Pasqua e Ferragosto? Il pensiero cristiano, per altro, non prefigura una linea del tempo infinita e continua, ma un’epifania finale in cui il ciclo della vita è destinato a esaurirsi con la redenzione ultima.

Si ripete più volte nel documento che la storia, per la sua “centralità culturale” o perché intesa come “conoscenza e giudizio sul passato” nasce in Occidente e solo dopo viene recepita dagli altri: «In particolare, anche grazie alla storia e alla politica, i popoli – dapprima quelli dell’Occidente poi quelli del mondo intero – hanno potuto prendere coscienza di sé, abituarsi a considerare la propria esistenza collegata a quella di milioni di propri simili, sono divenuti consapevoli di ciò che li univa». Come a dire che nel resto del mondo dominava una sorta di disordine anarchico, fatto da individui inconsapevoli di appartenere a un qualche gruppo! Eppure gli annali dell’antropologia sono pieni di monografie su società, che si autodefinivano con etnonimi ben precisi, che pensavano la loro storia in rapporto ai vicini e alle popolazioni più remote, anche se non necessariamente avevano dato vita a Stati e Nazioni.

Sempre in riferimento alla Storia il documento recita che: «è attraverso questa disposizione d’animo e gli strumenti d’indagine da essa prodotti che la cultura occidentale è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo». Come dobbiamo intendere questo passaggio? Come una esaltazione del “dominio intellettuale” su un mondo non occidentale inferiore, incapace, meno consapevole di sé e della propria Storia? Vogliamo ritornare a una visione di un mondo diviso tra un mondo occidentale civilizzato e società selvagge? In più di cento anni di storia, l’antropologia culturale ha documentato come le società umane siano, fin dalla preistoria, frutti di scambi, traffici, relazioni conflittuali e pacifiche, come le appartenenze nascano da un effetto “specchio” per cui noi ci definiamo sempre in rapporto agli altri. L’Occidente, termine ben difficile da circoscrivere, si è modellato come ogni società a partire da catene infinite di relazioni e scambi come mostrano intere biblioteche di antropologia.

Può un Ministero definire le linee guida per la formazione scolastica senza considerazione alcuna per le scienze accademiche e la verità scientifica? Che senso ha il nostro insegnamento antropologico nelle Università, il nostro quotidiano tentativo di smontare pregiudizi ed etnocentrismi, la lotta contro i razzismi e le teorie della supremazia intellettuale di una cultura sulle altre, se il Ministero dell’Istruzione, cuore della trasmissione culturale, esprime ideologie predefinite invece di acquisizioni scientifiche?

In un’epoca in cui (finalmente) si sta sviluppando e diffondendo quella che viene chiamata “global history”, in queste pagine si propone invece un preoccupante ritorno a nazionalismi ed etnocentrismi. Affermazioni come quelle contenute nel documento costituiscono dunque a nostro parere, un pericoloso segnale: non soltanto una disinvolta volontà di piegare il pensiero scientifico a uno schema ideologico precostituito, ma una chiusura a tutto ciò che si ispira al dialogo inter-culturale e al pensiero critico.

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