Questa settimana sul sito di Al Jazeera è uscito un articolo curioso che si chiede perché i confini dei paesi africani sono così strani, a volte dritti e squadrati, altre molto frastagliati e irregolari. E soprattutto: perché il Gambia è così sottile e perché ci sono tre paesi chiamati Guinea e due Congo? Come risaputo, le frontiere africane furono in gran parte disegnate a tavolino in una conferenza a Berlino di 140 anni fa, in cui le grandi potenze europee decisero come spartirsi l’Africa, un territorio ricco di risorse utili – ieri come oggi – ad alimentare il loro sviluppo industriale.
È impressionante il confronto tra la mappa
dell’Africa nel 1880, quando appena il 10 per cento del territorio era sotto il
controllo europeo e dell’impero Ottomano, principalmente lungo le coste, e la
mappa del 1914, quando il 90 per cento dell’Africa era dominato da pochi stati
europei. Molti di questi governi agivano con la pretesa di “sviluppare e
civilizzare” – come fu scritto nel documento che fu firmato il 26 febbraio
1885, alla fine della conferenza – quello stesso continente che fino a
cent’anni avevano sfruttato riducendone gli abitanti in schiavitù.
A quell’epoca il Regno Unito, la Francia,
la Germania, il Portogallo e re Leopoldo II del Belgio, tra gli altri, avevano
cominciato a spedire degli esploratori e degli inviati per assicurarsi il
controllo di rotte commerciali e per stringere accordi con i leader locali,
comprando da loro o semplicemente rivendicando ampie porzioni di territorio.
Quando queste rivendicazioni si sovrapponevano, si correva il rischio che
scoppiasse una guerra. Proprio per questo fu convocata la conferenza di Berlino
nel novembre 1884, per negoziare i termini del processo di colonizzazione.
Ovviamente, nessun paese africano fu invitato o consultato.
Parteciparono i diplomatici di quattordici
paesi, tra cui l’Italia, l’impero Ottomano e gli Stati Uniti. Questi ultimi non
firmarono il trattato finale visto che, come spiega Al Jazeera, “ la politica
interna a quell’epoca stava prendendo una piega antimperialista”. Oltre a
disegnare i confini rimasti invariati ancora oggi, il documento
“internazionalizzò il libero commercio nei bacini dei fiumi Congo e Niger”, obbligando
i firmatari a “proteggere le tribù native e il loro benessere morale e
materiale” (un obbligo da cui pochi si sentirono vincolati, considerate le
atrocità che furono commesse ovunque, dal Congo alla Namibia alla Libia).
L’accordo stabiliva inoltre che piantare
una bandiera non era sufficiente ad acquisire nuove terre e che “un’occupazione
effettiva” comportava anche l’istituzione di un’amministrazione coloniale nelle
regioni interessate.
Secondo alcuni storici, la conferenza non segnò esattamente l’inizio della
colonizzazione dell’Africa, ma fece semplicemente da catalizzatrice di un
processo già in corso, che ha portato tanti mali al continente e che gli
africani continuano ancora oggi a pagare.
In ogni caso l’immagine di un gruppo di
uomini bianchi che decide a tavolino del destino di milioni di persone e delle
ricchezze di un continente enorme è altamente simbolica e ancora oggi dovrebbe
metterci in guardia dai tentativi, più o meno consapevoli, di ripetere questo
approccio.
Tornando alla questione dei confini, gli
stati africani decisero di non cambiarli quando nel 1963, in piena
decolonizzazione, fondarono l’Organizzazione dell’unità africana, oggi Unione
africana. Ma poi, a modificare la geografia politica africana, ci hanno pensato
la storia, e le tante guerre continentali.
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