venerdì 30 settembre 2022

La transumanza della polvere bianca - Cecilia Anesi, Raffaele Angius

 

È il primo mattino del 13 febbraio 2019 e la nebbia intorno a Borore – paese di duemila anime nella sub-regione del Marghine, in provincia di Nuoro – non si è ancora diradata. Nonostante il freddo, nelle campagne di “Sa Canna Urpina”, a pochi minuti dal centro abitato, due auto imboccano la strada che porta a un ovile. Sul primo veicolo ci sono due uomini, sul secondo un uomo e una ragazzina.

Nell’ovile – una casetta di mattoni e lamiere – le cimici del Raggruppamento operativo speciale (Ros) dei carabinieri sono in ascolto. Nei nuovi arrivati, gli inquirenti riconoscono un accento «quasi sicuramente calabrese», ma dopo pochi minuti l’ospite sardo invita gli altri a uscire per «vedere dei vitelli». Forse sospetta la presenza di microspie nell’ovile.

È Francesco Porcu, allevatore di 64 anni con una lista di precedenti degna di nota: sequestro di persona a scopo di estorsione e rapina, cessione di stupefacenti, furto e detenzione illegale di armi.

Caratterizzata da un’antica vocazione agropastorale, l’area del Marghine è celebre per i nuraghi, il Museo del pane rituale e gli importanti rinvenimenti archeologici. È in questa zona, ad esempio, che sono state rilevate le tracce del vino più antico del mondo. Ma un altro primato la segna: l’aver dato i natali ad alcuni dei più sanguinari banditi dell’Anonima sequestri. Mai veramente curate le radici, cause e concause di questo fenomeno, la Sardegna centro-occidentale rimane strategica per condurre affari criminali.

Nelle campagne di “Sa canna urpina” la nebbia fatica a diradarsi.

La rete di ovili

È passato un anno esatto da quando, a febbraio del 2018, il Ros ha ricevuto un’informativa dai colleghi di Nuoro. Riguarda Porcu, ritenuto «il vero capo dello smercio di droga nella Sardegna centrale» e il cui ovile è individuato come «il principale sito (di smistamento, ndr) dello stupefacente importato».

La segnalazione non cade inascoltata. Alla guida del team ci sono inquirenti di livello. Vengono da pregresse esperienze nella Penisola, dove hanno conosciuto da vicino organizzazioni di narcotrafficanti e sodalizi di stampo mafioso. Così nasce l’operazione Marghine – terza indagine antimafia a vent’anni di distanza da San Gavino – il cui impianto accusatorio dimostra l’esistenza di una stabile organizzazione finalizzata al narcotraffico nata dall’incontro tra la ‘ndrangheta, come fornitore, e i gruppi di criminali sardi, come acquirenti.

Porcu è una figura centrale tra questi due mondi. Esperto narcotrafficante, tutela se stesso e gli interessi del gruppo con una cautela al limite della paranoia. «È talmente abituato a traffici di stupefacenti e sospettoso di indagini nei suoi confronti», scrive il Gip di Cagliari Giuseppe Pintori nella misura cautelare, che nell’ovile tiene un rilevatore per microspie e un jammer, un dispositivo elettronico in grado di interferire con eventuali cimici nei paraggi. Non solo, secondo gli inquirenti «i discorsi compromettenti sulle trattative di acquisto di stupefacenti sono stati sempre effettuati all’aperto, lontani dalle macchine e senza telefoni».

Ma per il giudice non ci sono dubbi: l’oggetto dei colloqui riservati è certamente un’attività di narcotraffico, «tanto è vero che Porcu e i calabresi non si sono nemmeno avvicinati al luogo dove c’era il bestiame».

Aggiornato l’incontro, il padrone di casa annuncia di aver organizzato un pranzo per il giorno dopo, al quale sono invitati anche i narcotrafficanti. I carabinieri tornano a nascondersi tra le campagne di Borore. Hanno trovato una posizione strategica da cui vedono il cancello d’ingresso dell’ovile: arrivano varie auto, molte delle quali già segnalate in quanto usate da noti trafficanti di droga strettamente legati a Porcu per parentela o per amicizia. Riconoscono una delle auto che aveva fatto visita all’ovile il giorno prima e, grazie al numero di targa, risalgono al recente imbarco da Civitavecchia e ai nomi dei viaggiatori. Sono Antonio Strangio, classe ‘58, e suo nipote Sebastiano Ficara, classe ‘85, entrambi con precedenti per narcotraffico ed entrambi di San Luca, centro nevralgico della ‘ndrangheta nella Locride.

Nessuno dei due è un narcotrafficante internazionale, almeno non al livello di broker del calibro di Ciccio Riitano, che hanno rifornito la Sardegna di cocaina come già raccontato da IrpiMedia e Indip. Sono personaggi di seconda schiera, eppure la loro presenza è «un segnale che indica come la Sardegna abbia a che fare con una struttura criminale e un’infiltrazione di livello, ma di cui si vede ancora solo il primo strato», spiegano fonti investigative. L’operazione Marghine non ha scoperto una vera e propria attività sistemica tra ‘ndrine di San Luca e narcos sardi, ma rivela una comunione d’intenti che – se non analizzata, compresa e interrotta – potrebbe diventare una solida base per uno “sbarco” molto più stabile per la ‘ndrangheta in Sardegna.

Quello a casa di Porcu è un pranzo d’affari. A tavola i calabresi declamano i propri precedenti penali come se cercassero di fare colpo sugli altri commensali. Raccontano anche di un altro pasto avvenuto sempre per discutere di droga: la sera prima erano a cena da «una persona seria (come capacità criminale, ndr)», un certo «Costantino».

Si tratta di Costantino Dore, allevatore barbaricino con un ovile ad Arborea, il quale vanta «un variegato curriculum criminale», scrive il Gip, e precedenti per rapina e reati in materia di armi.

Ma ai due incontri – scoprono gli inquirenti – se ne aggiunge un terzo, dalle parti di Decimoputzu, a nord ovest di Cagliari e un’ora di macchina da Arborea. Avviene nell’azienda agricola della famiglia di Raffaele Nonne, 44 anni, all’epoca semilibero dopo una condanna per rapina a mano armata. Nel 2007, con un commando, aveva assaltato l’ufficio postale di Pula, generando una sparatoria nella quale hanno perso la vita due persone.

Stando alla ricostruzione degli inquirenti, l’ovile di Nonne diventa una delle tappe del tour dei sanlucoti in Sardegna. Da una parte i due acquirenti sardi, Dore e Nonne appunto, dall’altra l’intermediazione di Porcu che tira le fila della distribuzione di droga in Sardegna, nelle zone del Marghine e della Planargia.

Un ultimo contatto fondamentale è quello che lega Strangio a Porcu. Si tratta di Silvano Murgia, originario di Uras, un piccolo centro abitato in provincia di Oristano a poca distanza dalla statale 131, l’arteria che collega il sud al nord dell’isola. L’intera rete di acquirenti e nascondigli ha appunto una caratteristica peculiare: sono tutti facilmente raggiungibili in meno di un’ora di macchina l’uno dall’altro.

Santa Barbara, le origini del patto

Va così, ormai da anni, il traffico di droga che coinvolge l’isola. «Un fenomeno criminale in netta espansione nell’ultimo decennio nella Sardegna centrale dove il narcotraffico ha sostituito o affiancato altri gravissimi delitti contro la persona ed il patrimonio, quali il sequestro di persona e le rapine a mano armata», scrive il Gip nella misura cautelare dell’operazione Marghine, che garantiscono grandi guadagni «ma che richiedono una notevole organizzazione, disponibilità di armi e comportano un serio rischio». Il traffico di droga permette invece profitti ancora più grandi con meno rischi.

Ed è per questo che negli ultimi vent’anni si sono creati gruppi di narcos che importano regolarmente droghe grazie al contatto con camorra e ‘ndrangheta. D’altronde gli affari sono promettenti e l’isola figura costantemente tra le regioni italiane con il maggiore consumo di cocaina al fianco di Umbria e Lazio e, nel 2003, superando perfino la Lombardia.

Questi gruppi sono facilitati dalla geografia in cui operano: campagne remote (nel Marghine e Planargia in particolare) e zone montuose e impervie (in Barbagia), che hanno però facile accesso alle due arterie (le strade statali 131 e 129) che attraversano tutta l’isola.

A quando risalga l’inizio della specifica alleanza tra i sanlucoti e i “pastori” di Marghine e Barbagia non è dato sapere, ma per Antonio Strangio è sicuramente significativo l’anno 1976, quando il calabrese è ancora adolescente e sua sorella Antonia (sic) aspetta una figlia dall’allora trentunenne Silvano Murgia, di Uras, come appreso da IrpiMedia e Indip. I dettagli di questa amicizia si perdono nel tempo, ma non i suoi effetti.

Murgia viaggia spesso tra la Sardegna e la “la terza isola”, come viene spesso chiamata la Calabria. A metterlo nero su bianco è l’indagine Santa Barbara, condotta dal Ros di Cagliari, che nasce per investigare un traffico di droga in ingresso in Sardegna che individua proprio in Murgia il canale di collegamento tra i calabresi, nel ruolo di fornitori, e un’organizzazione stabile per l’importazione di cocaina ed eroina in Sardegna, da lui capitanata insieme a due soci: Efisio Sanna e Francesco Mulargia. Santa Barbara – l’indagine prende il nome dal ristorante il cui si incontravano i trafficanti – porterà all’arresto di tutti e tre e parte proprio da quest’ultimo.

Mulargia è un ex-poliziotto originario di Serrenti, paese di cinquemila abitanti a circa mezz’ora da Cagliari, con precedenti legati alla droga. La sua rete, coltivata per anni insieme all’amico Efisio Sanna, non si limita al solo Cagliaritano, ma arriva a coprire l’intera isola, dal centro Sardegna, fino a località turistiche come Villasimius. Lo dimostrano conversazioni e spostamenti.

Mulargia e Murgia si conoscono nel 1992 in carcere, ma per anni si perdono di vista. Un fortuito incontro a casa di un fornitore di droga permette di riallacciare i rapporti: Mulargia e Sanna non sono soddisfatti della qualità della droga appena acquistata e Murgia propone loro di entrare in affari, garantendo di poterne procurare di migliore e senza passare da intermediari. L’associazione dei tre dà origine a un traffico arrivato a garantire forniture stabili e continuative di uno o due chili di cocaina al mese, provenienti direttamente dall’Aspromonte.

Lo schema è semplice quanto proficuo: Murgia assicura carichi costanti dalla Calabria, dove il suo interlocutore diretto è il giovane cognato Antonio Strangio. Le forniture vengono portate sull’isola, tagliate a casa di alcuni custodi di fiducia usando dei frullatori e, successivamente, vendute al dettaglio per soddisfare l’ampia rete di consumatori. Da un lato la cocaina, prevalentemente destinata all’associazione con Mulargia e Sanna, dall’altra l’eroina, che Murgia continua a distribuire autonomamente.

Per Murgia diversificare è reso più semplice dal fatto che è lui a tenere contatti stabili con Strangio, in forza dei suoi rapporti familiari. Ma che l’origine della merce fosse tra le cosche di San Luca era chiaro anche ai soci. Ne parlano spesso Sanna e Mulargia, senza sapere di essere intercettati, anche lamentando in più di un’occasione problemi nel rapporto con Strangio.

I due sono convinti che la cocaina a loro riservata sia di qualità inferiore e di prezzo più alto, rispetto a quella di altri concorrenti sulla piazza sarda. Ma il legame tra Murgia e suo cognato rende evidentemente obbligatorio interfacciarsi con la Locride, dove in un’occasione si reca lo stesso Sanna, per valutare prima della spedizione la qualità della merce.

È l’ottobre del 2003 quando, dall’altro lato del Mediterraneo, Mulargia e Sanna attendono notizie dal socio in missione. I due gli hanno affidato ventimila euro per pagare l’acquisto della fornitura e i compratori che si riforniscono da loro fanno pressione per avere il prodotto.

Tuttavia, quando tentano di contattare telefonicamente Murgia, non ottengono alcuna risposta. I due iniziano a innervosirsi e a lamentarsi dell’organizzazione di Strangio, dei ritardi e della qualità della droga. Quello che non sanno è che Murgia è stato arrestato non appena ha messo piede nuovamente in Sardegna con una parte della fornitura di cocaina ed eroina.

Ignari del fatto, Mulargia e Sanna continuano a parlare di come distribuire la merce non appena sarà arrivata, eventualmente comprando da altri fornitori per coprire il ritardo ingiustificato del loro socio e in ogni caso certi che la prima cosa da fare sia, non appena possibile, «incontrare il proprietario del ristorante», Silvano Murgia. Pochi giorni dopo anche Sanna e Mulargia vengono arrestati, decidendo a quel punto di collaborare e di fornire le preziose informazioni che hanno reso possibile la ricostruzione del traffico di cui facevano parte...

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Non salveremo il clima senza l’intervento degli Stati - Andrea Barolini

 

Consiglio per chi vincerà le elezioni. Di qualunque schieramento voi siate, quali che siano le vostre idee in economia e quale che sia la vostra storia politica, sappiate che non solo nel mondo accademico, ma anche nelle grandi organizzazioni internazionali notoriamente non invise ai mercati, la questione della necessità di un intervento pubblico è ormai sdoganata.

La storia recente e il ruolo dello Stato

Ce l’ha insegnato la crisi del 2008. Perché senza azioni immediate da parte dei governi il crollo della finanza avrebbe trascinato con sé le economie del mondo intero (e in parte lo ha comunque fatto). Ce l’ha ribadito la pandemia. Perché senza interventi immediati di sostegno a cittadini e imprese non ne saremmo mai usciti (e in parte ancora stiamo cercando di farlo). E infine lo conferma oggi la crisi energetica, con gli esecutivi di tutta Europa che si apprestano a massimi piani di aiuti.

Ma ancor di più ce lo dimostra la crisi climatica. Perché senza un massiccio, profondo e determinante intervento pubblico non sarà possibile stimolare i finanziamenti privati necessari per la transizione ecologica. A partire da quelli di banche e fondi d’investimento (ovvero di quel mondo nel quale ancora circolano immensi capitali).

Elezioni, crisi di vario genere, ruolo dello Stato, economia, cambiamenti climatici. Per unire i fili di tutti gli aspetti evocati è utile un’analisi pubblicata il 19 agosto dal Fondo monetario internazionale. Firmata dalla direttrice generale Kristalina Georgieva e dal direttore del dipartimento dei Mercati monetari Tobias Adrian. Secondo i quali «il settore pubblico deve rivestire un ruolo centrale nello stimolare i finanziamenti privati per la transizione».

«I cambiamenti climatici – hanno spiegato i due dirigenti – rappresentano una delle principali sfide in materia di politica macroeconomica e finanziaria che occorrerà affrontare nei prossimi decenni. Le recenti impennate dei prezzi dei combustibili e dei prodotti alimentari, con i rischi sociali ad esse connessi, evidenziano quando sia importante investire nelle energie verdi. E rafforzare la resilienza di fronte agli shock».

Secondo le stime dello stesso FMI, saranno necessari di qui al 2050 fino a 6mila miliardi di dollari, per attuare i cambiamenti di cui il mondo ha bisogno per scongiurare il peggio. Ad oggi ne sono stati stanziati 630, e solo una piccola parte è stata destinata ai Paesi in via di sviluppo. Che sono i meno responsabili della crisi climatica, pur patendone spesso le peggiori conseguenze.

Per salvare il clima dobbiamo mobilitare 6mila miliardi di dollari

«Abbiamo bisogno di una svolta per ottenere maggiori finanziamenti pubblici e ancor più privati. Con 210mila miliardi di dollari di asset finanziari nelle mani delle imprese, ovvero due volte il Prodotto interno lordo del Pianeta, la grande sfida dei responsabili politici e degli investitori sta nell’allocare la gran parte di questi fondi a progetti di mitigazione e di adattamento ai cambiamenti climatici».

Per riuscirci, Georgieva e Adrian sottolineano la necessità non solo di un rinnovato impegno dei governi, ma anche delle banche multilaterali per lo sviluppo e delle partnership tra pubblico e privato. Gli Stati, in particolare, secondo i due dirigenti «possono mostrare l’esempio, stabilendo regole per agevolare le decisioni dei privati, valutare i rischi ed evitare il greenwashing». L’esempio, chiede il FMI. Esattamente il contrario di quanto fatto finora dai governi di 51 Paesi ricchi, che hanno concesso al settore delle fonti fossili 700 miliardi di dollari nel 2021, raddoppiando la cifra rispetto all’anno precedente.

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mercoledì 28 settembre 2022

L’Italia va a fuoco o sott’acqua: non è il destino cinico e baro - Loris Campetti

  

L’Italia va a fuoco, o va sott’acqua. È il destino cinico e baro, una tragedia imprevedibile, irrefrenabile nella sua furia. Forse qualcuno che ci odia ha lanciato una fatwa contro di noi che ci siamo limitati ad azzerare le risorse destinate a mettere in sicurezza fiumi e boschi e montagne. Il presidente della Regione Marche Acquaroli deve aver pensato che i pochissimi milioni destinati a dragare il fiume Misa e le sue sponde potessero essere meglio utilizzati per salvare vite, quelle dei feti, i bambini mai nati. Certo, c’è un prezzo da pagare ed è la vita dei bambini, delle donne e degli uomini già nati e uccisi dalla forza della natura e dalla cinica violenza della politica. Politica fascista, che ha doppiato sciatteria e incapacità di pensare al futuro della politica di centrosinistra. Così il Misa ha sfondato gli argini negli stessi punti di otto anni fa. Ha ragione Carlin Petrini, costretto a prendere atto della sordità e della cecità della politica rispetto alla necessità di risanare e tutelare l’ambiente, la natura e gli uomini, donne e bambini già nati: «Una cosa voglio chiedere ai politici, di avere almeno il pudore di non indignarsi. Perché la loro indignazione fa male alle vittime e all’Italia che viene violentata».

Le Marche, ancora una volta vittime, come nelle alluvioni precedenti, come nel terremoto e nella gestione indecente della ricostruzione subappaltata a finte cooperative che per rispettare i tempi facevano lavorare i dipendenti come bestie, arrivando a nascondere infortuni e persone già nate e presto morte sul lavoro.

Prima delle inondazioni c’è la siccità e, con la siccità, gli incendi, il fuoco che non è certo purificatore visto che distrugge la vita di piante ed esseri umani. Allora noi che facciamo, invece di prevenire e difenderci investendo sui mezzi necessari a sconfiggere le fiamme? Non ci dotiamo di più Canadair, no: compriamo i caccia multiruolo da combattimento detti F35, 21 già acquistati dentro un contratto che ne prevede 90 (novanta). Un F35, equipaggiamento di base, costa 99 milioni di euro, 106,7 quelli più attrezzati per svolgere meglio lo sporco lavoro della guerra. Sapete quanto costa un Canadair, l’aereo che si riempie la pancia di acqua per poterla scaricare sugli incendi? 25 milioni di euro, sempre nel modello base. Con la spesa per un F35 ci si potrebbe dotare di quattro Canadair. Ma che volete, bisognerà pure ammodernare la flotta dell’aeronautica, ed ecco 14 miliardi (miliardi) messi in preventivo per raggiungere lo scopo. Ma è tutto l’apparato militare che va ammodernato, tantopiù dopo la consegna di materiale bellico all’Ucraina che ha alleggerito i nostri arsenali (oltre che i nostri granai, come direbbe il compianto presidente Pertini) con una spesa che salirà al 2% del prodotto interno lordo. Capirete dunque che non si possono spendere soldi per dragare fiumi, rafforzare argini, liberare dal cemento che ha persino spinto a interrare i fiumi nelle zone più fragili, rimboscare, riparare gli acquedotti colabrodo e via risanando. Abbiamo altre priorità e attenzioni, cosicché persino i 18 miliardi a disposizione dell’Italia per la messa in sicurezza del territorio entro il 2030 restano in attesa sotto un materasso di inettitudini, con decisori ciechi e sordi come dice Petrini.

Le nuove generazioni sono più sensibili ai temi ambientali; è normale, hanno più futuro davanti a sé, almeno in teoria, disastri naturali e innaturali come calamità e guerre permettendo. Li sfottono chiamandoli “gretini” perché vanno dietro all’attivista Greta Thunberg. Si prevede che più del 50% dei giovani dai 18 ai 24 anni non andrà a votare. Altro che qualunquisti, altro che gretini: non credono a questa politica cieca e sorda. Fanno bene a disertare le urne, con i fascisti in corridoio, e nelle Marche già in camera da letto? Credo di no, ma li capisco. Capisco che, se dopo l’ennesimo disastro di Senigallia il presidente della Regione Marche Acquaroli viene nominato commissario per l’emergenza dal capo della protezione civile Curcio, la poca fiducia rimasta va a farsi benedire. Il lupo messo a guardia del gregge, è un po’ troppo anche per gli stomaci forti. Se tutti, almeno chi ha antiche reminiscenze di sinistra, ci sforzassimo di capire le loro ragioni, di aprire gli occhi e le orecchie, forse riusciremmo a far fare un passo avanti alla politica. Ammesso di essere ancora in tempo.

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Calo della popolazione in 9 comuni rurali su 10, i piccoli borghi rimangono senza futuro

 


“Nelle campagne è previsto un calo della popolazione in quasi 9 Comuni rurali su 10 (86%) con il rischio abbandono che mette in pericolo il futuro dei piccoli borghi e Comuni rurali diffusi lungo tutto il Paese, i quali rappresentano un patrimonio storico e culturale unico”.

È quanto emerge dall’analisi della Coldiretti sulle previsioni di un forte calo demografico della popolazione residente e delle famiglie elaborata dall’Istat. “Si stima che – sottolinea l’associazione – appena il 16% della popolazione nazionale vivrà tra dieci anni nelle campagne dove si prevede la presenza di solo 9,5 milioni di abitanti nel 2021, mezzo milione in meno a rispetto al 2021”.

“Il calo generale della popolazione che riguarda secondo l’Istat l’intero territorio – spiega Coldiretti – è infatti più pesante nelle aree rurali che già scontano una presenza ridotta”. “Un fenomeno – viene spiegato – che rischia di avere un impatto pesante non solo del punto di vista ambientale ma anche economico se si considera che nell’estate 2022 il 70% degli italiani in vacanza ha visitato i piccoli borghi”, secondo l’analisi Coldiretti/Ixè, che “rappresentano un elemento di attrazione turistica che identifica il Belpaese all’estero, di cui l’agroalimentare Made in Italy è senza dubbio il fiore all’occhiello”.

Secondo l’associazione, “lo spopolamento dei Comuni rurali acuisce anche la situazione di solitudine delle aziende agricole, aumentando la tendenza allo smantellamento non solo dei servizi ma anche dei presidi e delle forze di sicurezza presenti sul territorio”.

Le stime dell’Istat ci dicono in generale che l’Italia scenderà da 59,2 milioni al 1 gennaio 2021 a 57,9 milioni nel 2030, e poi la flessione aumenterà a 54,2 milioni nel 2050 fino a 47,7 milioni nel 2070.

Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa 3 a 2 nel 2021 a circa 1 a 1 nel 2050. Entro dieci anni in 4 Comuni su 5 è atteso un calo di popolazione, e, come detto, il rapporto aumenta a 9 su 10 nel caso delle zone rurali. Diminuiranno anche le coppie con figli, che entro il 2041 rappresenteranno appena una famiglia su quattro.

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martedì 27 settembre 2022

Il colonialismo climatico - Silvia Ribeiro

 

La ricetta è vecchia ed è già fallita, ma i grandi inquinatori non si stancano di usarla. Invece di ridurre le emissioni di gas che causano il caos climatico, pagano alcune comunità o ejidatarios [comunità agricole nate con la rivoluzione zapatista del 1910 alle quali lo Stato assegnava delle terre in usufrutto, ndtperché continuino a curare i loro boschi, oppure pagano altri soggetti perché piantino monoculture di soia, palma da olio e altre colture. Colture che presumibilmente assorbono anidride carbonica e che “compenserebbero” il fatto che le aziende continuino a inquinare.

Un reportage di Max de Haldevang di Bloomberg ha rivelato che la compagnia petrolifera BP – con l’intermediazione dell’ONG Pronatura Mexico e del World Resources Institute, con sede negli Stati Uniti – ha pagato somme miserande agli agricoltori di 59 comunità nello stato di Veracruz perché partecipassero a un programma di “miglioramento” delle loro foreste. BP ha così ottenuto 1,5 milioni di crediti di carbonio su 200.000 ettari, che può vendere, a un valore quattro volte superiore o più, di quello pagato alle comunità. Non c’è da stupirsi, come titola il rapporto di Bloomberg, che queste operazioni e i relativi mercati del carbonio siano “la soluzione preferita di Wall Street al cambiamento climatico“.

Inoltre, nel giugno 2022, il Ministero dell’Ambiente (Semarnat) si è riunito con diverse istituzioni intermediarie che rappresentano gli interessi delle grandi aziende inquinanti per discutere la creazione di mercati volontari del carbonio in Messico. Con lo stile più cinico che si potesse immaginare, Semarnat ha chiamato questa nuova forma di colonialismo “giustizia climatica“.

 

Né questi schemi né i mercati del carbonio hanno funzionato per affrontare il cambiamento climatico; al contrario, lo peggiorano giustificando la continuazione e l’aumento delle emissioni dei gas che lo causano. Le multinazionali rinnovano la ricetta con nomi diversi perché si tratta di un grossissimo affare: pagano poco alle comunità e agli agricoltori e poi rivendono i crediti di carbonio che teoricamente generano in quelle aree, moltiplicando molte volte la somma iniziale. Senza fare nulla, aumentano così i loro profitti. Inoltre, si dipingono di verde e affermano di essere “neutrali dal punto di vista climatico” o di avere “emissioni nette zero”. Concetti che le organizzazioni che lavorano davvero per la giustizia climatica hanno definito “la grande truffa“, perché è il mezzo con cui i grandi inquinatori ritardano, mistificano ed evadono l’azione  a favore del clima.

Il Messico è stato un pioniere di questi schemi coloniali per due decenni: prima con i pagamenti con denaro pubblico per i servizi ambientali forestali e idrologici, finanziati dai governi che si sono succeduti; poi con il programma REDD+ (Reducing Emissions from Degradation and Deforestation) e altri. Il ruolo dei governi era ed è tuttora quello di proporre, facilitare e sovvenzionare questi programmi. Il business aziendale consiste nel vendere i crediti generati nei mercati secondari di compensazione del carbonio, delle emissioni o della biodiversità.

Un commento che a volte si sente è: “Non aiutano a prevenire la deforestazione (o il cambiamento climatico, o la perdita di biodiversità), ma almeno pagano qualcosa alle comunità“. Però questo pagamento, in sostanza insignificante, in realtà in molti casi ha significato un’espropriazione di fatto di foreste e territori delle comunità, che non possono più decidere autonomamente come utilizzarli, perché devono seguire le linee guida di certificatori esterni che verificano i bonus presumibilmente generati. Hanno creato numerosi conflitti all’interno e tra comunità (vedi analisi Ceccam https://ceccam.org/node/548 e https://www.ceccam.org/node/1653).

Nulla di tutto questo ha contribuito a frenare il cambiamento climatico, ma oltre ai guadagni delle multinazionali, anche le grandi ONG di conservazione [della biodiversità] che intermediano i progetti, come Conservation International, The Nature Conservancy, Pronatura Mexico e altre simili, ci guadagnano.

 

Oggi le corporation hanno forti aspettative sulle nuove regole del mercato del carbonio alle Nazioni Unite, dove stanno spingendo perché, oltre a boschi e foreste, i suoli agricoli, i mari e le tecniche di geoingegneria siano inclusi nella compensazione del carbonio. Senza aspettare i mercati formali e regolamentati delle Nazioni Unite, già dannosi di per sé, le imprese stanno già mestando nel torbido, non regolamentato, non trasparente, non responsabile ma molto, molto più vasto, business dei mercati della compensazione volontaria del carbonio.

Il futuro di questo mercato volontario è ciò che Semarnat ha discusso con le istituzioni private che sperano di ottenere una grossa fetta di queste transazioni: le società di verifica, certificazione e intermediazione. Ad esempio, la società di verifica VERRA ha tra i suoi consulenti le compagnie petrolifere Shell e BP. Anche l’ONG Climate Action Reserve ha nel suo consiglio di amministrazione l’IETA, l’organizzazione internazionale delle imprese per la promozione dei mercati del carbonio. E altri, tutti accomunati da interessi corporativi.

La questione è molto seria sia per l’impatto e l’esproprio delle comunità e dei contadini, sia per la privatizzazione di fatto degli ecosistemi, della biodiversità e ora anche dei terreni agricoli. Si tratta di una trappola letale che impedisce di agire di fronte al cambiamento climatico e che ci riguarda direttamente tutti.

* Ricercatrice del Gruppo ETC

Fonte e versione originale in spagnolo: https://www.jornada.com.mx/2022/09/10/opinion/015a1eco

Traduzione a cura di Camminar Domandando

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domenica 25 settembre 2022

L’Atlante della carne. Fatti e cifre sugli animali che mangiamo - Barbara Unmüßig, Olaf Bandt, Jagoda Munić

  

Fonte: Ecor.Network - 23.07.2022

Pubblicato dalla Heinrich Böll Stiftung, su richiesta dell’associazione ambientalista Friends of the Earth (Amici della Terra), lo studio Meat Atlas: facts and figures about the animals we eat, che mette in risalto gli impatti del sistema globale di produzione intensiva di carne e di prodotti caseari.


Non c'è quasi nessun altro cibo che inquini il nostro ambiente e il clima così gravemente come la carne. Tuttavia, nessun governo al mondo ha attualmente un'idea di come il consumo e la produzione di carne possano essere ridotti in modo significativo. Ma se il settore continuerà a crescere come ha fatto finora, nel 2030 nel mondo verranno prodotte e consumate quasi 360 milioni di tonnellate di carne. Con effetti ecologici difficili da immaginare.

Il settore alimentare e agricolo nei paesi industrializzati, responsabile di un terzo delle emissioni globali di gas serra, è ben lungi dal fare quanto necessario per ridurle. La domanda di carne nel mondo continua ad aumentare a causa della crescita economica e demografica, anche se a un ritmo più lento rispetto a dieci anni fa.



Introduzione


Una delle richieste principali dei Fridays for Future, il movimento giovanile per il clima, è "Ascoltate la scienza!"
Gli scienziati hanno sottolineato per oltre un decennio che una dieta rispettosa del clima e della biodiversità contiene meno della metà della quantità di carne consumata oggi nei paesi industrializzati.
Tuttavia sembra lontano un cambiamento politico ambizioso e scrupoloso delle politiche agricole e alimentari per affrontare la crisi climatica.
Il settore alimentare e agricolo nei paesi industrializzati, che rappresenta circa un terzo delle emissioni globali di gas a effetto serra, è lungi dal fare la sua giusta parte per ridurle.
Se la crisi climatica non avesse suonato il campanello d'allarme, il Covid-19 avrebbe dovuto farlo. L'espansione dell'agricoltura industriale a spese della natura mette a rischio la nostra salute globale.

L'Organizzazione mondiale della sanità ha sottolineato la grave minaccia per la salute umana globale delle zoonosi (malattie infettive trasmesse attraverso gli animali), che sono strettamente legate alla produzione industriale di carne e mangimi in tutto il mondo. Inoltre, le terribili condizioni di lavoro nei macelli sono venute alla luce durante la prima e la seconda ondata della crisi della Covid-19, quando le fabbriche di carne si sono trasformate in focolai di infezione in molti paesi.
Il fatto che l'industria della carne continui a trarre profitto da tutte le crisi, pur essendo soggetta a poche regolamentazioni, pone la questione di chi sia realmente ascoltato dai governi.

Mentre le aziende zootecniche alimentano la crisi climatica, la deforestazione, l'uso di pesticidi e la perdita di biodiversità, mentre cacciano le persone dalle loro terre, esse sono ancora sostenute e finanziate dalle banche e dagli investitori più potenti del mondo, molti dei quali europei.
Le politiche, d'altro canto - che si tratti di benessere degli animali, di commercio o di clima - prevedono pochissime restrizioni a questa industria nociva.
I regolamenti rigorosi e vincolanti per i produttori di carne sono spesso raggiunti solo attraverso l'impegno dei cittadini - come la campagna "End the Cage Age".
Questa iniziativa dei cittadini europei per il divieto di tenere gli animali in gabbia nell'UE ha riunito oltre 170 organizzazioni ed è stata sostenuta da 1,4 milioni di persone. I cittadini hanno da tempo capito il problema.

I risultati di un'indagine commissionata in Germania per questo dossier mostrano che più dei due terzi delle giovani generazioni rifiutano l'attuale industria della carne.
Considerando la produzione di carne una minaccia per il clima, scelgono diete vegetariane o vegane due volte più spesso della popolazione nel suo complesso. E vedono la necessità di un'azione da parte del governo.
Contrariamente a quanto sostengono i politici, leggi e regolamenti possono orientare le nostre decisioni di consumo a favore della sostenibilità e della salute.
Ci sono per questo numerosi strumenti: fiscale, informativo e legale.

Le strategie alimentari europee e nazionali dovrebbero contenere tali strumenti, nonché quelli che sostengono l'allevamento sostenibile e la transizione dell'industria verso modelli più integrati a livello locale, al fine di creare ambienti alimentari equi e sostenibili.
Dovrebbero inoltre rafforzare le leggi ambientali e sociali e la legislazione sul benessere degli animali al fine di spostare l'attenzione dell'attuale produzione industriale di carne verso la qualità anziché la quantità.

Nel 2013 abbiamo pubblicato il primo Meat Atlas.
Da allora, molto è cambiato in Europa e nel mondo. La carne industriale è diventata una questione critica nella società, nei media e nella scienza. I consumatori si rivolgono sempre più ai prodotti vegetariani o alla carne prodotta in modo sostenibile.
È chiaro che molti (soprattutto i giovani) non vogliono più accettare i danni causati dal profitto dell'industria della carne e sono sempre più interessati e impegnati nelle cause del clima, della sostenibilità, del benessere degli animali e della sovranità alimentare. Consideriamo questo un passo incoraggiante per il nostro futuro e vogliamo utilizzare questo atlante per rafforzare – attraverso l’informazione - il loro impegno.

Questo atlante è destinato a sostenere tutti coloro che sono alla ricerca della giustizia climatica e della sovranità alimentare, e che vogliono proteggere la natura. Rivelare nuovi dati e fatti e fornire collegamenti tra le varie questioni chiave, è un contributo cruciale al lavoro svolto da molti per far luce sui problemi derivanti dalla produzione industriale di carne.


Barbara Unmüßig (Heinrich-Böll-Stiftung) - Olaf Bandt (Bund für Umwelt und Naturschutz Deutschland) - Jagoda Munić (Friends of the Earth Europe)

Traduzione di Ecor.Network

Fonte: Heinrich-Böll-Stiftung 07.09.2021

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I 25 anni di Google e il potere "ipnotico" di YouTube - Leo Essen

 

Il 15 settembre Google ha festeggiato le nozze d’argento. Una storia di grande successo, dovuto in parte anche a YouTube. Dopo il 2016 YouTube è diventato molto più centrale nel business di Google (Mark Bergen – theverge.com).

Ciò che distingue YouTube dagli altri social, dice Bergen, è la sua economia basata su una platea sterminata di “creativi”. Anche Facebook è legata ai creativi. Ma la differenza con Facebook è che i creativi di Youtube dipendono economicamente dalla piattaforma.

Nel 2009 il CFO di Google disse che Youtube era la peggiore attività del pianeta, e che dovevano svenderlo. Tredici anni dopo, dice Bergen, è diventato fondamentale per Google, ogni investitore parla di YouTube come asset centrale per Alphabet. Nel 2021 ha fatturato 28,84 miliardi di dollari (quasi un terzo dell’intera Alphabet - $ 102,80).

Secondo i dati emersi da una ricerca del Pew Research Center, condotta su un pubblico Usa e uscita ad Agosto, il 95% degli adolescenti usa YouTube (contro il 32% di Facebook. Quote inferiori registrano Twitter, Twitch, WhatsApp, Reddit e Tumblr). Il 19% usa YouTube costantemente (contro il 2% di Facebook). Gli adolescenti neri (45%) e ispanici (47%) dicono di stare su TikTok, YouTube e Instagram quasi costantemente rispetto agli adolescenti bianchi (pewresearch.org).

Tuberfilter.com compila una lista settimanale dei canali YouTube più visti. Non sono i teen-agers il pubblico più numeroso. I canali più visti sono rivolti ai ragazzini, ai bambini, ai poppanti. In cima alla lista dei canali più visti nella settimana scorsa c’è Cocomelon–Filastrocche, con 591.728.422 views settimanali e 138.391.645.564 views totali. Al secondo posto c’è LeoNata Family (435.991.214 settimanali; All-Time Views: 14.906.165.899; All-Time Subs: 10.500.000).

I dati non cambiano se si guardano le classifiche mondiali. I bambini sono i primi spettatori di YouTube.

Ma cosa guardano i bambini su YouTube? C’è davvero un «Problema dei bambini» (kids issue), come dice Mark Bergen?

Si tratta dello scandalo Elsa-gate, dice Bergen. Alla fine del 2017, dice, sono successe molte cose. Video con adulti che si travestivano da supereroi. Alcuni di questi video erano innocui, ironici, etc. Altri rimandavano al sesso, erano perturbanti, scherzosi, tesi intenzionalmente a superare i limiti (Some of it was very sexual, disturbing, pranking, and intentionally pushing the limits).

Nel 2017, James Bridle, un attivista inglese, scrisse un saggio (medium.com) in cui parlava di Youtube e della sua "produzione da incubo industrializzata", di studi di animazione che sfornavano contenuti YouTube per bambini. Alcuni non erano stati progettati dagli umani. Erano i robot che realizzavano video. Ma ciò, dice, non dovrebbe nascondere che ci sono bambini veri, collegati a iPhone e tablet, che li guardano più e più volte, digitando nel browser o, semplicemente, schiacciano la barra laterale per visualizzare un altro video.

I bambini piccoli, dice Bridle, sono ipnotizzati da questi video, che si tratti di personaggi e canzoni familiari, o semplicemente di colori vivaci e suoni rilassanti. Il canale Toy Freaks, per esempio, è specializzato in situazioni grossolane, così come in attività che molti spettatori sentono al limite dell'abuso e dello sfruttamento, compresi i video di bambini che vomitano e soffrono. Un passo oltre ci sono i knock-off. In un video ufficiale Peppa va dal dentista, viene opportunamente rassicurata da un dottore gentile. Nella versione taroccata Peppa viene torturata, prima di trasformarsi in Iron Man ed eseguire la danza Learn Colors. I video inquietanti di Peppa Pig, dice Bridle, video che tendono alla violenza e alla paura estreme, con Peppa che mangia suo padre o beve candeggina, sono, a quanto pare, molto diffusi. Costituiscono un'intera sottocultura di YouTube. Molti, continua Bridle, sono ovvie parodie, o addirittura satire, nello stile piuttosto comune del tipo oltraggioso e deliberatamente offensivo di Internet. 

In Italia le cose non vanno meglio. Spopolano «Me contro Te»: 6,33 Mln di iscritti e 6.327 video pubblicati e 1080 canali. «RICCHI vs POVERI (Primo giorno di SCUOLA!!)» pubblicato il 16 set 2022, dopo due giorni ha totalizzato 306.361 visualizzazioni. «SOFÌ CADE E SI FA MALE AL PIEDE MENTRE GIOCA IN PISCINA COL SUP!!», 26 ago 2022, 626.281 visualizzazioni. Sono video che riproducono i cliché più beceri. 

#ninnaematti (Ninna e Matti) ha 1.332 video e 49 canali. «NINNA È SCOMPARSA AL SUPERMERCATO MENTRE FACEVAMO LA SPESA!», 667.603 visualizzazioni, pubblicato il 2 set 2022, è girato al supermercato Esselunga. Ed è una lunga pubblicità di prodotti a marchio esselunga, Buondì, Big Babol, Nestle, etc (oltre, ovviamente, alla pubblicità ufficiale inserita da YouTube).

Anche #Carmagheddon - 550.000 iscritti – inserisce direttamente nel video spezzoni di spot commerciali. In «10 MODI PER BUCARE UNA RUOTA.», 246.763 visualizzazioni, 26 lug 2022, viene spiegato come bucare una ruota con bottiglie rotte, chiodi e altri oggetti pericolosi. È tutto un gioco, è tutto uno scherzo, ironia e satira. Poi appare perdavvero un venditore di CarVertical che fa pubblicità al suo business.

C’è questo #zerbi, 371 video e 23 canali. Tra parentesi, non ho scelto questi video, ho viaggiato col browser in modalità incognito, mi sono stati proposti dall’algoritmo di Youtube. Con «Spio mia Sorella alle 3.00 di Notte e…», #zerbi ha totalizzato 431.254 visualizzazioni. Il video «CHI DIMAGRISCE di PIÚ in 24 ORE VINCE 500€!», 361.456 visualizzazioni, è zeppo di sponsor (Gucci, Robe di K, Adidas, etc). In «Chi Guadagna più Soldi in 24 Ore Vince!», 304.278 visualizzazioni, per vincere si può rubare, mendicare, etc., tutte cose che i bambini dovono sapere di poter fare per fare soldi. Quando un nero dice «io non sono capace», interviene il papà di Zerbi che dice «Col cacchio!» (col cacchio (traduco) che un nero non sa rubare!). In «Chi Si Fa Piú MALE Vince 1000€!», 218.273 visualizzazioni, ci si diverte torturandosi con la ceretta. Il padre arriva a mettersi del ghiaccio sui genitali. Ci si versa caffè bollente sulle braccia, etc. Non importa se a guardare sono bambini di 4-5-6 anni. Bisogna massimizzare le visualizzazioni, per guadagnare bisogna far cliccare. 

In «La Ruota delle Torture! (di Cap e Kazu), 170.682 visualizzazioni, si spruzzano spray in viso dagli effetti fastidiosi anche a livello respiratorio, si mangiano panini schifosi, etc.

In «Provo a Camminare sull'ACQUA», #CapeKazu, 1.529.164 visualizzazioni, si scherza, e scherzando ci si spruzza spray idrorepellente sotto i piedi per camminare sull’acqua di una piscina, si cerca di camminare su lastre di plexiglas trasparente. Non si tiene conto che a guardare sono bambini piccolissimi, che possono replicare queste stronzate. Non c’è nessuno a controllare. Nemmeno i genitori, che presi con le faccende della vita usano YouTube come Baby sitter low-cost. Lo uso anch’io, non voglio giudicare o mettere in croce i genitori. 

I nostri figli sono esposti a video come «Distruggo la Macchina del mio amico e...» 3.016.026 visualizzazioni, dove si impara a spaccare specchietti, vetri etc; video come «Ho speso 500€ alla SALA GIOCHI, guardate cosa ho vinto...», 1.779.843 visualizzazioni; #PirlasV, 1,26 Mln di iscritti, il suo video «È POSSIBILE DISTRUGGERE un AUTO a PALLONATE??» totalizza 675.999 visualizzazioni.

Il sistema non è truccato, è marcio. Ci siamo emancipati della televisione per sprofondare nell’incubo dei telefoni, del clickbait, dei bot, delle views, della pubblicità pre-roll e mid-video, etc. 

Noi (che guardiamo youtube) siamo il 99%. Siamo bambini di genitori poveri, di genitori che fanno gli straordinari, che arrivano a casa stanchi e devono ancora lavare i piatti del giorno prima. Siamo bambini che entrano a scuola alle 7:30 ed escono alle 18:00. Niente compiti a casa, niente chiacchiere con mamma e papà. Siamo bambini che escono dal portone della scuola e entrano nella porta della palestra, catturati da improvvisati istruttori sportivi, istruttori demotivati, depressi, pagati un tanto all’ora, anche a cottimo. Siamo il 99%, incollati al telefonino.

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sabato 24 settembre 2022

Grand Lyon esce dalla lobby Tav - notav.info

 

A una decina di chilometri dalla frontiera italiana, c’è il villaggio di Villarodin-Pourget. La prima ragione della protesta in territorio francese è la catastrofe per le fonti d’acqua che comporta la Tav. Foto tratta da notav.info

La Città Metropolitana di Lione smette di sovvenzionare la lobby pro-tav francese. Apprendiamo dal giornale francese Mediacités che la Città metropolitana di Lione ferma i finanziamenti a La Transalpine, lobby promotrice del tav. Lo ha annunciato il presidente del Grand Lyon Bruno Bernard questo giovedì, lasciando nei fatti l’associazione. La ragione è molto semplice: l’inutilità del progetto e, inoltre, i ritardi rispetto all’Italia in particolare sulla questione degli accessi del tunnel.

La Transalpine si è fatta notare in questi anni per una disinformazione sfacciata a favore del progetto, nonché per battute grevi e insulti contro cittadini e rappresentanti locali colpevoli di non sostenere il maxi-tunnel.

La quota della città di Lione rappresentava meno del 10% del budget annuale dell’associazione, somma di poco conto rispetto ai 100 000 euro finanziati dalla Regione Rhone-Alpes, ciononostante, il Gran Lyon ha fatto la sua mossa, uscendo dall’associazione e mettendo uno stop alle sovvenzioni. Il fatto poi che questa decisione sia avvenuta proprio a seguito delle mobilitazioni degli ultimi giorni in Val Maurienne, laddove si sta muovendo una forte opposizione all’opera in particolare a Villarodin Bourget, soprattutto legata alla questione della siccità e dello spreco di acqua che rappresenta il progetto della Torino-Lione, è un passo significativo. Un fatto che non dovrebbe passare inosservato nemmeno alle nostre latitudini, soprattutto in questa fase di campagna elettorale trita e ritrita.. potrebbe suggerire qualcosa a chi ancora pensa di nascondere i propri magnamagna dietro una finta priorità come il tav.

Proprio qualche settimana fa il sindaco di Torino, Lo Russo, in un post parlava della “politica miope del No a Tutto”, come la causa del carovita. Di sicuro quello che paghiamo in bolletta è la stupidità di governi e di amministrazioni di ogni colore a fronte di un movimento che indica le responsabilità della devastazione ambientale e climatica nonché dello stato disastroso dei conti pubblici.

Il movimento no tav, le lotte per una giustizia climatica e sociale, travalicano le Alpi, senza bisogno di alcun tunnel!

https://comune-info.net/grand-lyon-esce-dalla-lobby-tav/

giovedì 22 settembre 2022

Non è che un animale - Annamaria Rivera

 

La parola specismo si basa sulla nozione di specie, per analogia con le parole razzismo sessismo: è il sistema di dominio, oggettivazione, appropriazione degli animali, fondato sul criterio, rigido e arbitrario, dell’appartenenza di specie degli individui.

Un tale sistema è sostenuto e giustificato dal dogma della Natura e dall’ideologia della centralità e della superiorità della specie umana su tutte le altre. Il pensiero occidentale moderno, sebbene contempli forme di continuità nella sfera materiale – evolutiva, biologica, ma anche genetica – ha soprattutto separato culturalmente moralmente non solo il corpo dallo spirito, il soma dalla psiche, ma anche gli umani dai non-umani.

Di conseguenza ha spesso operato una netta dissociazione tra i soggetti umani e gli oggetti animali, reificando questi ultimi e negando non solo il fatto che essi abbiano un “mondo”, delle culture, una “storia”, ma anche la loro qualità di soggetti dalla vita sensibile, emotiva e cognitiva.

Le credenze, i pregiudizi e gli stereotipi, utilizzati per legittimare l’indifferenza verso le sofferenze inflitte agli animali o per giustificare la crudeltà abituale nei loro confronti, sono strettamente correlate alle forme del pensiero razzista e sessista.

 

Il movimento antispecista (o movimento per la liberazione animale) afferma che l’attribuzione degli individui a delle categorie biologiche (di specie, ma anche di “razza”, di sesso, di età) non è pertinente per decidere quale considerazione accordare ai loro bisogni, desideri, diritti; e serve semplicemente quale pretesto ideologico per la discriminazione, fino alla reificazione. A proposito di quest’ultima basta citare il fatto che, fino al 2015, per il Codice civile francese lo status giuridico dell’animale era quello di bene mobile: solo successivamente diverrà “un essere vivente dotato di sensibilità.

Uno dei rischi più seri è, a mio avviso, l’infiltrazione nel movimento antispecista o l’appropriazione della “questione animale” da parte di correnti di destra o di estrema destra. Perciò è necessario anche – e non solo per ragioni tattiche – articolare l’antispecismo con l’antisessismo e l’antirazzismo. Gli stereotipi utilizzati per legittimare l’indifferenza verso le sofferenze inflitte agli animali o giustificare l’abituale crudeltà nei loro confronti sono strettamente correlati ai modi di pensiero razzista e sessista.

Anche parte della sinistra politica corre tali rischi, incapace, com’è spesso, di comprendere il valore strategico dell’antispecismo. Per una parte del pensiero di sinistra la “questione animale” è un lusso da privilegiati, che sarebbero indifferenti alle questioni di classe, di giustizia sociale e di uguaglianza. Tuttavia, benché la tradizione di sinistra abbia non poche volte marcato la propria distanza in rapporto alla “questione animale”, vi sono delle rilevanti eccezioni storiche cui si potrebbe fare riferimento: da Rosa Luxemburg a Horkheimer e Adorno…

Quanto al movimento femminista, esso ha sicuramente sviluppato una profonda riflessione su ciò che si proclama, si propone e s’impone come neutro universale. Ma, fino a oggi, almeno nelle varianti italiana e francese, non è stato capace di riflettere abbastanza sul “ciclo maledetto dell’esclusione degli altri”, inaugurato dallo specismo (l’espressione è di Claude Lévi-Strauss).

Infatti, affermare che gli animali non sono delle cose, dei beni o delle merci, bensì soggetti di vita sensibile, singolare, affettiva e cognitiva (e agire di conseguenza) significa andare nel senso di un progetto economico, sociale e culturale che ha come fondamento la redistribuzione delle risorse su scala mondiale, l’uguaglianza economica e sociale, in definitiva il superamento del sistema capitalistico. Tant’è vero che, in particolare nella sua fase neo-liberale e mondializzata, il capitalismo si basa sullo sfruttamento intensivo dei non-umani così come degli umani.

Anche gli ecologisti hanno tardato non solo a preoccuparsi del benessere animale, ma anche a considerare gli enormi danni ambientali provocati dall’industria della carne. Infatti, ogni anno nel mondo vengono abbattuti almeno 142 miliardi di animali. Prima di essere uccisi, spesso in maniera dolorosa e orribile, gli animali di allevamento non hanno alcuna esistenza. I suini vengono imprigionati in gabbie che comprimono i loro corpi e impediscono loro ogni movimento; i vitelli sono strappati alle loro madri appena nati; i pulcini maschi vengono schiacciati vivi…

Questa industria è la prima responsabile dei processi di deforestazione, di consumo e inquinamento delle acque, di produzione di gas a effetto-serra, di utilizzazione planetaria di terre, di consumo di prodotti agricoli; in più, è una delle prime per ciò che riguarda il consumo di energia. Tutto ciò a vantaggio quasi esclusivo dei paesi occidentali ricchi e industrializzati, i quali sono i maggiori consumatori di carne in rapporto agli abitanti.

Insomma, oggi abbiamo tutti gli elementi per affermare che l’alimentazione carnea provoca un autentico disastro ecologico (ci vogliono diecimila litri di acqua per un chilo di bovino) nonché una rilevante sotto-nutrizione umana: si potrebbero nutrire quattro miliardi di esseri umani in più se le produzioni vegetali destinate al bestiame fossero utilizzate direttamente per la loro alimentazione.

In realtà, gli allevamenti e i macelli industriali, con la loro catena di smontaggio dei corpi animali, restano gli esempi estremi di “fabbriche” tipicamente fordisteQui si uccide e si disseziona una vacca ogni minuto, un maiale ogni venti secondi e un pollo ogni due secondi. Ma i loro danni riguardano non solo le vite degli animali, ovviamente, e l’ambiente, ma anche gli operai che vi lavorano. In Francia, tra l’altro, si sono realizzate delle inchieste di campo sulle catene di macellazione, che descrivono l’inferno della condizione sia animale, sia operaia.

La razionalità tecnica dell’allevamento e della macellazione degli animali contiene in sé una logica che evoca quella che ha guidato le tecniche di concentramento e di sterminio. Seguendo la semantica dell’eufemismo omicida, lo sterminio programmato secondo una logica industriale rigorosa fu designato con l’espressione “dare una morte compassionevole” al fine di evitare “sofferenze inutili”. Così l’uccisione seriale di animali da macello nei mattatoi asettici e automatizzati, prescritta dalle leggi dei paesi occidentali “più avanzati” è nominata e giustificata come “macellazione umanitaria”.

L’antispecismo si oppone alla visione naturalistica degli esseri viventi e s’interessa non già a ciò che gli individui rappresentano, ma soprattutto a ciò che essi sentono provano. Ciò che importa non è il logos, la razionalità o la capacità di astrazione, ma, in primo luogo, la semplice esistenza della sofferenza dell’animale, che è la prova della sua coscienza e della sua soggettività. La sensibilità e l’acutezza affettiva dei suini sono oggi conosciute come tra le più sviluppate. E tuttavia ciò non impedisce di ucciderne ogni anno almeno due miliardi, dopo averli sottomessi a condizioni di allevamento orribili.

È l’umano occidentale-moderno che ha inaugurato la retorica secondo la quale l’alterità non può essere definita se non attraverso un criterio privativo. L’animale non-umano sarebbe caratterizzato da ciò che gli manca: la ragione, l’anima, la coscienza, il linguaggio, la cultura…

Mai per la sua singolarità. A tal proposito, le scoperte numerose e innovatrici nel campo dell’etologia e della psicologia cognitiva ci hanno indotte/i ad abbandonare poco a poco i vecchi criteri privativi. Ciò malgrado, il pensiero dogmatico della supremazia assoluta degli esseri umani inventa sempre delle nuove differenze radicali, non fondate o perfino ridicole. Un tempo si diceva che l’uso di utensili era “proprio dell’Uomo”, finché non si è scoperto che talune specie di animali li utilizzano. Poi si è sostenuto che solo gli umani sono capaci di fabbricarli, quando, in realtà anche gli scimpanzè e altri animali ne sono capaci. Più tardi si è affermato che gli animali non hanno un linguaggio articolato. E invece si è potuto insegnare a certi primati il linguaggio gestuale dei sordo-muti umani, con la sintassi e altre regole.

Insomma, oggi abbiamo tutti gli elementi scientifici per affermare che gli animali sono degli esseri sensibili, in molti casi dotati di una coscienza, nel senso più forte del termine.

Alcuni antropologi, in primo luogo Claude Lévi-Strauss, hanno avanzato l’ipotesi che l’assoggettamento, la squalificazione e lo sfruttamento degli animali siano stati il modello primario che ha permesso la dominazione, la reificazione e la gerarchizzazione di talune categorie di esseri umani. Dal canto suo Theodor W. Adorno, in un memorabile aforisma di Minima Moralia, scrive che l’eventualità del pogrom si decide “nel momento in cui lo sguardo di un animale ferito a morte incontra un uomo. L’ostinazione con la quale egli respinge il suo sguardo –‘non è che un animale’ riappare irresistibilmente nelle crudeltà commesse su degli umani, i cui autori devono costantemente convincersi che ‘non è che un animale’”. 

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mercoledì 21 settembre 2022

Gli effetti del sessismo sui bambini. Reazioni alla discriminazione femminile

Una roccia racconta la fine dei dinosauri - Massimo Sandal



A sinistra: lo strato di argilla ricca di iridio si trova nella fessura tra gli strati rocciosi più chiari e quelli più rossi. A destra: gli strati definiti “maioliche” che corrispondono all’era del cretaceo. Gola del Bottaccione (Gubbio), giugno 2022 (Massimo Sandal)


Il borgo di Gubbio, in Umbria, è un gioiello di storia romana e medievale. Non molti sanno però che la cittadina ospita uno dei monumenti naturali più importanti del paese, eretto ben prima del teatro romano o delle tavole eugubine in lingua umbra, datati tra il terzo e il primo secolo avanti Cristo. È un luogo eccezionale, noto quasi solo ai geologi, che ha segnato la storia della scienza: nella gola del Bottaccione, fuori dalle mura di Gubbio, sono state rilevate le tracce della più immane catastrofe naturale che abbia mai colpito il nostro pianeta, cioè il cataclisma cosmico che ha ucciso i dinosauri e, con loro, tre quarti delle forme di vita sulla Terra. Sessantasei milioni di anni fa, infatti, un asteroide con un diametro di dieci chilometri si schiantò nel golfo del Messico, incendiando interi continenti, alterando il clima e segnando la fine dell’era geologica mesozoica.

All’occhio inconsapevole, il sito della gola del Bottaccione non rivela granché della sua importanza. È una stretta valle scavata dal torrente Camignano, in cui oggi scorre la statale 298 che affonda nell’Appennino in direzione delle Marche, tra il monte Foce e il monte Ingino. Non è esattamente il Grand canyon. Le pareti rocciose a strati paralleli e sovrapposti – bianchi in alcuni punti, rossastri in altri – sono pittoresche, ma non molto diverse da quelle che s’incontrano lungo molte altre anonime strade. In alto si intravede l’acquedotto medievale, che dal 1327 fino al ventesimo secolo ha servito acqua a Gubbio, e su cui oggi si può camminare per una piacevole escursione (“Bottaccione” deriva da “bottaccio”, nome per il bacino di raccolta delle acque).

Lungo la strada s’incontrano un agriturismo e una piccola trattoria, ricavati all’interno di antichi mulini. Poche centinaia di metri dopo, sulla destra, la strada si apre in un piccolo piazzale sterrato, segnato solo da una placca gialla sulla roccia e da un cartello che mostra in basso il disegno un po’ kitsch di un tirannosauro. La placca recita: “Sezione stratigrafica paleomagnetica – Gola del Bottaccione – Limite tra era secondaria ed era terziaria”. Sembra impossibile che qui si sia consumata una delle più sorprendenti storie della scienza del ventesimo secolo.

Il sito è un’eccezionale palestra didattica e scientifica per gli aspiranti geologi. Il professor Federico Fanti, paleontologo dell’università di Bologna e collaboratore del National Geographic, insieme ad altri colleghi e colleghe dello stesso ateneo, in particolare le professoresse Claudia Spalletta e Rossella Capozzi, portano al Bottaccione gli studenti del primo anno, che qui imparano a muovere i primi passi nella loro disciplina.

Oceano perduto

“Questo luogo una volta era molto diverso”, spiega Fanti agli studenti. Per riuscire a immaginarlo bisogna far sprofondare queste colline, ora roventi sotto un sole di giugno troppo caldo, giù negli abissi oceanici, a duemila metri di profondità. Gli strati oggi visibili in superficie erano i fanghi del fondo di un oceano scomparso. I più antichi risalgono a oltre 115 milioni di anni fa, in pieno cretaceo (l’ultimo periodo dell’era mesozoica). I più recenti invece a circa 50 milioni di anni fa, in piena era terziaria, quando l’oceano scomparve e le forze geologiche sollevarono i fondali fino a trasformarli nei monti dell’Appennino. Come le pergamene di un annuario medievale, gli strati di roccia registrano con precisione ciò che accadde sul fondo dell’oceano.

L’alfabeto di questo libro non è di immediata lettura. Al Bottaccione non si trovano fossili “grandi”: niente ossa di dinosauro, niente conchiglie a spirale di ammoniti. Le rocce sembrano uniformi, a grana finissima, tanto che quelle degli strati più antichi vengono chiamate “maioliche”, perché sono bianche, omogenee e, se colpite con un martello, si rompono come fossero di porcellana. Sono composte in gran parte da conchiglie microscopiche di organismi unicellulari. Questi esseri vivono anche oggi nei primi 300 metri d’acqua dalla superficie degli oceani. E quando muoiono, le loro conchiglie cadono come una lenta e sottile polvere sul fondo del mare. Nei secoli, millimetro dopo millimetro, si accumulano per centinaia di metri di spessore. “Erano organismi a cui serviva un’acqua estremamente limpida, e qui eravamo almeno a mille chilometri dalla costa”, spiega Claudia Spalletta. Questi sedimenti, quindi, non sono mai stati “inquinati” dai detriti scaricati dai fiumi, un’altra caratteristica che rende il sito speciale.

Essendo così diffusi in tutti gli oceani, e lasciando miliardi di piccoli gusci riconoscibili al microscopio, è possibile seguire i mutamenti di questi fossili lungo le ere geologiche. In particolare grazie ad alcuni di essi, noti come foraminiferi, si può assegnare con sicurezza una data e un’appartenenza anche a strati geologici lontani tra loro. È un po’ come datare una fotografia dall’abbigliamento delle persone ritratte.

Fu proprio grazie a questi minuscoli gusci che il paleontologo svizzero Otto Renz e, in seguito, la paleontologa italiana Isabella Premoli Silva, misero giù il primo tassello del mosaico. Negli anni trenta, grazie ai foraminiferi, Renz riuscì ad assegnare una data agli strati del Bottaccione e capì che includevano ciò che era successo prima e dopo l’estinzione di fine cretaceo. Premoli Silva, negli anni sessanta, si focalizzò su un punto particolare della gola: quel piazzale sterrato e anonimo oggi indicato solo da una placca gialla. “Qui la paleontologa si accorse che, seguendo le rocce in ordine cronologico, a un certo punto i fossili mutavano bruscamente”, dice Rossella Capozzi mentre indica la parete rocciosa. In basso si possono scorgere – sapendo cosa guardare – i foraminiferi tipici del cretaceo, le cui conchiglie sono a volte abbastanza grandi da essere appena visibili a occhio nudo, come piccolissimi puntini nella roccia. Salendo verso gli strati più recenti, si raggiunge un momento in cui questi “puntini” scompaiono all’improvviso: per scorgere i microfossili che vengono dopo, serve un microscopio.

Come sulla terraferma i dinosauri scomparvero lasciando il posto a piccoli mammiferi, così anche nell’universo invisibile del plancton una florida popolazione di giganti lasciò il passo a pochi minuscoli superstiti. In mezzo a questi due mondi fossili, preciso come un segnalibro, qualcosa di assolutamente anomalo: un sottile strato scuro di argilla friabile, untuosa, completamente diverso dalle rocce chiare sopra e sotto. “Sembra un tratto di penna, lo vedi solo se qualcuno te lo fa notare”, dice Fanti. “Non è nulla, rispetto a quello che rappresenta”.

Attraverso pazienti confronti con rocce simili in altri paesi, come la Danimarca, Premoli Silva e altri colleghi dimostrarono che quel sottile segnalibro di argilla nera era qualcosa di eccezionale: era stato deposto proprio durante l’estinzione di fine cretaceo, sessantasei milioni di anni fa. In molte località simili, i sedimenti si interrompono a cavallo dell’estinzione, come se le pagine del libro fossero state strappate proprio in quel punto. Al Bottaccione le pagine ci sono tutte...

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