Sembra retorico e quasi pleonastico ribadire oggi, nel 2019, che un certo interesse per la “questione animale” si sia affacciato alle porte del mondo occidentale e che in molti casi quelle porte le abbia abbondantemente varcate conquistando, per lo meno a tratti, una certa rilevanza nel discorso pubblico, nelle forme di consumo, negli stili di vita e nelle pratiche quotidiane degli individui contemporanei. Le ragioni alla base di questo fenomeno sono diverse, legate a dinamiche sociali il più delle volte esultanti dall’interesse “puro” per gli animali. Ci riferiamo ad alcuni macro-processi discussi da filosofi e sociologi del secolo scorso, a partire da quello di modernizzazione analizzato già da Max Weber e ripreso poi da diversi autori e autrici.
Altrettanto retorico è segnalare il diffuso interesse che differenti
discipline accademiche stanno maturando per la questione animale, arricchendo
sempre più – alle volte anche a scapito di una minima sistematicità – il
fervente campo degli Animal Studies. Una panoramica esaustiva di
questa letteratura esula certo dagli obiettivi del testo. Tuttavia, un
riferimento al primo corso universitario di Animal Studies in
Italia – quello inaugurato nell’anno accademico 2017/2018 all’Università degli
Studi di Milano dal professor Gianfranco Mormino – è doveroso, anche perché
sintomo di un crescente interesse del mondo accademico (anche italiano,
finalmente!) e, al tempo stesso, di una domanda proveniente dalle generazioni
più giovani. Ci auguriamo tuttavia che l’istituzione di questa cattedra sia
soltanto un punto di partenza, o per lo meno una tappa intermedia che segue al
proliferare di tesi di laurea e di dottorato prodotte in anni recenti.
Fatte queste notazioni, il volume che vi apprestate a leggere si
colloca in una “zona grigia” fra accademia, sociologia pubblica e attivismo:
si propone di uscire dalla “torre d’avorio” universitaria abitata per forza di
cose da un pubblico selezionato. Al contempo – lo diciamo da subito e a scanso
di equivoci – non intende essere un libro ecumenico e “per tutti i palati”. È
un libro che consapevolmente adotta un approccio “situato” – à la Bourdieu[1] – e anche una prospettiva
partigiana. Se non si tratta di un’opera per docenti e specialisti, non è
nemmeno un’opera di divulgazione massiva, e – ancor più importante – non è
un pamphlet o un manifesto.
Una volta puntualizzato di cosa non si tratta, veniamo al compito ben più
difficile di spiegare in breve di cosa si tratti. Quello che vogliamo proporre
è un punto della situazione, uno stato dell’arte dell’antispecismo italiano (o
meglio, di alcune sue aree), dando la parola ad autori e autrici che nella
stragrande maggioranza dei casi sono effettivamente attivisti/e, ma che hanno
maturato percorsi di elaborazione teorica di elevato spessore intorno alle loro
pratiche. In modo particolare, nel libro vengono prese in
considerazione alcune “nuove frontiere” o “nuove prospettive” dell’antispecismo
(nuove, quantomeno, per l’Italia) o eventualmente alcune declinazioni
variamente innovative di elementi già presenti in passato. Non perché
curatori e nemmeno autori/autrici dei vari capitoli (ci prendiamo in questo
caso la libertà di interpretare l’altrui pensiero) siano fan del “nuovismo” o
della “rottamazione”. Senza essere apologetici, riteniamo infatti
imprescindibile la riconoscenza e il riferimento nei confronti di chi e di cosa
ci ha preceduti, e soprattutto crediamo sia fondamentale uno sguardo critico
alle tendenze attuali ancor più che una loro esaltazione rispetto agli “errori”
o alle lacune del passato. Proprio per questo motivo il libro si concentra
sulle “avanguardie” dell’antispecismo italiano, ma con uno sguardo spesso
piuttosto disincantato e anche esplicitamente (auto)critico.
Una delle principali speranze che abbiamo è che la lettura di questo libro
si dimostri stimolante e arricchente anche per chi è impegnato/a in altri tipi
di attivismo, partecipazione e conflitto, diversi da quelli animalisti. Come
anticipavamo, infatti, non vogliamo rivolgerci a chiunque indistintamente. O
meglio, vorremmo farlo, ma senza svendere il nostro punto di vista: e cioè
quello secondo cui la “questione animale” non va affrontata come questione a sé
stante ma come parte di un approccio più generale, sommariamente sintetizzabile
come anticapitalista e contro-egemonico. È perciò a nostro avviso
fondamentale tessere in maniera sempre più fitta quei legami fra lotte e
riflessioni militanti (le famose “intersezioni”) che, nel caso dell’animalismo,
continuano da troppo tempo ormai a vivere un percorso carsico fatto di alti e
bassi, di momenti in cui sembra che le istanze in favore dei non umani vengano
positivamente accolte anche presso altri movimenti sociali alternati a momenti
in cui l’ottimismo lascia spazio alla realistica constatazione di un percorso
ancora lungo e impervio.
Riteniamo, quindi, che soltanto a partire da un approccio intersezionale
sia davvero possibile smontare la gabbia: non più
dunque soltanto allargarla (come alcune prospettive solitamente
definite riformiste o moderate propongono), ma nemmeno “soltanto”
svuotarla (nella linea solitamente perseguita dall’animalismo che
viene definito radicale da parte dei media mainstream). Una
gabbia vuota, per carità, è un risultato fondamentale. Di più:
abdicando alla nostra prospettiva e facendo uno sforzo di “realismo
pragmatico”, sappiamo che anche una gabbia più larga non è cosa da poco per chi
in quella gabbia è costretto a viverci (spesso soltanto in funzione di
morirci). Tuttavia gabbie “soltanto” più larghe o più vuote, ne siamo
convinti, ci metterebbero poco a restringersi o riempirsi nuovamente. Ciò
che serve è a nostro avviso un effettivo smontaggio dei meccanismi e dei
presupposti che danno vita alle gabbie che tengono prigionieri milioni di
animali non umani, ma anche un numero sterminato di umani: ex-coloni, donne,
disabili, migranti, individui variamente esulanti dal binarismo cis-gender,
solo per citare alcune categorie di sfruttati/e.
L’animalizzazione resta, infatti, uno dei metodi più efficaci di
umiliazione e giustificazione dello sfruttamento ai danni degli umani, oltre a
rappresentare un fastidioso e scorretto uso di retoriche denigratorie tramite
l’uso delle altre specie in modalità decontestualizzata. Si pensi all’uso
dell’animale come insulto sessista (“oca”, “gallina”, “cagna”), all’immaginario
razzista dell’altro come animale infestante (gli ebrei come “ratti” o i moderni
migranti come parassiti e invasori), alla diffamazione dell’avversario politico
tramite il ricorso all’identificazione con altre specie (i “maiali”, i “porci”,
i “topi di fogna” che costellano le stesse retoriche anticapitaliste). Non una
questione meramente linguistica, ma lo specchio di un sistema di
dominio generalizzato che, a partire dal linguaggio e fino a forme più
tangibili di sfruttamento, costruisce gabbie dentro cui sono imprigionati
diversi tipi di soggetti, non solamente animali.
Alla luce di queste riflessioni, riteniamo che sia quanto mai
necessario affrontare la “questione animale” dentro a meccanismi che la
trascendono, o al massimo la sottendono, ma non coincidono totalmente con essa.
Ci riferiamo in sostanza all’imposizione di un sistema economico capitalista e
all’affermazione della modernità come trionfo dell’individualismo più
secolarizzato e inconsapevole. Solo sapendo individuare lo
sfruttamento animale all’interno delle pieghe di questi macro-processi, si può
effettivamente sviluppare un discorso di critica antispecista.
Pensiamo che soprattutto alcune nuove prospettive dell’antispecismo siano
particolarmente efficaci e promettenti. Prima di darne una breve panoramica e
di introdurre la struttura delle sezioni che compongono il libro, preme
un’ultima considerazione. Non vorremmo che alcune nostre precedenti
osservazioni e il riconoscimento di un crescente interesse per la questione
animale fossero interpretate come infatuazioni post-moderniste dei due curatori
o come una loro miopia nei confronti di un sistema a ogni effetto tuttora
assolutamente e insindacabilmente specista. Siamo consci della posizione
svantaggiata che occupano gli animali non umani nella nostra società, e in
particolare in un Paese tuttora dominato da tradizioni carnee, lobby della
caccia, maratone televisive a supporto della sperimentazione animale, palii,
circhi, ecc. Siamo altrettanto consapevoli del fatto che, seppur a vario
titolo, vi siano importanti discriminazioni nei confronti degli animalisti/e. In
particolare si è parlato di un fenomeno – la vegefobia[2] – che avrebbe caratteristiche
simili a omofobia e razzismo. Se fino a qualche tempo fa, in Italia
quantomeno, la discriminazione nei confronti di attivisti/e antispecisti/e e
vegan era principalmente relegata a una sottovalutazione, derisione e
ostracizzazione delle loro istanze (non solo su media e discorso pubblico, ma
anche in molti ambienti di movimento), oggi invece l’asticella si è alzata
notevolmente: alcuni episodi di violenza fisica esplicitamente rivolti a
soggetti vegan hanno avuto luogo, infatti, anche in Italia[3]. Non è certo questo
il problema fondamentale – sarebbe evidentemente un approccio antropocentrico –
ma anche questo è uno dei tasselli di una gabbia che speriamo questo libro
possa contribuire a smontare.
Veniamo dunque, infine, a una presentazione più analitica dei vari capitoli
di questo libro. Il testo è suddiviso in tre parti principali, che
propongono rispettivamente: uno sguardo sull’attivismo antispecista; una
panoramica dei principali temi che stanno affiorando in questi anni; alcuni
esempi di pratiche che rivestono un particolare interesse per chi si approccia
allo studio dei movimenti animalisti/antispecisti in Italia.
Nella prima sezione, Nicola Righetti affronta da un punto
di vista sociologico uno dei nodi principali rispetto all’identità dei
movimenti antispecisti, il veganismo. Non un tema nuovo dunque e nemmeno una
nuova prospettiva. Le peculiarità assunte negli ultimi anni necessitano
tuttavia di un’analisi puntuale. Il veganismo, infatti, è un oggetto centrale
per chi osserva – tanto “dall’esterno” quanto “dall’interno” – le lotte per i
diritti animali, ma è al tempo stesso un oggetto sfuggente: pratica di consumo,
espressione di un’istanza etica o di un posizionamento politico, elemento
costitutivo di una comunità piuttosto eterogenea. Tanto da costituire uno degli
argomenti al centro del dibattito fra animalisti/e, un dibattito che non di
rado sfocia nella polemica aspra. Del resto, lo stile di consumo, e in
particolare il modo di cibarsi (con tutte le implicazioni relative alla sfera
simbolica, alla convivialità e all’identità culturale), costituisce
inevitabilmente la chiave di accesso alla questione animale nel discorso
pubblico.
Il rapporto con l’opinione pubblica, tuttavia, risente delle modalità
scelte – o, talvolta, subite – dai movimenti animalisti per relazionarsi con
l’immaginario collettivo. Come mostra il contributo di Francesca De
Matteis e Niccolò Bertuzzi sull’attivismo nell’era delle tecnologie
digitali, tali scelte sono tutt’altro che neutre, e, anzi, ci dicono molto
sulle visioni del mondo e della politica di chi le compie. Una possibile chiave
di lettura della mobilitazione in favore dei non umani è quella di distinguere
proprio fra le diverse strategie di comunicazione, mostrando come a diverse
tipologie di campagne di protesta o sensibilizzazione corrispondano (anche se
non sempre) soggetti diversi e diverse opinioni sui rapporti fra questione
animale e altri temi sociali. Lo spettro di possibilità va dall’animalismo
“puro”, ove sembra scontato isolare e risolvere il problema dello sfruttamento
animale in modo del tutto indipendente da altre istanze, all’antispecismo più
consapevole dei legami fra liberazione umana e animale.
A partire da questo argomento “sensibile” prende le mosse il contributo dei
due curatori, che chiude la prima sezione. Le diverse visioni dell’animalismo
si riflettono anche sulle relazioni con la politica di palazzo e in particolare
con le destre o con formazioni populiste, soprattutto in un contesto come
quello italiano in cui queste esprimono diverse strategie per canalizzare la
sensibilità animalista e tradurla in consenso. La tornata elettorale del 4
marzo 2018 può essere vista come una manifestazione paradigmatica
dell’articolazione di discorsi pro-animali “da destra” e della loro capacità di
attecchire su un terreno scarsamente preparato dal punto di vista
politico/elettorale e sostanzialmente caratterizzato da posture qualunquiste
che vedono nella questione animale un tema trasversale. Sulla base di tali
considerazioni, il saggio analizza approcci e discorsi di berlusconismo (nella
figura soprattutto di Michela Vittoria Brambilla), leghismo, estremismo di
destra e Movimento 5 Stelle.
La seconda sezione fa emergere quindi le elaborazioni che, al confine
fra teoria e pratica, hanno assunto carattere di novità nel nostro Paese. Si parte dagli
allevamenti “etici” o “sostenibili”, tema oggetto di discussione da alcuni anni
anche all’estero, dove assume specificità locali (si veda per esempio
l’interesse statunitense per il locavorismo e i suoi aspetti critici). Il
prezioso lavoro del collettivo “BioViolenza”, che qui racconta sé stesso
e gli sviluppi della critica alla cosiddetta “carne felice”, ha permesso di far
emergere un ambito di produzione di prodotti e immaginari che vanno dalla carne
biologica al mito della vecchia fattoria passando per le normative sul
benessere animale. Un lavoro che è stato al tempo stesso teorico – con la
traduzione di testi, l’elaborazione di una critica serrata, la produzione di
contro-narrazioni – e pratico – con interventi di contestazione pubblici,
manifestazioni e azioni di disturbo. Se inizialmente la critica all’allevamento
sostenibile poteva essere tacciata di purismo ideologico in quanto interessata
a puntare l’attenzione su una nicchia di mercato, col passare del tempo essa ha
saputo mostrare l’importanza di comprendere, se non anticipare, le strategie
discorsive e pubblicitarie dell’industria dello sfruttamento animale.
Qualche anno dopo, emerge una prospettiva per certi versi maggiormente
straniante, quella della resistenza animale, al centro del successivo capitolo.
Anche in questo caso, abbiamo dato voce all’omonimo collettivo che ha promosso
una discussione sul tema tramite strumenti teorici, ma anche tramite
mobilitazioni su singoli casi di animali fuggitivi, e soprattutto tramite
un’opera di documentazione costante degli episodi di ribellione negli zoo, nei
circhi, nei laboratori, negli allevamenti e nei mattatoi. È stato probabilmente
grazie a quest’ultimo punto che oggi esiste un’ampia fetta di attivisti/e, in
Italia, che trova del tutto normale mettere in discussione gli atteggiamenti
“eroici” dell’animalismo umano con la sua pretesa di prendere parola al posto
dei soggetti oppressi.
Una visione non paternalista, peraltro, permette di intraprendere un
dialogo con altri movimenti sociali su nuove basi, come suggerito dall’ultimo
contributo della sezione, in cui feminoska prende le mosse proprio da Animals
without Borders, il libro di Sarat Colling sulla resistenza animale[4], per discutere i
vantaggi e gli aspetti critici di un posizionamento transfemminista queer e
decoloniale per le istanze di liberazione animale. La storia recente dei
rapporti fra pensiero antispecista e teoria queer fa emergere qui sia le
potenzialità sia gli aspetti critici delle alleanze fra movimenti, esortando
allo stesso tempo a non dare per scontate le affinità fra le lotte e a
ricercare i punti di contatto fra le oppressioni.
Infine, nella terza sezione compaiono i contributi maggiormente “a
contatto” con le pratiche. Il tema dell’intersezionalità si riflette
nell’esperienza di un gruppo antispecista (Farro&Fuoco) attivo nel
movimento No Expo a Milano, un’esperienza commentata da Francesca Gelli con
l’intento di fare il punto sull’urgenza – e i problemi – di un attivismo per i
non umani che si autodichiara anticapitalista, e che individua nella critica al
sistema di produzione attuale e alla distribuzione colonialista delle risorse
un nodo centrale per l’evoluzione del discorso pubblico sullo sfruttamento
animale. Un nodo che evoca anche le difficoltà di relazione fra due mondi: da
una parte, gli ambiti di movimento che – pur nella loro radicalità – si sono
formati in un contesto sostanzialmente antropocentrico; dall’altra, l’ambiente
antispecista, troppo spesso adagiatosi su una visione del veganismo come stile
di consumo perfettamente compatibile con l’attuale assetto neoliberista.
Il secondo contributo della sezione, a firma di Agripunk e Maria
Cristina Polzonetti, introduce lettori e lettrici a quella che forse è
attualmente la traduzione in prassi più visibile delle istanze di liberazione
animale, e cioè i rifugi per animali “da reddito” liberati, che in molti paesi
sono già da tempo preziose eterotopie e luoghi di diffusione del pensiero
antispecista. Anche in questo caso, però, le cose non sono così semplici come
potrebbero sembrare: accogliere animali scampati dallo sfruttamento in un
contesto in cui questo stesso sfruttamento è accettato come del tutto normale
da vari punti di vista (giuridico, culturale, politico) significa farsi carico
in modo molto concreto di contraddizioni forti, cercando di contemperare le
esigenze di una visione radicalmente “altra” e quelle della cura dei singoli
individui con le proprie storie di sofferenza e resistenza.
Ancora la resistenza animale costituisce, per certi versi, un filo
conduttore che conduce a ridiscutere il nostro rapporto – di umani, di
cittadini/e, ma anche di attivisti/e – con gli animali apparentemente
privilegiati, i cani e i gatti che vivono negli appartamenti. Attraversando il
fenomeno del randagismo – quello che è significativamente chiamato “piaga”
dagli stessi animalisti – nell’ultimo capitolo di questo libro, Davide
Majocchi presenta il percorso che lo ha portato a ideare e discutere
in diversi ambienti il docu-film No Pet, a proporre una visione
critica del rapporto con gli animali “da compagnia” e a incoraggiare un
dibattito sui cani senza padrone che tenga il passo con i progetti emergenti di
gestione canina sul territorio. Non si tratta soltanto di riconoscere
piena agency anche ai membri di specie apparentemente più
fortunate o di denunciare l’esistenza di un ampio settore industriale che lucra
su uno sfruttamento meno plateale rispetto a quello dei mattatoi o dei circhi.
Si tratta anche di fare i conti con i complessi rapporti fra lo slancio
dell’opposizione antispecista allo sfruttamento e la necessità della cura, qui
e ora, in un contesto specista.
Tutti i contributi di questo libro restituiscono, speriamo, l’immagine di
una complessità ineliminabile, una complessità che necessita, per essere
affrontata, di un rapporto costante fra teoria e prassi, fra visione utopica e
contatto con le vite concrete e con le dinamiche sociali. In questo senso, non
pretendiamo di fornire facili risposte, ma al contrario di moltiplicare le
domande. Mentre i movimenti antispecisti vengono spesso ridotti a un generico
appello all’“amore per gli animali”, auspichiamo che questa raccolta di testi,
insieme ad altre che la seguiranno, riesca al contrario a mostrare la ricchezza
di riflessioni, discussioni e pratiche che al suo interno si stanno sviluppando
in questi anni, poiché siamo fermamente convinti che soltanto un movimento
(auto)critico potrà essere in grado di contrastare l’immane violenza che il
sistema di produzione e di governo neoliberista riproduce incessantemente sul
piano simbolico e materiale.
[1] Cfr. P. Bourdieu,
L. Wacquant, An Invitation to Reflexive Sociology, University of
Chicago Press, Chicago 1992.
[2] Cfr. M. Cole, K.
Morgan, Vegaphobia: Derogatory Discourses of Veganism and the
Reproduction of Speciesism in UK National Newspapers, in “The British
Journal of Sociology”, vol. 62, n. 1, pp. 134-153 (tr. it.
http://it.vegephobia.info/public/vegafobia_cole_morgan_ITA.pdf).
[3] Si veda, ad
esempio, quanto accaduto fuori da un ristorante milanese nel maggio 2018:
https://milano.repubblica.it/cronaca/2018/05/24/news/blitz_al_ristorante_vegano_milano_arrestati_quattro_studenti-197243630/
Nessun commento:
Posta un commento