mercoledì 21 settembre 2022

Una roccia racconta la fine dei dinosauri - Massimo Sandal



A sinistra: lo strato di argilla ricca di iridio si trova nella fessura tra gli strati rocciosi più chiari e quelli più rossi. A destra: gli strati definiti “maioliche” che corrispondono all’era del cretaceo. Gola del Bottaccione (Gubbio), giugno 2022 (Massimo Sandal)


Il borgo di Gubbio, in Umbria, è un gioiello di storia romana e medievale. Non molti sanno però che la cittadina ospita uno dei monumenti naturali più importanti del paese, eretto ben prima del teatro romano o delle tavole eugubine in lingua umbra, datati tra il terzo e il primo secolo avanti Cristo. È un luogo eccezionale, noto quasi solo ai geologi, che ha segnato la storia della scienza: nella gola del Bottaccione, fuori dalle mura di Gubbio, sono state rilevate le tracce della più immane catastrofe naturale che abbia mai colpito il nostro pianeta, cioè il cataclisma cosmico che ha ucciso i dinosauri e, con loro, tre quarti delle forme di vita sulla Terra. Sessantasei milioni di anni fa, infatti, un asteroide con un diametro di dieci chilometri si schiantò nel golfo del Messico, incendiando interi continenti, alterando il clima e segnando la fine dell’era geologica mesozoica.

All’occhio inconsapevole, il sito della gola del Bottaccione non rivela granché della sua importanza. È una stretta valle scavata dal torrente Camignano, in cui oggi scorre la statale 298 che affonda nell’Appennino in direzione delle Marche, tra il monte Foce e il monte Ingino. Non è esattamente il Grand canyon. Le pareti rocciose a strati paralleli e sovrapposti – bianchi in alcuni punti, rossastri in altri – sono pittoresche, ma non molto diverse da quelle che s’incontrano lungo molte altre anonime strade. In alto si intravede l’acquedotto medievale, che dal 1327 fino al ventesimo secolo ha servito acqua a Gubbio, e su cui oggi si può camminare per una piacevole escursione (“Bottaccione” deriva da “bottaccio”, nome per il bacino di raccolta delle acque).

Lungo la strada s’incontrano un agriturismo e una piccola trattoria, ricavati all’interno di antichi mulini. Poche centinaia di metri dopo, sulla destra, la strada si apre in un piccolo piazzale sterrato, segnato solo da una placca gialla sulla roccia e da un cartello che mostra in basso il disegno un po’ kitsch di un tirannosauro. La placca recita: “Sezione stratigrafica paleomagnetica – Gola del Bottaccione – Limite tra era secondaria ed era terziaria”. Sembra impossibile che qui si sia consumata una delle più sorprendenti storie della scienza del ventesimo secolo.

Il sito è un’eccezionale palestra didattica e scientifica per gli aspiranti geologi. Il professor Federico Fanti, paleontologo dell’università di Bologna e collaboratore del National Geographic, insieme ad altri colleghi e colleghe dello stesso ateneo, in particolare le professoresse Claudia Spalletta e Rossella Capozzi, portano al Bottaccione gli studenti del primo anno, che qui imparano a muovere i primi passi nella loro disciplina.

Oceano perduto

“Questo luogo una volta era molto diverso”, spiega Fanti agli studenti. Per riuscire a immaginarlo bisogna far sprofondare queste colline, ora roventi sotto un sole di giugno troppo caldo, giù negli abissi oceanici, a duemila metri di profondità. Gli strati oggi visibili in superficie erano i fanghi del fondo di un oceano scomparso. I più antichi risalgono a oltre 115 milioni di anni fa, in pieno cretaceo (l’ultimo periodo dell’era mesozoica). I più recenti invece a circa 50 milioni di anni fa, in piena era terziaria, quando l’oceano scomparve e le forze geologiche sollevarono i fondali fino a trasformarli nei monti dell’Appennino. Come le pergamene di un annuario medievale, gli strati di roccia registrano con precisione ciò che accadde sul fondo dell’oceano.

L’alfabeto di questo libro non è di immediata lettura. Al Bottaccione non si trovano fossili “grandi”: niente ossa di dinosauro, niente conchiglie a spirale di ammoniti. Le rocce sembrano uniformi, a grana finissima, tanto che quelle degli strati più antichi vengono chiamate “maioliche”, perché sono bianche, omogenee e, se colpite con un martello, si rompono come fossero di porcellana. Sono composte in gran parte da conchiglie microscopiche di organismi unicellulari. Questi esseri vivono anche oggi nei primi 300 metri d’acqua dalla superficie degli oceani. E quando muoiono, le loro conchiglie cadono come una lenta e sottile polvere sul fondo del mare. Nei secoli, millimetro dopo millimetro, si accumulano per centinaia di metri di spessore. “Erano organismi a cui serviva un’acqua estremamente limpida, e qui eravamo almeno a mille chilometri dalla costa”, spiega Claudia Spalletta. Questi sedimenti, quindi, non sono mai stati “inquinati” dai detriti scaricati dai fiumi, un’altra caratteristica che rende il sito speciale.

Essendo così diffusi in tutti gli oceani, e lasciando miliardi di piccoli gusci riconoscibili al microscopio, è possibile seguire i mutamenti di questi fossili lungo le ere geologiche. In particolare grazie ad alcuni di essi, noti come foraminiferi, si può assegnare con sicurezza una data e un’appartenenza anche a strati geologici lontani tra loro. È un po’ come datare una fotografia dall’abbigliamento delle persone ritratte.

Fu proprio grazie a questi minuscoli gusci che il paleontologo svizzero Otto Renz e, in seguito, la paleontologa italiana Isabella Premoli Silva, misero giù il primo tassello del mosaico. Negli anni trenta, grazie ai foraminiferi, Renz riuscì ad assegnare una data agli strati del Bottaccione e capì che includevano ciò che era successo prima e dopo l’estinzione di fine cretaceo. Premoli Silva, negli anni sessanta, si focalizzò su un punto particolare della gola: quel piazzale sterrato e anonimo oggi indicato solo da una placca gialla. “Qui la paleontologa si accorse che, seguendo le rocce in ordine cronologico, a un certo punto i fossili mutavano bruscamente”, dice Rossella Capozzi mentre indica la parete rocciosa. In basso si possono scorgere – sapendo cosa guardare – i foraminiferi tipici del cretaceo, le cui conchiglie sono a volte abbastanza grandi da essere appena visibili a occhio nudo, come piccolissimi puntini nella roccia. Salendo verso gli strati più recenti, si raggiunge un momento in cui questi “puntini” scompaiono all’improvviso: per scorgere i microfossili che vengono dopo, serve un microscopio.

Come sulla terraferma i dinosauri scomparvero lasciando il posto a piccoli mammiferi, così anche nell’universo invisibile del plancton una florida popolazione di giganti lasciò il passo a pochi minuscoli superstiti. In mezzo a questi due mondi fossili, preciso come un segnalibro, qualcosa di assolutamente anomalo: un sottile strato scuro di argilla friabile, untuosa, completamente diverso dalle rocce chiare sopra e sotto. “Sembra un tratto di penna, lo vedi solo se qualcuno te lo fa notare”, dice Fanti. “Non è nulla, rispetto a quello che rappresenta”.

Attraverso pazienti confronti con rocce simili in altri paesi, come la Danimarca, Premoli Silva e altri colleghi dimostrarono che quel sottile segnalibro di argilla nera era qualcosa di eccezionale: era stato deposto proprio durante l’estinzione di fine cretaceo, sessantasei milioni di anni fa. In molte località simili, i sedimenti si interrompono a cavallo dell’estinzione, come se le pagine del libro fossero state strappate proprio in quel punto. Al Bottaccione le pagine ci sono tutte...

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