lunedì 30 ottobre 2023

Sanità, non c’è antidoto all’autonomia differenziata - Arianna Rotulo

 

In Italia 22 milioni di persone sono intrappolate in liste d’attesa infinite dopo decenni di regionalismo sanitario. E l’autonomia differenziata del disegno di legge Calderoli peggiorerebbe la situazione. Non sarebbero i LEA o i LEP né il regionalismo fiscale a garantire l’universalismo dei servizi ovunque.

Nel Servizio Sanitario Nazionale, 22 milioni di persone, cioè una su tre in tutto il Paese, sono intrappolate in liste d’attesa senza fine. Questo dato, più che una rivelazione, è un’ovvia verità. Le storie di chi aspetta mesi, e persino anni, per un controllo sono note a molti, sia per esperienza personale che per procura. C’è chi non può permettersi di aspettare e preferisce rivolgersi al privato, pagando di tasca propria. Altri, circa quattro milioni di persone, non solo non possono attendere, ma non hanno neanche la possibilità economica di considerare alternative. Questo dato è ancor più inquietante se si pensa che sono proprio coloro che vivono in condizioni di povertà ad avere più bisogno di una sanità accessibile.

Il problema delle liste d’attesa c’è da almeno vent’anni ed è una questione legata alle regioni, ha fatto sapere Orazio Schillaci. Sebbene sia lodevole che il ministro della Salute abbia individuato le mancanze del sistema sanitario nei confronti dei suoi utenti, preoccupa il fatto che il governo di cui fa parte continui imperterrito sulla strada dell’autonomia differenziata, che apporterà nuove ma simili problematiche.

L’autonomia differenziata trae spunto dall’esperienza italiana del regionalismo sanitario, un pilastro tutt’altro che solido. Per avere un assaggio di ciò che ci attende, basta guardare alla progressiva erosione e allo smantellamento del SSN dopo decenni di regionalismo – tra l’altro, causa principale delle lunghe liste d’attesa.

Sia il regionalismo sanitario che l’autonomia differenziata fanno parte di una serie di riforme di decentralizzazione, un insieme variegato di politiche volte al trasferimento di poteri amministrativi, politici e/o economici dai governi centrali alle autorità regionali. La decentralizzazione è un processo in sé complesso: può essere portato avanti in molti modi e ottenere effetti molto diversi fra loro. Per questo il vero dilemma – seppur trascurato – non è se decentralizzare o meno, ma quali funzioni decentralizzare e come.

Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un sistema sanitario universalistico ed equo dovrebbe avere un’organizzazione decentralizzata dell’assistenza e un finanziamento centralizzato ed equo. Questo perché deve non solo soddisfare le specifiche esigenze delle comunità locali, ma anche distribuire equamente il rischio finanziario tra la popolazione, evitando che ciascun individuo affronti da solo l’onere delle spese sanitarie in caso di necessità. 

In questa prospettiva, la decentralizzazione è un elemento cruciale per qualsiasi riforma volta a rafforzare i sistemi di assistenza e a renderli più reattivi ai bisogni sanitari e di salute delle comunità locali. Fu proprio su tali presupposti che si fondò il Servizio Sanitario Nazionale alla sua nascita, nel 1978. 

Tuttavia, sia il regionalismo sanitario che l’autonomia differenziata si basano sull’approccio opposto: l’organizzazione centralizzata di quanto e cosa erogare – tramite Livelli Essenziali di Assistenza (LEA, esclusivamente per la sanità) e Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP, per gli altri settori) – e l’autonomia fiscale, ottenuta tramite l’aziendalizzazione degli enti pubblici e la regionalizzazione delle finanze. 

L’enfasi sull’autonomia fiscale è più che mai fondamentale per comprendere i rischi dell’autonomia differenziata. Il termine tecnico è “fiscal decentralization” – decentralizzazione fiscale – e si riferisce alla presa in carico delle regioni della responsabilità di reperire, distribuire e utilizzare le risorse fiscali per un certo servizio pubblico. Questa pratica – sempre più diffusa a livello internazionale – costituisce una minaccia per i servizi di assistenza e per le fasce di popolazione che dovrebbero beneficiarne.

Guardando ancora una volta alla sanità, la decentralizzazione fiscale è arrivata nel SSN con la riforma del Titolo V, attraverso l’introduzione dei LEA e dei meccanismi locali necessari al loro finanziamento: due tasse regionali specifiche per la sanità (IRAP e addizionale IRPEF), ticket imposti a livello regionale, e ricavi delle strutture sanitarie aziendalizzate e dell’attività intramoenia (pratica perversa che incentiva il personale sanitario pubblico ad esercitare attività privata nelle strutture pubbliche, una concausa delle liste d’attesa senza fine).

In questo assetto, il sistema sanitario è finanziato regionalmente: le entrate vengono raccolte e utilizzate solo all’interno della stessa regione, non più distribuite su tutto il paese. Ciò comporta che le risorse necessarie per l’assistenza dipendono dalla capacità fiscale specifica di ogni territorio, non più dalle effettive esigenze sanitarie e di salute della popolazione. Quello che viene a mancare è un vero e proprio meccanismo di solidarietà, uno strumento per mitigare, ridurre e prevenire gli effetti della povertà e delle disuguaglianze sulla salute delle persone. 

Sebbene lo Stato contribuisca al finanziamento dei LEA con un fondo integrativo, questo è ben lontano dall’essere un valido meccanismo per l’abbattimento delle disuguaglianze: non solo perché si basa su criteri che non tengono adeguatamente conto dei bisogni territoriali, ma anche perché le risorse provengono principalmente dall’IVA, una tassa notoriamente ingiusta e regressiva

Senza meccanismo veramente solidale (per definizione, centralizzato), le risorse pubbliche per i LEA (ovvero le entrate regionali e le integrazioni dello stato) sono inversamente proporzionali e insufficienti a soddisfare i bisogni di salute differenziali della popolazione. Dati alla mano, nel 2021 il finanziamento per il Mezzogiorno è risultato inferiore del 7% rispetto alla media del Centro-Nord (elaborazione su dati del CIPESS, Delibera 70/2021), mentre il tasso di famiglie in povertà e di persone in cattiva salute è aumentato, specie nel Centro-Sud.

Ecco che se il gettito regionale non basta a garantire i servizi per la popolazione, il sistema si sovraccarica e le liste di attesa si allungano. Studi recenti suggeriscono che l’autonomia fiscale ha accentuato le disuguaglianze tra regioni ricche e povere, per esempio riducendo significativamente il personale e i posti letto pubblici e permettendo al settore privato di colmare queste lacune. La diminuzione dei servizi pubblici ha spinto molti pazienti verso strutture private. Le zone economicamente svantaggiate sono le più colpite da questi tagli, mentre le regioni più ricche hanno comunque investito soldi pubblici nel settore privato a scapito di quello pubblico.

In un contesto così frammentato, le regioni sono spinte a competere per attirare investimenti pubblici e privati, sovvenzioni governative e forza lavoro al fine di aumentare la loro capacità fiscale e acquietare gli animi dei loro bacini elettorali. Le regioni più ricche hanno un vantaggio evidente rispetto alle loro controparti e non fanno mistero di voler mantenere questa posizione di potere. Lo dicono apertamente le amministrazioni di Veneto, Emilia Romagna e Lombardia negli accordi preliminari per l’autonomia differenziata

Non sorprende, quindi, che gli esperti del settore considerino la decentralizzazione (o autonomia) fiscale come una misura regressiva, atta a proteggere gli interessi del mercato. Per il governo centrale, l’autonomia è lo stratagemma perfetto per ridurre il flusso di denaro pubblico verso settori non redditizi, promuovere l’espansione del settore privato a macchia di leopardo e introdurre meccanismi di controllo della spesa, esternalizzando alle regioni la colpa di aver eroso il sistema di welfare, privatizzato i servizi pubblici e attuato politiche di austerità neoliberiste.

Per i rappresentanti di una certa fascia di popolazione però, ottenere l’autonomia significa riappropriarsi delle proprie ricchezze e liberarsi da qualsiasi vincolo regolatorio nella raccolta e redistribuzione delle risorse. Come afferma Calderoli nell’introduzione al suo Disegno di Legge (DDL) per l’autonomia differenziata, si vuole evitare “che il rallentamento di talune realtà colpisca quelle che potrebbero avere un ruolo da traino”. Considerato che solo il 23% delle entrate del paese proviene dalle regioni del Mezzogiorno (elaborazione su dati del Ministero per la coesione territoriale, 2021), questo vuol dire legittimare finanziamenti da fame al Centro-Sud in nome dell’accumulazione del profitto al Centro-Nord.

Date le evidenti criticità del modello sanitario, non sorprende che le modalità di finanziamento per l’autonomia differenziata siano la parte più cruciale ma anche la più vaga e oscura del testo del DDL a firma Calderoli. Ciò che è chiaro è che i LEP, proprio come i LEA, non saranno definiti in base alle necessità delle comunità locali, ma secondo criteri di bilancio. Saranno finanziati mediante la regionalizzazione di altre imposte dirette o con un meccanismo simile a quello di distribuzione dell’IVA, già in uso per la sanità. 

In questo scenario, cosa sarà del SSN e dei nuovi servizi da regionalizzare? Il primo, già spolpato dal regionalismo, si troverà a competere con gli altri settori per un pugno di IVA in più. Gli altri, non importa se indeboliti da anni di austerità, rischiano di rimanere circoscritti nel recinto dei loro LEP, senza possibilità di espandersi o di adattarsi se non nei contesti più ricchi e sotto l’influenza (in)visibile del mercato.

*Docente e ricercatrice in politiche dei sistemi sanitari al Dipartimento di Sustainable Health dell’università di Groningen

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domenica 29 ottobre 2023

Venezia, l’addio mai detto alle grandi navi - Giada Santana

  

La costruzione di un porto temporaneo a Venezia per accogliere le grandi navi ha riaperto un dibattito che lacera la città da decenni, tra chi si batte per la salvaguardia della laguna e chi spinge per la crescita economica a tutti i costi

 

Se dalle finestre arcuate del campanile di San Marco vedeste un uomo su un piccolo motoscafo che sfreccia verso l’orizzonte, non lo riconoscereste. Sebastiano Bergamaschi, cofondatore del movimento Fridays for Future di Venezia, 24 anni, è coperto dalla testa ai piedi da un passamontagna nero e da una pesante giacca scura. Solo i suoi occhi si muovono, contro il vento freddo che gli sferza il viso. Intanto, la barca attraversa il canale Malamocco Marghera, a pochi chilometri dal centro di Venezia. È il 27 Novembre 2022 e l’attivista è in missione per verificare la presenza di anomalie: lavori edilizi non annunciati, o il passaggio non autorizzato di crociere. «Vedete, è da qui che passano ora le navi», dice mentre ci mostra i contorni sfocati di una imbarcazione all’orizzonte. «I giganti non sono più dentro casa, li hanno spostati lontano dagli occhi», aggiunge Ruggero Tallon, attivista del Comitato No Grandi Navi che ci accompagna nel viaggio.

 

L'inchiesta in breve

·         Per proteggere il business delle grandi navi a Venezia, l’Autorità portuale sta costruendo un sistema di approdi provvisori che richiederà interventi sull’ecosistema lagunare

·         Le crociere passeranno per il canale Malamocco Marghera, che già versa in condizioni critiche dovute all’impatto del traffico marittimo degli anni sessanta

·         Parallelamente, le casse di colmata, un biotopo naturale nell’area, verranno rinforzate con barriere rigide e sopra vi verranno depositati chili di fanghi dragati dal canale

·         L’ultima volta che il canale è stato dragato, negli anni Sessanta, la città ha vissuto la più grande acqua alta di sempre (194 cm)

·         L’Autorità Portuale vuole alzare il numero di crocieristi ad un milione al 2027.
Scienziati, organizzazioni ambientali e la Commissione europea hanno espresso preoccupazione per l’effetto che questo progetto avrà sulla sopravvivenza della città

Come la maggior parte dei residenti della città, giovani attivisti come Tallon e Bergamaschi hanno un attaccamento quasi religioso a Venezia. Entrambi si sono dati all’attivismo politico da studenti e si sono subito uniti al movimento per il clima. «La prima volta che sono saltato davanti a una barca avevo diciassette anni», racconta Sebastiano. Una volta terminato il liceo, i due sono passati da essere compagni di scuola a organizzatori di proteste, mentre i sindaci diventavano via via più indifferenti alla causa ambientale, secondo Ruggero.

I due sono in allerta a causa dell’espansione del porto “provvisorio” che aprirà una nuova strada alle grandi navi nella Laguna di Venezia…

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venerdì 27 ottobre 2023

Donne e lavoro, la rivoluzione dei gelsomini - Matteo Dalena e Lorenzo Coscarella

  

Il viaggio tra i mestieri perduti o in via di sparizione della Calabria prosegue sulle coste joniche con la storia delle gelsominaie, che fino agli anni '70 portavano a casa il pane per figli e mariti facendo turni massacranti nei campi per raccogliere i fiori destinati alla produzione di profumi.

 

 “Riviera dei Gelsomini” è la denominazione a uso e consumo turistico che indica il tratto di costa della provincia di Reggio Calabria bagnato dal mar Ionio. Certo, il gelsomino è un bel fiore e il nome suona bene da abbinare a spiagge, località e attrazioni. Ma la motivazione della scelta è ben più profonda.

Chi avrebbe mai detto, infatti, che un fiore piccolo come il gelsomino abbia dato vita a un’economia locale relativamente florida che, fino alla metà degli anni ’70 del ‘900, ha caratterizzato il paesaggio, la vita e la storia di intere comunità, iniziando da Villa San Giovanni ed espandendosi poi per tutta la costa ionica reggina fino a Monasterace.

Fiori ricercati

In questo territorio era possibile ammirare le distese di piantagioni in cui veniva coltivato il gelsomino. Dal fiore si ricavavano essenze ricercate per la realizzazione dei profumi ed altri prodotti. La maggior parte del raccolto di gelsomini, dopo la trasformazione in una pasta chiamata “concreta”, prendeva la strada della Francia, dove le tecnologie permettevano la sua lavorazione. I fiori più ricercati giungevano dalla Calabria e dalla Sicilia: nel 1945, il 50% del fabbisogno mondiale di gelsomini, con 600 mila kilogrammi prodotti, proveniva dalle province di Reggio Calabria, Messina e Siracusa.

Le zone costiere erano quelle che meglio ne favorivano la coltivazione. Ciò contribuì a svuotare diversi paesini dell’entroterra favorendo lo sviluppo della marina. È emblematico il caso di Brancaleone. Come evidenzia l’antropologo Vito Teti, era diventata «un’isola quasi felice soprattutto per la produzione del gelsomini, che consente alle famiglie un vivere più dignitoso rispetto alla miseria, alla povertà degli anni precedenti». Grazie alla “valvola di sfogo” del gelsomino e di altre produzioni come quella del bergamotto e del baco da seta, infatti, a Brancaleone l’emigrazione fu un fenomeno più lieve rispetto ad altri centri della zona.

A capo chino

A raccogliere i fiori erano le donne, in gran parte ragazze, le gelsominaie. La ragione era semplice: per raccogliere i fiori senza danneggiarli servivano mani attente e delicate. A dispetto della delicatezza necessaria alla raccolta, il lavoro delle gelsominaie era tutt’altro che leggero. Le testimonianze raccontano di alzatacce in piena notte per avviarsi a piedi, in gruppi di venti o trenta persone, e giungere nei campi per iniziare la raccolta quando ancora era buio, nel momento in cui il fiore era aperto. E la raccolta proseguiva per ore, sempre con il capo chino e la schiena curva, per un salario da fame che però era necessario per portare a casa il pane per una stagione.

Il salario delle gelsominaie rappresentò per decenni un motivo di lotta e rivendicazioni. Le poche lire vennero man mano aumentate anche grazie alle significative lotte sindacali di cui le raccoglitrici di gelsomino si fecero portatrici dal secondo dopoguerra in poi. Giunsero anche ad un «Contratto collettivo 13 agosto 1959 per le lavoratrici addette alla raccolta del gelsomino della Provincia di Reggio Calabria». Il contratto collettivo, insieme ad alcune prescrizioni sulla retribuzione tra cui il pagamento dell’indennità di caropane e di un’altra piccola indennità per il trasporto fino al luogo di lavoro, prevedeva che «ad ogni raccoglitrice sarà corrisposta la somma di lire 195 per ogni chilogrammo di gelsomino raccolto in normali condizioni di umidità».

Dai centomila chili al collasso

Quella del gelsomino calabrese era una produzione relativamente “recente”, risalente a circa un secolo fa. Nel 1933, ad esempio, il periodico L’Italia vinicola ed agraria annunciava con enfasi che la Calabria si apprestava «a diventare uno dei più grandi centri del mondo per la coltura di piante da profumeria». L’autarchica Italia mirava probabilmente a minare il “monopolio” francese della coltivazione del fiore. Dal 1930 al 1933 in Calabria vi erano ancora soltanto «25 ettari coltivati in via sperimentale con gelsomini, rose e gaggie», che avevano prodotto però centomila chili di fiori «eccellenti per ricchezza di profumo».

Reggio Calabria operava anche una «Stazione essenze» e la «Cooperativa fiori del sud», che riuniva i coltivatori dei fiori. Già allora si sottolineava la questione del bisogno di manodopera, visto che solo in alcuni mesi in 20 ettari avevano lavorato 250 raccoglitrici. Un numero destinato a crescere con l’aumento delle piantagioni fino a giungere, secondo le testimonianze, a circa 10mila addette. Col tempo sarebbe sorta una distilleria per l’estrazione dell’essenza del gelsomino anche a Brancaleone. Ma, a parte sparute esperienze, la produzione continuava ad essere legata soprattutto alla domanda estera. Quando fu possibile riprodurre sinteticamente alcune fragranze, l’economia del gelsomino collassò.

In Parlamento

La prolungata assenza da casa delle madri costringeva i bimbi delle gelsominaie a una vita di stenti. In tal senso l’assistenza istituzionale all’infanzia e alla maternità era cosa pressoché sconosciuta nei piccoli paesi della fascia ionica calabrese. Nel 1968 le dinamiche della vita grama delle raccoglitrici di gelsomini reggine vennero udite tra gli scanni di Palazzo Madama. Il 26 settembre in Senato si discusse la proposta di una «Concessione di un contributo straordinario di lire 13 miliardi a favore dell’Opera nazionale maternità e infanzia».

È il senatore comunista Emilio Argiroffi (1922-1998) – che di lì a qualche anno sarebbe stato relatore della legge sull’istituzione degli asili nido – a tirare in ballo le gelsominaie, le loro problematiche e quelle dei loro figliuoli. Secondo quello che sarà il futuro sindaco di Taurianova «gli infelici ragazzi spastici di Girifalco», «il figlio della raccoglitrice di olive di Oppido» come quelli delle gelsominaie del Reggino erano portatori di una serie di una serie di «marchi illiberali» che facevano di loro dei «minorati», condannati prima dalla natura e poi dalla società, e le vittime privilegiate «dello sfruttamento dell’uomo sull’altro uomo».

In molti casi le gelsominaie erano costrette a portare le proprie creature «a lavorare nei campi di raccolta alle 2 di notte, e sono latori di specifiche sindromi di malattia da lavoro, come le convulsioni e le lesioni neuro psichiche provocate dall’aroma dei gelsomini». Solo alcune potevano contare sulla presenza di figlie più grandicelle cui affidare i propri lattanti.

I primi servizi sociali

Si usava “affardellare” e deporre la creatura incustodita ai margini del campo o ai piedi di un albero, nel caso delle raccoglitrici di olive. Ma in alcuni paesi, prosegue Argiroffi, erano le «vecchie invalide» – le cosiddette «maestre di lavoro» – a badare ai loro figli in condizioni pietose: «Trattenuti in un tugurio, seduti in terra o su una fila di panchetti, freddolosamente avvolti nei loro stracci. Durante tutto il giorno costretti a snocciolare litanie incomprensibili, si nutrono con un tozzo di pane o qualche patata».

È grazie all’intensa attività di Rita Maglio (1899-1994) – antifascista, comunista, femminista impegnata per tutta la vita al sostegno delle classi sociali più umili e disagiate e tra le fondatrici dell’UDI (Unione Donne Italiane) calabrese – che si arrivò alla creazione dei primi servizi sociali a sostegno dell’occupazione femminile e della qualità di vita delle donne: asili, consultori familiari e servizi. A raccogliere la sua eredità fu la figlia Silvana Croce, che dalla fine degli anni ’60 s’impegnò per le donne braccianti. Croce evidenziò come il loro sfruttamento non riguardava solo le discriminazioni salariali, ma anche la mancata tutela della salute e della maternità.

Damnatio memoriae

Le donne dedite alla raccolta dei gelsomini in quelle lingue di terra da Bova a Monasterace e le raccoglitrici di olive della Piana condivisero le medesime problematiche e lotte per un salario più giusto e per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Ma a un certo punto, nel bel mezzo degli anni ’70, le loro strade si divisero.

Il passaggio alla meccanizzazione garantì alle raccoglitrici di olive la sopravvivenza. Mentre nel caso delle gelsominaie, le commesse cessarono e la vecchia fabbrica della “concreta” chiuse i battenti. Abbandonati i campi, con lo scorrere dei decenni anche la memoria di quell’attività gravosa e delle relative lotte s’infragilì fino a diventare labile, soggetta a dimenticanza. Su questo giocò pure il fatto che essendo un’attività praticata unicamente da lavoratrici donne, quella delle gelsominaie s’inserì nel solco dell’assenza o dell’esclusione quasi sistematica dalla narrazione dei fatti storici mainstream.

Come scrisse la storica Angela Groppi «che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storiograficamente acquisito». Ma non è stato sempre così. Il recupero del cosiddetto “lavoro delle donne” soggetto a incertezze, tagli, omissioni è stato possibile grazie alla storia sociale, di genere, alla microstoria, all’oralità, alla trasmissione dei saperi da una generazione di donne all’altra.

La Rugiada e il Sole

In questa linea di pensiero e azione va a situarsi il prezioso lavoro dell’UDI di Reggio che, come spiega Titti Federico, ha portato alla realizzazione del documentario La Rugiada e il Sole: «È finalmente venuto a termine un lavoro, nato dall’idea di Lucia Cara e avviato diversi anni fa dal percorso di recupero della nostra identità: raccogliere, conservare e narrare direttamente dalle loro voci la vita e il lavoro delle gelsominaie. Da tempo seguiamo il nostro desiderio di colmare e trasmettere alle nuove generazioni quanto è accaduto e fa parte appieno del percorso di una comunità. Oggi ne consegniamo un tassello restituendo valore e memoria alle tante storie delle donne. Questo lavoro sarà parte integrante dell’archivio dell’UDI e apparterrà alla storia della Calabria».

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giovedì 26 ottobre 2023

Carceri, le madri detenute sarde senza una casa: «L’unica struttura inaugurata nove anni fa e mai aperta»

(intervista di Alessandra Carta)

Maria Grazia Caligaris, socia-fondatrice dell'associazione "Socialismo Diritti Riforme": «Nei penitenziari dell’Isola ancora troppa discriminazione verso le donne. Serve assistenza personalizzata, e i malati non devono stare in cella»

 

Un taglio del nastro in pompa magna. Il 18 luglio del 2014. Poi più nulla. A Senorbì, nove anni fa, venne inutilmente inaugurato l'Icam, un istituto a custodia attenuata per madri detenute, uno dei cinque che si contavano in Italia. Sulla carta un faro di civiltà: permettere alle donne di scontare la pena senza separarsi dai figli piccoli e senza obbligarli all'orrore di una vita in cella. Eppure quell'appartamento concesso dall'amministrazione municipale al ministero della Giustizia – quattro camere con bagno più ludoteca, cucina e cortile - è rimasto lungamente inutilizzato. A inizio anno, come certificato dal Rapporto Antigone sulla situazione carceraria nazionale, il Comune di Senorbì l'ha voluto chiedere indietro per strapparlo all'insipienza dello Stato e restituirlo alla comunità locale.

Di Icam parla Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale del Psi e socia-fondatrice di “Socialismo Diritti Riforme”, l'associazione che dal 2009 lavora nel penitenziario di Cagliari per sostenere i reclusi nei percorsi di recupero.

Con lei, docente di Italiano e Storia in pensione, prosegue l'approfondimento di Unionesarda.it sulle carceri nell'Isola, un focus cominciato con l'intervista alla Garante regionale per i detenuti, Irene Testa.

Professoressa, una storia all'italiana, quella dell'Icam a Senorbì.
«Uno scandalo. Un investimento consistente per una struttura aperta giusto il giorno dell'inaugurazione. Che io, peraltro, ricordo molto bene. Non mancarono l'enfasi e le autocelebrazioni. Ma dei buoni propositi fatti si è perduta ogni traccia».


Oggi nelle strutture penitenziarie della Sardegna ci sono madri con figli?
«Al momento, che ci risulti, nessuna detenuta ha con sé figli minori. Da questo punto di vista c'è stata una grande maturazione da parte delle donne: pur nel dolore della separazione, preferiscono che i figli non vengano coinvolti nella vita detentiva. Per questo, nel 2014, l'apertura dell'Icam a Senorbì sembrò un giusta compensazione nella tutela delle madri private della libertà ed escluse, come tutte le altre donne, dalle colonie penali agricole. Ma a quell'inaugurazione del 2014 non è stato dato seguito».

Conosce i motivi?
«No. Ma se l'assenza di agenti penitenziari può essere prevedibilmente una causa della mancata apertura, resta da capire perché siano stati spesi soldi pubblici».

Donne in cella: qual è la situazione attuale?
«La condizione femminile nelle carceri, tanto in Sardegna quanto nel resto d'Italia, è fondata sulla discriminazione. Nel nostro Paese ci sono appena quattro penitenziari destinati esclusivamente alle donne: tutte le altre detenute sono costrette in piccole sezioni di carceri pensate e costruite a misura di uomini. Vero che la presenza femminile è residuale: in Sardegna le donne sono una quarantina su duemila e passa reclusi. Viaggiamo intorno al due per cento, percentuale che sale al 4 su base nazionale. Ma ciò non deve autorizzare a far venir meno le tutele sui diritti».

Carceri femminili e maschili in cosa differiscono?
«Intanto c'è un problema legato alla cultura. Le donne che finiscono in carcere sono, nella maggior parte dei casi, persone fragili sotto il profilo sociale e psicologico. Hanno figli, spesso in tenera età: vuol dire che vivono con grande sofferenza il distacco da loro e questo le rende ancora più insicure e meno capaci di reagire. Siamo davanti a una situazione di oggettiva difficoltà. Si aggiunga che in linea di massima le donne recluse non hanno commesso reati di grande pericolosità sociale: infatti restano in carcere per poco tempo. Ma questo condiziona l'accesso alle attività di formazione, visto che per raggiungere un buon livello di professionalizzazione i corsi sono pluriennali».

Qual è la conseguenza sotto il profilo della rieducazione?
«Per le donne diventa ancora più difficile emanciparsi, una volta che sono all'esterno. C'è poi il fatto che i lavori offerti all'interno del carcere, e questo vale anche per gli uomini, sono di scarsa qualità, nel senso che non richiedono particolari competenze. Le detenute e i detenuti vengono impiegati in cucina o nella consegna del cibo o a loro è affidata la pulizia degli spazi comuni. Tutti lavori che fanno parte della routine e non offrono chissà quali stimoli sotto il profilo dell'apprendimento. Solo di recente anche per le donne si è aperta la possibilità di un'occupazione grazie all'articolo 21 del Codice penitenziario, sia all'interno che all'esterno delle strutture penitenziarie. Ma sino a poco tempo fa questo sbocco professionale, dedicato proprio a sostenere il lavoro, era pressoché precluso».

I rapporti tra le detenute e le poliziotte come sono?
«Tesi, di norma. Proprio per la grande sofferenza interiore che le donne si portano dietro. Nelle sezioni femminili manca la serenità. Anche con educatrici ed educatori i rapporti sono spesso agitati. C’è una difficoltà nella comunicazione e nell’assunzione di responsabilità».

Tra le recluse ci sono episodi di violenza fisica?
«Violenza fisica no. Però tra loro manifestano una certa difficoltà a socializzare. Tendenzialmente, alla grande capacità di analisi personale le detenute affiancano uno spirito critico verso le altre. Tuttavia non ci sono aggressioni, non mi risulta. Capitano spesso schermaglie verbali che il più delle volte vengono rapidamente sanate».

Violenza psicologica?
«Quando capitano litigi, una detenuta può chiedere il divieto di incontro con l'altra compagna di sezione. Le attività vengono quindi organizzate in modo tale che le due non si vedano né si incrocino».

Come si sopravvive al carcere?
«La società esterna non ha idea di cosa significhi una vita in cella. Anzi: più spesso si pensa che la misura detentiva sia la soluzione. Invece rinchiudere le persone ha un solo risultato: allontanare il problema dallo sguardo dei cittadini. Con questo non voglio dire che i reati debbano restare impuniti, ma non ha senso relegare il disagio sociale dentro quattro mura. Le istituzioni, a tutti i livelli, a partire da quello locale, dovrebbero prestare più attenzione alla situazione carceraria. Anche il Governo sardo, attraverso la Conferenza Stato-Regioni, dovrebbe interessarsi maggiormente al problema: per esempio non viene mai affrontato il tema delle servitù penitenziarie».

In che senso?
«Le colonie penali agricole occupano in Sardegna più di seimila ettari. Una porzione ampia di territorio sulla quale non si avrebbe nulla da dire se ci fossero positive ricadute nel recupero dei detenuti. Invece il loro utilizzo è sempre più limitato e queste strutture di campagna stanno andando in malora. Si sta facendo poco o nulla per assicurare un futuro a colonie penali che sono uno strumento efficace per garantire una ricostruzione personale e professionale a chi ha sbagliato».

Lei in carcere quante volte a settimana va?
«Nella nostra associazione “Socialismo Diritti Riforme” ci alterniamo in sei. Garantiamo la nostra presenza sia nella sezione maschile che in quella femminile. Quando facciamo attività di mattina, ci siamo dalle 9 alle 12, ora in cui servono il pranzo. I pomeriggi iniziamo alle 15 e finiamo alle 17».

Su che progetti state lavorando?
«Abbiamo attivato un corso di scrittura creativa: prevede la pubblicazione di un volume in cui le detenute sono protagoniste. Loro scrivono e noi rivediamo i testi. In più verrà realizzato un murale, sempre legato alla creatività. Le detenute sono impegnate anche nella produzione di piccoli oggetti, destinati poi alla vendita, così potranno avere qualche euro da utilizzare all'interno del carcere. Inoltre attraverso la maestra Alma Piscedda, tutti i sabati mattina abbiamo attivato un corso di ricamo, sempre nella sezione femminile. Sarà poi nostra cura promuovere all'esterno i manufatti realizzati».

Già, i soldi del vitto e dell'alloggio. In carcere non si mangia e beve gratis.
«Decisamente no. Ciascun detenuto deve pagare una quota di quattro euro al giorno. E se una persona non ha i soldi, si porta il debito fuori, una volta che lascia il carcere».

Ovviamente trattandosi quasi sempre di nullatenenti e nullafacenti, lo Stato non li porta in tribunale.
«In ogni caso, quel debito, almeno sulla carta, va rifondato. Non solo: noi chiediamo in continuazione all'Amministrazione penitenziaria di garantire un cibo il più possibile adeguato, perché ci sono detenuti che non hanno un euro e mangiano solo quello che passa l’amministrazione. Anche perché il sopravvitto costa parecchio».

Per chiarezza: il sopravvitto sono gli acquisti che i detenuti possono fare nello spaccio del penitenziario. C'è un addetto che raccoglie gli ordini.

«Il sopravvitto andrebbe abolito, per quel che mi riguarda».


Perché?
«Crea discriminazione. Chi non ha soldi, non può comprarsi nulla. Incide anche nei rapporti di forza all'interno delle celle, perché la persona a cui vengono comprate cose da un altro detenuto, magari si sente in debito. Io sono per garantire a tutti una qualità di cibo migliore, in questo modo si assicura lo stesso trattamento a tutti i detenuti e a tutte le detenute».

A Uta il cibo non è di qualità?
«Non mi permetto di dire questo. Anche perché il controllo sui pasti passa da una commissione di cui fanno parte pure i reclusi. Tuttavia, considerando che lo Stato taglia di continuo la spesa e i prezzi aumentano, anche gli acquisti delle carceri ne risentono. Succede a ogni famiglia. Ci sono comunque misure dignitose: per esempio, durante il Ramadan i detenuti di fede musulmana possono mangiare dopo il tramonto. Anche in un orario diverso rispetto agli altri».

Chi cucina per i detenuti?
«Loro stessi».

Per i malati?
«Per i ricoverati nel Servizio di assistenza intensiva, ai pasti provvede la Asl».

Come associazione di volontariato avete modo di raccogliere eventuali proteste da parte dei detenuti?
«Certo. Facciamo da tramite anche con gli avvocati. Lavoriamo insieme agli educatori, coi quali ci confrontiamo sulle attività da svolgere. Lo stesso facciamo con i medici, quando ci sono problematiche di carattere sanitario. Continuamente ci rapportiamo con il direttore. Il nostro obiettivo è dare un contributo a chi già lavora nel carcere, incluse gli agenti e i mediatori culturali».

Sull'assistenza sanitaria in carcere quante lamentele vi arrivano?
«Parecchie. La sanità è in crisi fuori dai penitenziari, ovvio che all'interno le carenze si fanno sentire in maniera molto più forte. Per fare una visita, i detenuti devono passare dal Cup (Centro unico di prenotazione) e avere l'autorizzazione dal Tribunale di sorveglianza. Poi devono essere accompagnati dagli agenti. L'approccio alle cure è molto complesso. Nelle carceri ci sono medici interni come gli psichiatri. Ma a Uta, per dire, manca il dermatologo».


Un caso limite?
«Da oltre un anno un detenuto con un grave problema odontoiatrico che deve subire un intervento ricostruttivo ma l'attesa sta durando a lungo. Significa che questa persona da più di dodici mesi deve limitarsi fortemente nel mangiare. Le sue condizioni fisiche non sono buone. A Uta ci sono anche gravi problematiche legate alla dermatologia».

Quanti anni ha questo detenuto?
«È sulla quarantina. Purtroppo non è l'unico caso. Torniamo sempre lì: la nostra società ha una visione carcerocentrica, si pensa che i penitenziari siano la panacea della delinquenza. Invece servirebbe un'assistenza carceraria personalizzata: non mi stancherò mai di dire che i detenuti non possono essere trattati per grandi categorie. Le persone in sofferenza psichiatrica e i tossicodipendenti in una cella non ci dovrebbero stare. Ma le strutture a loro destinate mancano e sono del tutto insufficienti. Sul carcere vengono scaricati troppi problemi, non è da lì che passa la costruzione di una società migliore»...

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mercoledì 25 ottobre 2023

L’ultimo viaggio - Carlotta Indiano, Fabio Papetti

 

Le navi a fine vita vengono smantellate principalmente in Asia meridionale e in Turchia. Ma raramente in questi cantieri ci sono standard di sicurezza adeguati. I lavoratori spesso si ammalano a causa delle sostanze tossiche contenute nelle carcasse delle navi. Una su tutte, l’amianto

I fumi dell’acciaio fuso si alzano in cielo nella città costiera di Alang, nello stato del Gujarat in India occidentale. Sulla costa, decine di navi giacciono immobili spiaggiate sulla riva sabbiosa, dal colore rugginoso, pronte per essere smantellate. Armati di fiamme ossidriche, con occhiali da sole e stracci per coprirsi naso e bocca come unica protezione, i lavoratori dei cantieri di demolizione iniziano a sciamare attorno e sopra le navi per tagliare via le lamiere che le compongono. Gli incidenti sono all’ordine del giorno: ogni anno i cantieri reclamano la vita di decine di operai. All’alba, quando le gru sono solo braccia immobili alzate contro il cielo appena schiarito dalla luce, nelle capanne dei lavoratori attorno al cantiere aleggiano i fumi dell’incenso usato nelle loro preghiere alla dea Kali, divinità protettrice del porto di Alang: «Guidami attraverso questo oceano di sofferenze, oh Kali, distruggi la mia tristezza». 

L'inchiesta in breve

·         Lo smantellamento delle navi a fine vita è una pratica pericolosa per i lavoratori e l’ecosistema.

·         Nel Nord globale, normative stringenti rendono poco conveniente la demolizione in cantieri regolamentati e ben attrezzati. Per questo motivo circa l’80% delle navi nel mondo finisce in cantieri di smantellamento nell’Asia meridionale e in Turchia

·         Alang, Chittagong e Gadani sono le mete preferite dai proprietari delle navi. In questi cantieri i lavoratori rischiano la vita ogni giorno, estraendo pezzi di nave a mani nude ed entrando in contatto con diverse sostanze pericolose per la salute umana. Una su tutte l’amianto

·         Complice una regolamentazione internazionale opaca, i proprietari delle navi si rivolgono a intermediari detti cash buyer che offrono “pacchetti ultimi viaggi” per navi che devono essere smaltite, aggirando le normative e procurando ulteriori danni con il solo obiettivo del profitto

La città del Gujarat rappresenta, insieme a Chittagong (Bangladesh) e Gadani (Pakistan), la destinazione finale per l’80% delle navi nel mondo. Si stima che circa il 90% delle navi di proprietà europea finisca in uno di questi cantieri nonostante, secondo la legge, non ce ne dovrebbe finire nessuna. In questi luoghi le condizioni precarie di lavoro portano alla morte non solo per incidenti ma anche per avvelenamento, attraverso il contatto diretto con le varie componenti tossiche all’interno delle navi, una su tutte l’amianto.

Questo materiale, particolarmente pericoloso per la salute specialmente quando movimentato, viene gestito con pochissima cura per la sicurezza. In alcuni casi i lavoratori rimuovono le fibre che contornano le tubature o le lastre metalliche delle imbarcazioni addirittura a mani nude.

I rottami degli oceani

Il 2 aprile 2022 sbarca a Chittagong la Race, una nave cargo battente bandiera liberiana. Ha vent’anni ed è pronta per essere smantellata: nel tempo ha cambiato nome e proprietario molte volte, si è chiamata Mineral Sines, e dal 2013 Abml Grace, quando ha indossato la bandiera maltese sotto la proprietà dalla società marittima italiana Cafiero Mattioli. Subito prima di essere spedita in Asia meridionale però, la nave ha cambiato ancora una volta bandiera e proprietà: nel 2020 è stata venduta alla Continental Vessel Brokering, che le ha assegnato la bandiera liberiana. Sulle implicazioni di questa compravendita torneremo più tardi.

Come centinaia di sue compagne, la Race viene spiaggiata nell’area intertidale, quel punto del litorale soggetto alle maree. Qui, per condizioni morfologiche e geografiche, si alza giornalmente una marea che copre centinaia di metri di spiaggia, permettendo alle navi di avvicinarsi. Quando le acque si ritirano, l’imbarcazione si trova sul basso fondale, pronta per essere smantellata. Il beaching, lo spiaggiamento, è il metodo utilizzato nei cantieri di smantellamento lungo le coste del Bangladesh, dell’India e del Pakistan. Il terreno su queste spiagge è fangoso, molto instabile e impedisce l’uso di macchinari come le gru, che servirebbero per sollevare i pezzi più grossi della nave.

Tecniche di smantellamento di una nave

Una volta spiaggiata la nave, gli operai iniziano a setacciare i ponti, rimuovendo tutto ciò che può essere rivenduto, dai mobili alle radio, ai giubbotti di salvataggio. Poi inizia il processo di demolizione fisica della nave. Si tratta di una pratica pericolosa sia per la sicurezza dei lavoratori sia per l’ecosistema. Le squadre di demolitori cominciano a dissaldare la nave in grandi pezzi, che vengono trasportati a riva per il taglio secondario. I blocchi piombano sulla sabbia o nell’acqua sottostante utilizzando quello che in gergo tecnico, con forse un filo di ironia, chiamano il “metodo della gravità”: cioè semplicemente lasciandole cadere in mare. In questa fase schegge di vernice contenenti metalli pesanti e altri rifiuti si depositano sul fondo e risulta impossibile pulirli prima che la marea ritorni, portandoli via con sé.

Le acque di sentina, situate nella parte più bassa dello scafo della nave e che contengono gli scarti del motore, possono rilasciare in mare olio, sali inorganici, arsenico, rame, cromo, piombo e mercurio. Inoltre, se inalati, i fumi di scarico del motore rimasti intrappolati causano gravi danni alla salute. Raggiunte ormai le viscere della nave, gli operai si imbattono nell’amianto, un materiale considerato nell’800 un “minerale magico” per le sue capacità di utilizzo quasi illimitate…

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martedì 24 ottobre 2023

L’industria zootecnica contro le proposte Ue. Gli animali resteranno in gabbia - Paolo Riva

 

A causa di un’intensa attività di lobby, basata su tattiche sempre meno trasparenti, la Commissione europea ha ritirato la maggior parte delle proposte a sostegno del benessere degli animali da allevamento, nonostante un forte supporto popolare per queste leggi


«Al giorno d’oggi è molto facile attaccare la zootecnia. Non si difende», dice Andrea Bertaglio di European Livestock Voice (ELV). L’organizzazione per la quale lavora è stata lanciata nel 2019 dall’industria della carne europea proprio per «ripristinare un dibattito equilibrato» sugli allevamenti in Europa. Bertaglio, come giornalista ambientale e come consulente in comunicazione, si occupa del tema da anni. Il suo parere, quindi, è quello di un esperto. Eppure, la sua affermazione sembra molto lontano dalla realtà. Anzi, al contrario, rappresentanti e lobbisti di questo settore sembrano avere una particolare influenza sulla politica, a livello europeo, ma anche italiano.

Un’inchiesta condotta da Lighthouse Reports con IrpiMedia e The Guardian, infatti, rivela come una campagna condotta da alcuni gruppi di pressione del settore agricolo e zootecnico, tra cui proprio ELV, ha contribuito a far deragliare una proposta molto attesa per migliorare il benessere di centinaia di milioni di animali da allevamento in Europa. E tutto ciò nonostante l’iniziativa avesse ottenuto un forte sostegno dell’opinione pubblica e del Parlamento europeo.

L'inchiesta in breve

·         Per il 2024, era attesa una proposta della Commissione Ue per migliorare il benessere di centinaia di milioni di animali da allevamento in Europa. Ma arriverà solo in minima parte, nonostante un forte consenso politico e popolare

·         A far deragliare la proposta è stata anche la lobby di agricoltori e allevatori, in particolare modo quella di gruppi come European Livestock Voice – ELV, che dice di voler «ripristinare un dibattito equilibrato» sugli allevamenti

·         In realtà, ELV dà spesso voce ad accademici e ricercatori ritenuti molto vicini all’industria agroalimentare e si muove per influenzare le decisioni politiche Ue

·         ELV nasce nel 2019, ma un’esperienza simile in Italia è attiva da ben prima: è Carni Sostenibili, promossa da Assocarni e altre due associazioni di categoria. Andrea Bertaglio, che si definisce giornalista ambientale, ha lavorato per entrambi

·         Per Bertaglio, «è molto facile attaccare la zootecnia. Non si difende». In realtà, il settore sembra avere una particolare influenza sulla politica, in Ue ma anche in Italia. Molti dei temi sollevati da Assocarni e Coldiretti, per esempio, sono ben recepiti dal governo Meloni

Il benessere animale

Il pacchetto relativo al benessere animale era un insieme di quattro leggi che avrebbero dovuto porre fine a pratiche come il tenere gli animali da allevamento in gabbia, il macellare pulcini di un giorno e il produrre e vendere pellicce. La Commissione Ue aveva promesso di agire dopo che quasi 1,4 milioni di cittadini europei avevano firmato la campagna End the Cage Age e dopo che la stragrande maggioranza dei parlamentari Ue aveva appoggiato l’appello dei cittadini.

Tuttavia, tre delle quattro proposte legislative, compreso il divieto di allevamento in gabbia, sono state stralciate dal programma di lavoro della Commissione europea per il 2024, l’ultimo prima delle elezioni europee del prossimo giugno. Tre funzionari Ue che conoscono il tema, hanno spiegato a Lighthouse Reports che gruppi come ELV e alcune delle associazioni che la sostengono hanno svolto un’aggressiva attività di lobbying per annacquare parti delle leggi sul benessere animale e attaccare i pareri scientifici non allineati con i loro obiettivi.

«I membri di questo gruppo, in particolare l’organizzazione degli allevatori di pollame e delle grandi aziende agricole, hanno lavorato duramente […] in termini di lobbying contro questo», e l’ELV è stato «estremamente incisivo», ha detto un funzionario.

«(Gruppi come ELV) hanno agito […] accusando apertamente l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA, ndr) di non essere sufficientemente imparziale o di non consultare i diversi attori. Questo è stato fatto non solo in una lettera, ma anche in diversi incontri con alti funzionari», ha aggiunto il funzionario.

La Commissione Ue ha spiegato di non aver fatto rientrare le norme per il benessere animale nel suo piano di lavoro 2024 a causa dell’inflazione. Ma, in realtà, tutte queste pressioni dietro le quinte hanno giocato un ruolo, secondo funzionari, legislatori, organizzazioni per il benessere degli animali e documenti ottenuti attraverso richieste di accesso agli atti.

«È uno scandalo che non escano (le leggi per il benessere animale, ndr). È evidente che ricevono pressioni da qualche parte», ha detto Tilly Metz, deputata dei Verdi e leader dell’Intergruppo per il Benessere e la Conservazione degli Animali.

Metz ha detto di aver sentito che le proposte sono sulla scrivania della Presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, ma sono state abbandonate «per compiacere i più conservatori del suo stesso gruppo (il Partito Popolare Europeo, di centro destra, ndr), che sono strettamente legati ai movimenti dell’allevamento europeo e a Copa-Cogeca», che è la più importante organizzazione di categoria degli agricoltori in Ue.

«È un fallimento delle istituzioni nel mettersi all’opera, nello svolgere il lavoro che devono svolgere, nel soddisfare le aspettative dei cittadini e anche le promesse che hanno fatto», ha detto Olga Kikou, Responsabile degli Affari Europei di Compassion in World Farming, l’ong che ha coordinato la campagna End the Cage Age…

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lunedì 23 ottobre 2023

Lettere dal Sahel X - Mauro Armanino

  

La sofferenza dei poveri e la transizione di Niamey

Niamey, settembre 2023. L’apparenza inganna, lo sappiamo. La vita sembra scorrere come sempre e, almeno in città, c’è l’abitudine di vivere grazie a un antico mestiere imparato fin da bambini. Si tratta dell’arte sottile della quotidiana sopravvivenza nella quale dal niente si tira fuori tutto quanto basta per arrivare al giorno dopo. Dal 26 luglio fino a oggi, la prima decade di settembre, è in vigore una non annunciata e ben definita transizione di regime. Le sanzioni economiche e sociale approvate e applicate in fretta da un parte dei Paesi confinanti il Niger, specie quelli avendo lo sbocco sul mare, aggiungono sofferenze al già temibile quotidiano della povera gente. ‘Siamo nella sofferenza’, diceva un artigiano il cui lavoro si è di colpo interrotto da un mese a causa della situazione creatasi a seguito del golpe militare citato. ‘Mancano i soldi per i condimenti’, aggiunge e allora si sparisce fino a sera per non vedere i figli e i nipoti soffrire la fame.

‘Fino a quando’, chiede lo stesso artigiano che, prima di congedarsi, chiede che anche nelle chiese si preghi perché le cose ‘si rimettano a posto’ quanto prima. C’è infatti qualcosa di straordinario che sta accadendo nel Paese e che, a guardarlo da vicino, desta ammirazione e stupore. Si tratta della quotidiana resistenza dei ‘piccoli’ che, soprattutto in silenzio, realizzano un’autentica rivoluzione sociale. Stanno pagando un prezzo molto alto al cambiamento impresso alla storia del Niger tramite il golpe, in parte inatteso, di fine luglio. Soffrire in silenzio in genere non fa notizia eppure è questo uno dei pilastri su cui si regge l’attuale transizione politica. Un silenzio che dovrebbe interpellare chi ha assunto per scelta o per necessità di instaurare un regime di eccezione nel Paese e attorno a esso. Non è accettabile che, senza alcuna remora, si penalizzi un popolo, anzi ‘il popolo’ e cioè i piccoli e fragili di sempre, i poveri e i giovani in particolare.

Nessuno dovrebbe osare confiscare il loro futuro perché, intessuto com’è di sogni, speranze e ideali è qualcosa di sacro, Non rubare il verbo vivere coniugato al futuro con dignità è ciò che dovrebbe costituire la ragione d’essere di ogni autentica politica. Da questo frutto si riconosce l’albero che ha scelto di piantare la transizione nel Paese. Non accada mai più che la sofferenza dei poveri sia resa vana e le nascoste utopie germogliate in questi anni assenti siano svendute al miglior truffatore di sogni. Ecco perché il silenzio nascosto si trasforma in un grido rivolto a chi ha il coraggio e l’incoscienza di accoglierlo. Nella complicità di coloro che non hanno voce si tratta di dare una risposta accorata alla sofferenza , a livello locale e internazionale. Sarà questo il nome da dare alla transizione che dovrà sfociare nella Conferenza Nazionale aperta a tutti per dare un volto nuovo alla politica. Assumere la sofferenza dei poveri perché trasformi il linguaggio politico del Paese sarà la base della nuova Costituzione della Repubblica, fondata sul silenzio.

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Il golpe migrante di Niamey

Niamey, 17 settembre 2023. C’è stata una migrazione geografica che solo il Sahel, l’altra riva secondo l’etimologia del termine, ha saputo annotare sulla polvere dal 26 luglio scorso, data del golpe di Niamey. Il Mali, il Burkina Faso e, ultimo arrivato per ora, Il Niger che il colpo di stato attraversa a tutt’oggi senza darlo troppo a vedere. Variegate le manifestazioni di appoggio ai golpisti, il presidio permanente alla zona deve sono stazionati i militari francesi, il nuovo governo installato e le bandiere nazionali esibite da tassisti e incauti motociclisti. Ai lontani confini del Paese permangono le frontiere chiuse a persone e mercanzie. Detenuto da allora al suo domicilio il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale. Dal golpe migrante ai migranti del golpe che si realizza nell’invisibile presenza e transito degli ‘esodanti o avventurieri’, come si dice qui.

In effetti ogni migrazione infligge, a suo modo, un colpo di stato fatale al sistema. Le frontiere, le culture e le identità si spostano grazie a persone, storie e progetti di vita che sfidano in permanenza l’ordine (o il disordine) stabilito. C’è da prender atto che, nell’apparente banalità del viaggio, il più efficace golpe dell’umana avventura, è costituito dalle migrazioni. Folli imprese dove si rischia l’esistente per l’incertezza di un futuro immaginato differente. Per raggiungerlo si soffre e si rimpiange quanto si ha lasciato. C’è chi si accampa in strada, alle porte dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni o non lontano dalle stazioni dei bus in città. Il golpe dei migranti dura da millenni e continuerà malgrado i sistemi di sorveglianza, le frontiere armate, gli accordi di cooperazione coi fondi fiduciari di sostegno ai progetti di sviluppo. Il tutto giustificato per arrivare alle ‘cause profonde delle migrazioni’.

Ogni golpe è, di fatto, il tentativo del progetto migratorio da un regime all’altro, da una repubblica all’altra e da una democrazia all’altra. Migrano i militari e transumano i partiti politici. Migrano con loro anche gli opportunisti che, come sempre, non perdono l’occasione per salvarsi. Migra soprattutto il lavoro perduto, i soldi che non bastano, il cibo fattosi raro, i salari occasionali e i prezzi in aumento dei generi alimentari. Migrano le ong limitate nell’azione umanitaria, gli imprenditori di violenza armata che operano dove si offrono prospettive di occupazione e migrano i sogni che passano la frontiera con la piroga. Migrano i sogni di un’altra società possibile e gli ideali di un mondo in procinto di nascere da quello antico. Migrano, infine, le parole di verità prese in prestito dalla speranza che, forse domani, ci sarà una giustizia per i poveri.

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Il ‘Nunca mas’ nel deserto del Sahara

Niamey, settembre 2023. Niamey, settembre 2023. Mai più. Recitava il titolo del rapporto sui ‘desaparecidos’ della guerra ‘sporca’ in Argentina negli anni ’70. Il documento in questione metteva in evidenza i nomi delle vittime, il sistema organizzato di prigionia, il tipo di tortura inflitto ai ‘dissidenti’ del regime militare che aveva preso il potere nel Paese. Migliaia di persone ‘scomparse’ da casa, dal lavoro, in strada, nelle scuole o università avevano trovato un ultimo e definitivo eco nel rapporto citato. Mai più (Nunca mas) era intitolato come per affermare solennemente che quanto accaduto non avrebbe più dovuto riprodursi nel futuro. Purtroppo gli scomparsi continuano a perpetuare le liste nelle frontiere dove la mobilità umana sembra incompatibile con la marcia della globalizzazione. Soldi, mercanzie, giocatori di calcio, diplomatici, turisti e commercianti possono viaggiare e spostarsi liberamente e felicemente. Per chi è nato ‘dalla parte sbagliata’, come ricordava una vecchia canzone di Jean Jacques Goldman, è destinato, d’ufficio, a scomparire e, se possibile, senza lasciare tracce alcuna.

Da anni, ormai, siamo stati testimoni di queste quotidiane sparizioni di migranti nel deserto di sabbia e nel deserto di mare. Tra i due non c’è soluzione di continuità perché il primo e ‘fontale’ deserto si trova nel cuore del sistema stesso, nato per escludere chi non è nato ‘dalla parte giusta’ del mondo. Si è creata una sorta di complicità tra i processi di esternalizzazione delle frontiere europee e le politiche dei Paesi del Maghreb. I controlli delle frontiere, le espulsioni e deportazioni più in là, in pieno deserto verso il Paese confinante, hanno, in questi anni, prosperato anche grazie alle comuni politiche di ‘collaborazione’ nella gestione delle migrazioni. Gli scomparsi a volte tornano e raccontano l’accaduto nella fossa che separa l’Algeria dal Marocco a Oujda e le reti metalliche installate a Ceuta e Melilla, ‘enclaves’ spagnole in Marocco e soprattutto le quotidiane forme di morte sociale cui sono destinati i migranti sub sahariani. I loro nomi e le loro storie ci arrivano di prima mano, solo quando esse trovano uno sguardo e un orecchio libero all’ascolto che ‘umanizza’ quanto è stato sistematicamente tradito durante il viaggio intrapreso.

Mai più, scrivono sulla sabbia quanti hanno patito e sofferto a causa di ciò che sono e cercano. Il sistema sembra incapace di leggere ciò che l’umana mobilità porta e comporta come radicale novità di vita e di pensiero. I migranti arrivano dal deserto con le mani nude il cuore gonfio di attese e speranze di un mondo differente. Fanno di tutto per non scomparire tra i fondi fiduciari affidati alle grandi ONG che finanziano progetti di sviluppo che dovrebbero toccare le radici profonde delle cause delle migrazioni. Oppure, in cambio, la formazione offerta da Eucap Niger (espressione dell’Unione Europea) per imparare a controllare meglio le frontiere, i documenti e i traffici frontalieri. Poi ci sono le politiche delle autorità del Marocco, l’Algeria, la Tunisia senza dimenticare l’inferno libico (finanziato per esistere e riprodursi) che prendono i migranti come ostaggio per negoziare contratti, geopolitiche e soprattutto manna finanziaria. Mai più scrivono sulla sabbia gli ‘esodanti’ e gli avventurieri di questo mondo altro che fatica a partorire il nuovo.

Lei, Sadamata, arriva con la sua piccola Fatima di un anno. Nata in Sierra Leone e portata con loro in Algeria. Hanno vissuto per sei mesi lavorando finche il papà della bimba è stato ucciso e la mamma espulsa e deportata al confine. Per qualche giorno rimane ospite della locale compagnia di trasporto Rimbo di Niamey e poi, con una valigia e una borsa dove ha custodito la memoria del suo viaggio di fuga dal Paese natale, dorme fuori, sulla strada. Con lo sguardo mite attende che si apra una porta per entrare, finalmente, nel futuro dove sua figlia, bella come lei, possa disegnare il profilo di un’umanità degna di questo nome. Mai più, scrisse il rapporto sulle sparizioni in Argentina. Mai più ha appena sussurrato la piccola Fatima, nella braccia di sua madre.

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Due mesi dopo il colpo di stato e il sapore della libertà

Niamey, 26 settembre 2023. Era il mercoledì 26 luglio quando l’inattesa chiamata sul cellulare di un giornalista italiano sconosciuto chiedeva com’era la situazione in città dopo il colpo di stato. Sorpreso dalla notizia all’ora di pranzo non è stato difficile appurare la veridicità della notizia tramite le agenzie informative nazionali e internazionali. Era tutto vero perché Il presidente riconosciuto era fatto prigioniero dalla guardia presidenziale a casa sua, assieme alla moglie e al figlio. La giunta militare che ha preso il potere annunciava la sua destituzione come condizione per la salvaguardia della patria messa in pericolo, secondo gli autori del golpe, dal regime deposto. Concitate le reazioni nazionali e soprattutto internazionali che accusavano i putschisti di un colpo di stato di ‘troppo’ nel Niger, abituato a questo sistema di riavvii atipici delle vita democratica e politica del Paese. Da allora passano i giorni tra sanzioni economiche, frontiere chiuse alle mercanzie e alle persone che comunque e di frodo le attraversano con mezzi di fortuna e onerosi sistemi di arrangiamento con militari e doganieri. In città è lo stadio nazionale che raccoglie migliaia di simpatizzanti della giunta e soprattutto la marea umana che ha invaso, pacificamente finora, i dintorni della base dove sono stazionati i militari francesi e di altre nazionalità. Quanto ai militari degli Stati Uniti si trovano attualmente presso l’aeroporto di droni di Agadez, a un migliaio di chilometri della capitale, verso il deserto.

Pochi giorni dopo il colpo di stato una parte dei cittadini europei, sospettando il rischio di un attacco armato dall’esterno, è stata invitata dai propri Paesi a evacuare Niamey. Diverse centinaia di stranieri occidentali, per misura precauzionale, sono tornati nei Paesi rispettivi di origine e nel frattempo, dopo la scelta di un nuovo primo ministro, è stata la volta dell’installazione di un nuovo governo. Da allora passano i giorni e succede che, presi come si è dalla sopravvivenza, ci si dimentica di trovarsi in un regime di eccezione militare. Ci si abitua all’incertezza e alla precarietà perché entrambe, degne figlie della polvere e della sabbia, erano già presenti nel quotidiano dei cittadini. Che per alcune ore ogni giorno manchi la luce, salgano i prezzi del necessario per nutrirsi, si complichi la vita per i genitori che devono provvedere per la scuola dei figli, non si sappia cosa riservi il domani, tutto ciò era parte del bagaglio del cittadino comune. Col tempo ci si adatta al colpo di stato e, segno evidente di apparente normalizzazione, il Paese bruscamente scompare dalle prime pagine delle notizie di agenzia e si passa ad altre cronache e notizie più avvincenti. La caparbia capacità di resistere del popolo non merita menzione alcuna da parte dei media più influenti che, con poche eccezioni, sono pagati per essere al servizio dei potenti e dei loro interessi. Com’è noto, il verbo resistere solo si può coniugare al tempo presente ed è ciò che la gente ha imparato da allora.

Siamo a due mesi dal colpo di stato che si organizza per durare nel tempo. Nel frattempo si registrano arresti di ex ministri del regime precedente e dall’esecuzione di campagna di smascheramento dei crimini economici perpetrati negli anni passati. Erano gli anni del ‘rinascimento’ e degli slogan dove i ‘nigerini che nutrono i nigerini’ andava di moda, così come gli hotel di lusso e l’Africa del mercato unico. Libera volpe in libero pollaio e libere bandiere del Niger che sventolano sui tricicli al suono delle trombe di plastica che accarezzano il sapore, amaro, della libertà.

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La pedagogia degli oppressi nel colpo di stato del Niger

…‘Ecco il grande compito umanista e storico degli oppressi: liberare se stessi e i loro oppressori'…

Niamey, 1 ottobre 2023. Così scriveva il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire nell’altro millennio col suo noto ‘ La pedagogia degli oppressi’. Sono parole, concetti, idee, utopie e provocazioni che neppure ci passano più per la mente, tanto sembrano lontane dall’odierno e appiattito pensiero. Tra i punti positivi di un colpo di stato atipico come quello di Niamey a fine luglio scorso, c’è proprio questo. Il tentativo e l’ambizione di uno smascheramento del sistema che sembrava essersi identificato con la realtà naturale delle cose. Nulla di nuovo sotto il sole perché sembra proprio di ogni regime politico, religioso e sociale, apparire come ‘naturale’ e dunque divinamente installato. L’ideologia che ‘naturalizza’ la politica, l’economia e la religione che offre loro da supporto si presenta come immutabile e ‘garantita’ dalla consuetudine, l’andazzo o semplicemente dalla ‘colonizzazione’ dello sguardo. Appare come del tutto naturale che ci siano persone nella miseria e altre nella prosperità od opulenza. Così come apparirà del tutto naturale che i figli dei potenti si formino nelle migliori scuole e che siano poi loro a governare i poveri, notoriamente ‘incapaci’ di autogoverno e di democrazia. Il colpo di stato è là anche per ricordare che in politica non c’è nulla di naturale.

Oppressi e oppressori sembrano una coppia ormai tramontata perché non solo le grandi narrazioni della storia sembrano sfumate ma anche perché, apparentemente, chi tira le fila del sistema scompare dalla scena. Sembra proprio che il sistema, come un … ‘carrozzone (che) va avanti da sé con le regine, i suoi fanti, i suoi re’ … come recitava il testo di una canzone dl’altra epoca. Il mondo umanitario, presente capillarmente nel Niger e in genere nel Sahel non fa in fondo che confermare la versione naturalizzata delle dinamiche sociali. Si parlerà al massimo di sviluppo sostenibile e si pregheranno i potenti perché siano più generosi coi miseri. Il grande imbroglio del ‘fatto compiuto’ può durare anni e generazioni, molto dipende da chi ammaestra i mezzi di comunicazione e riesce a comprare le coscienze degli intellettuali, di per sé attenti scrutatori dei segni dei tempi. La mistificazione della realtà a volte dura molto ma non per sempre. Lo sappiamo per esperienza e Abramo Lincoln lo ricorda … ’si può ingannare tutti per un tempo, una parte del popolo per tutto il tempo ma non si riesce a ingannare tutto il popolo per tutto il tempo’. Le maschere cadono, un giorno e questo accade quando l’imprevisto raggiunge l’ordine costituito.

….Solo il potere che nascerà dalla debolezza degli oppressi sarà sufficientemente forte per liberare gli uni e gli altri 

Ed è esattamente questo il paradosso che accompagna la storia umana. Il potere di dominazione è incapace di creare novità che umanizzi perché è reso cieco dalla propria arroganza e potenza (hybris). L’esperienza insegna che, se di cambiamento si tratta, esso non potrà che scaturire da chi si accorge di non aver più nulla da perdere se non la propria vita. L’oppresso di oggi, come quello di ieri e di sempre, potrà trasformare la realtà quando farà della sua debolezza la sola forza di cambiamento possibile. Da decenni il Niger è classificato tra i Paesi più poveri del pianeta e saranno vani tutti i tentativi di ‘rinascimento’, tentato a parole da molti. Così continuerà finché la coscienza degli oppressi, i poveri, emarginati, assenti, invisibili, venduti o tenuti in ostaggio aprirà orizzonti nuovi tramite il potere dei deboli che sarà sufficientemente forte per liberare gli uni e gli altri. Come ricorda ancora Freire nel libro citato. … ‘Chi, più di loro, può capire la necessità della liberazione? Liberazione a cui non arriveranno per caso, ma … conoscendo e riconoscendo la necessità di lottare per ottenerla. Lotta che, in forza dell'obiettivo che gli oppressi le daranno, sarà un atto di amore’.

Solo a questa condizione il colpo di stato nel Niger non sarà accaduto invano.

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Dare il nome giusto alle cose. Istruzioni per l’uso nel Sahel

Niamey, 8 ottobre 2023. Ci siamo conosciuti dopo il suo soggiorno nella sezione femminile della prigione di Niamey mentre era incinta. Samira Sabou è giornalista e presidente dell’associazione di coloro che si esprimono pubblicamente tramite i ‘blog’. Dopo aver avuto problemi col figlio dell’allora presidente del Niger e tenuta sott’occhio dal regime precedente, sembra che pure con le attuali autorità militari del Paese le cose non vadano molto meglio. Scrive infatti un sito informativo della la capitale...

‘Il 30 settembre 2023 è stata arrestata nel domicilio di sua madre a Niamey da diversi uomini col volto coperto che si sono presentati come membri delle forze di sicurezza. Essi, dopo aver esibito i loro documenti, hanno insistito perché Samira li segua nell’auto. Dopo essere stata a sua volta incappucciata è stata condotta in un luogo sconosciuto. Da allora non ci sono tracce di lei e del luogo eventuale di detenzione. Il servizio delle inchieste criminali della polizia di Niamey afferma di non possedere nessuna informazione a proposito’. (Actuniger)

Samira riportava spesso sul suo blog articoli di varia origine e natura. D’abitudine cercava di pubblicare notizie da fonti certe. Secondo il detto di alcuni, in questi giorni era stata verbalmente minacciata e attaccata sui mezzi di comunicazione informale più utilizzati in città. Difficile parlare di un tragico errore, di semplice noncuranza giuridica o di squallida messa in scena per intimidire le parole. Ci troveremmo, anche in questo caso, in ciò che ricordava Karl Marx: quando la storia si ripete è dapprima tragica e poi diventa una farsa. Sarebbe dunque un caso di attitudini speculari al regime precedente, riconosciutosi nella parola ‘Rinascimento’ di qualcosa o qualcuno che in realtà non è mai nato. In questi ultimi anni le parole si sono gradualmente mutate in sabbia, polvere e vento che tutto ha cancellato al suo passaggio. Quanto scritto, promesso, affermato, assicurato e garantito è stato sistematicamente tradito nella menzogna delle parole. Questo è il peggior delitto che una persona possa commettere: manomettere le parole e dunque la realtà che di esse è l’esatta misura. Per questo motivo ogni regime al potere, peggio se totalitario, nulla teme quanto le parole.

Non accada che Samira, ossia la parola che ha tentato di dare un nome giusto alle cose è rivoluzionaria, come ricorda opportunamente Rosa Luxemburg. Portata via col viso coperto per impaurirla, la parola, sottratta dalla propria casa materna, deportata in un luogo tenuto segreto, la parola che è quanto di più serio e sacro ci sia perché le parole creano, fanno e disfanno il mondo. ‘Morte e vita sono in potere della lingua: chi l’ama ne mangerà i frutti’, scrisse il saggio nel libro dei Proverbi. Dire la verità significa chiamare le cose con il loro nome.

… ‘Dal profondo di te stesso nascono i tuoi pensieri con quattro risultati diversi: il bene e il male, la vita e la morte, eppure su tutte queste cose domina la lingua’…, scrissi il saggio nel libro del Siracide. Liberare Samira è come tornare a liberare la parola che poi è l’unica rivoluzione che meriti davvero questo nome.

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