martedì 31 agosto 2021

Il Rapporto IPCC sui cambiamenti climatici 2021 - Grig

 

Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change – IPCC) è il foro scientifico formato nel 1988 da due organismi dell’O.N.U., l’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) e il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) allo scopo di studiare il riscaldamento globale.

Non svolge direttamente attività di ricerca né di monitoraggio o raccolta dati: l’IPCC fonda le sue valutazioni principalmente su letteratura scientifica pubblicata in seguito a revisione paritaria e su rapporti delle maggiori istituzioni mondiali. Tutti i rapporti tecnici dell’IPCC sono a loro volta soggetti a procedure di revisione paritaria; i rapporti sintetici (oggetto di attenzione mediatica) sono soggetti anche a revisione da parte dei governi.

L’attività principale dell’IPCC è la preparazione a intervalli regolari di valutazioni esaustive e aggiornate delle informazioni scientifiche, tecniche e socio-economiche rilevanti per la comprensione dei mutamenti climatici indotti dall’uomo, degli impatti potenziali dei mutamenti climatici e delle alternative di mitigazione e adattamento disponibili per le politiche pubbliche. I rapporti di valutazione finora pubblicati sono cinque ed è atteso il sesto per il 2022. I rapporti IPCC sono ampiamente citati in qualsiasi dibattito sul mutamento climatico.

SEGNALA QUESTO ANNUNCIOPRIVACY

Il 9 agosto 2021, è stato ufficialmente presentato il primo volume del 6° Rapporto di valutazione dell’IPCC sui cambiamenti climatici: un nuovo passo in avanti fondamentale per la comprensione del fenomeno, delle sue cause e delle sue conseguenze.

Il Rapporto, dedicato alle basi fisico-scientifiche dei cambiamenti climatici, è prodotto dal gruppo di lavoro I (WG I) dell’IPCC – 234 autori principali, che hanno analizzato 14.000 studi scientifici – e mostra come e perché il clima è cambiato, e come potrà cambiare in futuro, a seconda delle scelte che faremo ora, in questi anni.

Il Rapporto conferma che inequivocabilmente è stata, ed è, l’influenza umana a riscaldare l’atmosfera, l’oceano e le terre emerse, causando cambiamenti diffusi e rapidi nell’atmosfera, nei mari, nella criosfera e nella biosfera.

Molti dei cambiamenti osservati nel clima non hanno precedenti in migliaia, se non in centinaia di migliaia di anni, e alcuni dei cambiamenti in atto – come l’innalzamento del livello del mare – sono irreversibili per centinaia o migliaia di anni.

Gli effetti dei cambiamenti climatici, già importanti con un aumento delle temperature di 1,5 °C (rispetto al 1850-1900) e ancora più rilevanti se l’aumento arriverà ai 2 °C, diventeranno molto più gravi e potranno superare soglie critiche per gli ecosistemi, per le persone, la società, l’economia, se il riscaldamento globale supererà i valori stabiliti come obiettivi dall’Accordo di Parigi (1,5 °C – 2 °C). 

Comunque, tempestive, sostanziali e durature azioni di riduzione delle emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti potranno limitare il cambiamento climatico. I benefici per la qualità dell’aria si vedranno rapidamente, ma ci potrebbero volere 20-30 anni perché la temperatura globale si stabilizzi.

Oltre al risparmio energetico e al progressivo rapido abbandono delle fonti energetiche fossili per le fonti energetiche realmente rinnovabili (idroelettrico, solare, eolico), una proposta praticabile è la riforestazione estesa alla più ampia estensione possibile.

Più boschi e foreste significano più stabilità dei suoli e meno anidride carbonica.

Gruppo d’Intervento Giuridico odv

 

qui il primo volume del 6° Rapporto IPCC sui cambiamenti climatici.

 

qui CLIMATE CHANGE 2021 – Le basi fisico-scientifiche: i messaggi principali del rapporto.

 

da qui

lunedì 30 agosto 2021

Turismo e animali: dal giro in elefante alla nuotata coi delfini, la sofferenza nascosta dietro le foto delle vacanze – Donatella Trunfio

 

 

Cavalcare gli elefanti, nuotare con i delfini, vedere la zebra allo zoo. Dietro le foto delle nostre vacanze, si cela la dura realtà della sofferenza degli animali sfruttati dall’industria del turismo.

 

Cavalcare gli elefanti

Devo ammetterlo, prima di arrivare in Thailandia avevo una visione distorta della realtà. A Ko Chang (l’isola degli elefanti), mi aspettavo di trovare un perfetto connubio tra essere umano e pachidermi. Quelle visioni in cui ci si ferma, per far attraversare la famiglia di elefanti che vive quella parte dell’isola non invasa dal turismo di massa. Già dopo poche ore, avevo capito che quell’immagine era solo nella mia mente e che, se avessi voluto vedere gli elefanti, avrei dovuto partecipare a un tour in cui per pochi spiccioli, potevi cavalcarli e fare il bagno nel fiume in loro compagnia.

Da lontano, ho sbirciato dentro uno dei loro recinti per vedere in che modo venissero trattati. Ero lì di notte, mentre i monsoni bagnavano la loro pelle coperta da ferite. Incatenati a un piede, privi di ogni libertà, malnutriti e ‘parcheggiati’ in fila come se fossero dei bus. Animali sedati per essere più amichevoli con i turisti, costretti a camminare per ore, tutti i giorni, assieme ai loro cuccioli. Pungolati con uncini se osavano ribellarsi o se rifiutavano di entrare in acqua. Eppure in sette giorni, ho visto animali ‘lavorare’ senza sosta in un mercato dell’orrore sempre più fiorente, in cui non c’è nessun tipo di pietà o compassione.

 

Selfie con leoni e tigri

Ma gli elefanti non sono le uniche vittime del turismo. Allo zoo, leoni e tigri vengono privati degli artigli per permettere ai visitatori di scattare dei selfie. Vi avevamo raccontato della giovane leonessa in uno zoo egiziano che era stata snaturata e addomesticata a suon di frustrate per giocare con i bambini. E assieme a lei, tanti altri animali selvatici sedati per diventare giocattoli da turismo.

 

Nuotare con i delfini

E che dire dei delfini? A questi splendidi animali vengono tirati via i denti così da evitare che possano ferire i turisti che nuotano con loro. E così, mentre i visitatori si divertono, gli animali selvatici cresciuti in cattività continuano ad essere torturati. Delfini che vengono tenuti in minuscole gabbie, spesso incatenati e a disposizione dei visitatori che possono fare fotografie e accarezzarli.

 

Botticelle con cavalli

E cosa dire delle botticelle? A Roma tornano al Colosseo, storico punto di partenza per attirare i turisti e portarli a giro per la città eterna trainati dai destrieri. In mezzo al traffico e allo smog, che sia freddo o caldo. La guerra tra chi le vorrebbe abolire, chi ha promesso di farlo e chi le gestisce, lucrando sui cavalli, va avanti a colpi di sentenze del Tar. Ma nel frattempo, i cavalli restano li.

 

Asini usati come taxi

A Santorini, gli asinelli sono costretti a salire 520 gradini ripidi portando un peso enorme, quello dei turisti che non vogliono farsi a piedi il sentiero che va dal porto fino alla cittadina di Fira. Lo scorso anno è stata lanciata una petizione per vietare lo sfruttamento di questi bellissimi animali, ma ad oggi la triste pratica non è stata abolita.

Ci sono poi tutti quegli animali marini che, soprattutto in questo periodo estivo, vengono tirati fuori dall’acqua e messi nel secchiello e tanti altri avvicinati al litorale pur di fare un selfie. Ricordiamoci che parliamo di esseri viventi e non di oggetti inanimati che hanno diritto quanto noi, ad essere lasciati in pace e non disturbati.

https://www.greenme.it/informarsi/animali/turismo-animali/

domenica 29 agosto 2021

Kosovo: una lettera ai guerrieri dell'acqua - Pavel Borecký

Dalle montagne del Kosovo ai deserti della Giordania, la lotta per l'acqua è la stessa. Un commento del documentarista Pavel Borecký

(Pubblicato originariamente da Kosovo 2.0  il 13 agosto 2021)

L'acqua anima le relazioni. Che si muova attraverso il paesaggio o si trovi sotto terra, si tratta di uno spazio condiviso mobile che può causare violente dispute o offrire l’opportunità di costruire una pace visionaria. Nel XXI secolo, la protezione dell'acqua e la diplomazia ambientale saranno le basi di qualsiasi politica sana, orientata ai dati e sensibile ai cambiamenti climatici. In sostanza, c'è una politica socialmente e ambientalmente consapevole o non c'è politica, o, piuttosto, solo brutale necropolitica.

Fino a che punto le lotte per l'acqua condotte dai cittadini nei villaggi di Biti o Štrpce in Kosovo e nei villaggi beduini in Giordania sono sintomatiche di un fallimento dello stato nazionale e dell'imminente rovina della vita rurale? Dove sbagliano le amministrazioni nell’adattarsi e nel ridurre i cambiamenti climatici? E cosa possono fare i film documentari al riguardo?

È dal 2016 che sono impegnato in un dottorato di ricerca sull'antropologia della gestione dell'acqua per il quale analizzo la scarsità d'acqua e il ruolo delle infrastrutture nel “consegnare stabilità” in condizioni sempre più volatili. Ho finito per lavorare in Giordania, che, nonostante sia un paese desertico, ha alcune sorprendenti somiglianze con il Kosovo in termini di problemi di gestione dell'acqua.

Oro blu, sperpero e rapina

Una cosa è diventata chiara fin dall'inizio: i cittadini di questo regime semi-autoritario vivono sotto la minaccia di un'intensificata securizzazione del discorso sull'acqua. Poiché qui lo stato intende “provvedere ai propri sottoposti”, le persone dovrebbero lasciare che i governanti di stampo patriarcale facciano il loro lavoro. In altre parole, l'acqua deve scorrere. Se necessario, devono adottare soluzioni tecnologiche radicali per evitare tensioni socio-politiche.

Il Regno giordano ha completato il Disi Water Conveyance nel 2014, un sistema di trasporto d'acqua che collega i confini meridionali del paese con il nord urbanizzato in rapida crescita. Sapendo che è improbabile che il governo fermi l'eccessiva estrazione di acqua dalle falde acquifere settentrionali (a causa di pratiche agricole scorrette, furti d'acqua su larga scala e relazioni tribali), il progetto ha richiesto molto tempo. 

Dal momento che quasi 1,4 milioni di siriani trovano rifugio vicino ai loro parenti nei territori settentrionali, la più grande impresa infrastrutturale nella storia moderna del paese alla fine allinea i bisogni fondamentali e i valori umanitari della solidarietà panaraba. 

Giù a sud nel deserto del Wadi Rum, lontano dalle città sovraffollate, le falde acquifere nascoste sotto le basse montagne rocciose di arenaria salvano la situazione. Il problema è che questa "acqua Disi" è una risorsa fossile non rinnovabile, un profetico "oro blu", una delle falde acquifere più preziose della regione, che ha però una durata di vita limitata. 

Sfortunatamente, la piena consapevolezza di questa “operazione mineraria” ha raggiunto la popolazione locale solo ora, quando la loro preziosa fonte di sostentamento è già minacciata di lenta scomparsa.

Uccidere un fiume

Questa storia drammatica, prologo per il mio film documentario, suona forse familiare? Preparandomi per il mio viaggio di agosto al DokuFest di Prizren, dove veniva proiettato il mio documentario “Living Water”, mi stavo interrogando sul contesto balcanico e ho deciso di informarmi sulla situazione dell'acqua in Kosovo e nell'intera regione.

Esaminando il caso dei corsi d’acqua delle montagne Sharr e alla costruzione di piccole centrali idroelettriche, sono rimasto commosso dalla perseveranza della popolazione di Biti e Štrpce: mi hanno ricordato le scene delle dure manifestazioni per i diritti sull'acqua in Giordania ritratte nel mio documentario.

Proteggendo i loro diritti garantiti a livello internazionale all'acqua sicura e protetta, questi cittadini stanno lottando per qualcosa di molto più grande della prosperità individuale. Stanno combattendo per l'integrità ecologica del parco nazionale e per i principi del buon governo orientato alla comunità.

Transizione all'energia verde?

A giudicare dalle mie limitate conoscenze, l’origine di tutti i problemi sembrano essere una definizione imprecisa di rinnovabilità, scarsa pianificazione strategica e ancor più scarsa esecuzione sul campo senza supervisione. Il filo conduttore sembra essere un deliberato disprezzo per i costi sociali e ambientali dello sviluppo di piccole centrali idroelettriche.

Il paradosso del problema delle montagne Sharr è la motivazione iniziale data a questi progetti: il passaggio da fonti di energia non rinnovabili dannose per l'ambiente all’"energia verde". Il Trattato della Comunità Europea dell'Energia impegnava il Kosovo a produrre il 25% dell'energia consumata dai suoi cittadini da fonti rinnovabili, tra cui idroelettrico, eolico, solare o biomasse, entro il 2020.

Ma perché un paese estremamente povero d'acqua dovrebbe decidere di risolvere quest’equazione utilizzando l'energia idroelettrica, che, oltre a tutto, dipende dai cicli della pioggia e dallo scioglimento della neve? Inoltre, perché la maggior parte dei 77 siti di potenziale costruzione si trova in aree di particolare pregio naturalistico? Perché il ministero dell'Ambiente non ha consultato il Parco Nazionale delle montagne Sharr, i cui fiumi dovrebbero alimentare molte di quelle presunte idrocentrali piccole, verdi e belle?

Segui i soldi, dice un vecchio proverbio. Come giustamente rilevano alcune inchieste, è proprio la promozione molto sistemica della rapida “transizione verde” dell'UE e del conseguente reddito garantito agli operatori privati ​​che può essere così seducente. Acceca i funzionari governativi e, alla fine, porta alla privatizzazione segreta degli impianti.

È questo il motivo per cui i cittadini locali non sono stati adeguatamente consultati su questioni che riguardano il loro futuro? Successivamente è stata istituita una commissione governativa speciale per indagare sui progetti. Tuttavia, il piano generale non è stato interrotto. Viaggerò quindi al festival con un unico pensiero in mente: si garantirà giustizia ambientale e sociale?

La lezione dell'antropologia delle infrastrutture

A chi saranno distribuite le risorse e da chi saranno prese? Quali saranno i beni pubblici e quali i beni privati, e a giovamento di chi? Quali comunità dovranno lottare per le infrastrutture necessarie alla riproduzione fisica e sociale? Queste sono alcune delle domande pressanti di “The Promise of Infrastructure”, l'influente libro su austerità e vulnerabilità di Nikhil Anand, Akhil Gupta e Hannah Appel.

Se c'è qualcosa che desidero evidenziare, è la comprensione che l'infrastruttura non è uno spazio neutrale. Invece, prendendo in prestito dal sopracitato libro: "Le infrastrutture sono luoghi critici attraverso i quali si formano, si riformano e si realizzano socialità, governance e politica, accumulazione e espropriazione, istituzioni e aspirazioni". 

Mostrare come le infrastrutture materiali, comprese strade e condutture, linee elettriche e fognature e simili, vengono utilizzate come terreno per la riproduzione del potere, può portare a una profonda esposizione del razzismo quotidiano, del colonialismo e della disuguaglianza.

Riportando tutto nel concreto, quando vediamo Stanko ed Elizabeta in piedi vicino a un fiume Lepenc svuotato, o Ali e Hussein inginocchiati nelle sabbie rossastre sopra la falda acquifera di Disi, viene da chiedersi: lo stato nazionale sta rinunciando silenziosamente a queste comunità? Sta accadendo per cattiva gestione, o per "progettazione di abbandono infrastrutturale sancito dallo stato", come ha affermato Ruth Gilmore nel suo "Golden gulag", riferendosi alla politica carceraria californiana? 

Ci sono fin troppi esempi nella storia in cui gli stati democratici hanno esercitato il loro biopotere e reso certe vite meno preziose di altre. Sfortunatamente, a meno che i maggiori inquinatori non cambino marcia, è probabile che sia l'Europa meridionale che il Medio Oriente diventeranno più secchi e più caldi nei prossimi anni e decenni. 

Il dispiegarsi di eventi meteorologici estremi creerà una pressione ancora maggiore sugli stati affinché sacrifichino i valori dei diritti umani e della deliberazione democratica per motivi di convenienza. Le storie di persone che vivono alla frontiera dell'accelerazione dei cambiamenti possono sprofondare letteralmente in una situazione drammatica da un giorno all'altro. Questo è il motivo per cui oggi deve diventare centrale l'attenzione alla politica dell'acqua, alla diplomazia ambientale e ai nuovi tipi di narrazione su queste questioni.

Che sia tra le montagne del Kosovo o nel deserto giordano, una semplice conduttura implica l'interazione di forze culturali, sociali, tecnologiche ed economiche. Senza dubbio, questi casi sono complessi e non è sempre facile identificare cosa si sarebbe dovuto fare meglio o come aggiustare i piani ora. Una cosa però è chiara. Anche se costruiamo per motivazioni tutte giuste, soluzioni parziali che si basano su numeri sbagliati e implementate da attori sbagliati possono facilmente distruggere proprio quello che avrebbero dovuto rafforzare: la resilienza socio-ambientale.

Solo con professionisti istruiti, impegnati e moralmente forti, con una solida pianificazione integrata (dal basso verso l'alto che incontri quella dall'alto verso il basso) e con i media in sintonia con l'ambiente, sarà possibile evitare scontri improduttivi e continuare lo sviluppo economico nel modo più sostenibile.

 

Pavel Borecký (Praga, 1986) è un antropologo sociale ed etnografo audiovisivo. Vincitore della borsa di studio Swiss Excellence, è attualmente dottorando presso l'Università di Berna. Nella sua pratica comunitaria, Pavel gestisce l'organizzazione di ricerca Anthropictures, cura il programma cinematografico EthnoKino e co-organizza l'European Applied Anthropology Network. I film di Pavel “Solaris” (2015) e “In the Devil's Garden” (2018) si sono concentrati sulla cultura del consumo in Estonia e sulla questione della decolonizzazione nella Repubblica Democratica Araba Saharawi. “Living Water” (2020) è il suo primo lungometraggio documentario.

Traduzione a cura di Elena Mollichella

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sabato 28 agosto 2021

Un nuovo paradigma per gli incendi boschivi? - Giuseppe Mariano Delogu

 

Entro il nostro sistema solare la Terra, e probabilmente la Terra sola, è un pianeta di fuoco. Solo sulla Terra infatti sono combinati gli essenziali componenti della combustione. Con i fulmini vi è una pronta sorgente d’ignizione, con l’ossigeno atmosferico un abbondante agente ossidante, con la sostanza organica il combustibile.”

Scrivono così lo storico del fuoco Stephen Pyne, e i suoi colleghi Patricia Andrews e Richard Laven  in un basilare studio sui fuochi in ambienti naturali1[1] e sul loro comportamento nella storia, prima e dopo la comparsa dell’uomo.

E ancora: “Giove, Venere e forse Saturno, Urano, Nettuno, hanno i fulmini. Marte presenta tracce di ossigeno libero, e alcune lune dei pianeti più esterni hanno atmosfere ricche di idrocarburi infiammabili. Ma solo la Terra contiene i componenti essenziali, i processi necessari per mescolarli insieme ed un ambiente adatto alla loro interazione. Infine, come complemento, la Terra possiede anche l’agente estinguente per eccellenza:  l’acqua.”.

 Ancora prima dell’alba dell’uomo, il fuoco c’era già.

Poderose ricerche documentano la forte e prolungata interazione tra il fuoco e la vegetazione, durante la quale, a partire dal Siluriano (circa 430 mln di anni fa, epoca in cui si ritiene che le piante siano uscite dal mare per colonizzare la terraferma), periodi di umidità alternati a periodi di siccità crearono le condizioni predisponenti per l’esplosione dei primi “incendi”, con la loro ciclicità e con la loro diversa intensità.

Le piante, molte di quelle che conosciamo, impararono a convivere con il fuoco. Anzi, con il “regime di fuoco naturale,” in base al quale adottarono soluzioni biologiche di “adattamento” per resistere alle fiamme (il sughero delle querce, la grossa corteccia dei pini) o addirittura per trarre profitto da una combustione totale al fine di dare origine a una nuova generazione del bosco (la serotinia dei pini, cioè l’accumulo in chioma di centinaia di pigne che si aprono tutte insieme dopo lo shock termico e danno origine a nuovi alberelli al posto del loro genitore).

L’uomo trasse profitto dal fuoco, fin dal suo primo differenziarsi dagli altri hominini.

Ma il fuoco non è una invenzione dell’uomo. E’ stato semmai il nostro compagno fedele durante l’evoluzione sociale, la trasmissione della cultura, la nascita della religione, il disegno del nostro spazio vitale, con alterne stagioni passando dalla cultura del raccolto e della caccia a quella agricola, fino ai nostri giorni, in cui viviamo l’epoca che lo stesso Stephen Pyne nel suo libro in uscita a settembre2[2], definisce “Pirocene”, l’età del fuoco.

Questa premessa è necessaria per capire, perché in questi giorni caldi d’agosto pare che l’umanità – quella occidentale soprattutto – abbia scoperto il fuoco come fenomeno sconosciuto, come un nemico che si affaccia nelle nostre case a turbare la tranquillità opulenta delle nostre città (anche durante e nonostante la pandemia, altro fenomeno “sconosciuto” di cui si è già parlato in queste pagine).

Condivido l’analisi di Pyne soprattutto quando racconta del Pirocene come manifestazione non solo della “comparsa del fuoco cattivo”, ma soprattutto della “scomparsa del fuoco buono”, quello “naturale”, quello “primitivo”, quello “agricolo”, che dal Pleistocene fino agli albori dell’età industriale ha modellato i paesaggi del pianeta; quello che dai primi del ‘900 le culture occidentali si sono ostinate ad eliminare come estraneo alla civiltà e alla natura: per fare questo hanno messo in piedi un poderoso complesso militare-tecnologico (in USA, Australia, Russia, Europa) tutto teso a spegnere ogni insorgenza di fuoco.

L’idea consolidata che l’incendio sia estraneo alla natura e, perciò stesso, da combattere in ogni sua manifestazione ha originato quello che chiamiamo “il paradosso di Bambi3[3].

L’esclusione totale del fuoco dagli ecosistemi terrestri da parte dei sistemi emergenziali di lotta e dalle politiche forestali coincide con la conquista dei nuovi territori (il West americano) e la visione delle “miniere di legno” come forma di accumulazione capitalistica per lo sviluppo dell’economia moderna. Esclusione del fuoco da quei territori che per 15.000 anni avevano visto il fuoco “buono” dei nativi americani come strumento per favorire la raccolta dei piccoli frutti del bosco, i tuberi, il pascolo dei grandi mammiferi da cui dipendevano per sopravvivere.

Abbiamo avuto il nostro West anche in Sardegna (ma il fenomeno ha interessato l’intero territorio italiano, soprattutto il Sud), quando la “criminalizzazione” dell’uso del fuoco ha coinciso con l’affermarsi del genocidio culturale dell’economia collettiva, delle terre pubbliche, de “su connotu” (il conosciuto) a favore della privatizzazione delle terre e dell’estrazione del legname sardo per la costruzione delle ferrovie dello Stato unitario.

Non ci sono solo fuoco buono (che manca) e fuoco cattivo (che esplode oggi) a disegnare il “Pirocene”: c’è un terzo aspetto che forse è anche il più importante, dato che si riferisce alle combustioni dei fossili, nascosti per milioni di anni nelle viscere della terra e che l’età industriale, mentre nega i fuochi di superficie, li trasferisce occultamente in atmosfera (con le ciminiere, con i gas di scarico dei mezzi di trasporto), generando l’attuale condizione di riscaldamento globale e di cambio climatico antropico, con i livelli di temperatura e di CO2 e altri inquinanti mai registrati negli ultimi 2000 anni4[4].

Negare la coesistenza con il fuoco “buono” ha creato nuovi tipi d’incendio (che i catalani definiscono di sesta generazione), in grado di interferire con gli strati alti dell’atmosfera, di creare la circolazione planetaria del fumo, di sviluppare immense energie di fronte alle quali nessun apparato tecnologico è in grado di fare fronte5[5].

Aggiungo un altro elemento importante: nel dopoguerra la popolazione rurale si è spostata in ambito urbano, mentre popolazioni “urbane” (prive della cultura rurale) si sono trasferite a vivere in bosco (la falsa l’idea della vita agreste), con insediamenti direttamente a contatto con paesaggi forestali privi di gestione. Ciò ha creato e amplificato, di fatto, situazioni di pericolo che vengono purtroppo affrontate in modo esclusivamente emergenziale (campeggi estivi, insediamenti turistici, parcheggi nella macchia mediterranea etc.) all’esplodere degli eventi.

Gli incendi dell’estate 2021 sono un sintomo, non la causa della grande alterazione dei regimi di fuoco sulla terra. L’estinzione degli incendi è la risposta, ma non è la soluzione. Perché non si interviene alla radice del cambio dei “regimi di fuoco”. Con una organizzazione “militare” sempre più potente di lotta (mezzi aerei di varie categorie, migliaia di uomini e mezzi terrestri impegnati ogni stagione, ampia varietà di modelli organizzativi) sempre più si riesce ad agire su migliaia di piccoli focolai, generando un altro paradosso: più efficiente è la macchina di estinzione più frequentemente si manifestano i grandi incendi forestali di fronte ai quali il sistema collassa (il paradosso dell’estinzione): infatti impedire che il fuoco si propaghi durante condizioni meteorologiche tranquille, causa un accumulo di combustibile che esploderà nelle giornate estreme con elevate temperature, venti forti, umidità relativa ridotta.

Il paradosso dell’estinzione porta ad una strada senza uscita6. Con il cambio climatico gli eventi estremi si presenteranno in modo sempre più intenso e frequente.

Che fare allora? Con gli eventi dell’estate corrente tutto il Mediterraneo è stato duramente colpito; ancora una volta si contano i morti (100!) tra Algeria, Turchia, Grecia, Calabria, Sicilia  e centinaia di feriti ed evacuati.

La risposta contundente e “militare” – pur necessaria in certe situazioni – non risolve le cause e non può alla lunga essere efficace.

Occorre andare alla radice dei problemi, che sono sociali più che tecnologici, sono culturali più che giuridici, sono infine politici, perché attengono a una diversa prospettiva sociale.

Provo a indicare alcuni elementi di riflessione, che sono risultato di tanti anni di studio collettivo e di esperienze dirette sul campo di numerosi ricercatori ed operatori.

  1. Investire nella gestione attiva delle foreste e del territorio rurale: se è vero che gli incendi estremi sono (anche) figli dell’abbandono occorre invertire la rotta: il 40% del territorio italiano è “forestale”; dei fondi del PNRR solo una piccola porzione (meno dell’1%) è previsto vada alla selvicoltura: peccato che si tratti di “foreste urbane” e non di quelle della montagna e collina. Sarebbe cosa buona se i progetti si orientassero alla manutenzione dei boschi, soprattutto di quelli esposti al fuoco e non semplicemente ad abbellire le città.
  2. La competenza in materia di incendi boschivi appartiene alle Regioni; si sente in giro, soprattutto durante questi eventi, un “tintinnar di sciabole” teso a riportare in capo allo Stato la lotta agli incendi. Al contrario occorre che le Regioni, sulla base delle peculiarità territoriali, introducano e gestiscano responsabilmente forme di pianificazione a scale differenti (regionale, comprensoriale, paesaggio, locale) identificando i punti critici su cui attuare azioni concrete di rimozione del pericolo.
  3. Passare dal concetto di “Protezione civile” a quello di “Prevenzione Civile”, sviluppando una consapevolezza del rischio che oggi manca totalmente: non basta predisporre dei piani di protezione civile che sono esclusivamente piani di pronto soccorso: occorre rimuovere il pericolo costituito dalla massa vegetale secca a contatto con gli abitati. E farlo in coerenza con i piani forestali e –simmetricamente – con i piani di prevenzione del rischio idrogeologico.
  4. Costruire territori autoprotetti, che non abbiano bisogno dei Canadair per essere “salvati”: attraverso il ripristino di colture tradizionali (pascolo prescritto, fuoco prescritto, mosaici colturali per interrompere le estese continuità di bosco non gestito.
  5. Ridefinire l’idea di “paesaggio” che spesso viene sacralmente tutelato come un oggetto immutabile e da tenere dentro un reliquario: il paesaggio è tale se è quello “che viene percepito dalle popolazioni” (come recita la Convenzione Europea del Paesaggio siglata a Firenze nel 2000), con i loro usi, consuetudini e bisogni

Un nuovo paradigma: convivere con il fuoco, gestione integrata del fuoco e non semplice lotta attiva. Per questo occorre anche dotarsi di strumenti di analisi del comportamento del fuoco, approfondire le relazioni con le variazioni metereologiche e la topografia, adottare protocolli condivisi di organizzazione e linguaggi operativi comuni, per il necessario raccordo con gli operatori di diversa provenienza (vigili del fuoco, forestali, volontari, squadre locali etc.), protocolli validi sia in fase di lotta attiva esploderà nelle giornate estreme con elevate temperature, venti forti, umidità relativa ridotta.

Il paradosso dell’estinzione porta ad una strada senza uscita7[6]. Con il cambio climatico gli eventi estremi si presenteranno in modo sempre più intenso e frequente.

Che fare allora? Con gli eventi dell’estate corrente tutto il Mediterraneo è stato duramente colpito; ancora una volta si contano i morti (100!) tra Algeria, Turchia, Grecia, sia nelle operazioni preventive di messa in sicurezza del territorio. In questo senso anche il recupero dell’uso comunitario del fuoco per modellare paesaggi resilienti e sicuri è una via da percorrere.

Personalmente considero l’adozione di queste e altre azioni prioritarie come strumento di autodeterminazione delle comunità locali, di crescita culturale, di recupero delle proprie ragioni di coesistenza con il mondo naturale.

Perché sappiamo che “il fuoco è un buon servo ma è un cattivo padrone”.



  • Pyne, Andrews, Laven, 1996, “Introduction to wildland fires”, Wiley, NY.[↩]
  • Pyne, S.,”The Pyrocene How We Created an Age of Fire, and What Happens Next”, University of California Press, 2021.[↩]
  • G.M. Delogu, “Dalla parte del fuoco ovvero il paradosso di Bambi”, ed. il Maestrale, NU, 2013.[↩]
  • IPCC https://www.ipcc.ch/sr15/.[↩]
  • Tedim et al., “Defining Extreme wildfire events: Difficulties, Challenges and Impacts” Fire 2018, 1,9; doi: 10.3390/fire1010009.[↩]
  • https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/B9780128157213000072.[↩]

  • da qui

    venerdì 27 agosto 2021

    Il consumo di suolo in Italia - Snpa

     

    Il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA), preposto, ai sensi della legge n. 132/2016, al monitoraggio delle trasformazioni del territorio e della perdita di suolo naturale, agricolo e seminaturale ha pubblicato nelle settimane scorse il proprio rapporto, particolarmente corposo, dal titolo Consumo di suolo 2021, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Il Rapporto fornisce il quadro aggiornato dei processi di trasformazione del nostro territorio, che continuano a causare la perdita di una risorsa fondamentale, il suolo, con le sue funzioni e i relativi servizi ecosistemici, all’interno di un più ampio quadro di analisi delle dinamiche delle aree urbane, agricole e naturali ai diversi livelli, attraverso indicatori utili a valutare le caratteristiche e le tendenze del consumo, della crescita urbana e delle trasformazioni del paesaggio, fornendo valutazioni sull’impatto della crescita della copertura artificiale del suolo, con particolare attenzione alle funzioni naturali perdute o minacciate.

    Come sempre, i dati completi del consumo del suolo, dello stato di artificializzazione del territorio e delle diverse forme insediative, degli impatti prodotti sui servizi ecosistemici e sullo stato di degrado del suolo, sono rilasciati in formato aperto e liberamente accessibili sul sito dell’ISPRA e del SNPA e rappresentano uno strumento che il Sistema mette a disposizione dell’intera comunità istituzionale e scientifica nazionale.

    Alcuni dei dati presentati sono letteralmente impressionanti.

    Dal 2012 ad oggi il suolo non ha potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana (che ora scorrono in superficie aumentando la pericolosità idraulica dei nostri territori) e lo stoccaggio di quasi tre milioni di tonnellate di carbonio, l’equivalente di oltre un milione di macchine in più circolanti nello stesso periodo per un totale di più di 90 miliardi di km. In altre parole due milioni di volte il giro della terra.

    A livello nazionale le colate di cemento non rallentano neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, e ricoprono quasi 60 chilometri quadrati, impermeabilizzando ormai il 7,11% del territorio nazionale. Ogni italiano ha a disposizione circa 360 mq di cemento (erano 160 negli anni ’50). L’incremento maggiore quest’anno è in Lombardia, che torna al primo posto tra le regioni con 765 ettari in più in 12 mesi, seguita da Veneto (+682 ettari), Puglia (+493), Piemonte (+439) e Lazio (+431). Nelle aree a pericolosità idraulica la percentuale supera il 9% per quelle a pericolosità media e il 6% per quelle a pericolosità elevata. Il confronto tra i dati 2019 e 2020 mostra che 767 ettari del consumo di suolo annuale si sono concentrati all’interno delle aree a pericolosità idraulica media e 285 in quelle a pericolosità da frana, di cui 20 ettari in areea pericolosità molto elevata (P4) e 62 a pericolosità elevata. Le percentuali si confermano alte anche nei territori a pericolosità sismica alta dove il 7% del suolo risulta ormai cementificato.

    A livello nazionale gli ettari consumati all’interno delle città e nelle aree produttive (il 46% del totale) negli ultimi 12 mesi superano i 2300. Per questo le nostre città sono sempre più calde, con temperature estive, già più alte di 2°C, che possono arrivare anche a 6°C in più rispetto alle aree limitrofe non urbanizzate.

    Quanto alla transizione ecologica e fotovoltaico, nella sola Sardegna sono stati ricoperti più di un milione di mq di suolo, il 58% del totale nazionale dell’ultimo anno. E si prevede un aumento al 2030 compreso tra i 200 e i 400 kmq di nuove installazioni a terra che invece potrebbero essere realizzate su edifici esistenti. Il suolo perso in un anno a causa dell’installazione di questa tipologia di impianti sfiora i 180 ettari.
    Dopo la Sardegna è la Puglia la regione italiana che consuma di più con tale modalità, con 66 ettari (circa il 37%).

    con la logistica l’Italia perde ancora più terreno. Invece di rigenerare e riqualificare spazi già edificati, sono stati consumati in sette anni 700 ettari di suolo agricolo e il trend è in crescita. In Veneto le maggiori trasformazioni (181 ettari dal 2012 al 2019, di cui il 95% negli ultimi 3 anni) dovute alla logistica, seguita da Lombardia (131 ettari) ed Emilia-Romagna (119).

    In sintesi il costo che l’Italia potrebbe essere costretta a sostenere a causa della perdita dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo tra il 2012 e il 2030 oscilla tra gli 81 e i 99 miliardi di euro, in pratica la metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Se la velocità di copertura artificiale rimanesse quella di 2 mq al secondo registrata nel 2020 i danni costerebbero cari e non solo in termini economici.

     

    Qui una sintesi dei dati del Rapporto

     

    da qui

    giovedì 26 agosto 2021

    I conflitti ambientali e il bluff dell’economia circolare - Elena Camino

     

    3.492 pallini sulla carta, indicatori di altrettanti conflitti ambientali segnalati e descritti dall’Environmental Justice Atlas (EJ Atlas),  uno straordinario archivio, tuttora ‘in progress’, che dagli anni ’70 del Novecento segnala al pubblico storie di comunità che in tutto il mondo sono impegnate nella difesa dei loro territori – terra, acqua, foreste, aree di pesca, fonti di  vita e di sussistenza – contro attività estrattive e contro azioni che provocano gravi impatti ambientali e sociali: miniere, dighe, coltivazioni intensive, inceneritori, estrazioni di combustibili fossili, aeroporti, ecc.  

    L’EJ Atlas si propone di rendere visibili le ragioni di queste comunità e di descrivere le lotte intraprese per ottenere giustizia ambientale. Intende anche servire come spazio virtuale per mettere in contatto comunità che sono impegnate in situazioni simili, per fornire a ricercatori e attivisti informazioni utili per la ricerca e l’azione, per aumentare la consapevolezza dei consumatori che – involontariamente o per leggerezza – contribuiscono ad alimentare gli atteggiamenti predatori delle grandi corporation.     

    Le mappe collaborative dell’EJ Atlas costituiscono una sfida alla cartografia dominante, che spesso propone l’ambiente come uno spazio punteggiato da risorse strategiche, dando per scontato che la loro gestione e sfruttamento costituisca l’interesse principale delle politiche locali. L’Atlante sposta invece l’attenzione dagli aspetti puramente economici alla dimensione del controllo e della gestione dei ‘beni ambientali’. Dà voce alle vittime della violenza esercitata dagli esecutori di un modello di sviluppo iniquo; ai morti, ai criminalizzati, ai feriti, agli impauriti, agli sfollati che nella narrativa dominante non hanno voce, o che addirittura non sono considerati come soggetti.

    Un crescendo di conflitti ambientali

    Via via che aumenta la pressione verso l’ambiente da parte delle industrie che estraggono risorse e scaricano rifiuti, e vengono invase aree più periferiche del pianeta, dove ancora sopravvivono economie di sussistenza, si moltiplicano i conflitti. È ormai evidente che non si tratta semplicemente di conflitti per specifiche risorse o per inquinamenti / danneggiamenti locali: essi esprimono – come si usa dire adesso – l’intersezionalità di problematiche agricole, squilibri di genere, relazioni città/campagna, salute pubblica, discriminazione razziale… Sono conflitti causati da una iniqua distribuzione degli spazi e degli usi dei beni ecologici.

    L’economia classica e ancor più la moderna economia neoliberista, che tendono a ridurre la complessità dei conflitti a dinamiche di mercato, esternalità, compensazioni monetarie, si trovano sempre più di fronte ad attori sociali che mettono in campo sistemi di valori diversi. Contestano la narrativa dominante che da secoli accompagna l’affermarsi delle strutture istituzionali e delle relazioni di potere del sistema militar-industriale capitalistico.

    La dimensione del sacro, i diritti della natura e dei popoli indigeni, i valori estetici ed ecologici, il ruolo della conoscenza esperienziale… i cosiddetti conflitti ‘ambientali’ chiamano ormai in causa tutte le dimensioni del contesto ambientale e delle relazioni socio-culturali. Mettono allo scoperto l’inconciliabilità di visioni del mondo e di senso della vita tra una minoranza predatrice – che sta causando irrimediabili danni alla trama della vita che ci sostiene – e una maggioranza impoverita, che subisce una doppia violenza, sia diretta e locale, sia globale, provocata dai cambiamenti climatici innescati nell’intero pianeta.

    I confini estremi della Terra

    Dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi l’invasione degli spazi più remoti del mondo si è ormai compiuta. La presenza umana, e la presenza di ‘manufatti’ e di prodotti dell’attività umana, sono rintracciabili in ogni angolo del pianeta. Non c’è più luogo ‘incontaminato’ sul pianeta. E’ stata proprio la ricerca di ‘risorse’ con le quali alimentare i processi di trasformazione che sostengono le moderne società, e la ricerca di ‘pattumiere’ dove smaltire la crescente quantità di scarti e di rifiuti dell’economia lineare ad aver alterato profondamente e irreversibilmente la nostra casa comune: la biosfera, il substrato abiotico sul quale essa si è sviluppata nel corso di miliardi di anni, e persino aree sempre più estese dello spazio intorno alla Terra, il cyber-spazio colonizzato grazie al crescente sviluppo della tecnosfera.

    L’invasione prepotente ai luoghi più remoti del mondo ha messo in pericolo, decretandone spesso la morte, tante comunità umane, ambienti naturali, grandi foreste, popolazioni animali, nicchie e habitat, luoghi viventi di biodiversità. Tutti irrimediabilmente distrutti.   Le frontiere fino alle quali si sono spinte le ruspe, le trivellazioni, le dighe e le rotaie, le irrorazioni chimiche e le discariche di rifiuti tossici coincidono ormai con i margini di Gaia, la nostra terra vivente. E in tutto il mondo i conflitti ‘ambientali’ sono diventati questioni di vita o di morte per tutti coloro che – loro malgrado – sono stati coinvolti inesorabilmente dall’avanzata di predatori intenti alla trasformazione del naturale in artificiale: dalle miniere ai prodotti ai rifiuti, utilizzando le riserve energetiche accumulate sottoterra nei tempi geologici, e disperdendo gli scarti nell’atmosfera e negli oceani.

    Frontiere abbattute

    Il sistema economico tuttora dominante ha a lungo ‘esternalizzato’ i suoi impatti negativi, scaricandone gli effetti sulle periferie ambientali e sociali, sulle popolazioni marginalizzate e sui luoghi lontani dalla vista e dagli interessi delle minoranze privilegiate. Ma arrivare ai confini estremi significa che questi impatti non si possono più nascondere. Le violenze contro le comunità e gli avvelenamenti degli ambienti emergono all’evidenza e finiscono per coinvolgere tutti. L’intera biosfera reagisce alle trasformazioni globali che le sono state imposte. La globalizzazione del sistema economico ha portato con sé la cancellazione di confini naturali che delimitavano ambienti diversi, e consentivano alla biodiversità di fiorire, alle fasce climatiche di differenziarsi, ai diversi habitat di conservare le loro peculiarità, alle comunità umane di costruire culture e linguaggi.

    A innescare la drammatica situazione sanitaria provocata dal COVID-19 è stata probabilmente la ‘forzatura’ di uno dei confini che regolavano le relazioni tra umani e altri viventi. La continua erosione degli spazi di vita degli abitanti non umani ha costretto animali selvatici (e con loro varie coorti di parassiti, batteri e virus) ad avvicinarsi all’uomo, causando un crescendo di ‘salti di specie[1]’ con conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti, di cui l’attuale pandemia è solo un esempio.

    Il nostro pianeta sta dunque cambiando. Innescate dall’azione umana, si stanno manifestando trasformazioni globali, con esiti che solo in minima misura possiamo cercare di prevedere. Ma ci manca l’immaginazione per intuire come evolverà l’avventura della Terra.  Le scelte compiute da una piccola parte dell’umanità negli ultimi due secoli hanno messo in moto un processo che coinvolge tutti gli abitanti del pianeta (gli Earthlings, come li chiama lo studioso Bruno Latour con una parola difficilmente traducibile, forse ‘figli della Terra’?). Impossibile tornare indietro. Ma forse è possibile intraprendere a livello globale delle azioni in grado di rallentare il processo? Almeno di ridurre il nostro impatto?  Le strade sicuramente da intraprendere non mancano:

    • L’abolizione immediata degli apparati militari e delle guerre;
    • Una drastica trasformazione degli stili di vita della minoranza ricca e consumatrice; sicuramente un rapido passaggio da un modello di società basato sui consumi a un modello basato sulla frugalità e la sufficienza;
    • Scelte politiche basate su equità e giustizia…

    Molti sono i suggerimenti, ma non vengono ascoltati.

    La soluzione tecnologica e la circolarità dell’economia

    Purtroppo la fiducia umana nelle soluzioni ‘intelligenti’ offerte dalla tecnologia non conosce limiti. Dalle mega-dighe che hanno devastato i bacini fluviali dei maggiori fiumi del mondo agli allevamenti intensivi di animali che stanno favorendo inaspettati salti di specie; dall’utilizzo sempre più spregiudicato dell’energia nucleare (le cui scorie sono ineliminabili) fino all’ invasione elettro-magnetica dello spazio circumterrestre. La visione del mondo del potere dominante non conosce ripensamenti. Le inaspettate disponibilità finanziarie messe in campo per affrontare la crisi globale socio-sanitaria-economica in cui siamo sprofondati hanno stimolato nuove fantasie. Le potenzialità dell’intelligenza artificiale e della robotica si intrecciano con la crescente inconsapevolezza e avidità di chi le ha progettate.

    Tra le proposte meno fantasiose, quindi in grado di trovare qualche adesione nell’ingenuità del pubblico, vi è quella di trasformare l’economia da processo lineare a processo circolare. “In effetti abbiamo compiuto qualche errore, sottovalutato qualche aspetto” – sono disposti ad ammettere gli economisti – “ma possiamo rapidamente e facilmente rimediare. Trasformiamo il flusso lineare (che parte dall’estrazione di risorse a produzione di rifiuti) in un ciclo chiuso, in cui la materia si riutilizza continuamente, eliminando quindi contemporaneamente l’estrazione e l’inquinamento”.

    L’intersezionalità tra economia, ecologia e giustizia

    Torniamo all’argomento iniziale di questo articolo: l’Atlante dei conflitti ambientali. Lo studioso che negli anni ’70 del 900 ha dato avvio alla ricerca e alla documentazione che hanno permesso la costruzione di questo Atlante è un economista: Joan Martinez Alier. Laureato in Economia a Barcellona nel 1961, ha trascorso alcuni anni all’estero per poi rientrare in Spagna nel 1975, presso il Dipartimento di Economia e Storia Economica dell’Università Autònoma de Barcelona. Ha insegnato anche in prestigiose università internazionali (Oxford, Stanford, Yale). Il suo contributo – sia teorico sia applicativo – integra approcci ecologici con quelli orientati allo sviluppo e alla giustizia. Ha ricevuto premi importanti per la qualità dei suoi contributi alla fondazione dell’economia ecologica, per la sua analisi pionieristica delle relazioni tra economie e ambiente, per il suo approccio interdisciplinare e comparativo e il suo ruolo attivo nella promozione della giustizia ambientale.

    È stato lui a dare avvio alla raccolta di documentazione per la costruzione dell’Atlante della giustizia ambientale. Ha anche messo in evidenza le responsabilità etiche del modello di sviluppo liberista; un modello caratterizzato da manifestazioni di violenza diretta e indiretta verso le comunità umane e l’ambiente. Anche se da tempo ha lasciato il suo ruolo professionale, Joan Martinez Alier è tuttora impegnato nel divulgare i risultati dei suoi studi e nel difendere i diritti delle popolazioni impegnate in conflitti ambientali. Ne è testimonianza un suo recente articolo di riflessione critica sull’idea di ‘economia circolare’. La sua riflessione tiene insieme ciò che l’economia liberista continua a tenere separati: la competenza scientifica, il rispetto dei diritti e il senso di giustizia.   

    Il ‘gap’ della circolarità

    Il concetto di economia circolare implica che le risorse per le attività produttive siano sempre più attinte all’interno dei passaggi intermedi di trasformazione; e che grazie al riuso e al riciclo dei materiali si riducano gli impatti ambientali. L’input di energia arriverà dal sole dicono gli economisti – e gli scarti diventeranno risorse da immettere, grazie alle tecnologie più moderne, in un ciclo virtuoso.

    Tuttavia è stato da tempo dimostrato che l’economia industriale non è circolare, ma entropica. Vale a dire che non può funzionare se non estraendo nuove risorse e producendo nuovi rifiuti.   Il semplice schema circolare proposto dagli economisti che omettono le frecce che indicano entrate e uscite è sbagliato.  La ‘giostra’ tra produttori e consumatori ha bisogno di energia (input) per girare. Non solo: non tutti materiali possono essere riciclati, quindi esistono sempre anche scarti (output) non eliminabili. I dati sperimentali lo confermano. Una recente pubblicazione segnala che l’economia dei 27 Paesi dell’UE ricicla intorno al 12% dei materiali (dati del 2019). La concentrazione di CO2 (uno dei ‘rifiuti’ rilasciati in atmosfera), che era di 320 ppm nel 1960, ha raggiunto il valore di 415 ppm nel 2020, e sta avviandosi a raggiungere i 450 ppm nel 2050.  

    Come mai non si riesce a ‘chiudere il cerchio’? Martinez Alier (riprendendo numerosi studi degli ultimi decenni) osserva che il basso livello di circolarità ha molte cause, di cui due principali:

    • la prima è che il 44% del materiale trasformato (i combustibili fossili) viene usato per fornire energia, che viene dissipata quindi non si può riciclare;
    • quanto alla seconda, gli stock socio-economici (cioè l’ambiente costruito, edificato) continuano a crescere. In un primo tempo richiedono energia e materia e per la costruzione. Successivamente continuano ad aver bisogno di energia e materia per la manutenzione e l’operatività.

    Le ‘grandi opere’ sono un chiaro esempio di scelte non cicliche, insostenibili dell’economia.  Ma anche in un’economia industriale che non cresce gli ambienti costruiti richiedono senza sosta energia e materia per funzionare e non deteriorarsi. Il mondo artificiale consuma!!  Questo modello di sviluppo, che privilegia l’artificiale a scapito del naturale, continuerà ad aver bisogno di nuovi rifornimenti di energia e di materiali.

    Dai dati a disposizione risulta che nel 2017 la percentuale globale di materia riciclata è stata dell’8,7%. Se meno del 10% della materia (incluse le risorse energetiche) è stato riciclato, da dove arriva il restante 90%?  Questa domanda permette di riconnettere l’economia alla società, all’ambiente, alla giustizia, e di riconoscere l’intersezionalità dei conflitti ambientali. Nel 2017 sono state estratte 92Gt di ‘nuove’ risorse provenienti dalle ‘commodity frontiers’, le frontiere lungo le quali continuano ad essere estratte le materie prime; continua anche a produrre scarti e rifiuti, che sono riversati in singoli luoghi e nelle grandi ‘pattumiere’ globali, l’atmosfera e gli oceani.

    Non c’è dubbio quindi – sostiene Martinez Alier – che senza un radicale ripensamento dell’economia e del modello di sviluppo si manifesteranno nuovi conflitti ambientali, aggiungendosi alle migliaia già documentati dall’EJ Atlas. Ed è quanto sta succedendo. Le frontiere dell’estrazione e le frontiere degli scarti vedono intensificarsi i saccheggi, gli atti di espropriazione, le devastazioni dei luoghi di vita, che aumentano di dimensioni e profondità con la complicità di tecnologie sempre più potenti e invasive.

    Basta alla teoria della Terra piatta!

    Secondo Martinez Alier un’economia perfettamente circolare è impossibile da realizzare in un sistema industriale e dovremmo smettere di fingere che questo sia un risultato raggiungibile. Bisogna smettere cioè di promuovere l’illusione che l’iperconsumo e ipermaterialismo possano continuare per sempre come purché i consumatori gettino i loro rifiuti nel cestino giusto. Infatti, suggerendo che il riciclaggio può essere efficace al 100% e neutrale per il clima, questo discorso sta scoraggiando opzioni più realistiche e concrete. Cioè rifiutare e ridurre.

    Secondo Giampietro e Funtowicz l’idea della circolarità dell’economia è una “leggenda popolare” che nega la scomoda verità dell’impossibilità di disaccoppiare il funzionamento dell’attuale sistema industriale dai flussi di energia e materia in entrata e in uscita dal sistema Terra. Questi Autori tracciano un parallelo tra il mito dell’economia circolare e la credenza medioevale della Terra piatta: secondo loro sono entrambe forme di “ignoranza socialmente costruita” per mantenere lo status quo e l’autorità delle élites egemoniche. Sono credenze che rendono difficile prendere atto e accettare la necessità di passare a una società post-crescita e post-capitalista.

    Combinando le conoscenze dell’economia ecologica, dell’ecologia industriale e dell’ecologia politica, Martinez Alier (e molti studiosi che si sono occupati di questo tema) conclude  che il “gap di circolarità”, ovvero la necessità per l’economia industriale di ottenere materiali ed energia “freschi” in ogni momento, è la causa principale del grande e crescente numero dei conflitti di distribuzione ecologica: quei conflitti che drammaticamente continuano ad aumentare, e di cui l’EJ Atlas testimonia le tragiche conseguenze umane, sociali  e ambientali, ponendo la società opulenta, le istituzioni, le grandi corporation… e tutti noi di fronte a responsabilità sempre più pesanti.


    Nota

    [1] Spillover è il termine con cui si indica il salto di specie; è anche il titolo di un libro straordinario, scritto da David Quammen nel 2012 e tradotto in italiano nel 2014 da Adelphi. Il libro anticipa molte delle circostanze e delle problematiche emerse poi dal 2019 ad oggi. 

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