giovedì 26 agosto 2021

I conflitti ambientali e il bluff dell’economia circolare - Elena Camino

 

3.492 pallini sulla carta, indicatori di altrettanti conflitti ambientali segnalati e descritti dall’Environmental Justice Atlas (EJ Atlas),  uno straordinario archivio, tuttora ‘in progress’, che dagli anni ’70 del Novecento segnala al pubblico storie di comunità che in tutto il mondo sono impegnate nella difesa dei loro territori – terra, acqua, foreste, aree di pesca, fonti di  vita e di sussistenza – contro attività estrattive e contro azioni che provocano gravi impatti ambientali e sociali: miniere, dighe, coltivazioni intensive, inceneritori, estrazioni di combustibili fossili, aeroporti, ecc.  

L’EJ Atlas si propone di rendere visibili le ragioni di queste comunità e di descrivere le lotte intraprese per ottenere giustizia ambientale. Intende anche servire come spazio virtuale per mettere in contatto comunità che sono impegnate in situazioni simili, per fornire a ricercatori e attivisti informazioni utili per la ricerca e l’azione, per aumentare la consapevolezza dei consumatori che – involontariamente o per leggerezza – contribuiscono ad alimentare gli atteggiamenti predatori delle grandi corporation.     

Le mappe collaborative dell’EJ Atlas costituiscono una sfida alla cartografia dominante, che spesso propone l’ambiente come uno spazio punteggiato da risorse strategiche, dando per scontato che la loro gestione e sfruttamento costituisca l’interesse principale delle politiche locali. L’Atlante sposta invece l’attenzione dagli aspetti puramente economici alla dimensione del controllo e della gestione dei ‘beni ambientali’. Dà voce alle vittime della violenza esercitata dagli esecutori di un modello di sviluppo iniquo; ai morti, ai criminalizzati, ai feriti, agli impauriti, agli sfollati che nella narrativa dominante non hanno voce, o che addirittura non sono considerati come soggetti.

Un crescendo di conflitti ambientali

Via via che aumenta la pressione verso l’ambiente da parte delle industrie che estraggono risorse e scaricano rifiuti, e vengono invase aree più periferiche del pianeta, dove ancora sopravvivono economie di sussistenza, si moltiplicano i conflitti. È ormai evidente che non si tratta semplicemente di conflitti per specifiche risorse o per inquinamenti / danneggiamenti locali: essi esprimono – come si usa dire adesso – l’intersezionalità di problematiche agricole, squilibri di genere, relazioni città/campagna, salute pubblica, discriminazione razziale… Sono conflitti causati da una iniqua distribuzione degli spazi e degli usi dei beni ecologici.

L’economia classica e ancor più la moderna economia neoliberista, che tendono a ridurre la complessità dei conflitti a dinamiche di mercato, esternalità, compensazioni monetarie, si trovano sempre più di fronte ad attori sociali che mettono in campo sistemi di valori diversi. Contestano la narrativa dominante che da secoli accompagna l’affermarsi delle strutture istituzionali e delle relazioni di potere del sistema militar-industriale capitalistico.

La dimensione del sacro, i diritti della natura e dei popoli indigeni, i valori estetici ed ecologici, il ruolo della conoscenza esperienziale… i cosiddetti conflitti ‘ambientali’ chiamano ormai in causa tutte le dimensioni del contesto ambientale e delle relazioni socio-culturali. Mettono allo scoperto l’inconciliabilità di visioni del mondo e di senso della vita tra una minoranza predatrice – che sta causando irrimediabili danni alla trama della vita che ci sostiene – e una maggioranza impoverita, che subisce una doppia violenza, sia diretta e locale, sia globale, provocata dai cambiamenti climatici innescati nell’intero pianeta.

I confini estremi della Terra

Dagli anni ’70 del secolo scorso ad oggi l’invasione degli spazi più remoti del mondo si è ormai compiuta. La presenza umana, e la presenza di ‘manufatti’ e di prodotti dell’attività umana, sono rintracciabili in ogni angolo del pianeta. Non c’è più luogo ‘incontaminato’ sul pianeta. E’ stata proprio la ricerca di ‘risorse’ con le quali alimentare i processi di trasformazione che sostengono le moderne società, e la ricerca di ‘pattumiere’ dove smaltire la crescente quantità di scarti e di rifiuti dell’economia lineare ad aver alterato profondamente e irreversibilmente la nostra casa comune: la biosfera, il substrato abiotico sul quale essa si è sviluppata nel corso di miliardi di anni, e persino aree sempre più estese dello spazio intorno alla Terra, il cyber-spazio colonizzato grazie al crescente sviluppo della tecnosfera.

L’invasione prepotente ai luoghi più remoti del mondo ha messo in pericolo, decretandone spesso la morte, tante comunità umane, ambienti naturali, grandi foreste, popolazioni animali, nicchie e habitat, luoghi viventi di biodiversità. Tutti irrimediabilmente distrutti.   Le frontiere fino alle quali si sono spinte le ruspe, le trivellazioni, le dighe e le rotaie, le irrorazioni chimiche e le discariche di rifiuti tossici coincidono ormai con i margini di Gaia, la nostra terra vivente. E in tutto il mondo i conflitti ‘ambientali’ sono diventati questioni di vita o di morte per tutti coloro che – loro malgrado – sono stati coinvolti inesorabilmente dall’avanzata di predatori intenti alla trasformazione del naturale in artificiale: dalle miniere ai prodotti ai rifiuti, utilizzando le riserve energetiche accumulate sottoterra nei tempi geologici, e disperdendo gli scarti nell’atmosfera e negli oceani.

Frontiere abbattute

Il sistema economico tuttora dominante ha a lungo ‘esternalizzato’ i suoi impatti negativi, scaricandone gli effetti sulle periferie ambientali e sociali, sulle popolazioni marginalizzate e sui luoghi lontani dalla vista e dagli interessi delle minoranze privilegiate. Ma arrivare ai confini estremi significa che questi impatti non si possono più nascondere. Le violenze contro le comunità e gli avvelenamenti degli ambienti emergono all’evidenza e finiscono per coinvolgere tutti. L’intera biosfera reagisce alle trasformazioni globali che le sono state imposte. La globalizzazione del sistema economico ha portato con sé la cancellazione di confini naturali che delimitavano ambienti diversi, e consentivano alla biodiversità di fiorire, alle fasce climatiche di differenziarsi, ai diversi habitat di conservare le loro peculiarità, alle comunità umane di costruire culture e linguaggi.

A innescare la drammatica situazione sanitaria provocata dal COVID-19 è stata probabilmente la ‘forzatura’ di uno dei confini che regolavano le relazioni tra umani e altri viventi. La continua erosione degli spazi di vita degli abitanti non umani ha costretto animali selvatici (e con loro varie coorti di parassiti, batteri e virus) ad avvicinarsi all’uomo, causando un crescendo di ‘salti di specie[1]’ con conseguenze imprevedibili e potenzialmente devastanti, di cui l’attuale pandemia è solo un esempio.

Il nostro pianeta sta dunque cambiando. Innescate dall’azione umana, si stanno manifestando trasformazioni globali, con esiti che solo in minima misura possiamo cercare di prevedere. Ma ci manca l’immaginazione per intuire come evolverà l’avventura della Terra.  Le scelte compiute da una piccola parte dell’umanità negli ultimi due secoli hanno messo in moto un processo che coinvolge tutti gli abitanti del pianeta (gli Earthlings, come li chiama lo studioso Bruno Latour con una parola difficilmente traducibile, forse ‘figli della Terra’?). Impossibile tornare indietro. Ma forse è possibile intraprendere a livello globale delle azioni in grado di rallentare il processo? Almeno di ridurre il nostro impatto?  Le strade sicuramente da intraprendere non mancano:

  • L’abolizione immediata degli apparati militari e delle guerre;
  • Una drastica trasformazione degli stili di vita della minoranza ricca e consumatrice; sicuramente un rapido passaggio da un modello di società basato sui consumi a un modello basato sulla frugalità e la sufficienza;
  • Scelte politiche basate su equità e giustizia…

Molti sono i suggerimenti, ma non vengono ascoltati.

La soluzione tecnologica e la circolarità dell’economia

Purtroppo la fiducia umana nelle soluzioni ‘intelligenti’ offerte dalla tecnologia non conosce limiti. Dalle mega-dighe che hanno devastato i bacini fluviali dei maggiori fiumi del mondo agli allevamenti intensivi di animali che stanno favorendo inaspettati salti di specie; dall’utilizzo sempre più spregiudicato dell’energia nucleare (le cui scorie sono ineliminabili) fino all’ invasione elettro-magnetica dello spazio circumterrestre. La visione del mondo del potere dominante non conosce ripensamenti. Le inaspettate disponibilità finanziarie messe in campo per affrontare la crisi globale socio-sanitaria-economica in cui siamo sprofondati hanno stimolato nuove fantasie. Le potenzialità dell’intelligenza artificiale e della robotica si intrecciano con la crescente inconsapevolezza e avidità di chi le ha progettate.

Tra le proposte meno fantasiose, quindi in grado di trovare qualche adesione nell’ingenuità del pubblico, vi è quella di trasformare l’economia da processo lineare a processo circolare. “In effetti abbiamo compiuto qualche errore, sottovalutato qualche aspetto” – sono disposti ad ammettere gli economisti – “ma possiamo rapidamente e facilmente rimediare. Trasformiamo il flusso lineare (che parte dall’estrazione di risorse a produzione di rifiuti) in un ciclo chiuso, in cui la materia si riutilizza continuamente, eliminando quindi contemporaneamente l’estrazione e l’inquinamento”.

L’intersezionalità tra economia, ecologia e giustizia

Torniamo all’argomento iniziale di questo articolo: l’Atlante dei conflitti ambientali. Lo studioso che negli anni ’70 del 900 ha dato avvio alla ricerca e alla documentazione che hanno permesso la costruzione di questo Atlante è un economista: Joan Martinez Alier. Laureato in Economia a Barcellona nel 1961, ha trascorso alcuni anni all’estero per poi rientrare in Spagna nel 1975, presso il Dipartimento di Economia e Storia Economica dell’Università Autònoma de Barcelona. Ha insegnato anche in prestigiose università internazionali (Oxford, Stanford, Yale). Il suo contributo – sia teorico sia applicativo – integra approcci ecologici con quelli orientati allo sviluppo e alla giustizia. Ha ricevuto premi importanti per la qualità dei suoi contributi alla fondazione dell’economia ecologica, per la sua analisi pionieristica delle relazioni tra economie e ambiente, per il suo approccio interdisciplinare e comparativo e il suo ruolo attivo nella promozione della giustizia ambientale.

È stato lui a dare avvio alla raccolta di documentazione per la costruzione dell’Atlante della giustizia ambientale. Ha anche messo in evidenza le responsabilità etiche del modello di sviluppo liberista; un modello caratterizzato da manifestazioni di violenza diretta e indiretta verso le comunità umane e l’ambiente. Anche se da tempo ha lasciato il suo ruolo professionale, Joan Martinez Alier è tuttora impegnato nel divulgare i risultati dei suoi studi e nel difendere i diritti delle popolazioni impegnate in conflitti ambientali. Ne è testimonianza un suo recente articolo di riflessione critica sull’idea di ‘economia circolare’. La sua riflessione tiene insieme ciò che l’economia liberista continua a tenere separati: la competenza scientifica, il rispetto dei diritti e il senso di giustizia.   

Il ‘gap’ della circolarità

Il concetto di economia circolare implica che le risorse per le attività produttive siano sempre più attinte all’interno dei passaggi intermedi di trasformazione; e che grazie al riuso e al riciclo dei materiali si riducano gli impatti ambientali. L’input di energia arriverà dal sole dicono gli economisti – e gli scarti diventeranno risorse da immettere, grazie alle tecnologie più moderne, in un ciclo virtuoso.

Tuttavia è stato da tempo dimostrato che l’economia industriale non è circolare, ma entropica. Vale a dire che non può funzionare se non estraendo nuove risorse e producendo nuovi rifiuti.   Il semplice schema circolare proposto dagli economisti che omettono le frecce che indicano entrate e uscite è sbagliato.  La ‘giostra’ tra produttori e consumatori ha bisogno di energia (input) per girare. Non solo: non tutti materiali possono essere riciclati, quindi esistono sempre anche scarti (output) non eliminabili. I dati sperimentali lo confermano. Una recente pubblicazione segnala che l’economia dei 27 Paesi dell’UE ricicla intorno al 12% dei materiali (dati del 2019). La concentrazione di CO2 (uno dei ‘rifiuti’ rilasciati in atmosfera), che era di 320 ppm nel 1960, ha raggiunto il valore di 415 ppm nel 2020, e sta avviandosi a raggiungere i 450 ppm nel 2050.  

Come mai non si riesce a ‘chiudere il cerchio’? Martinez Alier (riprendendo numerosi studi degli ultimi decenni) osserva che il basso livello di circolarità ha molte cause, di cui due principali:

  • la prima è che il 44% del materiale trasformato (i combustibili fossili) viene usato per fornire energia, che viene dissipata quindi non si può riciclare;
  • quanto alla seconda, gli stock socio-economici (cioè l’ambiente costruito, edificato) continuano a crescere. In un primo tempo richiedono energia e materia e per la costruzione. Successivamente continuano ad aver bisogno di energia e materia per la manutenzione e l’operatività.

Le ‘grandi opere’ sono un chiaro esempio di scelte non cicliche, insostenibili dell’economia.  Ma anche in un’economia industriale che non cresce gli ambienti costruiti richiedono senza sosta energia e materia per funzionare e non deteriorarsi. Il mondo artificiale consuma!!  Questo modello di sviluppo, che privilegia l’artificiale a scapito del naturale, continuerà ad aver bisogno di nuovi rifornimenti di energia e di materiali.

Dai dati a disposizione risulta che nel 2017 la percentuale globale di materia riciclata è stata dell’8,7%. Se meno del 10% della materia (incluse le risorse energetiche) è stato riciclato, da dove arriva il restante 90%?  Questa domanda permette di riconnettere l’economia alla società, all’ambiente, alla giustizia, e di riconoscere l’intersezionalità dei conflitti ambientali. Nel 2017 sono state estratte 92Gt di ‘nuove’ risorse provenienti dalle ‘commodity frontiers’, le frontiere lungo le quali continuano ad essere estratte le materie prime; continua anche a produrre scarti e rifiuti, che sono riversati in singoli luoghi e nelle grandi ‘pattumiere’ globali, l’atmosfera e gli oceani.

Non c’è dubbio quindi – sostiene Martinez Alier – che senza un radicale ripensamento dell’economia e del modello di sviluppo si manifesteranno nuovi conflitti ambientali, aggiungendosi alle migliaia già documentati dall’EJ Atlas. Ed è quanto sta succedendo. Le frontiere dell’estrazione e le frontiere degli scarti vedono intensificarsi i saccheggi, gli atti di espropriazione, le devastazioni dei luoghi di vita, che aumentano di dimensioni e profondità con la complicità di tecnologie sempre più potenti e invasive.

Basta alla teoria della Terra piatta!

Secondo Martinez Alier un’economia perfettamente circolare è impossibile da realizzare in un sistema industriale e dovremmo smettere di fingere che questo sia un risultato raggiungibile. Bisogna smettere cioè di promuovere l’illusione che l’iperconsumo e ipermaterialismo possano continuare per sempre come purché i consumatori gettino i loro rifiuti nel cestino giusto. Infatti, suggerendo che il riciclaggio può essere efficace al 100% e neutrale per il clima, questo discorso sta scoraggiando opzioni più realistiche e concrete. Cioè rifiutare e ridurre.

Secondo Giampietro e Funtowicz l’idea della circolarità dell’economia è una “leggenda popolare” che nega la scomoda verità dell’impossibilità di disaccoppiare il funzionamento dell’attuale sistema industriale dai flussi di energia e materia in entrata e in uscita dal sistema Terra. Questi Autori tracciano un parallelo tra il mito dell’economia circolare e la credenza medioevale della Terra piatta: secondo loro sono entrambe forme di “ignoranza socialmente costruita” per mantenere lo status quo e l’autorità delle élites egemoniche. Sono credenze che rendono difficile prendere atto e accettare la necessità di passare a una società post-crescita e post-capitalista.

Combinando le conoscenze dell’economia ecologica, dell’ecologia industriale e dell’ecologia politica, Martinez Alier (e molti studiosi che si sono occupati di questo tema) conclude  che il “gap di circolarità”, ovvero la necessità per l’economia industriale di ottenere materiali ed energia “freschi” in ogni momento, è la causa principale del grande e crescente numero dei conflitti di distribuzione ecologica: quei conflitti che drammaticamente continuano ad aumentare, e di cui l’EJ Atlas testimonia le tragiche conseguenze umane, sociali  e ambientali, ponendo la società opulenta, le istituzioni, le grandi corporation… e tutti noi di fronte a responsabilità sempre più pesanti.


Nota

[1] Spillover è il termine con cui si indica il salto di specie; è anche il titolo di un libro straordinario, scritto da David Quammen nel 2012 e tradotto in italiano nel 2014 da Adelphi. Il libro anticipa molte delle circostanze e delle problematiche emerse poi dal 2019 ad oggi. 

da qui

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