domenica 31 agosto 2025

La guerra organizza l’accumulazione del capitale - Raúl Zibechi

 

Tutte le guerre in corso sono articolazioni dell’accumulazione di capitale, a prescindere dagli Stati coinvolti. Eppure una parte della sinistra e dei movimenti opta per alcune potenze capitaliste (Russia, Cina) o per potenze capitaliste con sistemi statalisti teocratici (Iran), rispetto ad altre. “Credo che questa politica sia dannosa per i movimenti e i popoli, poiché divide e gerarchizza, scegliendo vittime difendibili mentre altre vengono dimenticate… – scrive Raúl Zibechi – Che senso ha per noi che combattiamo per un mondo nuovo essere alleati del capitalismo di stato?”. Ci sono crepe in questo orizzonte? “La speranza sta nel vedere come alcune comunità e organizzazioni tracciano percorsi diversi – aggiunge Zibechi – In particolare, la determinazione zapatista a porre fine alle piramidi ci mostra che, trentuno anni dopo la rivolta, continuano a percorrere altre strade, imparando dai propri errori, che è l’unico modo per crescere…”

È vero che alcune grandi aziende traggono profitto dal genocidio palestinese, come riportato dalla Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Territori Palestinesi, Francesca Albanese. È inoltre emerso pochi giorni fa che il Pentagono ha destinato il 54% della sua spesa a società private tra il 2020 e il 2024, il che equivale alla sbalorditiva cifra di 2,1 trilioni di dollari per rimpinguare le casse di una manciata di grandi multinazionali della guerra, secondo il Quincy Institute for Responsible Statehood. Ma la realtà del capitale va ben oltre i profitti di poche aziende, al punto che oggi possiamo affermare che l’accumulazione di capitale non può essere sostenuta senza violenza, senza distruggere popoli, senza massacrare donne e bambini. Le guerre sono articolazioni dell’accumulazione di capitale, a prescindere dagli Stati nazionali coinvolti nei conflitti.

La complessità della situazione attuale risiede nella sovrapposizione di vari tipi di guerre che tuttavia hanno obiettivi simili. Siamo di fronte a guerre tra Stati, come nel caso tra Russia e Ucraina, o, se preferite, tra NATO e Russia. Ci sono anche guerre aperte, sebbene non dichiarate, tra Stati e popoli, come nel caso tra Israele e il popolo palestinese. Ma abbondano anche altri tipi di guerre, come le “guerre alla droga”, come in Messico, o le guerre contro le gang, la povertà e persino i cambiamenti climatici.

Sebbene ognuna abbia le sue particolarità, tutte mirano allo stesso obiettivo: attaccare e sfollare le popolazioni per facilitarne l’espropriazione. Ammetto che questo modo di analizzare la realtà possa trascurare alcune caratteristiche di queste guerre, ma credo sia necessario schierarsi fermamente dalla parte dei popoli che, ripetutamente, sono vittime dell’accumulazione capitalista e, quindi, delle guerre.

 

Una parte della sinistra e anche i movimenti sociali stanno optando per alcune potenze capitaliste (Russia, Cina) rispetto ad altre (Stati Uniti, Unione Europea), con il pretesto di combattere il “nemico principale”. Questo li porta a stringere alleanze con coloro che si oppongono all’impero statunitense. Credo che questa politica sia dannosa per i movimenti e i popoli, poiché divide e gerarchizza, scegliendo vittime difendibili mentre altre vengono dimenticate. È sorprendente che il popolo palestinese venga difeso, una questione del tutto giusta, ma nessuno parla del popolo ucraino o russo, i cui figli stanno dando la vita per difendere interessi stranieri in una guerra per la quale non sono stati consultati. In un caso, si tratta del capitale occidentale sostenuto da Trump e dall’Unione Europea. Nell’altro, si tratta di un regime autoritario e capitalista, come quello guidato da Putin.

Ancora più gravi, trovo i movimenti che difendono apertamente la Cina o l’Iran, come sta accadendo in diversi casi in America Latina. Non possiamo accettare che le guerre tra grandi stati siano guerre intercapitalistiche? Che senso ha per noi che combattiamo per un mondo nuovo essere alleati del capitalismo di stato? Perché questo è uno degli argomenti principali di coloro che sostengono che la Cina, o stati simili, siano diversi dall’Europa o dagli Stati Uniti perché è lo stato a dirigere l’economia. Molti sostengono che i lavoratori in Cina abbiano accesso all’assistenza sanitaria pubblica, all’alloggio e ad altri benefici sociali, creando così una differenza rispetto ai paesi centrali del capitalismo attuale, dove gran parte di questi servizi è privata. Mi dispiace dire che trovo questa argomentazione molto debole e che il capitalismo di Stato è capitalista tanto quanto la proprietà privata.

Sembra evidente che lo Stato continui a dividere le acque tra i settori popolari e i movimenti. Non si comprende che lo Stato-nazione è mutato. L’uno per cento se ne è appropriato per trasformarlo in uno scudo per i propri interessi. Gli stati sociali che si sono espansi dopo la Seconda Guerra Mondiale in Europa non esistono più. La politica anti-immigrazione del vecchio continente è solo un esempio di questo brutale cambiamento.

Quando vediamo la polizia in California usare auto senza targa e agenti in uniforme con i cappucci in testa per arrestare i migranti, dovremmo riflettere sulla direzione che stanno prendendo gli stati, che alcuni ancora difendono come leve di emancipazione collettiva. Capisco che la cultura politica, come tutte le culture, si evolve molto lentamente, quindi cambiare il modo di fare le cose non sarà facile. Molti gruppi e individui continuano a pensare e ad agire come se il capitalismo non fosse mutato e a ripetere ripetutamente che le cose sono sempre le stesse.

La speranza sta nel vedere come alcune comunità e organizzazioni tracciano percorsi diversi. In particolare, la determinazione zapatista a porre fine alle piramidi ci mostra che, trentuno anni dopo la rivolta, continuano a percorrere altre strade, imparando dai propri errori, che è l’unico modo per crescere.

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sabato 30 agosto 2025

Milano secondo il Ft: “Nuova capitale mondiale dei super-ricchi. Sempre più inaccessibile per i cittadini comuni”

Milano è diventata la nuova calamita dei grandi patrimoni internazionali e questo sta spingendo i cittadini comuni sempre più lontano dal “cuore” della città. Lo racconta il Financial Times in un’analisi che descrive come, negli ultimi anni, il capoluogo lombardo abbia attirato figure di spicco della finanza globale: dal vicepresidente di Goldman Sachs Richard Gnodde al magnate egiziano Nassef Sawiris, fino a Rolly van Rappard, cofondatore del fondo Cvc Capital, già molto attivo negli affari italiani.

Secondo l’approfondimento del quotidiano britannico, titolato Milan’s expat ‘explosion’ brings new buzz to Italy’s financial centre (L’esplosione degli espatriati a Milano porta nuovo fermento nel centro finanziario italiano), la ragione non è solo il fascino della “dolce vita”, ma soprattutto un regime fiscale cucito su misura per i super-ricchi. Grazie alla flat tax da 200mila euro annui, i nuovi residenti stranieri possono blindare i loro redditi e asset all’estero per 15 anni, senza pagare un euro in più e con in aggiunta l’esenzione dalle imposte di successione sui beni non italiani.

Un meccanismo introdotto dal governo Renzi – e rivisto al rialzo nel 2024 dal governo Meloni – come incentivo per attrarre nuovi capitali che, di fatto, si è tradotta anche in un regime di favore per pochi privilegiati. E che a Milano sta avendo un effetto travolgente sull’immobiliare, settore finito anche nel mirino della magistratura con l’inchiesta che ha coinvolto i big del settore e le strutture amministrative di Palazzo Marino.

Inoltre, ricorda il Financial Times, l’Italia è competitiva rispetto a Londra anche sotto il profilo delle rendite finanziarie che attirano i fondi di private equity: l’aliquota del 26% sulle plusvalenze è ben più bassa del 34% introdotto di recente nel Regno Unito. Non sorprende quindi che Milano si stia trasformando in un hub dorato per banchieri e manager, con stipendi “londinesi” che fanno schizzare in alto il costo della vita.

L’effetto sul mercato immobiliare è già sotto gli occhi di tutti. In dieci anni i prezzi delle case a Milano sono aumentati del 60%, con una media di 5.540 euro al metro quadrato, mentre Roma è rimasta ferma a 3.600. Gli affitti hanno seguito lo stesso trend, passando da 15 a 22,5 euro al metro quadro: +50%. Questo afflusso di ricchezze e i prezzi in costante aumento, ammette il Ft, sta generando forti tensioni sociali. Il risultato? I cittadini comuni vengono espulsi dai quartieri centrali e di tendenza, sostituiti da manager e investitori stranieri che possono permettersi cifre altrimenti inaccessibili.

Il Financial Times segnala anche un altro fenomeno: l’apertura di club esclusivi “all’inglese” come Casa Cipriani e la prossima Soho House, percepiti dai milanesi come corpi estranei al tessuto tipico della città. Spazi riservati dove si ritrovano quasi solo banker e manager del private equity, mentre fuori la popolazione deve fare i conti con una città sempre più cara e “ostile” alla vita quotidiana.

Il malumore cresce anche dentro gli stessi uffici finanziari: i banchieri italiani lamentano l’arrivo di colleghi dall’estero con salari sproporzionati, che alimentano squilibri interni. E sullo sfondo pesa l’inchiesta della magistratura sulle presunte tangenti legate alla riqualificazione urbana: un ulteriore segnale che la “Milano da bere” dei miliardari rischia di diventare un laboratorio di disuguaglianze e rendite, dove i cittadini finiscono relegati ai margini.

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venerdì 29 agosto 2025

Ascoltare i morti - Raúl Zibechi

 

L’assemblea dei morti, caduti nella lotta, dialoga con gli zapatisti vivi. Questo scambio è stato rappresentato nel primo spettacolo dell’Incontro di Ribellioni e Resistenze, “Algunas partes del todo“, al Semenzaio di Morelia dal 2 al 16 agosto.

I morti spiegano ai combattenti attuali che nella storia delle rivoluzioni e delle lotte la piramide si riproduce sempre; ci sono sempre alcuni in cima. E chiedono loro di non ripetere i loro errori perché, se lo facessero, la piramide permarrebbe, e con essa le stesse oppressioni contro cui si sono ribellati. Ecco quanto è semplice la storia del XX secolo, vista dal basso.

La cultura politica zapatista comporta cambiamenti fondamentali rispetto a ciò che generazioni di ribelli hanno appreso e riprodotto fino ad oggi. Non si tratta di piccoli cambiamenti di stile o di parole, ma di una trasformazione radicale e profonda che implica critica e autocritica, portando a un nuovo modo di vedere e di fare. Se consideriamo ogni singolo aspetto della lotta rivoluzionaria, possiamo comprendere la profondità dei contrasti tra lo zapatismo e la vecchia cultura politica di sinistra.

Negli anni Settanta, uno degli slogan che ci guidava era: “Siate come il Che”. Da un lato, faceva appello a un’etica di impegno militante, di mettere a repentaglio il proprio corpo e dare la vita se necessario, che trovo ancora valida. Dall’altro, ci invitava a seguire le sue orme, il che trovo problematico perché propone un percorso senza aver fatto una valutazione autocritica.

Dal 1994, l’EZLN ha intrapreso un cammino proprio, tracciato dai popoli organizzati e non dall’avanguardia, che è stata presto rovesciata, forse mettendo al timone il CCRI (Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno).

Il motto “comandare obbedendo” implica una rottura completa con i modelli d’avanguardia che obbediscono solo a ciò che viene deciso dalla leadership dell’avanguardia, ovvero maschi, bianchi o meticci, con istruzione universitaria, ben parlanti e poca o nessuna disponibilità ad ascoltare la gente.

Una rivoluzione in lotta. Ma così diversa, così distinta, che molti militanti non hanno la capacità o la volontà di comprendere, di accettare che le cose non debbano essere come prima. Per quanto l’EZLN cerchi di spiegare di essere un movimento diverso, non è facile per chi rimane fedele alla vecchia cultura politica comprendere in cosa consistano la proposta e i modi di fare zapatisti.

Una prima questione si riferisce a quel dialogo tra morti e vivi, che si riassume nella piramide e nella necessità di distruggerla o abbatterla, non di capovolgerla, come ha sottolineato il Capitano Marcos in uno dei suoi recenti comunicati.

Una seconda questione riguarda i concetti di trionfo e sconfitta, per fare solo un esempio. Per la vecchia cultura, il trionfo è la presa del potere o, nella versione elettorale, l’accesso al Palazzo del Governo. Si tratta di riunire molte persone, che chiamano “masse”, che sono quindi inerti, attratte dall’attuale capo o leader, che devono semplicemente seguire. Per avere successo, non è solo necessario essere numerosi, ma anche unirsi e unificare i propri ranghi in modo da poter essere guidati dall’alto della piramide. In questa cultura, la piramide non solo è necessaria, ma diventa il centro, e questo dipende da chi sta in cima, sotto questo o quel nome. Potrebbe essere Evo Morales o chiunque altro, e quando se ne va, tutto crolla perché ha prosciugato l’energia collettiva, disorganizzando le persone, che ripongono tutto al di fuori di sé, nell’attuale capo o leader. Per il popolo, trionfare, guadagnare, significa rimanere persone. Qualcosa che non implica entrare nel palazzo, prendere il potere dagli altri, cosa che non serve a nulla e indebolisce il popolo. Si tratta di costruire il nostro: salute, istruzione, potere, o come vogliamo chiamare quel modo di prendere decisioni e di farle rispettare.

In terzo luogo, il dialogo con i morti richiede una valutazione delle rivoluzioni passateTutte sono cominciate con la crisi degli stati nazionali, e tutte li hanno resi più forti, più potenti, mentre le loro società sono diventate più fragili e dipendenti. In breve, più piramidi, più alte, più imponenti. Questa è la triste realtà di tutte le rivoluzioni, sebbene abbiano portato anche cose positive al popolo.

C’è molto di più che si riassume nei sette principi zapatisti. La cultura dell’avanguardia è molto simile a quella della sinistra elettorale: consiste nel prendere il potere. Ecco perché sono passati così facilmente dalla guerriglia alle elezioni. Lo zapatismo rappresenta qualcosa di diverso. Rifiuta l’omogeneità come tentativo di dominio fascista; rifiuta l’unità perché si realizza sotto la guida di qualcuno, individuale o collettivo. Niente di più, niente di meno.


Pubblicato anche su La Jornada (qui l’articolo in spagnolo)

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giovedì 28 agosto 2025

molestie in ospedale

 


Il Ponte sullo Stretto è solo un imbroglio propagandistico-finanziario - Alberto Ziparo

 


Non è cambiato molto anche con l’approvazione da parte del Cipess: il Ponte sullo Stretto è una partita che si gioca soprattutto, anzi quasi esclusivamente, sul piano propagandistico-finanziario, più di diverse altre grandi opere che pure presentano la medesima propensione. Questa però ha sempre posseduto una caratteristica in più: quella di rappresentare la figurina (o figurona) da agitare per ingannare e sottrarre risorse al Sud, e soprattutto alle due regioni interessate. Indirizzando ad arte attenzione e dibattito, rigonfiato dal fanfaronismo mediatico alimentato dal più grande gruppo editoriale della Calabria e della provincia di Messina, primo beneficiario di gran parte dei fondi spesi nei 55 anni di sopravvivenza della procedura, nonché da diversi ministri dei Lavori Pubblici prima e delle Infrastrutture più di recente. Spesso politici lontanissimi dai reali bisogni e interessi di Sicilia e Calabria, che credevano di risolvere tutto, almeno in termini di consensi, urlando le tre parole di Cetto la Qualunque (”Facciamo il Ponte”). Salvo poi scoprire di aver riaperto una nuova puntata di una telenovela che non fa più nemmeno ridere (se non si fa parte della ristretta consorteria dei grand commis di Stato che la gestisce); che anzi, nel tempo, ha trasformato l’ovvio scetticismo dei territori interessati in opposizione vasta e crescente, di chi ormai sa bene che, quando si agita di nuovo la figurina ponte, in realtà si preparano fregature.

Lo stesso partito dell’attuale ministro delle Infrastrutture ne era ben consapevole se un giorno del 2011, allorché Berlusconi, dopo aver confermato il “prosieguo della procedura”, dovette annunciare le dimissioni del suo dicastero per i problemi economici della fase, l’organo della Lega, titolò beffardamente “Il ponte porta sfiga!”. Qualche tempo dopo, allorché fu Renzi a rilanciare il progetto (salvo prodursi presto in una brusca ritirata, consigliatagli dai suoi luogotenenti calabri e siculi, ben consci del dissenso diffuso sull’operazione, dovuto, tra l’altro, alla consapevolezza degli inganni di un progetto irrealizzabile), fu proprio Salvini a farsi intervistare dal giornale leghista che titolava a tutta pagina: “Renzi vuole finanziare un progetto che gli stessi progettisti dichiarano irrealizzabile!”. Oggi, da sponsor del Ponte, Matteo Salvini dichiara di aver cambiato idea. Ma qui c’è una forte contraddizione. Si può cambiare idea, per scarsa conoscenza o disinformazione, su temi i cui elementi certi sono di difficile comprensione: i problemi economici e finanziari, l’impatto ambientale e paesaggistico, le ricadute e i dissesti urbanistici e territoriali indotti, le questioni socioculturali. Ma come si fa a cambiare idea sulla fattibilità – problema eminentemente tecnico –, se gli stessi super esperti di allora, massimi conoscitori del progetto in quanto coordinatori del Comitato tecnico scientifico di progettazione, confermano ancor oggi, ripetutamente, il giudizio di non costruibilità dell’opera?! Anche in questi giorni, tecnici delle costruzioni di fama internazionale, consulenti del nostro come di altri governi e grandi imprese, già coordinatori – e per periodi non brevi – del gruppo di progettazione del ponte (in primis Remo Calzona), hanno spiegato perché questo progetto è irrealizzabile: troppi parametri critici, e non solo sulla sismologia ma anche sulla fattibilità della struttura del manufatto principale. Ciò in quanto ancora non esistono i materiali che servirebbero per molte delle prestazioni ad esso richieste, almeno nelle condizioni dimensionali e ambientali di fattispecie, come confermato da molti altri esperti ed ex progettisti del ponte, tra cui Emanuele Codacci Pisanelli.

Il ministro e la società mentono quando sostengono che il nuovo Comitato tecnico scientifico avrebbe superato tali problemi. Negli stessi documenti progettuali è registrato che l’apposita Commissione tecnica ha solo rinviato la dimostrazione di fattibilità alla futura progettazione esecutiva (mai effettuata perché, secondo i citati esperti, avrebbe dimostrato l’esatto contrario del necessario, ovvero la non costruibilità dell’opera). I tecnici della stessa Commissione, con questo comportamento tanto singolare quanto anomalo, hanno invero assunto una posizione assai discutibile, non solo perché hanno contraddetto colleghi di grandissimi spessore tecnico-scientifico ed esperienza anche sul ponte, ma perché hanno evaso una regola da manualistica d’ingegneria: si procede con la progettazione esecutiva, che tra l’altro copre una quota assai rilevante del totale (nel caso il 14%, circa due miliardi di euro), solo allorché con il progetto definitivo si è dimostrata la fattibilità certa del progetto, di cui l’esecutivo esplicita per l’impresa che opera solo le migliori modalità di realizzazione. Nel caso in questione tale dimostrazione non c’è mai stata: anzi l’elaborazione tecnica prevalente indicava l’esatto contrario!

Potrebbe bastare questo a spiegare perché siamo ai limiti della truffa, certamente ai danni dei cittadini italiani, anzitutto siciliani e calabresi, ma anche dello Stato. Ma ci sono altri elementi che confermano il colossale eterno imbroglio.

In primis si annuncia l’avvio dei lavori nei prossimi mesi, ma ad oggi non esiste ancora giuridicamente il General Contractor, cioè il raggruppamento di imprese che dovrebbe effettuare i lavori. E manca proprio per effetto del decreto del maggio 2023 che “resuscita il programma di attraversamento stabile con relativa procedura” (pur con molti passaggi dubbi, oggetto di indagini dalla magistratura amministrativa, civile e penale anche per la pioggia di esposti e ricorsi che è caduta su questo e molti altri atti relativi al progetto). Il decreto, infatti, stabiliva che il General Contractor Eurolink (mandataria l’impresa Impregilo, poi Salini/Impregilo, adesso WeBuild, e già il cambio di natura giuridica del mandatario obbligherebbe a nuova gara, ennesima irregolarità della procedura; mandanti due imprese italiane fallite e rivendute a pezzi e due straniere oggi rappresentate solo dai legali) non poteva giuridicamente ricostituirsi se e finché le imprese non avessero rinunziato al contenzioso legale aperto con lo Stato al momento della cancellazione di progetto e procedura, della caducazione dei contratti e della messa in liquidazione della società concessionaria (SDM), operate dal Governo Monti nel marzo 2013: contenzioso che si è ulteriormente complicato con la bocciatura in primo grado delle imprese ricorrenti (“Sapevano dai loro tecnici dell’irrealizzabilità del progetto, ma hanno seguitato con l’azione giudiziaria”) e il relativo appello, corredato da reciproche denunce di inadempienza tra ministeri e imprese. Nonostante il passaggio al Cipess, ad oggi tale rinuncia non è avvenuta. Il prossimo appuntamento è fissato al Tribunale di Roma ad ottobre, ma non è detto che allora la controversia sarà risolta. Quel che è certo è che le imprese hanno chiesto alla concessionaria (che avrebbe accolto la richiesta: Il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2025), una cifra pari al 10% del costo totale dell’opera (circa 1,4 miliardi di euro) in caso di recesso, ovvero di interruzione della procedura, more solito inevitabile per quanto detto. Anche se oggi la società smentisce, sostenendo che in questi giorni avrebbe fatto firmare i contratti alle imprese per una penale pari a poco più della metà della cifra indicata: il mistero è costituito da contratti firmati da imprese che ancora non esistono… Forse si dovrebbe stare più attenti e non auto smentire le proprie balle già mentre le si dicono. In ogni caso la penale scatterebbe all’atto di interruzione della procedura “qualsiasi siano i motivi e gli attori che hanno determinato la stessa”. Della serie: “qualche mese di ammuina e ci spartiamo un bel bottino!”. Si rischia di andare ben oltre la truffa ai danni della collettività e dello Stato.

La Corte dei Conti dovrà vagliare tra i molti elementi incerti un altro aspetto critico fondamentale, sollevato da più parti tra cui la stessa Anac: il decreto del maggio 2023 ha resuscitato l’affidamento di un appalto a privati (rappresentati da un contraente generale che non esisteva giuridicamente al momento dell’approvazione del decreto stesso e non esiste tuttora) aggiudicato nel 2005 per un valore di 4,5 miliardi di euro oggi triplicato (13,5 miliardi di euro). A parte le bizzarre singolarità della vicenda, ciò è vietato da diverse norme. Tra l’altro da una precisa direttiva comunitaria che stabilisce che non si possono riaffidare direttamente appalti senza nuovi bando e gara, nel caso di aumenti del valore del contratto superiori al 50%, qui ampiamente superato. Il Governo si giustifica con il progressivo aumento dei prezzi, che peraltro resta lontano dal valore del nuovo contratto.

I decreti di “rappezzamento” di questo e delle molte altre falle programmatico-normative e dei molti buchi procedurali sono assai sciatti e anche per questo spesso inattuabili, tra emendamenti e cancellazioni. Certamente però servono per l’obiettivo principale dell’operazione: l’annuncio propagandistico al momento dell’emanazione.

Il progetto del Ponte fa acqua da tutte le parti. A cominciare dal fatto che costituisce la riproposizione con qualche aggiornamento di elaborati redatti nel 2011, o ancora prima nel 2003 e in qualche caso addirittura nel 1993! Nell’aprile 2024 la Commissione Via del Mase l’aveva sostanzialmente bocciato, con oltre 260 prescrizioni e richieste di modifiche. Per superare tale scoglio il Governo ha pensato bene di…. cambiare la Commissione: sostituendo la gran parte di tecnici esperti con yes man di partito. Nonostante questo, il Via/Mase non ha potuto dare un’approvazione piena, ma altre raccomandazioni e il rinvio all’UE per alcuni problemi. Per proseguire nella procedura, aggirando il giudizio UE, il Governo ha allora dichiarato il Ponte “infrastruttura di emergenza senza alternative”: una altra solenne balla. E, per sovrammercato, l’ha dichiarata “necessaria a fini bellici”: ancora un falso subito contestato.

Si agitano gli espropri; ma delle opere complementari da realizzare prioritariamente in aree soggette ad esproprio non esistono nemmeno progetti di massima, solo schemi.

Si procede soprattutto per annunci. Che devono coprire non solo magagne e strafalcioni del progetto, nonché sottrazione di risorse a siciliani e calabresi, ma anche ciò che in realtà è successo finora. Per le diverse puntate della telenovela, compresa quella in corso, sono stati spesi ad oggi circa 650 milioni di euro (così si legge negli atti della società), dovuti soprattutto a spese di gestione societaria e presentazioni con pubbliche relazioni del progetto. Con straordinari emolumenti dei componenti del CdA della stessa concessionaria. Ad ogni puntata il ministro di turno, allorché capisce che non può fare molto altro, si concentra sulla pubblicità e nell’inserire almeno qualche suo cliente e sodale nel Cda societario.

Anche in questo, come in quasi tutti i casi di grandi opere, le spese reali superano di gran lunga quelle ufficiali. A fine 2024 L’Ufficio Studi della Camera, in un rapporto sulla programmazione infrastrutturale, ha dichiarato che negli ultimi 25 anni, dalla legge Obiettivo in avanti, sono stati stanziati per grandi opere “di emergenza e somma urgenza” 483 miliardi di euro, di cui oltre 390 effettivamente spesi. Si è però tradotto in lavori, anche solo iniziati o interrotti e solo in qualche caso completati, solo il 44%di tale somma! Quindi oltre 250 miliardi di euro sono stati trasferiti dalle risorse pubbliche soprattutto al mercato finanziario e finalizzati ad altro, alle spalle della società italiana.

Alla denuncia e alla critica di questa e di altre simili contraddizioni e distorsioni nel comparto grandi infrastrutture, non solo sui disastri ambientali e sociali, sarà dedicato un convegno nazionale organizzato ad Avigliana (in Val Susa) nel prossimo ottobre dal Coordinamento contro le Grandi Opere Inutili e Imposte.

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mercoledì 27 agosto 2025

Italia maglia nera Ue per prezzi dell’elettricità: perché i consumatori pagano più che nel resto della Ue - Chiara Brusini

  

A luglio il Prezzo unico nazionale è stato in media di 113,3 euro al MWh: oltre 20 euro sopra quello della Francia, 40 sopra quello spagnolo, il quadruplo di quello svedese. Dietro ci sono la dipendenza dal gas, il funzionamento del mercato, le ondate di calore. E lo spettro della manipolazione

Mentre il governo festeggia la riduzione dello spread e un presunto (inesistente) boom del turismo a Ferragosto, un altro dato è rimasto sotto silenzio. Anche a luglio il prezzo medio dell’elettricità in Italia si è piazzato al livello più alto dell’Unione europea. Il cosiddetto Prezzo unico nazionale, base di riferimento per il prezzo all’ingrosso dell’energia che poi viene rivenduta agli utenti finali, è stato in media di 113,3 euro al MWh contro i 90 della media Ue. Oltre 20 euro sopra quello della Francia, 40 sopra quello spagnolo, il quadruplo di quello svedese. Nell’intero 2024 il prezzo medio italiano è stato di 108,5 euro/MWh contro i 58 della Francia e i 63 della Spagna. Non è più considerata un’emergenza perché fortunatamente sono lontani i picchi del 2022 quando ha superato i 550 euro. Resta una zavorra per le famiglie e il sistema produttivo. Vale la pena fare il punto su cosa c’è dietro questa non invidiabile specialità italica.

La dipendenza dal gas naturale

Il primo fattore è la forte dipendenza dal gas naturale. In Italia, quasi il 45% dell’energia elettrica (contro il 15% della Germania, il 17% della Spagna e il 3% della Francia) è prodotta da impianti a gas. E il combustibile viene quasi interamente importato dall’estero, rendendo il prezzo finale dell’energia molto sensibile alle oscillazioni dei mercati, come tutti i consumatori hanno dolorosamente imparato durante i mesi orribili seguiti all’invasione russa dell’Ucraina. All’epoca la Penisola era fortemente dipendente da Mosca (oltre 30 miliardi di metri cubi l’anno, 40% del totale delle importazioni). Dopo quello choc, il governo Draghi decise di diversificare gli approvvigionamenti in favore del Nord Africa: nel 2023 la quota di gas in arrivo dall’Algeria è salita poco sotto il 38% mentre quella russa è scesa sotto il 5% ed è aumentato il ricorso al gas naturale liquefatto. Ma l’anno scorso la tendenza si è marginalmente invertita e gli acquisti dalla Russia sono risaliti a oltre 6 miliardi di metri cubi.

Questa dipendenza ha fatto sì che l’anno scorso, quando i prezzi si sono normalizzati in tutta Europa rispetto ai picchi del 2023, l’Italia ne beneficiasse di meno. La relazione annuale dell’Autorità per l’energia (Arera), presentata a giugno, ricorda che il Pun medio italiano è sceso del 14%, contro il -40% di quello francese, il -36% registrato sulla borsa scandinava, il -28% di quella spagnola e il -18% di quella tedesca.

Il funzionamento del mercato

Il funzionamento del mercato elettrico contribuisce ad amplificare le differenze. Il Prezzo unico nazionale si forma con il meccanismo del “prezzo marginale”: ogni giorno i produttori di energia fanno le loro offerte sul cosiddetto Mercato del giorno prima. Vengono chiamate a produrre prima le centrali più economiche, alimentate a rinnovabili e idroelettrico, poi quelle più care come le centrali a gas. Ma il prezzo finale non è una media. Si allinea al costo dell’ultima centrale – la più cara – necessaria per coprire tutta la domanda. Per questo, quando il gas diventa molto costoso anche l’elettricità prodotta da fonti più economiche viene pagata a quel prezzo alto. Funziona così in tutta la Ue, ma in Italia è più penalizzante perché come visto il gas è più spesso la fonte “decisiva” che fissa il prezzo. In Francia quel ruolo è svolto dal nucleare, in Spagna e Germania dalle rinnovabili (anche se nel mix energetico di Berlino ha ancora un peso non indifferente anche il carbone).

Il ruolo delle ondate di calore

In estate, il mercato diventa particolarmente vulnerabile. Il fabbisogno di energia cresce sensibilmente per effetto della climatizzazione, che porta milioni di famiglie e imprese ad accendere i condizionatori nelle ore più calde della giornata. Al tempo stesso la produzione da idroelettrico, che vale in media fino al 20% del mix italiano, cala drasticamente a causa della siccità e della ridotta disponibilità di acqua negli invasi, mentre l’eolico è spesso condizionato da periodi di scarsa ventosità. In questo contesto, le centrali a gas diventano indispensabili per coprire la domanda residua spingono verso l’alto il Pun. Non a caso l’anno scorso il prezzo unico medio di luglio è stato di 112 euro/MWh mentre quello di gennaio, il mese più freddo, di 99.

Gli indizi di manipolazioni dei prezzi

A complicare il quadro c’è un elemento preoccupante emerso da un’indagine conoscitiva di Arera: nel biennio 2023-24, a valle dello choc seguito all’avvio dell’invasione russa dell’Ucraina, molti operatori avrebbero adottato strategie di offerta anomale sul mercato elettrico. In pratica avrebbero ridotto la capacità realmente disponibile per spingere i prezzi verso l’alto. L’Autorità parla di “probabili condotte di trattenimento economico di capacità”, che avrebbero comportato “differenze medie di prezzo” nell’intervallo di 4-7 €/MWh nel 2023 e 1 €/MWh nel 2024. Per ora non si parla esplicitamente di abuso perché l’indagine si basa su ipotesi semplificatrici e occorre “accertare l’assenza di legittime giustificazioni”, ma di sicuro gli indizi di una corposa manipolazione del mercato non possono essere ignorati.

Le maggiorazioni sul mercato libero

Dal Prezzo unico alla bolletta il passo non è breve. Per arrivarci occorre tener conto di costi di dispacciamento e di commercializzazione e degli oneri di sistema destinati per esempio a sostenere lo sviluppo delle energie rinnovabili per ridurre la dipendenza dal gas (lo scorso anno hanno sfiorato i 9 miliardi di euro). Nel mercato libero, su cui i clienti domestici non vulnerabili sono stati fatti definitivamente migrare entro il luglio 2024, contano poi le maggiorazioni decise dal fornitore. È sempre la relazione dell’Arera a quantificarle: lo scorso anno il prezzo finale al netto delle tasse sul mercato libero presentava “valori notevolmente superiori al servizio di maggior tutela per tutte le classi di consumo”: dal 37% in più per i grandi clienti al 55% per chi ha consumi tra 1.000 e 2.500 kWh all’anno.
Dulcis in fundo, ci sono le imposte, che aggiungono un 10% all’esborso.

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martedì 26 agosto 2025

La scuola del merito e della ricattabilità - Cattive Maestre

 

Il dispositivo del merito, politiche neo-conservative e “anti-gender, precarietà e ricattabilità del personale docente e ATA. Quali prospettive e rivendicazioni nella scuola pubblica italiana? Un intervento delle Cattive Maestre dall’assemblea nazionale di Non Una di Meno

La nuova definizione data al Ministero dell’istruzione ha fatto molto discutere perché per la prima volta inserisce direttamente nel suo nome uno dei riferimenti cardine della pedagogia neoliberale ovvero il merito. Il merito è stato il dogma dei governi degli ultimi venti anni, un vero dispositivo ideologico, usato per nascondere la volontà di costruire istituzioni formative segnate da un profondo disegno classista.

Cosa intendono per merito? L’impressione che si ha è che in questa fase di forte torsione autoritaria, è che il merito, ovvero quel dispositivo retorico che è servito a far competere i soggetti nella società e nei percorsi dell’apprendimento, viene rifunzionalizzato nel quadro del conservatorismo e della reazione, per diventare ancora di più un criterio di discriminazione, che esclude quei corpi non conformi e quelle soggettività critiche e precarie. E’ anche in questa ri-significazione del lessico che si intravedono le mire di questo governo post-fascista.

Cosa significa allora merito? Possibilità di recupero e consolidamento attraverso lezioni private, condizioni materiali sicure che garantiscono lo studio a casa in un ambiente protetto o che deve passare per l’umiliazione secondo l’ultima uscita del ministro? Il dispositivo del merito si intreccia anche con le dichiarazioni sull’orientamento delle/degli studenti in uscita dai vari cicli dell’istruzione, che esprime l’idea secondo cui l’addestramento al lavoro, cioè accettare qualsiasi condizioni di lavoro, dovrebbe partire sin dalla scuola primaria. Secondo la sua interpretazione la disoccupazione in Italia avrebbe origine dalla scelta dei licei, che non sarebbe funzionale all’occupazione.

Nella sua logica non c’è solo l’idea abusata che la scuola debba fornire competenze necessarie richieste dalle imprese, ma c’è ancora una volta un’idea autoritaria, secondo cui le/gli studenti devono essere adattabili ad un mercato del lavoro fondato su bassi salari, precarietà e lavoro gratuito già rese effettive dal PCTO (ex alternanza scuola-lavoro), oppure gli attacchi al RdC, dove il ministro arriva a dire che i percettori di questa misura in alcuni casi sono ex-studenti per i quali la scuola non è stato un canale efficace per l’occupazione.

Così come, a doppio filo, l’orizzonte del merito sembra concentrarsi sul ruolo delle docenti e sulla loro presunta inadeguatezza, che viene sbandierata attraverso vere e proprie campagne denigratorie, che fanno leva su fatti di cronaca e che si concentrano sulla condotta delle docenti non conformi.

Nella scuola del merito, non c’è alcuno spazio per l’autoformazione, che, come abbiamo scritto nel Piano femminista, è per noi un importante strumento di confronto e di elaborazione collettivo dentro e fuori le scuole. Presentazioni di testi come quelli di bell hooks, che abbiamo spesso presentato in varie iniziative, in alcune delle nostre scuole sono state vietate dai consigli di istituto, osteggiati dalle componenti ultra cattoliche.

Questa nuova morale post-fascista, ovviamente prova a farsi strada come può anche sul terreno dei saperi, così come sul terreno del revisionismo storico e della libertà di insegnamento. Addirittura con una circolare il ministro si arroga persino il diritto di dare indicazioni didattiche, rinominando l’evento della caduta del muro come “giornata internazionale della libertà”.

Così come è importante non sottovalutare l’endorsement delle varie associazioni fondamentaliste cattoliche al governo Meloni, come quelle pro life o neocatecumenali, che immediatamente dopo il risultato delle elezioni hanno riacceso la loro vecchia campagna anti-gender, scagliandosi contro la carriera Alias. Nello specifico a Roma, questi soggetti si inseriscono molto spesso all’interno delle funzioni strumentali o di governance degli istituti, determinando i piani dell’offerta formativa, solo per provare a controllare ciò che viene detto in classe dalle docenti.

Allo stesso tempo, la nuova scuola della morale che vorrebbero costruire, è anche quell’istituzione in cui le docenti prevalentemente donne, la parte più consistente di questo segmento del lavoro, continua a sperimentare condizioni di precarietà, di assenza di diritti, di arretramenti anche sul piano sindacale.

È assolutamente necessario tornare a parlare di precariato nella scuola, alla luce delle riforme di reclutamento degli ultimi anni. Le docenti vittime dell’algoritmo sono continuamente in balia di un sistema che le rende ostaggio di mobilità forzata, dove si è costrette a scegliere conciliazione tra lavoro, vita e affetti.

Così come, non possiamo fare a meno di constatare che l’ultimo accordo raggiunto sul rinnovo contrattuale, presenta notevoli limiti sugli aumenti salariali, che neppure riescono a recuperare la perdita del potere di acquisto che abbiamo subito nell’ultimo anno dovuta all’inflazione, senza nessuna capacità di introdurre nel nuovo accordo un avanzamento su alcuni nuovi diritti. Nel contesto della pandemia, abbiamo sperimentato un utilizzo sempre più incontrollato delle chat e di tanti altri dispositivi di comunicazione. Strumenti che hanno contribuito a far esplodere le ore di lavoro non retribuito, che non trovano nessuna soluzione nel nuovo contratto anzi, non è si è stati neppure capaci di normare l’uso del lavoro da remoto utilizzato per le riunioni e altri adempimenti scolastici, che ha avuto anche a funzione di liberare parte del nostro tempo di vita, riducendo gli spostamenti in città ed eliminando il tempo di viaggio. Spesso la possibilità di uso di questa modalità di lavoro è stata sottratta dalla libera decisione degli organi collegiali, diventando una decisione unilaterale dei presidi.

Infine, che tipo di scuola si immagina a partire da ora, in assenza di potere degli organi collegiali, quali spazi immaginare nella costruzione politica della scuola alla luce degli attacchi alla libertà di insegnamento, cosa ci aspettiamo? Una società basata sull’istruzione di qualità a pagamento ma che addestri al lavoro gratuito? Dobbiamo lavorare per costruire una scuola democratica e per ridare spazio agli organi collegiali, discutere, prendere posizione all’interno dei luoghi decisionali delle scuole, partecipare in maniera attiva alle mobilitazioni, augurandoci che anche quest’anno l’otto marzo sia una giornata di sciopero potentissima e che venga declinato in tutte le sue forme così come abbiamo fatto finora.

Questo articolo è una rielaborazione dell’intervento all’ assemblea nazionale di Non Una di Meno del 27 novembre 2022

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lunedì 25 agosto 2025

UN BLACKOUT COGNITIVO - Dante Schiavon

 

Un amico di FB, commentando alcune riflessioni sull’abuso istituzionale del consumo di suolo, osservava: “sono cose talmente evidenti da passare inosservate”. È vero. Prendiamo alcuni dati del Rapporto Ispra 2021. Quello della copertura artificiale del suolo in Europa, in Italia, in Veneto.

La media europea della copertura artificiale del suolo è del 4,2%, in Italia è del 7,11%: quasi il doppio.

In Veneto la copertura artificiale del suolo è del 11,87% (18% se si escludono le montagne e i corpi idrici): quasi il triplo della media europea.

In Veneto nel periodo 2019-2020 sono stati consumati 3,72 metri quadrati per ettaro, in Italia 1,72 metri quadrati per ettaro: più del doppio della media nazionale.

Il Veneto è la regione che ha consumato più suolo agricolo per esigenze logistiche nel periodo 2017-2019.

Il Veneto ha il primato come regione che a causa del consumo di suolo dal 2012 al 2020 ha perduto la possibilità di sequestrare e stoccare più di 400.000 tonnellate di carbonio.

Il Veneto ha il primato come regione in cui il suolo artificiale ha mangiato suolo agricolo per 1936 ettari nel periodo 2012-2020.

Se passiamo poi alla materializzazione visiva, percettiva, sensoriale di questi dati statistici, constatiamo il brutale “sterminio dei prati” in campagna, nelle aree periurbane e urbane che continua inarrestabile, incentivato e per niente contenuto da una “legge regionale fuffa” che, in maniera sfrontata e cinica, ha istituzionalizzato il “consumo di suolo in deroga”. Come cittadini veneti è impossibile non vedere, non percepire, non essere scossi, indignati, turbati dalla dilapidazione diffusa di tale risorsa naturale.

Parliamo di una “legge regionale fuffa” contenente un lunghissimo elenco di 17 deroghe “consumo di suolo free”, istituzionalizzate, legittimate.

Parliamo, ad esempio, della deroga del “piano casa”, in base alla quale il suolo occupato dalla “rigenerazione condominiale” in larghezza ed in altezza di singole abitazioni nei centri urbani collassati dalle cause e dagli effetti dei cambiamenti climatici non viene considerato consumo di suolo.

Parliamo, ad esempio, di poli logistici, supermercati, strade, opere pubbliche varie, cave, zone produttive e commerciali, ecc., “opere (s)considerate di pubblica utilità” da regione e comuni che, oltre a devastare habitat, peggiorare le condizioni ambientali, climatiche e sanitarie delle città e delle campagne, non vengono conteggiate come suolo consumato.

Un continuo proliferare di “nuove abitazioni” nonostante un notevole calo demografico e ridondanti “opere (s)considerate di pubblico interesse”: un’alluvione inarrestabile di cemento e asfalto che sconvolge equilibri ecologici e climatici e vanifica il senso e lo scopo dell’ennesimo Rapporto Ispra.  Quando, a fronte di così tanti abusi nello scialacquare una risorsa non rinnovabile rivenienti dai “dati statistici” di un organismo scientifico indipendente e dalla “realtà” dei luoghi che abitiamo, non riusciamo a innescare una “riflessione ontologica” sul valore del suolo, sulla sua “funzionale essenzialità ecosistemica”, significa che abbiamo un problema.

Quando siamo indifferenti a un’emergenza ambientale tutta italiana e alla mancanza di una legge nazionale rigorosa che imponga uno stop immediato a nuovo consumo di suolo significa che abbiamo un problema.

Quando, specie in Veneto, non riusciamo ad uscire da un “letargo intellettuale” sulla urgente necessità di porre uno “stop rigoroso” a nuovo consumo di suolo, tale da costringere amministratori pubblici, categorie produttive, architetti, professionisti a “creare” un nuovo modo di produrre, di (ri)costruire, di infrastrutturare, di consumare, di lavorare, di fare economia, significa che abbiamo un problema.

Quando crediamo che in Veneto  i nuovi  poli logistici, i nuovi supermercati, le nuove lottizzazioni, le nuove infrastrutture, le nuove artificializzazioni del suolo si materializzino per un volere soprannaturale, per una fatalità, per  un influenza astrale  e non riusciamo a stabilire una connessione logica e razionale  “causa-effetto” con una “legge regionale fuffa” sul suolo, che autorizza tali scempi attraverso 17 deroghe, significa che abbiamo un problema.  Vuol dire che è in atto sul consumo di suolo, “clinicamente” parlando, un “blackout cognitivo”, una “rimozione cognitiva collettiva”, un fenomeno antropologico e sociale, forse da ricondurre, oltre all’immorale sfruttamento di una risorsa non rinnovabile da parte del ceto politico-economico-finanziario, al bombardamento emozionale e passivizzante di migliaia di immagini e notizie cui siamo sottoposti nell’epoca dei social-media. Un bombardamento emozionale di immagini e notizie che annulla la “percezione della realtà” e la consuma, bloccando lo sviluppo razionale di un pensiero proattivo.

È un blackout cognitivo, istituzionale, dell’intera società civile che ci impedisce di vedere la “poliedrica trasversalità ecologica” del suolo nel far fronte alla catastrofe climatica e alle emergenze planetarie che incombono sull’intera umanità e l’urgenza di difenderlo da quei “mercanti nel tempio della buona politica” che usano il loro potere contro le future generazioni.

È un blackout cognitivo che ci impedisce di fare valutazioni politiche estremamente critiche, nel segno della discontinuità, su come viene governato e amministrato il territorio veneto e di stabilire delle ovvie relazioni “causa-effetto”. L’esempio del progettato Polo Logistico di Amazon a Casale sul Sile assolve pienamente alla funzione didascalica cui affido queste riflessioni. La “legge-quadro consuma suolo” della Regione Veneto stabilisce che il comune di Casale sul Sile possa consumare (deroghe escluse) 8,7 ettari da qui al 2050. La stessa “legge-quadro consuma suolo” stabilisce che non venga conteggiato il consumo di suolo per le “opere (s)considerate di pubblica utilità”: nel caso del Polo Logistico di Amazon i 50 ettari in “zona a rischio idraulico” situata nel Parco del Sile. Il risultato, in presenza di una legge che dovrebbe contenere il consumo di suolo, è uno scempio ambientale “consumo di suolo-free” con un saldo negativo di 41,3 ettari di suolo consumato. Il discorso può valere per ciascuna delle 17 deroghe previste dalla legge. Ecco perché alla lotta contro i singoli effetti della legge regionale veneta (piano casa e ambiti di urbanizzazione consolidata, rigenerazioni urbane, cave, infrastrutture, ecc.) va affiancata contestualmente la lotta e la mobilitazione contro una legge regionale, a mio avviso, “incostituzionale”.

Una “legge-quadro consuma suolo” impugnabile perché, attraverso lo spreco sconsiderato di una risorsa non rinnovabile, discendente dalla competenza regionale del “governo del territorio, altera lo “stato dell’ambiente”, materia di competenza dello Stato. Gli attacchi all’ambiente veneto e gli innumerevoli casi di nuovo consumo di suolo non avvengono per caso: sono gli effetti della sottocultura dei “skei”. In particolare, e in modo preponderante, sono gli effetti di una “legge fuffa sul consumo di suolo” che costituisce una normativa quadro di riferimento (ritenuta tale, ahimè, anche dalle opposizioni in regione) che sta influenzando negativamente, a cascata, diverse successive normative urbanistiche impattanti sull’ambiente. È lì che dobbiamo puntare la nostra attenzione e rivolgere le nostre energie nel mentre solleviamo, giustamente, la nostra critica ai singoli effetti della legge multi-deroghe: piano casa, nuovi supermercati, nuove strade, opere pubbliche, poli logistici e commerciali, ecc.

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” (Da Leonia di Italo Calvino).

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domenica 24 agosto 2025

Danimarca, razzista e marcia, aveva ragione Marcellus

La Danimarca ci ricasca, bimba appena nata tolta alla mamma Inuit e data in affido dopo il test di “competenza genitoriale”: di cosa si tratta - Valerio Cattano

 

Ignorata la nuova legge entrata in vigore a maggio che riconosce la pratica come discriminatoria verso la minoranza, per le differenze linguistiche e culturali: quasi il 6% dei bambini groenlandesi viene tolto alle famiglie

 

La Danimarca all’inizio di quest’anno aveva promesso di non farlo più, ma ci è ricaduta, e la notizia ha meritato i titoli di apertura di siti internazionali. Una madre groenlandese, poco dopo la nascita della sua bambina, è stata sottoposta a un test di “competenza genitoriale”, nonostante una nuova legge ne vieti l’uso sulla popolazione Inuit. Nikoline Bronlund, 18 anni, giocatrice nella squadra di pallamano groenlandese, ha dato alla luce sua figlia, Aviaja-Luuna, l’11 agosto in un ospedale di Hvidovre, vicino a Copenaghen, dove vive con la sua famiglia. Un’ora dopo, il Comune di Høje-Taastrup ha dato in affidamento la bambina La mamma ha visto la neonata solo una volta.

La questione del test di “competenza genitoriale” forældrekompetenceundersøgelse – abbreviato FKU – è una vecchia battaglia degli attivisti che sostengono l’inefficacia di questa pratica, definita discriminante per i genitori appartenenti alla minoranza Inuit – circa 17.000 persone – perché non tiene conto delle diversità culturali, linguistiche e sociali. Essendo un test, si basa su una valutazione negativa, senza prove concrete di inadeguatezza da parte del genitore.

Secondo un rapporto del 2022 del Centro danese per la ricerca sulle scienze sociali, quasi il 6% dei bambini groenlandesi che sono nati in Danimarca è in affido rispetto a circa l’1% dei bambini danesi. Se da un lato nel dossier si sottolinea che “il numero di famiglie groenlandesi in Danimarca con gravi problemi sociali, come abusi e problemi finanziari è maggiore del numero di famiglie danesi nella stessa situazione”, dall’altra si riconosce che “il rapporto tra le famiglie groenlandesi e gli assistenti sociali danesi è spesso peggiorato dalle differenze linguistiche e culturali”.

Una vicenda analoga l’aveva raccontata il Times a novembre 2024, prendendo come esempio la vicenda di Keira Alexandra Kronvold; la donna non aveva superato la valutazione FKU già durante la gravidanza; già solo le espressioni facciali proprie della cultura Inuit mostrate dalla futura mamma alle sollecitazioni dei funzionari danesi, avevano spinto questi ultimi a ritenere che Kronvold avrebbe avuto difficoltà a crescere la figlia in linea con le “aspettative sociali e i codici necessari per muoversi nella società danese”.

Il sito boernetinget.dk spiega come funziona il test FKU durante il quale “professionisti valutano la capacità di un genitore di prendersi cura dei propri figli. Questo può includere aspetti fisici, emotivi e psicologici della genitorialità. L’obiettivo è garantire che i bambini crescano in un ambiente sicuro e solidale”. Ci sono tre passaggi fondamentali: “Conversazione iniziale tra i genitori e i professionisti, in cui vengono discusse le preoccupazioni e ai genitori viene data l’opportunità di esprimere il proprio punto di vista. Osservazione e analisi: i professionisti possono visitare la casa, osservare le interazioni tra genitori e figli e raccogliere informazioni da altre fonti, come scuole e operatori sanitari. Valutazioni e test psicologici possono anche essere utilizzati per acquisire una comprensione più approfondita dello stato mentale ed emotivo dei genitori. Relazione e raccomandazioni: viene redatto un rapporto dettagliato, che include una valutazione delle competenze dei genitori e una serie di raccomandazioni. Queste raccomandazioni possono spaziare da misure di supporto che possono aiutare i genitori a migliorare le proprie capacità di cura, a misure drastiche come la valutazione di forme di assistenza alternative se il bambino è in pericolo immediato”.

Quest’ultima frase sembra essere ritagliata sulla vicenda di Nikoline Bronlund: non si spiegherebbe altrimenti perchè i funzionari abbiano deciso di toglierle la bambina appena partorita. Eppure la legge che vieta il test è entrata in vigore a maggio e ora la ministra danese degli Affari Sociali, Sophie Hæstorp Andersen chiede al Comune di Høje-Taastrup di spiegare come abbia gestito il caso di Nikoline: “I test standardizzati non dovrebbero essere utilizzati nei casi di affidamento che coinvolgono famiglie di origine groenlandese”. Si annunciano proteste.

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sabato 23 agosto 2025

E’ ora di aprire gli occhi sulla speculazione energetica - Fabrizio Quaranta

IN FRAUDANTES MACHINAE AD RENOVATIONEM (ET MERCENARIOS EARUM PRAEDATORES) - Fabrizio Quaranta

Seguo la questione rinnovabili da diversi anni. Di giornalisti e intellettuali che hanno intuito l’imbroglio millantato di verde e coraggiosamente puntato il dito verso questa deriva speculativa c’era Carlo Petrini di slow food e Gian Antonio Stella che scrive sul Corriere. Un po’ ne ha scritto anche Antonello Caporale. E c’era anche un Mauro Pirani già anziano che lanciava l’allarme. La lucida, documentata e controcorrente denuncia di Sgarbi. Ma poi il vuoto totale. Su alcuni giornali, ahimè soprattutto locali, ogni tanto qualche coraggioso cronista cerca di attenzionare la sporadica verità sull’impudico e violento assalto saccheggiatore, ma poi ci sono potenti lobby che sovrastano tutto con la forza dei media e del denaro e si scrive e trasmette quello che del resto lettori e telespettatori obnubilati da anni di ossessiva propaganda vogliono quietamente sentirsi dire.

Quando si lanciò in grande stile il piano green new deal c’era chi gioiva in buona fede forse e chi piangeva perché sapeva dove mettevano soldi e dove si andava a finire. La speculazione con folle incentivi a miliardi e miliardi dati per venti e più anni hanno drogato il mercato e spostato gli investimenti verso questi settori.

Poi arriva la spinta della guerra, si chiude con l’economico gas russo e si punta tutto sull’elettrico e al culto religioso, dogmatico diktat politicamente corretto delle “zero emissioni”. Ora quasi tutti i media controllati da pochi fondi proprietari, accentratori di interessi forti, spingono sui settori più speculativi e promettenti… Farmaci, armi, e, soprattutto, industria delle rinnovabili. Gli armamenti comunque vanno a fossili. Compreso aerei e navi sia civili che industriali, ma questo è un dettaglio da miscredenti che non deve rovinare le acquisite certezze confessionali.

Sarebbe allora, una buona volta, invece che la grande stampa e i media la smettessero con poco dignitose sviolinate alla speculazione energetica rinnovabilista e al loro ancor meno degno codazzo sodale.

Malgrado deboli paraventi, siamo infatti davanti a multinazionali avide di oltre 400 mld di incentivi pubblici all’arrembaggio dei territori, per il più grande assalto ambientale della Storia italiana mascherato di “verde”, da troppo tempo ormai supportato vergognosamente da media e politica con un’ossessiva, suadente quanto falsa propaganda persuasiva e manipolatrice.

L’assalto saccheggiatrice della speculazione energetica multinazionale: la più grande tragedia ambientale della Storia italiana, ipocritamente mascherata di verde: antiscientifico, prezzolato e falso alibi di impossibile mitigazione locale di cambiamenti climatici globali.

 Le multinazionali della speculazione energetica, spesso le stesse società col core business nel vituperato “fossile”, stanno infatti massacrando l’Italia più bella, millantando come falsissimo alibi, ridicole riduzioni di CO2 climalteranti localidel tutto ininfluenti sui cambiamenti climatici globali.

Nel solo anno 2023 la Cina ha infatti emesso 16 000 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (in sistematica crescita dal 1990, + 411%), il 30% delle emissioni globali mondiali. Elevatissimi e in crescita anche gli apporti di India e altri Paesi cd BRICS, con la vittimistica narrazione del riscatto dal perfido Occidente (la cui economia suicida a rinnovabili stanno seppellendo appunto con l’economico carbone).  L’Italia ha emesso 374 milioni di CO2 (in drastica diminuzione dal 1990, – 27%), appunto uno striminzito 0,71% totale delle emissioni globali mondiali (tra l’altro per il 44% imputabile a usi termici, il 34% ai trasporti e SOLO IL 22% alla produzione di energia elettrica).

Quindi se azzerassimo utopicamente le emissioni da produzione elettrica distruggendo completamente e irreversibilmente il nostro patrimonio agronaturale e storico-culturale con dilaganti impianti industriali rinnovabili ridurremmo di un ridicolo, infinitesimale e quindi assolutamente inutile 0.15% (=0.71 × 0.22) le nostre emissioni, senza nessunissimo effetto sui cambiamenti climatici come invece sbandiera il falso alibi dei saccheggiatori tinti di fintoverde.

Del resto MEZZA ITALIA È GIÀ MASSACRATA DA ANNI DA QUESTA MONNEZZA che aumenta e dilaga inesorabile e ha già compromesso buona parte delpiù fragile Sud (1700 pale già feriscono a morte l’ex provincia granaria di Foggia), indifeso e più esposto alla criminalità, per poi rimandare la corrente al Nord energivoro con ulteriori lievitazioni dei costi. MA, malgrado questo già grande sacrificio, NESSUN MIGLIORAMENTO C’È STATO NELLE DINAMICHE CLIMATICHE, anzi…

 Anzi…l’International Energy Agency (IEA), nel World Energy Outlook del 2023, sottolinea come il governo cinese preveda di arrivare al picco delle emissioni nel 2030, per cui non possiamo che prevedere ulteriori folli aumenti delle emissioni cinesi di CO2. Ma è allora qui che andrebbero ridotte le enormi emissioni climalteranti, responsabili dei cambiamenti climatici globali, malgrado certe masochistiche sviolinate dei media occidentali che assolvono il bravo Dragone per 4 specchietti fotovoltaici (per le allodole).

Ma la ben orchestrata, suadente e falsa propaganda, reiterata ossessivamente,  prova a nascondere la tragica realtà: un massiccio consumo di suolo (che ha raggiunto 20.000 ha, raddoppiato nell’ultimo anno) un massacro di territori, natura, campi e boschi che si erano salvati da decenni di selvaggia speculazione edilizia, ora nel mirino di  cavallette impazzite attratte dall’odore di giganteschi, inauditi incentivi pubblici poi scaricati sulle nostre bollette: almeno 400 miliardi € dal 2010 al 2030,  pari al 13% del debito pubblico italiano e 20 manovre finanziarie lacrime e sangue, altro che gli squallidi falsi slogan “abbasseremo le bollette”.

 Queste tecnologie infatti

·         non sono in grado di autofinanziarsi,

·         non garantiscono la costanza dei flussi di corrente,

·         sono fortemente inquinanti,

·         fanno impennare il costo dell’energia con danno diffuso tra famiglie e imprese,

·         fanno esplodere il debito pubblico

·         per riempire le tasche di pochi e privilegiati imprenditori che amano fare impresa senza rischio di impresa (tanto cmq paga Pantalone).

·         L’Italia è un paese tra i più densamente abitati nell’Unione Europea e nel contempo presenta valori di ventosità poco interessanti per questa tecnologia. Pur essendo il quinto paese d’Europa per potenza eolica installata, l’Italia risulta essere ultima in Europa per produttività degli stessi impianti.

Negli ultimi 25 anni, l’Italia ha assistito a un’espansione massiccia e incontrollata delle fonti rinnovabili elettriche intermittenti – eolico e fotovoltaico – con un impatto devastante su territorio, paesaggio e coesione sociale. Circa 44 GW di potenza installata si concentrano oggi in poche regioni, quelle con il più alto valore paesaggistico e agricolo come Sardegna, Sicilia, Puglia, Basilicata e Toscana.

Questa espansione è avvenuta senza alcuna pianificazione, in assenza di strumenti di coordinamento tra Stato e Regioni, e spesso tramite decreti-legge ad hoc, approvati in tempi rapidissimi, che hanno introdotto semplificazioni procedurali estreme. Mentre i meccanismi di tutela previsti dalla legge come la pianificazione paesaggistica o la Valutazione Ambientale Strategica sono stati sistematicamente rinviati o svuotati di efficacia, la normativa di protezione del paesaggio, della biodiversità e del suolo è stata di fatto smantellata. Il risultato è che oggi, in Italia, ottenere autorizzazioni per attività industriali tradizionali è spesso difficile, ma per impianti eolici o fotovoltaici i permessi sono estremamente facilitati, fino a prevedere addirittura l’esproprio dei terreni.

A fronte di questa accelerazione forzata e quindi antidemocratica, i risultati in termini energetici e climatici sono stati fallimentari. L’Italia continua a dipendere per circa l’80% da fonti fossili per i suoi consumi energetici totali, e nel 2023 solo il 4% dei consumi finali di energia nazionali è stato coperto da eolico e fotovoltaico.

Malgrado la forte crisi agricola italiana, con carenza per quasi tutte le materie prime alimentari (ci manca oltre il 60% di grano e il 50% di mais e poi praticamente tutte le altre) vengono occupati i migliori (e già insufficienti) terreni pianeggianti fertili col fotovoltaico, addirittura con procedure di esproprio coattivodi privati contro altri privati, tra l’altro produttori di eccellenze agroalimentari: forse neanche nel Basso Medioevo!

Un LAND GRABBING de’ noantri che evidentemente non merita l’attenzione delle trasmissioni tivvì che invece prosperano di scandali.

Una volta l’agricoltura godeva di sovvenzioni per tirare avanti ed evitare tragici abbandoni a cascata. Poi la Ue decise che non si possono dare aiuti di Stato.

Gli agricoltori in agonia per la globalizzazione dei mercati, cedono i terreni e per necessità si arriva purtroppo a svendere o chiudere.

Poi non manca pure l’ignoranza e la cupidigia che porta a fregarsene e essere contenti di qualche effimera elemosina di centinaia di euro di fronte a irreversibili saccheggi e predazione di storie millenarie ridotte a bottino elettrico da fonti rinnovabili.

Colate di migliaia di tonnellate di cemento (ca 5000 t, inamovibili per ogni plinto) minano, offendono e deturpano irreversibilmente fertili campi agricoli e intonsi crinali montani, per innalzare grattacieli eolici di 200m che svettano e rumoreggiano a centinaia di km/h anche vicino ad abitazioni e testimonianze identitarie della nostra storia, cultura e bellezza, facendo strage di insetti pronubi e avifauna utile agli equilibri biologici

Studi e ricerche di importanti istituti scientifici (tenuti nascosti) provano danni irreversibili su esseri umani, flora e fauna terrestre/marina:

·         Disboscamenti e creazione di enormi strade dove c’erano piccoli sentieri per camminatori e ciclovie

·         Innesco di vecchie e nuove frane su crinali già a rischio idrogeologico

·         Incremento di formazione delle cd. “bombe d’acqua” in cresta, prodotte principalmente per la presenza degli altissimi aerogeneratori che riducono drasticamente la velocità di transito della perturbazione in corrispondenza della cresta, favorendo così la concentrazione di pioggia, forte ruscellamento, erosione e disastrose alluvioni a valle.

·         Cementificazione di suoli naturali o agricoli (5000 tonn di cemento; 200 di acciaio per ogni aerogeneratore)

·         Rischio innesco incendio dagli stessi aerogeneratori e/o ostacolo allo spegnimento di boschi e colture agrarie con mezzi aerei.

·         Rischio gravi danni da caduta dei tralicci o delle pale per rotture meccaniche

·         Ingenti quantità di lubrificanti sintetici derivati del petrolio (oltre 300 litri per turbina, da rinnovare periodicamente), altamente infiammabili e di difficile gestione in caso di incendio.

·         150kg e più di microplastiche eterne PFAS rilasciate da ogni singola pala all’anno, entrano nei polmoni, sangue e cervello;

·         vibrazioni in aria e terra ed infrasuoni che generano la sindrome da pala eolica su persone ed animali: stress su sistema nervoso, vascolare, linfatico e cellulare, ipossia e radicali liberi. Diversi animali non fecondano più le uova.

·         Persone ed animali abbandonano luoghi vicini all’eolico

·         con documentata svalutazione degli immobili.

·         Grave e irreversibile danno alle economie legate al turismo lento, oggi così importante per la sopravvivenza delle filiere produttive della maggior parte dei territori rurali interni italiani

·         Rilascio di metalli velenosi da eolico offshore: alluminio, zinco, indio, bario e cromo trovati nei molluschi.

·         Strage di avifauna rara e (teoricamente) protetta e insetti pronubi indispensabili al ciclo biologico di varie specie agrarie.

Ci sarebbe poi da discutere sul ripristino dei siti a fine vita dell’impianto:

·         intanto vedere se è prevista una data precisa o solo un termine indicativo (i progetti indicano magari 25/30, occorre leggere sulle varie autorizzazioni).

·         Viene richiesta una fideiussione a garanzia di questi lavori oppure sono semplici garanzie “a parole”?

·         Fisicamente non è poi possibile un vero ripristino delle stesse condizioni preesistenti, dei grossi blocchi delle fondamenta raschieranno forse un metro?

·         Il suolo fertile si concentra nei primi cm di profondità del terreno e una volta persi microorganismi e sostanza organica non è che basta un po’ di terreno di riporto (preso dove?) per ottenere nuovamente un terreno fertile idoneo all’agricoltura. Il terreno è frutto di un lento processo di degradazione della roccia madre, se al posto di essa c’è un monolite di cemento armato cosa si deve degradare?

·         Le vitali e imprescindibili funzioni di fertilità e filtraggio delle acque sono gravemente compromesse da queste impattanti opere gigantesche e inutili che spesso intaccano anche le falde profonde

·          Con il fotovoltaico a terra (e la sua ipocrita versione aggiraregole dell’agrivoltaico) il terreno, presto abbandonato della sua finta funzionalità agraria, diventa ”superficie artificiale” e dopo si può fare tutto su un terreno “superficie artificiale”. Discariche, impianti, capannoni ecc. Il colpevole andrebbe denunciato per danno erariale.

In Italia per accaparrarsi questi soldi pubblici si accavallano freneticamente le istanze per nuovi impianti: in tutto il territorio nazionale le istanze di connessione di nuovi impianti presentate a Terna s.p.a. (gestore della rete elettrica nazionale) al 31 luglio 2025 risultano complessivamente ben 6.133 (SEIMILACENTOTRENTATRE!!! 17 al giorno, oltre 300 per Regione, ma oltre 1000 in alcune meno fortunate de Sud) pari a 336,11 GW di potenza, oltre 4 volte l’obiettivo di 80, imposto dal Green Deal europeo (in effetti ben 6 volte alla data di oggi, visto che sono stati già installati oltre 20 GW e che quindi ne servirebbero meno di 60)

Le 6133 richieste di saccheggio del territorio sono suddivise in

·         3.912 richieste di impianti di produzione energetica da fonte solare per 155 GW (45%),

·         2.063 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a terra per 110 GW (32%),

·         117 richieste di impianti di produzione energetica da fonte eolica a mare per 78 GW (22%).

Questa overdose di energia provocata da fonti intermittenti e inaffidabili viene e verrà pagata profumatamente anche se costretti a non usarla nei tanti e crescenti momenti di sovraccarico, con crescenti spese di adeguamenti infrastrutturali, nuove centrali a gas come riserva strategica e comunque rischi di catastrofici black out come successo in Spagna.

Anche se qualcuno gongola, nonostante in Europa la potenza installata di pale e pannelli sia superiore al nucleare, le rinnovabili poi producono molto, ma molto meno elettricità e la producono tutta insieme, quando spesso si accavallano e non serve. Infatti non sostituiscono le centrali tradizionali ma le affiancano perché quando il sole e il vento non ci sono, bisogna ricorrere a gas e carbone ….E allora quanto territorio è stato invano sacrificato per un risultato modesto, di scarsa efficacia seppur di falsa propaganda

Il reiterarsi da anni di articoli giornalistici sedicenti democratici e progressisti  e “indignate” trasmissioni di inchiesta a favore dell'”inevitabile” assalto speculativo delle multinazionali per il nostro (???) bene è malinconico segno dei tempi e della deriva della democrazia popolare che fu sinceramente  ambientalista: ricordano le vecchie veline dei giornali della destra palazzinara che  negli ultimi 70 anni ha cementificato e  massacrato impunemente gran parte delle campagne e dei sobborghi delle già armoniche città ereditate da secoli rendendole in pochi anni inguardabili e invivibili, malgrado la beffa dei nomi bucolici delle oscene lottizzazioni, un po’ come il tanto ossessivo quanto falso millantare di verde il saccheggio di territori in corso da parte della speculazione energetica.

Ora quel che poco che si è salvato di agronaturale, quello struggente paesaggio storico culturale che ancora permea la nostra identità e permette filiere agroalimentari di eccellenza e quindi turismo di qualità e freno allo spopolamento delle aree interne, si vuol definitivamente degradare e banalizzare a ennesime sordide periferie industriali facendo posto a giganteschi impianti eolici e fotovoltaici tanto ”cari” al lucro insaziabile della selvaggia speculazione energetica multinazionale.

Ed è palese che tutto questo nulla ha a che fare con l’eventuale produzione di corrente pulita o calcoli di costi/benefici ambientali ecc.

Queste imprese energetiche guadagnano nel mettere a terra gli impianti, consumando suolo e massacrando paesaggio e ogni filiera agroturistica, e del resto (e tanto più il disco rotto dei cambiamenti climatici usato come penoso alibi) non frega niente a nessuno. Fra qualche anno succederà come per i capannoni degli anni ‘70 che in breve tempo (prendi i soldi e scappa) furono abbandonati e rimasero per lo più vuoti e fatiscenti in appezzamenti brulli e sporchi: un triste quadro che ricorre e svilisce tutta l’Italia. Come per le aree industriali negli anni ’70, le aree a servizi negli anni ’80, le aree commerciali negli anni ’90, le aree per la logistica negli anni 2000, con il nuovo escamotage dell’agrivoltaico si aggirano le regole di tutela della terra agricola e si tornano a consumare fertili pianure per la produzione di cibo. Un enorme cavallo di troia pieno di grossi capitali, per lo più soldi nostri, delle nostre bollette o della fiscalità generale, che rovineranno addosso al “fattore terra”, compromettendo per sempre terreni vergini. Non è infatti MAI successo per le precedenti ondate speculative, che si riuscisse a ripristinare l’uso agricolo di questi terreni selvaggiamente consumati e degradati. Per lo più giacciono abbandonati come squallide periferie industriali e vengono scientemente ignorati dall’ondata speculativa successiva che invece si rivolge a nuovi superstiti terreni agricoli intonsi come nuove vergini da stuprare.

Non è allora un caso il comune sentire della subdola delegittimazione contro le Soprintendenze, tra le poche efficaci e meritorie Istituzioni pubbliche a fronteggiare vecchi e nuovi barbari predatori di territori.

 Una gran mole di impianti industriali spacciati con ipocrita e falso termine manipolatore di “parchi” impattano e impatteranno sempre più sui territori migliori rimasti, con investimenti colossali ma senza rischio d’impresa perchè garantiti da altrettanti colossali incentivi di centinaia di miliardi che paghiamo con le ns bollette e la fiscalità generale (altro che la clamorosa e falsa bufala propagandista sulle “rinnovabili che abbassano le bollette”).

Invano Comuni, Regioni, Enti di tutela, agricoltori, cittadini residenti o meno, amanti della natura, della cultura e del paesaggio, bollati con arrogante ignoranza provocatoria come NIMBY, si oppongono a questo ben orchestrato aggiramento delle norme che tutelano i territori.

Ma se certe sedicenti altezzose élite intellettualoidi, in scia e protette dal pensiero unico rassicurante si sentono talmente supponenti da rieducare il “popolo che non capisce” e indurlo a rassegnarsi che dovranno vivere nella schifezza industriale perchè (ipse dixit?)  il paesaggio inesorabilmente” cambia nel tempo”, resta il fatto che alle tutto sommato limitate schifezze che offendono oggi la naturalità e il paesaggio rurale dei luoghi sopravvissuti a vecchi assalti (un tempo unanimemente combattuti), ora se ne aggiungerebbero tante altre, ma stavolta enormi, diffuse e irreversibilmente esiziali.

E comunque un vecchio reato non ne giustifica uno nuovo ben peggiore. Aver rubato caramelle nel passato, non autorizza oggi un omicidio, anzi una strage di vivibilità.

Del tutto forzato e stridente risulta comparare turbine alte 200 metri posizionate sulle creste dei crinali rispetto ai (pochi e distanti) tralicci dell’alta tensione che, nelle aree collinari, non superano i 15-20 metri: a differenza di quest’ultimi, una turbina eolica di grandi dimensioni come quelle previste in Appennino è nettamente visibile a decine di chilometri di distanza in un raggio di pari dimensione.

 Almeno i giornali con presunzione democratica scevra da forti  condizionamenti economici non si accodino alla incessante propaganda mediatica  della speculazione energetica nella sua tragicomica vulgata per cui installare in zone di pregio ambientale come gli Appennini o nelle aree agricole dell’indifeso Sud, dell’amata Sardegna, dell’Italia più bella e sana, decine di pale eoliche di dimensioni pari ai più imponenti grattacieli italiani non è altro che il naturale proseguimento della “ congenita antropizzazione del territorio”, stucchevole argomento dei nuovi salotti bene indottrinati, quando invece si tratterebbe di una deturpazione paesaggistica di proporzioni tali da ritenersi senza precedenti nella storia dell’uomo, per dimensioni e tempi di attuazione, in quanto non sedimentata in centinaia d’anni come le modificazioni del paesaggio del passato.

La pur necessaria decarbonizzazione e una efficace transAzione energetica verso le rinnovabili non obbliga però lo Stato, gli enti locali e i cittadini italiani a essere pressati e minacciati dagli studi legali delle multinazionali dell’energia per realizzare “urgentemente” grandi e impattanti impianti FER, con addirittura espropri di privati verso altri privati, mai visto nella Storia italiana, alla faccia della tanto sbandierata Costituzione (in particolare nei suoi artt. 9, 41 e 43).

 La stessa produzione di energia pulita generata da impattanti installazioni di tipo industriale può essere del resto agevolmente raggiunta, come dichiarato dagli ultimi rapporti ISPRA (ente scientifico pubblico di grande spessore ancora a schiena dritta) attraverso la collocazione dei pannelli fotovoltaici sui tetti delle zone residenziali non tutelate, commerciali, industriali per non parlare degli enormi spazi della invadente logistica. Solo una parte dei tantissimi tetti civili e dei capannoni industriali già disponibili potrebbero fornire da subito 100.000 ha di superficie (ISPRA-Report Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici. Edizione 2023, Report n. 37/202), permettendo di installare una potenza tra 70 e 90 GW e quindi centrando facilmente il target di 80 previsto per il 2030 (che con i 19 aggiunti nel 2024 in effetti è ora già sceso a 61 GW). Costi e tempi di realizzazione oltretutto sarebbero ridotti, visto che queste strutture, rispetto ai terreni agricoli, sarebbero già meglio attrezzate per ospitare un impianto. Se poi si aggiungono anche strutture pubbliche, parcheggi, aree oggetto di bonifica, cave e miniere dismesse, strutture ferroviarie e comunque le immense aree già consumate, impermeabilizzate e spesso fatiscenti, si potrebbero avere a disposizione altri 800 000 ettari di superfici piane!!!(monitoraggio ISPRA) che sarebbero più che sufficienti per raggiungere tutti gli obiettivi ambientali e di domanda energetica al 2050 e oltre senza intaccare il prezioso e sempre più raro suolo agricolo (Ecoscienza 2023 – 2, anno XIV pagine 24-25.  GLI SPAZI PER IL FOTOVOLTAICO ALTERNATIVI AL SUOLO a cura di Pasquale Dichicco, Ines Marinosci, Michele Munafò- ISPRA). Tra l’altro, oltre alle rinnovabili, si incentiverebbe anche il restauro conservativo ed estetico di migliaia di immobili che spesso precludono la vivibilità delle periferie urbane senza invece creare ulteriori nuove mostruosità. E quindi nuove immense squallide periferie industriali.

Su queste le aziende potrebbero avere pure crediti d’imposta, anziché scialare con folli incentivi che finiscono ora ai fondi esteri. E poi sulle tante aree degradate, sulle centinaia di chilometri quadrati di superfici già impermeabilizzate e consumate presenti in Italia, dunque senza arrecare ulteriori danni alle poche aree ancora incontaminate del Paese.

E poi non si può non parlare della truffa dell’agrivoltaico,

nel ben tracciato solco della ipocrita furbizia italiana aggiraregole, quelle regole che seppur tardivamente solo da poco tempo hanno impedito finalmente il tombamento diretto della fertilità dei migliori terreni di pianura, ma che ora si vogliono bypassare sollevando un poco da terra i lugubri paramenti funebri con la falsa lusinga che possa continuare l’attività agricola.  Ma invece con la riduzione della radiazione solare si hanno comunque inevitabili contrazioni della fotosintesi e quindi perdite produttive e qualitative per le poche colture agrarie artificiosamente messe a dimora come paravento per giustificare il core-business delle multinazionali energetiche.

Solo uno dei tanti capitoli del consueto assalto lucrativo al territorio.

Ulteriore drammatico e irresponsabile consumo di suolo e dei suoi ineludibili servizi ecosistemici, in primis proprio lo stoccaggio di immensi quantitativi di CO2, con disfacimento del paesaggio e della superstite ruralità dei territori.

Il fotovoltaico e l’agrivoltaico consumano suolo agricolo, distruggono anch’essi i paesaggi e soprattutto provocano impennate dei prezzi dei terreni agricoli rendendo la terra inaccessibile agli ultimi agricoltori rimanenti o ai giovani che con coraggio persistono nel voler vivere in campagna per far vivere le campagne.

Ovviamente le società energetiche privilegiano terreni di pianura perché più comodi da infrastrutturare. Il paradosso è che si tratta quasi sempre della risorsa collettiva più scarsa: i mortiferi progetti si abbattono infatti sui terreni più fertili, spesso utilizzati con criteri etici ed ecologici da piccoli produttori che consapevolmente ne preservano i servizi ecosistemici, in una realtà geografica con la fisionomia complessiva di una catena montuosa immersa nel Mediterraneo. L’Italia ha perso il 30% delle sue terre coltivate in 25 anni e importa il 60% del suo grano e di praticamente tutte le materie prime. La sovranità alimentare non è mai stata così lontana.

Una diffusione massiva del fotovoltaico nell’edilizia residenziale con le Comunità Energetiche Rinnovabili invece consentirebbe, tra l’altro, una gestione diretta della produzione elettrica da parte dei cittadini e finalmente un vero risparmio in bolletta, riducendo sensibilmente i costi elevati ma poco chiari di dispacciamento e migrazione dell’energia, oltre a garantire (queste si, non le bufale delle multinazionali) decine di migliaia di posti di lavoro a medie e piccole imprese per l’installazione capillare degli impianti.

È notoriamente infinitesimale e del tutto inutile l’incidenza di questi pur enormi impianti industriali sulla riduzione delle emissioni globali mondiali che sono generate invece dai vecchi e nuovi capitalismi (USA vs Cina e India): con gli impianti energetici industriali italiani non si salva di certo il pianeta come invece incalza ossessiva una falsa retorica di parte.

Ridurre la nostra già microscopica percentuale (0.15%) di CO2 climalterante farebbe un baffo ai cambiamenti climatici globali, mentre si annienterebbe in maniera irreversibile una delle poche ricchezze che ancora rimangono all’Italia e al mondo: la storia, la cultura, l’identità del paesaggio italiano, non solo patrimonio nazionale, ma dell’intera umanità.

Fermiamo finche’ siamo in tempo il più grande e lucroso scempio ambientale della Storia italiana impudicamente mascherato di finto verde.

Un patrimonio culturale, agricolo e ambientale ricco e famoso nel mondo non merita certo di essere sottoposto all’irreversibile degrado elargito da infrastrutture ingombranti e di enorme e irreversibile impatto su ecosistemi, biodiversità, paesaggi, economie e identità locali: per questo le comunità che si vedono imporre tali opere sono scosse da crescenti tensioni e conflitti sociali.

Un attacco mortale, in grado di azzerare la GRANDE BELLEZZA superstite e le correlate attività agroturistiche, ma ancor di più di azzerare il futuro delle aree interne “colpevoli” di essere le più incontaminate e indifese. A meno che non si tratti di un futuro di abbandono, nel quale si aprono ghiotte occasioni per speculatori di ogni tipo: le valli più interne, dall’aspetto “verginale”, si prestano bene ad ospitare le cose più immonde e le speculazioni più inconfessabili. Del resto, è negli intendimenti del Governo abbandonare le aree interne ad una “fine dignitosa” (qualunque cosa voglia dire).

BASTA SCEMPI, TETTI E AREE DISMESSE BASTANO

ce lo dice vanamente da anni ISPRA, istituto scientifico pubblico tra i più seri e affidabili, e le stesse ferree (grida manzoniane?) premesse e disposizioni dei documenti europei sulla idonea dislocazione delle rinnovabili recepiti in Italia, ma invece si continua impunemente a consumare prezioso e raro suolo vergine, comodo e lucroso per la speculazione, tragico per tutti noi.

Non so proprio come ne usciremo da questo immenso barbarico bottino di territori.

 Intanto resistiamo alle prediche indecorose dei falsi profeti e uniamo le forze dal basso.

La sacra terra non è Res Nullius da tombare irreversibilmente per lucri privati.

Questa TransAzione si può fare e si faccia sulle tante aree già compromesse e consumate, ma si risparmi quel che resta del suolo e dei paesaggi unici che tutto il mondo ci invidia.

da qui