Non solo microplastiche, ma anche mozziconi di sigaretta e bastoncini cotonati, pezzi di polistirolo, salviette, vetro e ceramica, sdraio e frammenti di ombrelloni. Le spiagge dell’Adriatico sono pesantemente “frequentate” dai rifiuti e, a differenza dei turisti, molti di essi le occupano tutto l’anno, registrando numeri di presenze ben superiori a quanto tollerato dall’Unione Europea.
I numeri dei
rifiuti spiaggiati sulle coste adriatiche
Non esistono
dati specifici per le coste adriatiche, ma l’entità del fenomeno può essere in
parte dedotta dalle medie nazionali italiane. Se la quantità massima di rifiuti (“beach litter”) che una spiaggia europea può
ospitare per essere considerata “in buona salute” è di 20 elementi antropici
ogni 100 metri, in Italia si parla di almeno dieci volte tanto.
Secondo l’ARPA, nel 2023,
tra Tirreno e Adriatico, si sono registrate oltre 250 unità. Lo scorso
anno, i volontari di Legambiente ne hanno rilevate addirittura 900. Oltre a confermare il quasi
scontato trionfo della plastica, questo lavoro meticoloso ha servito anche a
sottolineare la presenza permanente degli oggetti usa e getta: ufficialmente
scomparsi dal mercato da anni, ma ancora ben presenti nelle nostre acque.
Rifiuti a
confronto: come cambiano lungo le coste dell’Adriatico
A causa del
suo profilo concavo e della sua scarsa profondità, l’Adriatico è condannato
all’accumulo di rifiuti sulle spiagge, mentre i fiumi – il Po in primis –
li trasportano anche dall’entroterra verso nord, aggravando ulteriormente il
problema, e non solo nei pressi delle foci. Non esistono latitudini o confini,
che siano coste dell’Unione europea o meno: lo scambio d’acqua è continuo e
ogni elemento galleggiante si sposta da una sponda all’altra come una nave da
crociera. Quando finisce nello stomaco di pesci, uccelli o altri organismi
marini, attraverso la catena alimentare può arrivare anche sulle nostre
tavole, con conseguenze dannose per la salute.
Massimiliano
Falleri,
responsabile della divisione subacquea di Marevivo, monitora e
combatte questo fenomeno da anni, con campagne di sensibilizzazione e attività
di raccolta rifiuti sia in mare che sulle spiagge. È sempre più convinto
che serva un impegno collettivo. «Tutti dovrebbero contribuire sia
riducendo l’uso della plastica che smaltendo i rifiuti in modo corretto,
altrimenti questo ciclo non avrà mai fine», spiega. «Anche se negli ultimi
cinque anni la consapevolezza di governi, organizzazioni e cittadini è
cresciuta, la quantità di rifiuti resta alta, soprattutto a causa di pratiche
di smaltimento scorrette e dell’uso ostinato della plastica monouso».
La pandemia
di Covid-19 aveva inevitabilmente fatto aumentare la presenza di rifiuti, ma il
calo atteso nel periodo post-Covid non si è mai verificato. Secondo
Marevivo, il “beach litter” nell’Adriatico resta una «sfida importante:
la sua evoluzione recente conferma la necessità di intensificare sia gli sforzi
di prevenzione che di gestione».
Il caso
dell’Albania: turismo e acque reflue tra le cause principali del “beach
litter“
Attraversando
il mare, la quantità di rifiuti ritrovati sulle spiagge non cambia molto,
ma cambia la tipologia, dimostrando come la pulizia di queste
strisce di terra dipenda da ciò che accade sia in mare che a terra, sul proprio
territorio e su quello altrui. Analizzando il beach litter sulle
coste albanesi, ad esempio, emergono caratteristiche specifiche che aiutano
a ipotizzare interventi mirati di mitigazione. Grazie a un recente
studio scientifico dell’Università di Cadice dedicato esclusivamente al litter sulle
spiagge albanesi, si è osservato che, pur prevalendo frammenti e oggetti in
plastica (82%) come altrove, nel caso dell’Albania essi derivano principalmente
dal turismo locale e si mescolano a elementi provenienti da acque reflue.
Giorgio
Anfuso Melfi, uno degli
autori della ricerca, racconta che, oltre ai “soliti” rifiuti come mozziconi,
tappi di bottiglia e frammenti plastici, ha trovato anche arredi da spiaggia
abbandonati, come vecchie sdraio e ombrelloni: «Non comuni altrove e
chiaramente legati agli stabilimenti balneari».
In Albania,
seppur in modo stagionale, il turismo sembra essere la principale fonte
di beach litter, mentre la pesca contribuisce in modo meno
significativo. Secondo Anfuso Melfi, «è quindi necessario studiare interventi
mirati per migliorare la consapevolezza dei bagnanti e potenziare le attività
di pulizia da parte di Comuni e stabilimenti balneari».
I rischi per
animali marini, turisti e comunità costiere
Che sia in
mare o in spiaggia, plastica o mozziconi, gran parte dei rifiuti presenti
nell’area adriatica «rischia di essere scambiata per cibo da pesci,
uccelli, tartarughe e molti altri organismi marini, causando anche la morte, ad
esempio se la plastica ostruisce l’apparato digerente o rilascia sostanze
tossiche», spiega Falleri. «Il beach litter può anche
danneggiare habitat naturali, come le biocenosi a coralligeno e le praterie di
Posidonia, compromettendo la loro capacità di sostenere la vita marina. In
questi casi, rappresentano una minaccia anche per spugne, briozoi, coralli e
gorgonie, che restando intrappolati perdono la possibilità di nutrirsi».
Anche le
comunità costiere sono vittime dei rifiuti marini, in particolare
quelle che vivono di pesca e turismo. «A seconda del mare, spesso si trovano
costrette a sostenere e finanziare attività di pulizia per ridurre l’impatto
visivo, paesaggistico ed economico», aggiunge Falleri, riportando in
particolare la voce di Marevivo Puglia. «Senza contare che questo tipo di
inquinamento può anche rappresentare un rischio per la salute:
alcuni rifiuti possono ferire o avvelenare, se sono in plastica o altri
materiali tossici e finiscono nella catena alimentare».
È un
pericolo per chi vive vicino a spiagge invase dai rifiuti, e i pescatori
professionisti devono anche tenere conto dei danni economici: le
reti e le attrezzature possono impigliarsi o danneggiarsi con i rifiuti
galleggianti, riducendo le catture e aumentando i costi di manutenzione.
Il progetto
Bluecircle: l’economia circolare per pulire le spiagge adriatiche
Pesci e
organismi marini, pescatori e abitanti delle coste: con i rifiuti in spiaggia,
tutti ci perdono in salute, alcuni anche economicamente. Nessuno ne trae
davvero beneficio. Eppure, nessuna campagna di sensibilizzazione e raccolta ha
finora ridotto significativamente il fenomeno. Per questo motivo, da circa
dieci mesi è in corso la sperimentazione di un approccio di economia circolare grazie al progetto
interregionale europeo Bluecircle (Boosting Circular Economy
Solutions for Marine Litter Collection and Recycling in the Adriatic-Ionian
Regions).
Destinato a
Italia, Albania, Montenegro, Croazia, Grecia e Bosnia Erzegovina, il progetto
non si limita a pulizie, raccomandazioni e controlli, ma testa nuovi
metodi di trattamento dei rifiuti spiaggiati, «trasformando una criticità
in un’opportunità». L’obiettivo è ambizioso, ma c’è tempo fino alla fine
dell’estate 2027 e oltre un milione e mezzo di euro di fondi UE per
raggiungerlo. Non tutti i sette partner sono ugualmente ottimisti: il più
convinto è quello scientifico, l’autore dell’impianto sperimentale stesso,
il Politecnico di Bari.
Tecnologie
mobili per il trattamento dei rifiuti spiaggiati
Michele
Notarnicola, a capo del
team Bluecircle, è certo che il sistema mobile possa funzionare sulle spiagge.
Nei prossimi mesi verrà testato prima in Italia e poi negli altri Paesi
partecipanti, essendo un impianto piccolo e replicabile in qualsiasi contesto.
Il primo
aspetto fondamentale riguarda la possibilità di raccogliere e trattare
i rifiuti spiaggiati direttamente sulle coste adriatiche. «Per noi è
essenziale intercettarli prima che vengano classificati come rifiuti urbani,
perché altrimenti verrebbero considerati come “indifferenziati”, comportando
una perdita di risorse e costi economici elevati», spiega Notarnicola. «Per
questo ci siamo dotati di mini robot che aspirano gli oggetti ritrovati e li
trasportano in un mini contenitore dove, con tre diverse tecnologie,
selezioniamo le varie frazioni».
Anche se per
l’osservatore casuale i rifiuti spiaggiati sembrano ammassi indistinti, chi
vuole inserirli nelle filiere e ridurre la quota non recuperabile deve saperli
distinguere. Nei cumuli trovati, plastica, vetro, alluminio e legno si
mescolano con elementi naturali come Posidonia, piante acquatiche, alghe in
decomposizione, sabbia, conchiglie e materiali di varie granulometrie. Occorre
dividerli almeno in tre categorie: inorganici, organici naturali e
antropici.
Le tre
tecniche per separare e riciclare i rifiuti marini: densimetrica, aeraulica e
triboelettrostatica
A ciascuna
categoria corrisponde una tecnica di separazione:
- Separazione densimetrica: divide sabbia e ghiaia in
base al peso specifico, per poi reinserirle nell’ambiente o usarle come
materia prima per il calcestruzzo.
- Separazione aerodinamica
(aeraulica): usa
getti d’aria per isolare le frazioni più leggere (alghe, Posidonia), da
restituire al mare o trasformare in compost, a seconda del degrado.
- Separazione triboelettrostatica: la più innovativa, progettata
dal Politecnico di Bari, separa la plastica.
«Utilizzando
l’attrito, le particelle si caricano elettricamente in positivo o negativo, e
vengono divise in base al comportamento superficiale», spiega Notarnicola. La
plastica così separata può poi essere smaltita nei normali circuiti di
raccolta. Con questo tridente tecnologico dell’economia circolare,
Bluecircle punta a trattare 100 kg di rifiuti spiaggiati all’ora,
con un impianto mobile trasportabile in 2–3 giorni.
Per ora, è
in fase di test un prototipo da 10 kg/ora, che verrà collaudato su ogni costa
adriatica, portando con sé anche campagne di sensibilizzazione e standard di
classificazione. Perché nel bacino adriatico tutto possa circolare
meglio — tranne i rifiuti.
Questo
articolo è stato pubblicato da Osservatorio Balcani e Caucaso nel contesto del progetto “Cohesion4Climate” cofinanziato
dall’Unione europea. L’UE non è in alcun modo responsabile delle informazioni o
dei punti di vista espressi nel quadro del progetto; la responsabilità sui
contenuti è unicamente di OBCT.
Nessun commento:
Posta un commento