lunedì 31 agosto 2020

scrive Mauro Armanino, da Niamey, in Niger

 

Abitudini e novità dal Sahel 

Non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ci ricorda il libro del Qoelet. Afferma senza timore che c’è un momento per tutto e un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Il saggio del libro conclude che tutto è vanità, soffio che svanisce in fretta, come bruma mattutina. L’autore coglie l’aspetto abitudinario dell’esistenza, la ripetizione di gesti, pensieri, parole e azioni.

La cronaca quotidiana è una litania di cose già vissute, risapute, commentate e più volte interpretate. La storia come ciclo che si ripete oppure come segmento che si apre verso l’inedito. Concezioni della vita che si completano e non smentiscono affatto la vanità che accompagna la maggior parte delle umane azioni. Mettiamo, ad esempio, i naufragi e le morti dei migranti e rifugiati nel Mar Mediterraneo, un dramma di questi ultimi giorni. Appaiono per molti come un’abitudine, una tra le tante, in fretta accantonata per passare in fretta ad altre cose. Le diseguaglianze ogni volta più consistenti tra Paesi e all’interno dei Paesi, tra una minima classe capitalista transnazionale e il resto del mondo considerato accidentale periferia o zavorra di cui disfarsi se necessario. Sono un’abitudine le cifre dei morti per il più pericoloso e marginalizzato dei virus, quello della fame che, secondo Jean Ziegler, ogni cinque secondi uccide un bimbo sotto i dieci anni. Secondo lo stesso autore sono più di sei milioni, solamente nel 2017. Ci si abitua al dolore, all’oppressione, allo scandalo dell’esclusione, alla violenza operata su donne, bambini, poveri e non ancora nati. Ci sia abitua alla vita come fosse un mestiere come un altro. Solo vanità.

Nel Sahel ciò a cui non si riesce ad abituarsi è la pioggia. Le riunioni più importanti possono essere annullate e, nel caso foste arrivati, ingenuamente, nel luogo dell’incontro, attenderete invano l’arrivo dei partecipanti. Sarete compianti con un sorriso, come neofiti, ingenui che ancora non sanno cogliere gli usi e costumi di una civiltà. Farete la figura dei barbari che non sanno apprezzare le cose della vita. Quando piove tutto si ferma e basta. Le pioggie raramente durano più di un paio d’ore. Vale la pena lasciare liberi gli occhi di guardare la pioggia cadere. Piove, governo ladro, si diceva una volta altrove. Nel Sahel la pioggia è un avvenimento, uno spettacolo da contemplare, un fenomeno sempre unico, un evento irripetibile al quale assistere come in prima visione. Molti dei temporali, per pudore, accadono di notte, quasi a rendere il mistero ancora più indecifrabile, oppure quando meno lo si aspetta. A poco valgono le previsioni del tempo, introdotte pure qui con sufficiente professionalità, la pioggia sorprende e destabilizza. Tant’è vero che anche quest’anno i morti per inondazioni si contano a decine e i sinistrati a migliaia senza contare campi e animali e infrastrutture danneggiate. Persino il simbolo del Niger, una giraffa di 25 anni, ha perso la rispettabile vita recentemente nelle stesse circostanze. La pioggia è nel Sahel una delle novità permanenti.

Abitudine deriva dal termine latino ‘habitus’, modo di essere e, nel modo comune di pensare, diventa spesso assuefazione, consuetudine, routine, vizio. Già, un vizio che orienta e ritorna per ‘banalizzare’ in fondo la realtà. Martedì della scorsa settimana, per esempio, abbiamo assistito all’ennesimo colpo di stato militare nel vicino Mali. Dall’arrivo nel Sahel di chi scrive è il secondo effettuato nello stesso Paese. Il precedente si perpetrò nel 2012 da una parte dei militari che crearono un ‘Comitato Nazionale per la Restaurazione della Democrazia e dello Stato’ (CNRDS). Probabilmente gli otto anni passati non sono bastati e per questo si è reso necessario un nuovo colpo di stato militare con a capo il colonnello Assimi Goita. Un altro comitato è stato creato, chiamato più concisamente ‘Comitato Nazionale per la salvezza del Popolo’ (CNSP).  La democrazia ‘tropicalizzata’, con elezioni irregolari e che hanno la trasparenza del denaro con le quali sono organizzate, i cambiamenti di Costituzione per rendere indefiniti i mandati presidenziali, le operazioni Covid-19 per organizzarne e distribuirne i fondi internazionali. Si, nulla di nuovo sotto il sole del Sahel, come scriveva il saggio del libro a suo tempo, dove c’era un momento per tutto e un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Il Qoelet non poteva immaginare che, nel Sahel, la pioggia e la sabbia, sono le uniche novità che impediscono di abituarsi alla vita.

                                              Mauro Armanino, Niamey, agosto 2020

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                                Il sacrificio e i sacrificati 

 La festa della ‘Tabaski’, comunemente chiamata così nell’Africa Occidentale francese, è terminata lunedì. Questa importante festa del calendario musulmano ricorda, con allusioni al racconto biblico, la fede obbediente di Abramo che non avrebbe esitato a sacrificare il figlio (Isacco o Ismaele, secondo il racconto). Fermato in tempo prima del gesto fatale, il figlio fu sostituito da un capro e la festa in questione fa memoria di questo avvenimento, sacrificando un capro o più per famiglia. Malgrado la crisi conseguente alla pandemia, che ha finora relativamente risparmiato il Niger, la cerimonia si è svolta come di consueto. Lungo le strade di Niamey e nei cortili, i capri uccisi sono messi ad arrostire, consumati in famiglia il giorno seguente e parti dell’animale condivise con parenti, vicini e poveri. Il sacrificio è stato preceduto dalla rituale preghiera alla ‘grande moschea’ di Niamey e nelle altre sparse nei quartieri della città. La tradizione, sempre molto sentita dalla popolazione, si è rinnovata. L’acquisto dei capri per la circostanza, ha permesso a molti allevatori dei villaggi e in città, di tornarsene a casa con il necessario per far sopravvivere la famiglia.

In effetti, nel Niger come altrove nel Sahel, ad essere sacrificato non è solo il capro. Secondo i risultati dellla prima edizione ‘Dell’inchiesta armonizzata sulle condizioni di vita delle famiglie’ nello spazio economico dell’Africa Occidentale, il Niger è il paese che conta il più grande numero di poveri. Tre abitanti su quattro, secondo questo rapporto, vivono sotto la soglia di povertà. L’inchiesta si basa sulla soglia internazionale di povertà  monetaria moderata, per la quale si considera povera la persona che spende meno di 3,2 dollari al giorno. Da ciò risulta che il 75,5 % della popolazione del Paese si trova in questa particolare categoria di persone. Nello stesso rapporto si evidenzia che la Costa d’Avorio e il Senegal sono i Paesi dell’Unione Monetaria con la più debole concentrazione di poveri mentre, a parte il Mali e il Benin, la maggior parte degli altri Paesi si trova sotto la soglia di povertà. Questi sono tra i ‘sacrificati’ del sistema che, almeno fino all’imprevista visita del Coronavirus, vantava di cifre record nella macroeconomia, in barba alle crisi di crescita registrate altrove. Sacrificati invisibili ma reali che appaiono nelle statistiche per poi scomparire.

Naturalmente non sono gli unici a perpetuare il sacrificio rituale. Dovremmo parlare di alcuni attivisti sui diritti umani e un giornalista del Paese che hanno passato e reso attuale la festa del sacrificio in carcere. Anche altrove le cose non vanno meglio. Ricordava un rapporto di Global Witness di appena qualche giorno fa, che oltre 200 militanti per l’ambiente e i diritti umani, sono stati sacrificati, la maggior parte di loro in Asia. Dovremmo sommare le centinaia di migliaia di sfollati nel vicino Burkina Faso, Mali e lo stesso Niger. Rifugiati provocati dal banditismo armato verniciato di djiadismo, tutti quanti poveri contadini e già ‘invisibili’ prima ancora di essere stati strappati dalle loro case e terre. Le migliaia di bambini che non avranno mai l’opportunità di mangiare e bere quanto basta per garantire una sana e decente crescita umana. Lo ricordava recentemente un articolo pubblicato su ‘Le Monde’ che il ‘virus della fame’ minaccia, nel già fragilizzato Sahel, milioni di persone.

“Tutte le conseguenze delle misure anti-Covid-19, messe in atto dagli Stati saheliani, sono state sottostimate”, afferma Alexandra Lamarche della ONG Refugees International, “il Programma Alimentare Mondiale stimava che 3,9 milioni di persone nel Sahel centrale avrebbero sofferto di insicurezza alimentare in questa stagione. Oggi siamo a 5 milioni“. La chiusura di mercati e frontiere, il coprifuoco, il divieto dell’uso delle moto e altre restrizioni negli spostamenti, hanno avuto come conseguenza quella di complicare la vita dei contadini e più in generale del sistema agro-pastorale che dà lavoro a circa 25 milioni di saheliani. Dalla memoria del sacrificio di Abramo, della sua obbediente sottomissione all’appello di Dio fino ai numerosi ‘sacrificati’ di oggi, esiste una tragica continuità. Saperli riconoscere e assumerne la ferita è solo il primo passo. In questo ambito la ‘sottomissione obbediente’ di Abramo si chiamerebbe ‘complicità’.

                                                                                         Niamey, 1 agosto 2020

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Il camaleonte e i colori del Sahel

Proprio come lui, il camaleonte, anche la cartina del Niger appena presentata dalle autorità francesi, ha assunto un altro colore, il rosso. Rimane, a dire il vero, un irrilevante circolino arancione che circonda la capitale del Paese, Niamey. Si tratta di un colore, il rosso, generalizzato al territorio nazionale, che l’ha reso formalmente sconsigliato per i cittadini francesi. Quanto all’arancione, di cui Niamey si ammanta secondo le stesse autorità, implica lo stesso invito ‘salvo forza maggiore’. Tradotto in termini operativi, questo significa che gli occidentali, principali bersagli presunti degli attacchi terroristi, non possono uscire dalla capitale senza scorta armata. I colori dei Paesi del Sahel cambiano e si adattano secondo quanto le potenze coloniali decidono, unilateralmente, a seconda dell’impatto sui propri cittadini. Sono in questo assai simili all’animale citato, il camaleonte, il cui cambio di colore è dovuto ad un meccanismo di comunicazione sociale. I colori scuri indicherebbero collera e agressività e quelli più chiari sarebbero invece in funzione della seduzione delle femmine. Si tratta dunque di un sistema di comunicazione che potremmo definire ‘politico’.  Il cambiamento di colore permette di creare le condizioni della socialità o, tramite espliciti avvertimenti, di renderle problematiche o impossibili, intimorendo l’avversario. Non si esclude che la colorazione sia pure un sistema di adattamento all’ambiente, e dunque una strategia difensiva.

L’analogia potrebbe essere condotta ancora più lontano fino a insinuare che, quella del camaleonte, è una forma adattabile delle potenze neocoloniali dell’Occidente, alle circostanze mutevoli della realtà sul terreno. Risulta infatti oltremodo difficile intendere, per i comuni cittadini di questa porzione dell’Africa Occidentale chiamata Sahel, quanto sta loro accadendo da anni. Migliaia di soldati e tecnici, sistemi di controllo con droni, sofisticate strategie di intervento, implicazioni delle più imponenti potenze militari del momento e constatare che le cose peggiorino. Più militari e armi implicano nel contempo più banditi, terroristi, insorti e comuni contrabbandieri di armi, cocaina, migranti e mercenari. Anche perché, di fatto, a sparire, morire e scappare sono soprattutto loro, i comuni cittadini del Sahel, in maggioranza contadini e allevatori. I colori cambiano a seconda delle circostanze e degli interessi dell’Occidente e ciò che non cambia, invece, è la politica che sul posto e dall’esterno, che fa di tutto perché accada ciò a cui stiamo assistendo. La dimenticanza dei poveri, la dipendenza da modelli di sviluppo funzionali agli interessi di pochi e soprattutto uno stile di governo di ‘predazione’ delle risorse, sono altrettante cospirazioni che rendono possibile quanto accade nel Sahel. Dovremmo avere il diritto, fossimo in un Paese normale, di decidere il tipo di colore da dare al nostro territorio e soprattutto al nostro popolo. Basta coi camaleonti della politica.

Le migliaia di migranti e rifugiati morti, oltre 40 mila dal 1990,  non hanno fatto cambiare di colore né al mare né al deserto, eppure sono in questi luoghi che si stanno perpetrando crimini e furti di futuro ai giovani. Che dire poi dei campi di detenzione, tortura e eliminazione silenziosa di migliaia di persone in Libia il cui ‘crimine’ è quello di cercare di salvarsi dalla cancellazione della loro storia. Oppure delle decine di migliaia di migranti e rifugiati derubati e poi espulsi (e in molti casi violentati) dall’Algeria. Non cambiano il colore dell’Europa che invece è diventato, strada facendo, il continente ‘impossibile’ per chi avrebbe l’ardire di raggiungerlo. Migreurop, osservatorio delle frontiere, nei suoi rapporti parla di Arcipelago composto da centinaia di centri di detenzione ‘amministrativa’ sparsi in Europa.  L’ONG ricorda che la detenzione dei migranti ‘irregolari’ non è solo un problema umanitario ma anzitutto politico. Si riferisce infatti a valori, scelte, orientamenti e strategie di esclusione e di controllo di coloro che sono stati designati e poi classificati come ‘indesiderabili’ perché vulnerabili. Rivendichiamo il diritto di dipingere di rosso l’Europa, le coste, i porti di approdo e soprattutto le politiche di sfruttamento globale che si continuano a perpetrare sulla povera gente. Esigiamo di decidere il tipo di colore che vorremmo attribuire al nostro Paese e mettere al bando i ‘camaleonti’ della politica. Unico colore ammesso sarebbe quello dell’arcobaleno.

                                                                     Mauro Armanino, Niamey, 16 agosto 2020

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           La banalizzazione della violenza. Uno sguardo dal Sud del mondo

Dalla banalità del male, termine coniato da Hannah Arendt in seguito alla complicità della ‘gente normale’ nello stermino nazista del popolo ebreo, alla banalità della violenza il passo è breve. Lo ha ricordato persino Emmanuel Macron venerdì scorso in occasione dell’incontro con l’Associazione presidenziale della stampa. Dopo il tempo di ‘confinamento’ dovuto alla pandemia, si assiste ad una intensificazione e ‘banalizzazione’ della violenza quotidiana, ha affermato Macron. Una non sta senza l’altra perchè male e violenza sono come il frutto da cui si riconosce l’albero. Sono in fondo interscambiabili malgrado i patetici tentativi di redimere la violenza come necessaria o quanto meno tappa transitoria per un futuro differente. Tra un paio di settimane saranno due anni da quando Pierluigi Maccalli, missionario nel cuore della savana nigerina, è stato portato via, rapito, tolto alla sua gente, creando una ferita che non arriva a rimarginarsi. Come lui altre centinaia di persone del Paese, rapite, scomparse, e alcune tornate dopo aver pagato il riscatto, obbligate ad integrare i gruppi armati terroristi, violentate e ridotte in oggetti di scambio. La banalità della violenza è talmente pervasiva da trasformare la percezione della realtà e dunque facendo apparire come ineluttabile la quotidiana dose di violenza che si assume come una parte costitutiva. L’amica Zeyna, a cui è stato asportato un seno, oltre ad essersi pagata l’operazione, il soggiorno in ospedale (ridotto se la camera è a due), sborsa anche il necessario per la medicazione diaria della ferita. I guanti, le siringhe, i prodotti da utilizzare e quanto occorre per sapere l’esito dell’esame della parte asportata. Una violenza che precede, accompagna e affossa ogni velleità di cura e guarigione quando non ci sono i mezzi per sostenere le spese.

La violenza è da tempo banalizzata alle frontiere, dove abusi di ogni tipo nei confronti di chi viaggia, sono parte del rischio legato al commercio di beni e al transito dei migranti. Malgrado la chiusura, ancora in vigore, si transita a proprio rischio e pericolo e per la maggior gloria di doganieri e altri simili faccendieri di frontiera. Nell’ambito educativo la violenza si è istituzionalizzata da quando, negli anni ’80, coi programmi di aggiustamento strutturale della Banca Mondiale, si sono smantellate le scuole statali di ogni grado aprendo la via a quelle private che fioriscono sull’abbandono delle prime. Le strade di Niame, la capitale, sono ogni giorno  percorse, trivellate da centinaia di bambini che, in nome di un’educazione ‘coranica’ e in barba alle leggi in vigore, sono obbligati alla mendicanza sotto pena di digiuno e percosse. Questa violenza, banalizzata perché assunta come parte del paesaggio cittadino, diventa gradualmente invisibile salvo apparire sotto altre spoglie ai nuovi semafori della città. Appena installati e godendo di una relativa accalmia studentesca legata al Covid, contano i secondi di attesa e dunque creano code di macchine prima inesistenti. Venditori di fazzoletti, giocattoli, piscine e anatre di plastica, guinzagli per cani, prodotti per smacchiare le zanzare, detersivi per l‘auto e miriadi di pulitori di parabrezza, si moltiplicano in proporzione con la crisi economica che rende il settore ogni volta più informale. La violenza scompare quando il semaforo passa al verde e torna la normalità fino al semaforo successivo (se funziona).

La banalità della violenza si avvale della collaborazione del sacro campo umanitario. Numeri, tabelle, cifre, centri, case, transiti, questionari, progetti, rafforzamento di capacità e occasionali rivolte di migranti e rifugiati. Il Paese non ha affatto bisogno di ‘eroi’ umanitari. Il drammaturgo Bertold Brecth definiva… ‘sfortunata la terra che ha bisogno di eroi’. Ciò è conseguente alla dichiarazione costituzionale del Niger che, all’articolo 4, ricorda che la sovranità appartiene al popolo. La prima e fontale violenza ‘banalizzata’ è proprio quella di derubarlo di questa esclusiva e sovrana dignità. Ciò a cui abbiamo assistito, impotenti per la maggior parte del tempo e inconsapevoli spettatori per il resto, è stata la graduale e sistematica confisca della sovranità popolare. Cancellati i giovani, i contadini, le donne e, in generale i poveri, con la complicità esteriore di chi finanzia una classe politica predatrice, non rimane che prendere atto della miseria nella quale il Paese è ormai da anni prigioniero. L’attualizzazione della ‘Pedagogia degli oppressi’, opera di Paulo Freire,  potrebbe ridare il coraggio della dignità. Qui come altrove questo porta il nome di Resistenza.

                                               Mauro Armanino, Niamey, agosto 2020

 

 

 

sabato 29 agosto 2020

Ovo Sapiens - Federico Casotto

 

Just è un’azienda statunitense che ha inventato la frittata senza uovo, ma che sa proprio di frittata, cioè di uovo. Venduta in una bottiglietta di plastica con grafica minimale, si presenta come una pastella da crêpe e se la versi in una padella con un po’ d’olio prende proprio la consistenza e il sapore della frittata. Assaggiarla è stata un’esperienza molto interessante. Verrebbe perfino da dire che è buona, ma è chiaro che nel giudizio incide la consapevolezza che è una replica vegana e quindi l’apprezzamento ha un carattere concessivo: buona benché fatta senza uova.

Questa è la lista degli ingredienti: acqua, isolato di proteine di fagiolo mungo verde, olio di canola estratto a freddo, cipolla disidratata (<2%), gomma gellano, estratti di carota naturale (colorante), aromi naturali, estratti naturali di curcuma (colorante), citrato di potassio, sale, lecitina di soia, zucchero, sciroppo di tapioca, pirofosfato tetrasodico, transglutaminasi, nisina (conservante).

Lo sviluppo del prodotto ha richiesto anni di sperimentazioni e squadre di tecnologi e chimici esperti in camice bianco finanziati da alcuni fondi di investimento con più di 200 milioni di dollari dal 2011 al 2016 (fonte: wikipedia). Sono stati creati enormi impianti produttivi tecnologicamente avanzati ed efficienti, capaci di estrarre le proteine dal fagiolo mungo e di combinarle con gli altri ingredienti di quella formulazione complessa e realizzare le economie di scala necessarie alla commercializzazione del prodotto a un prezzo ragionevole.

 

“E pensare che una volta bastava il culo di una gallina!” diremo noi vecchi imbolsiti e nostalgici nel 2050, suscitando il disgusto dei nipoti. Non potranno credere che ai nostri tempi si mangiassero cose uscite dal culo di alcunché o si bevessero le secrezioni mammarie di una capra o ci si cibasse del cadavere smembrato di una mucca. Si saranno abituati a mangiare il cibo prodotto da Just o da altre aziende simili, che avrà perso definitivamente il carattere di surrogato o imitazione di qualcos’altro e avrà stabilito il nuovo paradigma della nutrizione e del gusto. Si continuerà a dire latteuovacarneformaggio, ma ci si riferirà ad alimenti diversi da quelli che intendiamo adesso, con sapori costruiti a tavolino per dialogare direttamente col nostro sistema limbico e offerti in formati e consistenze ormai emancipati dai prototipi del ventesimo secolo. Galline, manzi e maiali saranno diventati animali da compagnia o elementi del paesaggio agreste foraggiati dall’ente nazionale per l’agriturismo, oppure saranno allevati e vezzeggiati come tori da monta dai produttori di carne in vitro per prelevare all’occorrenza dai loro lombi qualche cellula muscolare. In entrambi i casi avranno vite lunghe e tutto sommato felici.

 

Nelle nostre società si è finalmente diffusa la consapevolezza che l’odierna produzione di carne, uova e latte ha un impatto molto negativo sull’ambiente a causa delle pratiche produttive dominanti in queste filiere: allevamenti intensivi, smaltimento inadeguato delle enormi quantità di deiezioni che questi concentrano in un’area ristretta, spropositato consumo di acqua, cicli di crescita delle bestie innaturalmente accelerati, tendenziale indifferenza al benessere animale e soprattutto enormi quantità di gas serra rilasciati nell’atmosfera lungo tutta la filiera nonché direttamente dal didietro – anche qui – di un miliardo di bovini in ogni parte del mondo, in forma di emissioni enteriche di metano. Un numero crescente di consumatori ha cominciato a credere che questi non siano dei mali necessari, perché l’ingegno umano combinato con l’umano fiuto per il business sta sviluppando alternative basate su processi industriali molto meno nocivi. Beyond Meat e Impossible Foods sono all’avanguardia nello sviluppo di prodotti a base vegetale (plant-based) che replicano fedelmente l’esperienza della carne. Perfect Day ha sviluppato un processo di fermentazione per creare siero di latte e caseina da microorganismi vegetali e sta cominciando a offrire un prodotto che si presta a tutti gli usi gastronomici del latte. Memphis Meat e Future Meat, stanno cercando di rendere scalabili i loro sistemi per creare carne vera da colture di cellule muscolari di manzi e polli e commercializzarla a un prezzo accessibile: è una sfida molto ambiziosa, ma probabilmente la vinceranno e a quel punto non ci sarà nessuna scusa per persistere nell’arcaica crudeltà dei macelli. E poi c’è Just con le sue frittate.

 

Una bottiglietta da 350 ml, equivalente a otto uova di medie dimensioni, costa cinque dollari. Sono abbastanza sicuro che col crescere della domanda e un ulteriore aumento di scala nella produzione, la pastella di Just sarà venduta presto a un prezzo molto più basso. Il bello è che questo ribasso sarà ottenuto senza compromettere la qualità del prodotto e senza ricorrere agli abusi sugli animali e sull’ambiente che sono invece necessari per vendere le uova di gallina a un euro e cinquanta la dozzina. Anche la competizione avrà un impatto sui prezzi.

 

 

 

Per qualche anno Just godrà della sua posizione di vantaggio nel mercato, protetta da un brevetto e dall’oggettiva difficoltà di sviluppare un prodotto plant-based con lo stesso livello di qualità, ma inevitabilmente, prima o poi, altre aziende entreranno nel mercato con idee altrettanto interessanti: pastelle da frittata ancora più performanti e spumose, ovoidi sodi a base vegetale, magari colorati diversamente in relazione alle varietà di amminoacidi essenziali e di vitamine presenti nella formulazione, un preparato specifico per la pasticceria e un altro 100% bio per realizzare emulsioni come maionese e aioli con grande facilità, senza impazzire. Nel 2050, per coprire il fabbisogno mondiale, tre o quattro multinazionali si spartiranno il mercato delle uova vegetali o meglio il mercato delle nuove categorie nate dall’obsolescenza delle uova di gallina, perché la nozione di uovo, un tempo riconducibile a un oggetto ben identificato e di origine univoca, si riferirà a un’ampia varietà di prodotti industriali, ciascuno dedicato a una delle diverse funzioni che l’uovo oggi assolve nelle nostre cucine e nelle nostre diete. 

 

In uno scenario di questo tipo non ci sarà più posto per il piccolo allevamento di galline ovaiole del mio amico Luigi: ottocento galline, in mille metri quadri, seicentoquaranta ottime uova al giorno, vendute ai ristoratori della zona e al mercato contadino del sabato, a cinquanta centesimi l’una – a conti fatti, lo stesso prezzo di Just Egg. Sono andato a visitare l’azienda agricola, in Valsamoggia (BO), dove le galline mangiano roba buona, hanno spazio all’aperto per razzolare tutto il giorno – cosa che fanno davvero – e un posto per la notte al riparo dalla volpe. Tutto sommato se la passano bene, nel modo routinario delle galline ovaiole, che include anche il rischio quotidiano che a qualcuna, se il caso proprio lo richiede, le si tiri il collo. Benché adesso a molti di noi questo sembri un esempio virtuoso di produzione del cibo, l’allevamento di Luigi non avrà le credenziali di sostenibilità che saranno richieste nel 2050. I criteri che si saranno imposti si baseranno sul Life Cycle Assessment (LCA) cioè sul calcolo rigoroso del consumo di suolo e di acqua e sulla quantità di energia ed emissioni di CO2-eq richiesti per ogni chilo di prodotto. Ci saranno dei limiti da rispettare, se si vorrà garantire il cibo ai nove o dieci miliardi di persone che popoleranno il mondo, e le uova di Luigi non potranno mai competere con le straordinarie performance di Just Egg. – a meno che non si metta in discussione il metodo con cui sono state certificate.

 

“Consumo di suolo?” mi dice Lino, un altro amico, allevatore di mucche da latte, proprietario di una fattoria modello con quaranta capi vicino a Monzuno sull’appennino bolognese e produttore di formaggi di qualità straordinaria. “Quando ho acquistato il terreno, qui non c’erano uccelli. Era una campagna in abbandono. Per molti anni ci hanno coltivato solo erba medica. Ora, con le mie vacche al pascolo sui prati, ci sono più varietà di fiori, più vermi nella terra, più insetti e sono tornati gli uccelli”. In più, aggiungo io, il posto è bello e ben tenuto, c’è un discreto traffico di clienti affezionati e amici, l’azienda funziona, crea benessere per tre o quattro famiglie e manda riflessi di prosperità tutt’intorno, in un contesto che ha molto bisogno di qualche bagliore di ottimismo per riprendersi da decenni di emigrazione e desolazione. Il concetto di consumo di suolo non dovrebbe applicarsi a questo modello di produzione. Nella visione di Lino, ispirata a un principio di equilibrio ecosistemico locale, la sua fattoria non si limita a sfruttare le risorse naturali del luogo ma è essa stessa una risorsa per il territorio. “Sono tornati gli uccelli”, ripete. Questo è vero però solo finché l’azienda resta della misura giusta. Lino potrebbe permettersi di raddoppiare il numero delle vacche, perché i suoi formaggi sono molto richiesti e attualmente non riesce a stare dietro alla domanda, ma sa che sarebbe una forzatura. Rinuncia alla crescita perché essa è incompatibile con il prezioso equilibrio che sente di avere stabilito con i luoghi e i viventi. 

 

A differenza di Just, il modello di Lino, così come quello di Luigi, non è scalabile (una stalla sempre più grande), ma solo replicabile (un’altra piccola stalla con 40 vacche in un altro posto adatto, ad alcuni chilometri da lì, un altro ecosistema locale in equilibrio, un altro nucleo di pionieri di un modo possibile). Non è una differenza da poco: sono due visioni antitetiche del mondo e dell’economia. Prima o poi bisognerà schierarsi oppure accettare le conseguenze dello sviluppo sostenibile nella forma che ora sembra prevalere, promossa dai grandi fondi di investimento e ispirato all’ideologia della crescita.

 

Nel 2050 il bosco si sarà ripreso i prati di Lino e l’aia di Luigi. Vi prospererà una fauna ricchissima di lupi, cervi, istrici, cinghiali, ghiri, aquile e innumerevoli altre specie di uccelli. L’Appennino tosco-emiliano sarà dichiarato parco nazionale e patrimonio dell’UNESCO. La produzione delle proteine nobili sarà ormai un presidio esclusivo della grande industria, e richiederà competenze altamente specialistiche, tecnologie evolute e processi complessi. Avverrà dentro enormi stabilimenti costruiti nelle aree industriali della Food Valley, tra Parma e Reggio Emilia e nell’hinterland di Milano e Torino. Le materie prime vegetali saranno fornite da grandi aziende agricole della Pianura Padana, dotate di serre idroponiche estensive produttive tutto l’anno, e dal mercato internazionale delle commodities. Chi nel 2025 avrà investito nel fagiolo mungo si sarà arricchito. Nei finesettimana i nostri nipoti andranno a fare delle lunghe escursioni nel Parco Nazionale portandosi dietro dei panini senza glutine con dentro morbide fette ricche di proteine e con un sapore equilibratissimo che a noi vecchi spaesati ricorderà vagamente lo speck di una volta. Buonissime, ci toccherà ammetterlo, e per giunta molto digeribili. Gli escursionisti seguiranno rigorosamente i percorsi autorizzati dalle guardie forestali per interferire il meno possibile con l’ambiente selvatico da preservare e se saranno fortunati assisteranno col binocolo ai combattimenti dei cervi in amore. La nostra separazione dalla natura sarà definitivamente compiuta.

 

Our family here [at Just] is full of computational biologists from Stanford, and food engineers from Kraft and Campbell's, and chefs from Michelin-star restaurants. They’re from Apple and General Electric. They've come from some of the biggest and most innovative companies in the world to do everything they possibly can, every single day, to increase the probability that, before we die, a fair, honest, and just food system is the food system in every community [dalla sezione Mission del sito di Just].

 

Coccodè [dal pollaio di Luigi]

 

https://www.doppiozero.com/materiali/ovo-sapiens

Perché alcuni farmaci in Italia non si trovano - Cristiano Barducci

La mitomicina è un antibiotico usato nel trattamento del cancro. Serve a prevenire la recidiva di alcuni tipi di tumore. Nell’estate 2019, per problemi produttivi dell’azienda che ne detiene il brevetto, diventa introvabile in tutta Italia. A Firenze e a Pisa, 25 pazienti sono costretti a rimandare il trattamento. A Palermo, Valentina Lanza, 31 anni, viene a sapere dal medico che c’è il rischio che debba saltare la cura per un po’. Lanza, madre di due figli, si dispera: combatte contro la malattia da appena qualche mese, il tumore è lo stesso per cui è morta sua madre.

“È un farmaco contro il cancro, non una Tachipirina”, ricorda. In quei giorni, vissuti senza una data certa per ricominciare le cure, la donna chiama i giornali locali, scrive sulla pagina Facebook del presidente della regione Sicilia, chiede aiuto alle associazioni per i diritti del malato. “Non sapevo cosa fare”, racconta oggi, “l’ospedale diceva solo che mi avrebbero chiamato una volta che la medicina fosse tornata disponibile. Mi sono sentita abbandonata”.

Dopo una settimana l’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), adottando la procedura prevista in casi di questo tipo, ha autorizzato gli ospedali a comprare il farmaco all’estero, a un prezzo maggiore. A distanza di un anno Valentina Lanza sta bene, il tumore non è tornato. Il suo farmaco, invece, manca ancora negli ospedali italiani: secondo la lista aggiornata periodicamente dall’Aifa, la mitomicina è uno dei 2.637 farmaci – compresi alcuni impiegati nei trattamenti contro il cancro o per le transizioni sessuali – che al momento non sono disponibili.

Il mercato parallelo

“Il problema è cresciuto in maniera preoccupante negli ultimi quattro anni”, spiega Cristina Puggioli, dirigente della farmacia ospedaliera del policlinico Sant’Orsola di Bologna. “La maggior parte dei farmaci che spesso mancano sono prodotti di fascia medio-bassa per cui ci sono alternative. In casi come la mitomicina, invece, non è possibile avere un equivalente, e così dobbiamo comprarlo all’estero a un prezzo più alto”.

Una delle ragioni per cui farmaci come quelli a base di mitomicina sono spesso indisponibili in Italia è il cosiddetto mercato parallelo, un fenomeno legale che sfrutta le differenze di prezzo tra i singoli stati europei. Le modalità di acquisto cambiano da paese a paese: le autorità che si occupano di comprare le medicine in Europa o nel resto del mondo trattano direttamente con le case farmaceutiche.

In Italia, i prezzi sono negoziati dall’Aifa, un ente pubblico che opera sotto la direzione del ministero della salute. La spesa farmaceutica è una voce particolarmente rilevante, ed è principalmente a carico dello stato: secondo l’Aifa, quasi l’80 per cento delle medicine usate è a carico del Servizio sanitario nazionale (Ssn), per un importo superiore ai 22 miliardi di euro all’anno.

Il mercato parallelo è un fenomeno legale, incoraggiato dalle autorità britanniche e scandinave

Ricerche di settore e uno studio del 2016 della Commissione europea certificano che tra i principali paesi dell’Eurozona, l’Italia è quello dove le medicine costano meno. “L’esistenza di prezzi diversi nei vari paesi può spingere le imprese che distribuiscono i farmaci a cercare di lucrare sulle differenze”, spiega Luca Arnaudo, docente dell’università Luiss e autore del libro La cura della concorrenza. Può accadere che un’azienda compri un farmaco prodotto in Italia, dove costa meno, e lo rivenda in paesi dove i sistemi sanitari sono disposti a pagare un prezzo più alto, come nel Regno Unito, nell’Europa del nord o in Germania.

Inoltre, quando un farmaco entra in commercio, non sempre è distribuito dall’azienda che lo produce. I produttori si affidano spesso a grossisti, che possono venderlo a chi vogliono: per questo motivo il mercato parallelo – stimato in un giro d’affari di circa sei miliardi di euro all’anno nella sola Unione europea – è un fenomeno del tutto legale, incoraggiato per esempio dalle autorità britanniche o da quelle scandinave.

Tuttavia, non è l’unico motivo per cui in Italia ci sono categorie di “farmaci fantasma”. Alcuni mancano periodicamente, come quelli per la cura del Parkinson e, soprattutto, quelli per l’epilessia.

Gli equivalenti

L’epilessia è una malattia che riguarda più di mezzo milione di italiani. Una persona che ne soffre prende uno o più farmaci tutti i giorni, più volte al giorno.

“Mio figlio ha undici anni e soffre di un disturbo epilettico durante il sonno, impedisce al suo cervello di fissare ciò che impara”, racconta Nadia Fresco, “ha bisogno di un farmaco specifico, perché è l’unico che dà buoni risultati con pochi effetti collaterali”. Questo prodotto, utilizzato con successo negli Stati Uniti e in Europa, in Italia non c’è da anni. “Ci hanno sempre detto che da noi non lo distribuiscono per ragioni commerciali”, continua. “Per assicurargli la cura, all’inizio dovevamo comprarlo alla farmacia della Città del Vaticano. Per mesi è stato un incubo: c’era la paura di non trovarlo, dovevamo stare attenti alle scorte, ordinarlo con largo anticipo. Vivendo in Salento, eravamo costretti a ricorrere ad amici che lavorano a Roma, o andare lì di persona”.

Fresco ha tempestato di richieste l’azienda sanitaria locale di Lecce. Dopo sette mesi la situazione si è sbloccata. “Per avere questo tipo di medicine serve una prescrizione particolare, l’edotto, rilasciata da un neuropsichiatra. Ora ce lo rilascia ogni mese uno specialista di un paese vicino a quello dove viviamo, lo portiamo alla farmacia del nostro paese e il farmaco arriva lì. Lo ordinano all’estero, in Germania”.

In alcuni casi, quando alcuni farmaci non sono disponibili, si può ricorrere a quelli equivalenti. Tuttavia, la mancanza delle proprie medicine può destabilizzare. Ramona Allegri ha quarant’anni, vive in Sardegna e soffre di epilessia da quando ne ha sedici. Durante il confinamento il Depakin, il farmaco che prende abitualmente tutti i giorni per non avere crisi, è sparito per due settimane. “La farmacista voleva farmi prendere il generico. Io però non lo voglio”, racconta. Ha preferito non curarsi per due settimane, finché la multinazionale che produce il Depakin le ha spedito le medicine con la procedura d’urgenza prevista in questi casi. Poi, quando a distanza di un mese il Depakin è sparito di nuovo, Allegri lo ha cercato in tutte le farmacie, trovandolo in una a 35 chilometri da casa, dove da allora si rifornisce.

“L’impatto psicologico è la cosa più difficile da affrontare”, dice Marta Costa , quarant’anni, di Chioggia, anche lei affetta da epilessia. Come altri ha avuto problemi a trovare il farmaco che usa abitualmente, e ha dovuto sostituirlo con un altro. “Già essere malati è difficile. Dover cambiare farmaco, non per propria scelta, complica tutto”.

Secondo Oriano Mecarelli, neurologo al policlinico Umberto I di Roma e presidente della Lega italiana contro l’epilessia (Lice), “la resistenza di molti pazienti a cambiare farmaco, passando al generico, è frutto della paura infondata di credere che il generico faccia parte di una sottocategoria”. Le evidenze scientifiche dimostrano che l’efficacia è la stessa, dice Mecarelli. “La quantità di principio attivo è uguale, ci sono dei controlli rigorosi. I pazienti temono che, non prendendo il farmaco abituale, si vada ad alterare un equilibrio faticosamente raggiunto”.

Non è però solo una questione di paure. Oltre ai racconti dei pazienti, anche una ricerca condotta nel 2018 dall’associazione europea delle farmacie ospedaliere (Eahp) certifica che nella maggior parte dei casi la mancanza di farmaci provoca ritardi nelle cure, a volte anche la loro sospensione. E non sempre, quando si usano altri prodotti, gli effetti sono soddisfacenti. “L’ospedale di cui dirigo la farmacia ha seicento protocolli di trattamento”, dice la dottoressa Puggioli, “la mancanza riguarda un numero tutto sommato basso di farmaci, ma crea comunque problemi: le cure vanno garantite sempre, e nei tempi giusti”.

I problemi produttivi
Le ragioni per cui un’azienda può smettere di produrre un farmaco o avere ritardi nella consegna sono diverse. La produzione, per esempio, può terminare perché non conviene più dal punto di vista economico. “Ogni anno le aziende farmaceutiche valutano l’andamento dei loro prodotti”, spiega Roberto Caruso, addetto al controllo qualità di un’azienda farmaceutica di Bologna. “Se un farmaco non vende quanto ci si aspettava, si valuta la cessione della linea di produzione ad altri, oppure la si interrompe. Può anche capitare che l’azienda abbia difficoltà a reperire la materia prima, il principio attivo”, continua Caruso, “o che ci siano problemi nel principio attivo stesso”.

A metà ottobre 2019, per esempio, l’Aifa ha ritirato dal mercato dei lotti di medicinali di uso comune contenenti ranitidina, usati per la cura di malattie intestinali. “In quel caso”, spiega Caruso, “il principio attivo che arrivava dall’India conteneva un’impurità. Le aziende che lavorano sul principio attivo spesso non si occupano del resto della produzione”.

Quello dei farmaci è un mercato particolare, con equilibri complessi da mantenere. Dal 2014, dopo numerose acquisizioni, il 90 per cento del settore è in mano a dieci multinazionali. I siti produttivi sono dislocati principalmente in Europa – Francia, Italia e Svizzera su tutti – e Stati Uniti, anche se la tendenza più recente è quella di esternalizzare in Asia, risparmiando sui costi del lavoro. Sulle operazioni che potrebbero falsare la concorrenza e sulle modalità di produzione dei farmaci vigilano le autorità antitrust e le agenzie nazionali.

“Se un’azienda che ha l’autorizzazione a commerciare farmaci in Europa vuole spostare la produzione fuori deve rifare tutta la trafila burocratica per ottenere una nuova autorizzazione, e questo può ritardare le consegne”, spiega Caruso. “In Italia, qualsiasi modifica va notificata all’Aifa, che controlla ogni singolo passaggio. Ogni modifica, a seconda dell’intervento, può richiedere settimane, mesi o anni di attesa”.

Gli strumenti di controllo
Quali strumenti ha a disposizione lo stato per affrontare i problemi di produzione e distribuzione di farmaci? Quando un prodotto manca in un ospedale, o in una farmacia, l’Aifa può autorizzare in via eccezionale l’acquisto all’estero.

A volte succede che “una piccola azienda vinca più appalti per le forniture ospedaliere, magari in diverse regioni, ma poi non ce la fa ad assicurarle”, spiega Cristina Puggioli del Sant’Orsola di Bologna. “In questo caso, se l’ospedale spende di più perché bisogna comprare il farmaco da altri, l’azienda che aveva vinto l’appalto rimborsa la differenza”. La situazione cambia – come nel caso della mitomicina – se il farmaco manca a causa del mercato parallelo: “In questo caso non ci sono meccanismi di compensazione”, spiega Puggioli, “e compriamo al prezzo di mercato”.

Nel giugno 2019, il decreto legge numero 35 ha stabilito che se un’azienda vuole interrompere la commercializzazione di un farmaco, deve dare all’Aifa un preavviso di quattro mesi, non più solo due. Se la domanda di un farmaco aumenta all’improvviso e le scorte sono limitate, il provvedimento prevede un’ulteriore possibilità, quella di bloccare le esportazioni all’estero. Tuttavia, secondo Roberto Caruso è difficile imporre una misura di questo tipo: “Un’azienda decide le esportazioni con molto anticipo, e se realizza la maggior parte del proprio fatturato all’estero è difficile tenere i farmaci in Italia”.

Lo scoppio della pandemia ha fatto riemergere la necessità di una strategia condivisa a livello comunitario. Secondo un rapporto commissionato ad aprile 2020 dal parlamento europeo, l’improvviso aumento della domanda di alcune medicine usate per i pazienti ricoverati in terapia intensiva – dagli antibiotici ai rilassanti muscolari, agli antidiuretici – ha reso ancora più evidenti le criticità in Europa: oltre al mercato parallelo e ai problemi produttivi, è emersa una dipendenza piuttosto rischiosa da Cina e India per l’approvvigionamento di farmaci generici e per la lavorazione dei princìpi attivi.

Finora l’Unione europea si è mossa soprattutto per cercare di prevenire la mancanza dei farmaci, facilitando lo scambio d’informazioni tra paesi e tra questi e le aziende, prendendo atto delle distorsioni del mercato invece di risolverle. Ma non basta. Bisognerebbe agire su due piani. Intanto, si dovrebbero creare le condizioni per riportare molti siti produttivi in Europa, così da essere più autonomi e reattivi. E poi bisognerebbe puntare di più sul joint procurement, un sistema elaborato dalla Commissione europea per comprare in maniera congiunta vaccini e farmaci essenziali. L’Europa, insomma, dovrebbe abbandonare il nazionalismo anche nel campo sanitario.

da qui


venerdì 28 agosto 2020

L’agricoltura di precisione


(intervista di Antonio Pascale a Roberto Confalonieri)


Roberto Confalonieri insegna all’Università degli Studi di Milano. Quando l’ho conosciuto pensavo fosse un ex cantante rock. Difatti, suona e canta ancora, anche se non gira più per locali. Come nello spirito del rock non ama la retorica. Sta lavorando su cose molto belle ed efficaci, riguardano l’agricoltura di precisione (sulla quale fa un sacco di interessanti distinguo).

Ciao, presentati
Mi chiamo Roberto Confalonieri, ho 45 anni e sono professore associato all’Università degli Studi di Milano. Insegno principalmente Agronomia e Sistemi Colturali, cercando di mostrare agli studenti nuove tecnologie per la gestione delle piante coltivate.

Spiega…
Ad esempio illustrando lo sviluppo e l’uso di modelli matematici che simulano il comportamento delle piante in funzione delle condizioni ambientali e dell’interazione con altri organismi, tra cui l’uomo che le coltiva.

Ok.
Questi simulatori sono incredibilmente versatili, possono essere utilizzati per adattare i sistemi colturali ai cambiamenti climatici, per supportare la gestione agronomica, per ridurre tempi e costi di programmi di miglioramento genetico… Insomma: sono degli strumenti straordinari. E grazie a loro ho lavorato per quattro anni per la Commissione Europea, occupandomi di previsioni di resa. Un’esperienza bella e molto formativa.

E ora?
Negli ultimi anni abbiamo iniziato ad integrare i simulatori con dati satellitari e con alcune app che abbiamo sviluppato, che consentono di trasformare un normale smartphone in uno strumento di misura, portatile, leggero, economico e connesso. Dal momento che adoro vedere arrivare in azienda i risultati delle mie ricerche, lo scorso anno ho fondato insieme ai miei collaboratori uno spin-off supportato dall’Università, Cassandra Tech. Questo perché mi sono reso conto che è molto più facile fare arrivare “sul campo” idee e tecnologie nuove se chi le trasferisce è lo stesso che le ha partorite. Quindi, dopo 20 anni a fare il ricercatore, ora sto facendo anche l’imprenditore, o almeno sto cercando di imparare a farlo.

Ok, andiamo per gradi dai, mi spieghi in linea di massima che cos’è l’agricoltura di precisione?
Mah… Viene definita come un tipo di agricoltura nel quale le operazioni colturali sono svolte “facendo la cosa giusta nel posto giusto e nel momento giusto”.

Non ti torna la definizione?
Mi chiedo se prima di questa “rivoluzione” gli agricoltori cercassero di fare la cosa sbagliata nel posto sbagliato nel momento sbagliato… No, non mi sembra un concetto nuovo.

Dunque?
Più che altro, innovazioni tecnologiche e scientifiche hanno permesso di rendere esplicita e quantitativa la naturale tendenza degli agricoltori a cercare di fare le cose per bene, gestendo dinamiche temporali e variabilità spaziale. Perché fare le cose per bene è, in primis, loro interesse.

Quindi è un po’ come i discorsi motivazionali?
Sì, forse ogni tanto abbiamo bisogno di dare nomi nuovi alle cose, forse per generare entusiasmo o ottimismo. Infatti ho l’impressione che agricoltura di precisione stia già diventando un filo démodé, ora è molto più cool parlare di agricoltura 4.0, agricoltura digitale, smart farming… che a volte vengono proposte come evoluzioni dell’agricoltura di precisione, a volte come nuovi paradigmi produttivi. Credo siano slogan efficaci per articoli divulgativi o per un servizio accattivante al telegiornale.

Quindi, in realtà, di che parliamo?
In realtà, credo, si tratta semplicemente di evoluzione delle tecnologie in agricoltura, evoluzione che – sebbene a velocità diversa – è continua, dacché l’agricoltura è nata. Certo, ogni tanto ci sono dei gradini, o gradoni, quando un’innovazione è di tale portata da far fare un balzo a velocità curvatura alle conoscenze disponibili e alla possibilità di trasferirle nel mondo della produzione. Penso alla rivoluzione verde.

E allora, questa nuova rivoluzione?
Per quanto riguarda l’agricoltura di precisione, vedo davvero un’evoluzione continua di conoscenze e tecnologie, che ad un certo punto sono state formalizzate e “battezzate”. È un’evoluzione rapida, certo, perché le tecnologie potenzialmente coinvolte stanno facendo passi da gigante. Ma, ripeto, concettualmente credo che non sia una rivoluzione.

Va bene, niente rivoluzione.
Mio nonno era un piccolissimo agricoltore e, dai racconti che mi faceva mio padre, anche lui cercava di fare la cosa giusta nel posto giusto al momento giusto. Ora ci sono potenzialmente strumenti molto avanzati per fare “agricoltura di precisione”, mentre lui faceva diagnosi basandosi esclusivamente sulla propria esperienza e sui propri sensi, cosa che – comunque – continua a fare ancora oggi la stragrande maggioranza degli agricoltori. Ad ogni modo, scusa la risposta filosofica, immagino non fosse questo che volevi sapere. Torno a bomba.
Di fatto, con agricoltura di precisione intendiamo, ad esempio, sistemi di allerta che permettono di effettuare trattamenti fitosanitari nel momento che massimizza l’efficacia del trattamento stesso. O sistemi che permettono di distribuire concimi azotati in quantità variabile all’interno di un appezzamento, sulla base di differenze nello stato nutrizionale tra i diversi punti del campo. Insomma, cercare di ottimizzare i fattori di produzione in modo da produrre di più con meno.

Questo è uno slogan nuovo, ha qualche ragione?
Altro slogan poco stimolante: non conosco agricoltori che vogliano produrre di meno o che – dovendo pagare i fattori di produzione – ne usino deliberatamente più del dovuto. Le tecnologie attualmente disponibili per agricoltura di precisione sono, ad esempio, simulatori, telerilevamento satellitare, intelligenza artificiale (altro termine che non adoro), sensoristica di vario genere più o meno connessa. Il limite di tutto questo ben di dio tecnologico è che permette di ottenere rapidamente un’enorme quantità di dati… ma trasformare i dati in informazioni non è sempre semplice. E – come dice il mio amico Mirco Boschetti del CNR – agli agricoltori servono informazioni, non dati. Questo è il motivo per cui queste tecnologie faticano ad entrare in azienda.

Ok, spiega questo punto.
Forse dovremmo concentrarci un po’ meno sugli slogan e un po’ più sulle offerte tecnologiche, mostrando con chiarezza vantaggi e costi. Insomma, forse dovremmo essere un po’ più concreti. E sviluppare tecnologie dialogando molto di più con gli utenti finali, gli agricoltori. Dobbiamo rimetterli al centro: sono guide preziosissime per chi fa ricerca e sviluppa tecnologie in agricoltura.

Mi fai allora un esempio concreto? Un case study.
Una sera di circa tre anni fa stavo facendo zapping e sono incappato nel controverso servizio di Report sul Prosecco, con questi atomizzatori che spruzzavano fitofarmaci…

Ricordo quel servizio, sì.
E mi è tornata in mente una chiacchierata fatta con un mio collega svizzero, che mi raccontava che da loro stanno adottando regole che stabiliscono le modalità di distribuzione dei prodotti in base al quantitativo di foglia sui filari per abbattere la dispersione di prodotto nell’ambiente. Il problema è che non hanno fornito ai viticoltori sistemi efficaci per stimare, appunto, la superficie fogliare.

Ok, e allora?
Dal momento che io mi occupo di colture erbacee, mi sono documentato un po’ e ne ho parlato con alcuni colleghi esperti di viticoltura, facendomi un’idea dei pro e dei contro dei sistemi disponibili per ridurre la deriva, ovvero la dispersione in aria del quantitativo di fitofarmaco che, dopo essere stato ridotto in minuscole goccioline e sparato contro i filari, viene disperso per mancata intercettazione da parte della vegetazione. Al momento sono disponibili diversi sistemi per far fronte al problema, i più efficaci dei quali richiedono di aggiornare il parco macchine aziendale e in molti casi non sono adatti a tutte le tipologie di impianto né a zone di alta collina o montagna. Abbiamo pensato di sviluppare una soluzione alternativa, adatta a tutte le tasche e a tutti i contesti, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda.

Qual è?
Abbiamo sviluppato un sistema che funziona così: il nostro servizio meteo, che include dati previsti, nutre un simulatore che stima il rischio di infezione da parte di patogeni fungini nei giorni a venire. Quando il rischio è medio o alto, il sistema comunica con lo smartphone dell’agricoltore tramite un Bot Telegram (funziona come WhatsApp, quindi lo sanno usare proprio tutti).

Eh sì.
A questo punto l’agricoltore prende lo stesso smartphone e va ad effettuare alcune stime di indice di area fogliare, ovvero la superficie di foglia che insiste su una superficie unitaria di terreno. L’acronimo di questa grandezza è LAI.

Come la ricava?
Grazie ad un sistema che abbiamo brevettato alcuni anni or sono, che utilizza l’accelerometro, il magnetometro e la camera presenti in ogni telefono, un modello di trasferimento radiativo e un algoritmo di segmentazione che abbiamo sviluppato. A questo punto il viticoltore indica che prodotto intende utilizzare per il trattamento e, sulla base delle caratteristiche del prodotto e del valore di LAI, il sistema visualizza sullo smartphone la dose di principio attivo e il fattore di diluizione che massimizzano l’efficacia del trattamento minimizzando la dispersione del prodotto.

Fantastico. Funziona?
Abbiamo fatto sperimentazioni in diversi contesti aziendali e il risparmio medio di prodotto è poco inferiore al 50%. Il tutto con l’agricoltore che deve solo fare qualche click sul suo smartphone. Lo lanceremo il prossimo anno e sono fiducioso che riceverà una buona accoglienza: garantisce un risparmio medio di circa 350 € all’ettaro ogni anno, non richiede di comprare nessun macchinario e il servizio costerà ogni anno, all’ettaro, come una settimana di colazioni al bar.

Ok, altri casi?
Un altro servizio che abbiamo sviluppato integra immagini satellitari, i soliti simulatori e pochissime misure prese con lo smartphone (il LAI di prima e il contenuto in azoto nei tessuti delle piante) per produrre mappe di stato nutrizionale, che consentono di distribuire azoto in copertura a rateo variabile, considerando che le piante nei diversi punti del campo possono essere in stress da carenza o in consumo di lusso. Un inferno di dati che frullano e si combinano avanti e indietro, dalle mani dell’agricoltore ai satelliti in orbita, a sistemi di processamento nel cloud: una cosa davvero complicata… ma l’agricoltore vede anche qui solo il suo smartphone e bastano i soliti pochi click. Ma te ne parlo un’altra volta che sennò annoio te e chi ci leggerà.

Ma no, siamo sul Post le info tecniche sono benvenute…
Abbiamo reso questi sistemi tanto semplici da avere poco appeal nei confronti di chi non si occupa di agricoltura… e a volte anche di chi opera nel settore. Di fatto abbiamo usato molte tecnologie diverse che erano già state sviluppate da noi o da altri, spesso per scopi diversi, e le abbiamo assemblate per risolvere dei problemi specifici. Ovviamente in spiaggia è molto più eccitante leggere un articolo di giornale dove agli stessi problemi si risponde con soluzioni basate su robot, droni, intelligenza artificiale, big data, spade laser, incrociatori spaziali… Io questa roba nelle aziende agricole al momento non la vedo molto… ma usando questi termini l’effetto “wow” è assicurato. Con le nostre soluzioni no: l’articolo inizierebbe così “C’è un agricoltore con in mano un telefono…” io chiuderei il giornale e andrei a fare il bagno.

Eh sì, il solito ingombrante problema di story-telling…
Credo che per far davvero entrare in azienda tecniche innovative per l’agricoltura di precisione (uso di nuovo l’espressione così ci capiamo) bisogna partire da un problema reale e trovare una soluzione semplice da usare, che possibilmente non richieda grandi investimenti in nuove macchine e – soprattutto – che costi pochissimo rispetto ai vantaggi economici che garantisce. Questo intendevo prima con concretezza. A quel punto non sarà necessario convincere gli agricoltori ad adottarla perché ci sono benefici per l’ambiente… L’adotteranno perché è nel loro interesse di imprenditori farlo. E i benefici per l’ambiente saranno un piacevole effetto collaterale.

Bene, senti, ma due domande: non è che l’agricoltore, abituato com’è da millenni a fidarsi del proprio intuito, rifiuta l’Intelligenza Artificiale? Seconda domanda: e i dati? Alcuni di questi sono sensibili? Cioè se mi danno un vantaggio competitivo sul mio vicino, considerato anche una certa riottosità a tollerare il vicino, ecco questi dati magari non li metto in comune.
Guarda, credo che agli agricoltori interessi solo vedere chiaramente e quantitativamente – intendo euro all’ettaro all’anno – i vantaggi che una tecnologia offre. Sono imprenditori, è semplicemente normale. Non credo che stiano a giudicare il motore tecnologico dietro ad una cosa che trovano utile per la loro attività.

Ok…
Per scegliere un’auto non ti basi sul layout del propulsore. Ti chiedi semplicemente se la potenza e i consumi di quel propulsore sono per te soddisfacenti. Poi può essere a tre, quattro, cinque, sei, otto cilindri, aspirato, turbo, a benzina, gasolio, gas, ibrido, elettrico, con distribuzione a cinghia dentata, a catena, a cascata di ingranaggi o ad aste e bilancieri. Che importa? Va abbastanza forte? Consuma il giusto? Punto. Scusa, fammelo dire.

E dimmi…
A volte gli agricoltori sembrano avere un atteggiamento conservativo nei confronti delle nuove tecnologie perché chi gliele illustra spesso non è in grado di quantificare con chiarezza i costi e i vantaggi di ciò che propone, a volte anche la domanda a cui la tecnologia si propone di dare una risposta è sfumata.

Eh sì, un vecchio problema…
Scusa, parlo sempre di soldi, ma non è così: l’agricoltura sembra stia diventando qualcosa che deve in primo luogo tutelare l’ambiente e in secondo dipingere malinconici paesaggi di nostalgie bucoliche che sono miele per chi le immagina – senza averle vissute – e fame per chi ne è stato protagonista.

Cosa deve fare l’agricoltura?
L’agricoltura deve in primis produrre cibo, e produrne tanto. Cibo significa essere sani. Il cibo è la prima medicina. E gli agricoltori devono ricavare del denaro da ciò che fanno, anche quelli con aziende di dimensioni ridotte. Altrimenti falliscono. E una delle peggiori sciagure ambientali che riesco ad immaginare non è 20 kg all’ettaro di concime di sintesi in eccesso o un trattamento fitosanitario in più del necessario… ma è l’abbandono delle terre, perché gli agricoltori sono i custodi del territorio. Certo, potresti dirmi che se i piccoli agricoltori falliscono le loro terre potrebbero in parte essere acquistate da aziende più grandi.

Sì, stavo suggerendo una soluzione cinica.
Ma non mi piace neanche l’idea di un mondo fatto di mega aziende che riescono a prosperare solo grazie ad economie di scale mostruose. Dico questo per motivi sociali – per unità di superficie ci sarebbero meno persone impiegate, e quindi meno posti di lavoro – e ambientali – un’azienda medio-piccola a conduzione poco più che familiare vede la terra come la cosa da custodire con più cura. E queste aziende non devono fallire. Ecco il motivo per cui continuo a parlarti di costi e vantaggi delle tecnologie che proponiamo: entrambi devono essere chiaramente esposti agli agricoltori in euro all’ettaro all’anno. Punto. Il resto sono chiacchiere o mode tecnologiche o slogan. Ho sentito parlare di Agricoltura 2.0, ora c’è quella 4.0 (la 3.0 mi è scappata, si vede che andava velocissima), aspetto la 5.0, poi la 6.0…

Va bene, e la questione dati?
Hai toccato un punto importante. Di nuovo: gli agricoltori sono degli imprenditori, spesso sono in buoni rapporti con i colleghi delle aziende vicine, si danno una mano a vicenda quando c’è bisogno, perché è un mestiere meraviglioso ma duro. E le difficoltà spingono ad essere solidali. Ma sono competitor, ovviamente. E quindi ognuno ha le sue idee, le sue convinzioni. La sua ricetta per produrre di più e meglio. Le informazioni che dovrebbero condividere sono, secondo me, assimilabili a segreti industriali. Ti rendi conto?

Insomma, se avessi un segreto che mi permettesse di scrivere un buon romanzo non so se lo divulgherei…
Ma chiunque lavora ritiene di avere dei trucchetti che lo rendono per certi aspetti migliore degli altri. Questi trucchetti li spieghi ai tuoi allievi, non ai diretti competitor. E l’Intelligenza Artificiale – non sempre ma spessissimo – richiede accesso ad una moltitudine di dati, che attraverso prove sperimentali richiederebbero ere geologiche per essere raccolti.

E quindi?
E quindi, sì: sarebbe più facile e più rapido se gli agricoltori condividessero informazioni. Ma io, per i motivi che ti ho detto, non me la sentirei mai di chiedergliele. Un’idea potrebbe essere convincerli a condividere la loro esperienza e dati aziendali – anche i segreti e i trucchetti di cui parlavamo prima – offrendo in cambio, gratuitamente, servizi che loro percepiscono come utili. Do ut des. Questo porterebbe nel giro di poco a sviluppare servizi più evoluti per supportare le attività degli agricoltori. Chissà? E’ un’idea. Che ora che te la sto dicendo mi ruberanno… vedi che non ho ancora imparato a fare l’imprenditore? Non so tenermi un cecio in bocca.

…Chitarrista preferito?
Due: Mark Knopfler e David Gilmour, mi toccano l’anima. Ma il primo non lo suono, lo ascolto e basta. Le volte che ho provato a suonare un suo assolo mi sembrava di bestemmiare o di commettere un sacrilegio… non so. Un disagio boia. Magari prova e riprova veniva più o meno corretto ma mai colorato come quando suona lui. Con la chitarra mescola i colori, li sfuma, a volte vivaci, a volte meravigliosamente cupi… Se ti concentri e chiudi gli occhi mentre lo ascolti vedi colorarsi anche l’aria. E chi sono io per togliere colore alle cose?

da qui


giovedì 27 agosto 2020

Custodi di semi, custodi di biodiversità - Lucia Michelini

 

La notte è fresca, nell'aria c'è profumo di tiglio e si intravvedono i luccichii delle prime lucciole.

A casa di Mirco D'Incà, vicepresidente del gruppo bellunese Coltivare Condividendo, bevendo succo di sambuco e chiacchierando di terra e agricoltura, è questa l'atmosfera che si respira.

Coltivare Condividendo è un'associazione nata a Belluno una decina d'anni fa e ha lo scopo di recuperare e promuovere la biodiversità agricola, facendola tornare nei piatti di tutti, per garantire la sicurezza alimentare: cibi sani, privi di residui chimici e buoni.

“A noi non interessa coltivare per appiccicare sui prodotti il marchio biologico, noi coltiviamo per produrre cibo, la certificazione può essere un fattore limitante”, afferma Mirco D'Incà. “Dare un nome e un cognome ad una varietà per registrala è restrittivo, perché da questi dati ne consegue un brevetto, sinonimo di proprietà. Mettere un brevetto sulle piante che mangiamo è vincolarle, le priviamo della  possibilità di essere condivise liberamente. Per questo la nostra associazione si chiama Coltivare Condividendo, per condividere la biodiversità che è una cosa stupenda”.

Johannes Keintzel, ex presidente del gruppo, aggiunge: “Noi auto-riproduciamo i cereali antichi, sinonimo di legame col territorio, con la storia, con la cultura. Fino a poco tempo fa erano i piccoli agricoltori, i paesani, a selezionare le varietà più idonee alla coltivazione, erano loro i veri custodi di semi di future piante adattate a quel clima, a quel luogo, a quell'altitudine. Varietà uniche sviluppate col tempo, forgiate dall'ambiente”.

Continua Johannes Keintzel: “Le grosse ditte hanno fatto business proprio perché tanti agricoltori hanno smesso di fare agricoltura (secondo i dati dell'ultimo censimento dell'agricoltura, tra il 1982 e il 2010 la superficie agricola totale bellunese è diminuita del 50,3% e il numero di aziende agricole  dell'83,7%). Il nostro scopo vuole essere quello di prendere ciò che c’era, varietà non modificate in un laboratorio e portarle verso il futuro, verso il clima attuale, senza essere gelosi se vogliamo difendere la sovranità alimentare. Per questo organizziamo ogni anno l'evento Chiamata a raccolto, nel corso del quale scambiamo semi di varietà adattate al nostro contesto di montagna, resistenti e frugali. Vogliamo recuperale, riprodurle e condividerle.”

“Purtroppo, quando una varietà è persa, è persa per sempre. E’ come il sangue di una famiglia: se non si riproduce, quella famiglia si ferma”, spiega Mirco D'Incà,

Parlando di esempi concreti, Johannes Keintzel cita il caso del mais: “In nord Italia si coltiva quasi esclusivamente mais, la specie per antonomasia della rivoluzione verde, varietà ibride e quasi mai riproducibili. Il mais è una pianta ampiamente usata perché rende tanto, soprattutto per gli allevamenti intensivi, ma impoverisce i suoli e richiede moltissima acqua. L’irrigazione costa cara e gli agricoltori a volte devono abbandonare la coltivazione in corso perché non riescono a stare dietro ai costi di acqua e gasolio. Quasi ogni anno capita di vedere campi di mais secco, non arrivato a maturazione, perché il contadino non ha avuto i soldi per innaffiare”.

Con la rivoluzione verde il mais ha perso molto del suo patrimonio genetico, perché e stato iper-selezionato al fine di mettere in risalto alcuni suoi tratti con la conseguenza, però, che se ne sono persi altri, molto importanti, come il gusto e determinate caratteristiche che conferiscono resilienza, robustezza.

“Ti faccio un esempio: la diabrotica è un coleottero che mangia le barbe del mais e le sue larve attaccano la radice indebolendo la pianta e facendola cadere su se stessa. Per migliaia di anni, gli essudati radicali del mais “antico” attivavano dei nematodi che parassitavano le larve della diabrotica, riducendone la dannosità. Con la selezione del mais questa capacità è stata persa. A questo serve recuperare le varietà antiche, per avere maggiori possibilità di trovare la pianta più adatta, ancora integra, che non necessita di eccessivi trattamenti chimici”, spiega Johannes.

Il mais è stato introdotto nelle valli bellunesi attorno all’800 per superare i momenti di carestia e in molti ne sono rimasti invaghiti per l'alta resa che nulla aveva a che fare con quella del miglio, o dell'avena e dell'orzo (link). Il frumento veniva venduto ai ricchi e i poveri mangiavano il mais, con i vari problemi di pellagra che ne seguivano.

Continua Johannes Keintzel: “I terreni nel bellunese è da decenni che sono coltivati a mais, in monocoltura. La FAO stima che tra il 1900 ed il 2000 sia andato perduto il 75% della diversità agricola, molto meno citata di quella naturale ma altrettanto importante poiché la diminuzione della varietà colturale mette a repentaglio la sicurezza alimentare. La diversificazione è fondamentale, anche negli investimenti in banca è importante la diversità! Così in agricoltura: se non diversifichi, il rischio di avere delle perdite è enorme”.

E il monito della FAO andrebbe decisamente ascoltato. “Va recuperato ciò che è recuperabile. Grazie allo scambio dei semi  stiamo salvando molte varietà. I semi hanno una loro germinabilità, dopo un certo numero di anni possono non germogliare più. Noi cerchiamo di non lasciare i semi in esposizione sugli scaffali, belli etichettati a fare la polvere, ma di coltivarli il più possibile e di far sì che siano una risorsa per gli agricoltori. I semi sono di tutti, non dei privati. Questo è il concetto delle community seeds banks, in italiano case delle sementi”, afferma Johannes.

La diversità appare come la chiave per adattarsi ai problemi, climatici ed ambientali: va bene conservare le linee pure, ma i miscugli genetici sono le combinazioni vincenti. “Lo dice anche il genetista Salvatore Ceccarelli - conclude Johannes - i miscugli accelerano l'evoluzione della specie, perché le piante si scambiano più velocemente informazioni e poi sarà la natura a selezionare le caratteristiche vincenti, le piante si adattano meglio cosi”.

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