sabato 31 agosto 2019

Un villaggio inghiottito dal carbone in Mozambico. E una campagna per “il diritto a dire di no” - Marina Forti



Il carbone ha cambiato in modo drastico la vita di Moatize, distretto rurale nella valle del fiume Zambesi, nel Mozambico settentrionale. La miniera infatti ha costretto migliaia di persone a lasciare tutto e andarsene. Duzeria, una degli sfollati, ricorda: «Il governo ha detto che non potevamo restare là perché eravamo seduti su una montagna di soldi».
Al posto delle vecchie case infatti ora c’è una gigantesca miniera a cielo aperto, una delle più grandi al mondo. Il Moatize Coal Project è un buon esempio di cosa significa “economia estrattiva”, almeno per chi ci vive accanto. Il sito è in concessione alla Vale Moçambique, sussidiaria del gruppo brasiliano Vale SA, e occupa 23 mila ettari di territorio. Nel 2008 la compagnia ha cominciato a costruire gli impianti; nel 2011 ha avviato l’estrazione. È allora che, per fare spazio alla miniera, oltre 1.300 famiglie sono state trasferite 36 chilometri più lontano. La compagnia aveva promesso risarcimenti, 2 ettari di terra per famiglia e aiuti alimentari per i primi anni, dice Duzeria. Ma nel nuovo villaggio gli sfollati hanno trovato solo file di case sulla terra polverosa: «Erano già piene di crepe, perché non hanno le fondamenta».
Non che la vita prima fosse florida nei villaggi di Moatize. La comunità viveva di agricoltura e pesca in una economia di sussistenza: ma poteva vendere i prodotti al mercato del capoluogo, il più grande dei dintorni, ed era vicino all’ufficio postale, la scuola, il fiume. La nuova sistemazione invece è isolata, la terra inadatta all’agricoltura, il fiume non c’è, il mercato è lontano. Gli oleiros, fabbricanti di mattoni di argilla, hanno perso la materia prima e quindi la loro attività.
«Le prime volte che abbiamo visitato la comunità sfollata, la polizia impediva perfino l’ingresso agli estranei», spiega Erika Mendes, attivista di Justiça ambiental, gruppo mozambicano affiliato alla coalizione internazionale Friends of the Earth. In seguito la compagnia ha offerto di ridipingere le case e mettere tetti di zinco. Ci sono state proteste, represse duramente. Il governo ha offerto aiuti per ricostruire: «Ci hanno dato 300 meticais [circa 12 dollari] per stanza», continua Duzeria: «Ma non bastano, solo trasportare la sabbia e i mattoni fino al nuovo villaggio costa di più».
La miniera intanto è cresciuta: al primo scavo se n’è aggiunto un secondo, ancora più grande. La miniera impiega oltre 11 mila persone. La produzione è salita a 25mila tonnellate al giorno. Una miniera a cielo aperto è un grande buco in cui lavorano ruspe, uomini, nastri trasportatori, via vai di camion; intorno crescono montagne di carbone che poi verrà caricato su convogli di treni, la polvere nera vola ovunque.
«Non ci avevano detto che avrebbero dato a Vale la terra agricola migliore», aggiunge Fatima, che viene da uno dei villaggi di Moatize rimasti accanto alla miniera, in attesa forse di essere risistemati più lontano. Spiega che le esplosioni di dinamite fanno tremare le loro case col rischio di crollare; che la sua comunità respira polvere di carbone; che «non possiamo più usare la strada e non sappiamo come andare a raccogliere la legna».
Così, quando la compagnia ha fatto preparativi per aprire una terza miniera accanto alle prime due, la protesta è riesplosa. Il 4 ottobre scorso gli abitanti di Bagamoyo, villaggio adiacente agli scavi, hanno invaso la miniera bloccando il lavoro (ma senza danneggiare i macchinari, precisa Fatima). L’invasione si è ripetute in novembre; gli abitanti hanno bloccato la ferrovia per impedire il passaggio dei convogli di carbone. La polizia ha risposto con lacrimogeni, proiettili di gomma e anche veri. Ci sono stati parecchi feriti. La compagnia ha dovuto in parte sospendere le attività. Nel tentativo di far rientrare le proteste, i dirigenti della compagnia hanno promesso di annaffiare il carbone nei depositi perché voli meno polvere, o di aggiustare le case. Ma ormai agli abitanti non basta. «Invece di difenderci, il governo manda la polizia a picchiarci», dice Fatima. «La compagnia parla solo con il governo, dice che ha già versato i risarcimenti: ma noi non vediamo nulla. Basta, vogliamo che la compagnia tratti direttamente con noi». L’estrazione è ripresa solo alla fine di novembre, dopo la visita a Moatize di una commissione parlamentare, che ha riconosciuto le ragioni degli abitanti. Ma una soluzione resta lontana.
L’occasione per incontrare Duzeria, Fatima e alcune attiviste per la giustizia ambientale in Mozambico sono due eventi tenuti a novembre a Johannesburg, in Sudafrica: una sessione del Tribunale internazionale per i diritti dei popoli sul potere delle compagnie multinazionali, terzo e ultimo atto di una serie sull’industria estrattiva nella regione dell’Africa meridionale, e un “Social forum tematico” sulle miniere e l’industria estrattiva – a cui hanno partecipato centinaia di delegati venuti dall’Africa, dalle Americhe e dall’Asia: rappresentanti di movimenti popolari, organizzazioni per la giustizia ambientale, sindacati rurali, chiese, rappresentanti di popoli indigeni.
Il caso della miniera di carbone di Vale Moçambique infatti non è isolato. L’Africa meridionale è disseminata di conflitti: comunità sfollate per fare posto a progetti minerari, abitanti in rivolta. Spesso le forze di sicurezza rispondono con violenza.
«Assistiamo a una nuova corsa ad accaparrarsi le risorse dell’Africa, accompagnata da ogni sorta di violazione dei diritti fondamentali», osserva Brian Ashley, direttore del Alternative Information and Development Centre (Aidc, una delle forze sociali sudafricane che ha organizzato il Social Forum). In questa corsa sono lanciate compagnie minerarie occidentali (Europa e Usa restano complessivamente i primi investitori in Africa), ma ormai anche cinesi, brasiliane, indiane, o sudafricane: i Brics, i paesi definiti “emergenti”. In questa competizione, gli stati fanno a gara a offrire le condizioni migliori alle compagnie minerarie, mentre i costi sociali sono scaricati sulle comunità, continua Ashley: «Gli stati africani badano più proteggere gli investimenti che a garantire i diritti dei cittadini»
Una campagna globale per “il diritto di dire di no” a miniere e progetti di estrazione delle risorse naturali è stata lanciata a conclusione del “Social forum tematico” sulle miniere e l’economia estrattiva. Nella dichiarazione finale il Forum parla di “un sistematico attacco” ai  territori che, “attraverso l’espulsione dalla terra e la dislocazione forzata, la deforestazione, l’inquinamento e la contaminazione delle risorse idriche, minaccia di distruggere la vita delle comunità locali”. La campagna per “il diritto a dire di no” è uno strumento per collegare e rafforzare movimenti sociali dove esistono, e per rivendicare che le legislazioni nazionali e i trattati internazionali riconoscano alle comunità direttamente coinvolte da miniere e grandi opere il diritto a scegliere modelli diversi di sviluppo, e impongano limiti al potere delle grandi aziende multinazionali. Per questo il Forum sostiene anche la campagna perché le Nazioni unite approvino un Trattato su “Business e diritti umani”, che detti norme di condotta vincolanti alle imprese multinazionali.

(questo articolo è uscito in versione più ampia su Altreconomia del dicembre 2018)


venerdì 30 agosto 2019

E POI ARRIVA L’UOMO NERO. Diario di una famiglia italo-senegalese - Susy Cavone




“Mangia tutto altrimenti arriva l’uomo nero e ti porta via!”
Quante volte, da bambini, abbiamo ascoltato dai nostri genitori in tono minaccioso questa frase come risposta ad un nostro capriccio….
I nostri genitori non avevano certamente cattive intenzioni ma non possiamo negare il fatto che abbiano contribuito a creare nella nostra mente lo stereotipo dell’“uomo nero che rapisce i bambini se non fanno i bravi”.
Quanto a pericolosità, nel nostro immaginario infantile, l’uomo nero batteva addirittura l’orco di Pollicino e il Mangiafuoco di Pinocchio.
Poi ci è piombato addosso il mondo mediatico che ha decisamente stravolto le cose. Shrek, l’orco verde della Pixar Distribution ha dimostrato che l’orco diventa buono quando si innamora della bella ma risoluta fanciulla. Il povero Mangiafuoco è rimasto il cattivo della situazione ma è stato rappresentato in modo così colorato e magistrale da Benigni nel suo film che non ce la sentiamo proprio di considerarlo un delinquente, nonostante trasformi i bambini in asini.
All’uomo nero non è andata così bene.
Nell’immaginario collettivo, è colui che arriva in Italia per “rubare il lavoro, le case e ingravidare le nostre donne, non pagare le tasse ma soprattutto, oltre ad avere vitto e alloggio gratis, riceve anche 35 euro al giorno, mentre gli italiani non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese” (cit.).
È la favoletta raccontata da quei “soliti razzisti ignoti”, che poi si fermano con la loro macchina vicino a una tangenziale a chiedere una prestazione sessuale occasionale a una giovane nigeriana o senegalese o la storiella raccontata dalle solite razziste ignote che poi programmano, con largo anticipo, le vacanze estive in paesi come Costa D’Avorio o Kenya per collezionare selfies mozzafiato con giovani e aitanti “Big Bamboo”.
Noi portatori sani di rispetto per le culture altre, estremamente convinti dell’importanza della “pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge per tutti”, sappiamo bene, invece, che quei 35 euro sono frutto di un finanziamento dell’Unione Europea e che non vengono dati direttamente all’immigrato ma sono utilizzati per finanziare le spese sostenute dalle cooperative che si occupano della loro accoglienza. Sappiamo quindi che ivi sono compresi i costi del vitto e dell’alloggio, delle spese mediche e che una piccola quota copre anche i programmi per l’inserimento lavorativo. Sappiamo che all’immigrato, alla fine, restano solo circa due euro per sopperire ai suoi bisogni giornalieri.
A questo punto, mi piacerebbe promuovere un sondaggio presso i “soliti razzisti ignoti” e chiedere loro cosa comprerebbero con soli due euro giornalieri….
Ma, ripensandoci, preferisco impiegare le battiture a mia disposizione, per spostare l’attenzione verso un’altra tipologia di razzismo, quello che io chiamo “Razzismo silenzioso” cioè quello subìto da colei che sceglie un uomo “di colore” come compagno di vita.
Non parlerò degli uomini che scelgono di iniziare una relazione con una “negra”, perché in questo caso le cose cambiano decisamente. L’uomo in questione diventa l’essere più fortunato del pianeta Terra e sarà oggetto di lusinghe e battutine maliziose per il resto della sua vita, perché l’immagine della bellissima, prosperosa e sottomessa donna africana, è stereotipo diffuso fin dalla notte dei tempi, nel mondo occidentale.
Una donna bianca non può e non deve scegliere un compagno nero, invece.
“Moglie e buoi dei paesi tuoi”. E se poi la relazione va male, non perdono occasione di dirti “te la sei cercata”.
Lo dico per esperienza vissuta.
Sono passati vent’anni anni da quando decisi di iniziare una relazione, culminata poi nel matrimonio, con un cittadino senegalese, nella città di Bari.
Si sa al cuore non si comanda, ma la comunità barese non la vedeva esattamente nello stesso modo allora.
È pur vero che nel lontano 1996 (non poi così lontano, a dire il vero…) non era usuale vedere due giovani adulti di differente colore tenersi per mano o scambiarsi dei baci. Ciò era ritenuto offensivo alla tradizione religiosa cattolica, ma soprattutto, destava un senso di nausea; più o meno lo stesso senso che prova ancora oggi qualcuno a guardare due uomini o due donne che si baciano; tanto per chiarirci.
Ciò che era ed è interessante, oltre che riprovevole, è che una coppia italo-cinese, per esempio, non destava e non desta ancora oggi lo stesso sgomento di una coppia italo-africana.
E mentre negli anni ’90 si moltiplicavano convegni locali e nazionali, manifestazioni antirazziste che portavano avanti il tema dell’uguaglianza fra i popoli, nella vita reale erano solo belle parole e nient’altro.
Nessuno parla mai delle situazioni di discriminazione di cui sono oggetto le cosiddette “coppie miste” e che riguardano anche le semplici scelte di vita quotidiana. Quelle delle quali fummo protagonisti io e il mio, ormai ex, marito furono molteplici e paradossali.
Noi per esempio riscontrammo notevoli difficoltà a trovare un municipio che decidesse di accogliere la nostra richiesta di celebrare il matrimonio con rito civile. Difficoltà nel trovare un fotografo per quel giorno per noi così importante perché tutti i fotografi contattati ci dissero che non potevano accettare l’incarico in quanto non avevano filtri adatti affinché potessero rendere al meglio il volto così scuro del mio futuro marito! Il ginecologo che avevo scelto mi liquidò dicendomi che mi affidava ad un suo collega perché aveva deciso di non prestare più il suo servizio in un ospedale pubblico ma solo in forma privata e noi non potevamo permettercelo dal punto di vista finanziario. Me lo ritrovai poi in sala parto con sua grande sorpresa. Quindi non aveva mai smesso di lavorare in forma convenzionata in quell’ospedale…
Nel 1997 io e il mio ex marito abitavamo ad Adelfia, un piccolo comune in provincia di Bari e nonostante la presenza di una numerosa comunità senegalese in loco, qualcuno poco accettò quel matrimonio misto. I residenti vennero numerosi ad assistere alla celebrazione del nostro matrimonio, notevolmente incuriositi; la stessa curiosità con la quale ci si reca al circo a vedere gli animali ammaestrati.
Una volta i bambini del paese, mentre camminavo con mio marito, mi lanciarono le pietre sul pancione urlandomi che avrei dovuto solo “portarmelo a letto un “nero” e non sposarlo!”. La prima pediatra di mio figlio non volle nemmeno visitarlo e frettolosamente mi congedò consigliandomi di rivolgermi a una sua collega, appena ritornata dall’Africa e quindi più preparata in merito.
Per fortuna i miei figli non hanno subìto gravi episodi di discriminazione, tranne una frase di un bambino alla Scuola Primaria di Primo Grado, che consigliò a mia figlia Amina di immergere il padre nella varichina in modo tale da avere una famiglia normale!
Però ricordo anche, ancora oggi sorridendo, di quella volta che mio figlio Omar rischiò di essere addirittura sospeso perché ascoltò la maestra parlare con alcune sue colleghe del fatto che non era un bambino adottato ma che aveva “la madre bianca e il papà nero” e lui recriminò specificandole che suo padre veniva dal Senegal che si trovava nel continente africano, mentre sua madre era nata in Italia, che si trovava in Europa. Fui contenta della spiegazione precisa e disarmante data dal mio Omar alla sua maestra, perché avevo risposto alle prime domande dei miei bambini sul perché il padre fosse di un altro colore, proprio nello stesso modo: attraverso il concetto di nazionalità diverse e con il planisfero alla mano.
Nonostante le difficoltà, nel nostro percorso di vita (mio e dei miei figli) ho sempre cercato di insegnare loro che non conta il colore della pelle ma contano le idee di una persona. Non è stato semplice spiegare loro che essere figli di una coppia mista significava essere portatori delle singolarità culturali e sociali di due popoli che li avrebbe portati, nel tempo, a un’apertura mentale notevole, ma al contempo avrebbe rappresentato una grande responsabilità: quella di educare il mondo all’idea che le diversità sono un valore aggiunto, che lo arricchiscono di colore e calore.
Per questo motivo, ho sempre detto ai miei due figli che avrebbero dovuto avere molta pazienza perché non sempre avrebbero incontrato sulla loro strada persone capaci di comprendere tale valore.
Omar e Amina ormai sono adulti.
Mi sono sempre posta numerose domande.
In che modo abbiano percepito questa duplice portata culturale e se talvolta ne abbiano avvertito il peso. Se sono riuscita a infondergli l’amore per quel Senegal che non hanno mai visto, dato che loro padre ha scelto di seguire la sua strada, lontano da noi. Se si sentono “diversi” per quel colore della pelle che li caratterizza ma che ai miei occhi li rende unici. Se hanno mai sentito il peso degli sguardi sdegnosi che mi rivolgeva la gente, mentre io camminavo a testa alta con loro al mio fianco. Se talvolta, in cuor loro, mi hanno giudicata per la mia scelta di andare contro le regole di un sistema, quello “dei bianchi”, infrangendole per amore; semplicemente per amore.
Talvolta le risposte alle nostre domande arrivano all’improvviso, nel momento in cui smettiamo di porgercele.
“A mia madre, donna bianca con due figli neri in un mondo razzista.
A mio padre, immigrato a diciotto anni dal Senegal in Italia.
A mio fratello Omar.
A Stefano, il mio migliore amico che mi ha sempre detto che gli piace il colore della mia pelle”.
Questa è la dedica con la quale mia figlia ha concluso il suo esame di Stato.
Sono passati tanti anni, eppure ricordo bene il volto e il tono di voce sdegnato di colui che mi disse che avevo ancora l’odore dell’Africa sulla mia pelle, nonostante fossi separata da qualche anno.
Ancora oggi qualcuno mi chiede il perché di una scelta così azzardata e quasi da pioniera. Rispondo sempre allo stesso modo: non mi sono mai pentita della mia scelta.
Mi sono innamorata di un uomo che proveniva da un mondo lontano; un mondo ricco di colori, tradizioni e culture che ho avuto la curiosità di conoscere. Ciò non può oggi essere considerata ancora una colpa.

giovedì 29 agosto 2019

L’Amazzonia brucia anche per produrre la carne che mangiamo - Stefano Liberti


Da gennaio a oggi sono stati rilevati 74mila incendi in Brasile, più di 39mila nelle zone coperte dall’Amazzonia. In totale, si registra un aumento dell’83 per cento rispetto al 2018. I dati forniti dall’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe) – il cui direttore Ricardo Galvão è stato licenziato dal presidente brasiliano Jair Bolsonaro proprio per aver diffuso queste cifre – non lasciano dubbi sul fatto che ci troviamo di fronte a una situazione allarmante in Amazzonia. Le immagini della foresta che brucia stanno facendo il giro del mondo. Sono state rilanciate dallo spazio dall’astronauta Luca Parmitano. Hanno suscitato la mobilitazione di diversi attori di Hollywood.
Ma perché la foresta brucia, e perché sta bruciando più degli anni passati? Quanto sta accadendo in Brasile nel territorio della cosiddetta “Amazzonia legale” – che comprende la foresta vera e propria e più a sud la parte settentrionale del Mato Grosso – sembra il risultato di una combinazione di eventi in parte locali in parte internazionali.
È fin dall’epoca della dittatura che l’immenso nordovest brasiliano è area di conquista: “Integrar para não entregar” (Integrare per non cedere) era negli anni settanta e ottanta del novecento la parola d’ordine della giunta al potere. Preoccupati che il ricco territorio suscitasse la bramosia di potenze straniere, i militari hanno lanciato al tempo programmi di sviluppo agricolo e di sfruttamento minerario, costruito infrastrutture, facilitato il trasferimento di coloni dal sud. Con il ritorno della democrazia, l’Amazzonia è diventata terreno di scontro permanente tra quanti ne vogliono “continuare la colonizzazione” e quanti aspirano a preservarla il più intatta possibile.

La svolta
Se i governi di sinistra di Luiz Inácio Lula da Silva e Dilma Rousseff hanno cercato a loro modo una sintesi tra queste due visioni, a volte pendendo verso gli interessi dell’agroindustria, l’arrivo al potere di Jair Bolsonaro ha segnato un punto di svolta. Il nuovo presidente si è apertamente schierato per una revisione dei vincoli ambientali e ha dato il via libera – almeno a parole – a una nuova politica di conquista. L’aumento degli incendi risponde a questa logica: il fuoco disbosca territori che possono essere sfruttati in altro modo, in particolare per il pascolo estensivo e l’agricoltura industriale.
Ma è necessario inserire il fenomeno in un contesto più ampio: dietro agli incendi e la deforestazione dell’Amazonia non c’è solo la volontà politica di una leadership poco sensibile ai temi ambientali. C’è un sistema di produzione e di consumo alimentare che ha nel Brasile – e in quelle aree del Brasile – uno dei propri baricentri. È un sistema dove gran parte della popolazione mondiale fonda la propria dieta sul consumo di proteine animali, con un incremento notevole in alcuni paesi a rapida crescita, come la Cina.
Se il consumo di carne aumenta, aumentano gli animali da allevare, e aumenta la necessità di produrre materie prime agricole per i loro mangimi. Il sistema è stato chiamato “grain-oilseed-livestock complex” dallo studioso canadese Tony Weis, ed è basato su una correlazione quasi simbiotica tra gli animali allevati intensivamente (livestock), i cereali (grain) e la soia (oilseed) utilizzati per nutrirli. Gli allevamenti intensivi hanno bisogno di terre su cui si producano mais e soia, elementi essenziali dei mangimi animali. Ormai, sempre secondo Weis, un terzo di tutte le terre arabili è destinato non alla produzione di cibo per l’alimentazione umana, ma a prodotti per la zootecnia.
Nel corso degli ultimi anni, il Brasile è diventato un protagonista imprescindibile di questo sistema. Il paese sudamericano è il primo produttore mondiale di soia. La regione preamazzonica del Mato Grosso è un’immensa monocoltura da cui i semi sono esportati ovunque, principalmente in Cina (46 per cento del totale) e in Europa (12 per cento). Anche la zootecnia italiana fa parte di questo meccanismo: ogni anno il nostro paese importa circa 1,3 milioni di tonnellate di soia, la metà delle quali dal Brasile.
È sulla spinta di questa domanda in crescita che la frontiera agricola brasiliana si sta spostando sempre più a nord, rosicchiando gradualmente l’Amazzonia. “Oggi il 19 per cento della foresta è stato già disboscato e sostituito principalmente da coltivazioni di soia”, afferma Rômulo Batista, responsabile foreste di Greenpeace Brasile.
Questo per dire che gli incendi, il disboscamento, la conversione delle terre non sono novità introdotte da Bolsonaro. Sono frutto di una tendenza che va avanti da almeno trent’anni e che è ben visibile lungo il Rio delle Amazzoni e i suoi affluenti, dove le principali aziende di commercializzazione di soia hanno costruito porti privati e impianti di esportazione. Il presidente brasiliano sta solo accelerando e facilitando un processo in atto da tempo.
Un’accelerazione che è dovuta anche ad altre congiunture internazionali, apparentemente più lontane. Nel momento in cui Donald Trump ha scatenato la guerra dei dazi contro la Cina, Pechino ha reagito imponendo una tariffa di ingresso del 25 per cento su alcune merci provenienti dagli Stati Uniti, fra cui la soia. Le ditte produttrici di mangimi in Cina si sono così trovate a doversi rifornire altrove. Risultato: nel 2018 i produttori brasiliani hanno esportato il 30 per cento di soia in più verso la Cina.
L’insieme di questi due fattori – una maggiore flessibilità del governo brasiliano e una maggiore richiesta degli importatori – spiega l’aumento del disboscamento e il rinnovato interesse per trovare aree libere da destinare alla produzione.
La gravità di quanto sta accadendo richiede soluzioni efficaci e tempestive. Ma il problema andrebbe affrontato con un duplice approccio: sia a monte, dove vengono appiccati gli incendi per disboscare la foresta; sia a valle, da dove parte la richiesta di alimenti che si producono in quelle aree disboscate. Se i roghi stanno suscitando un’ondata di commozione globale, per l’alto valore simbolico dell’Amazzonia e per il suo ruolo nell’assorbimento di anidride carbonica e nella capacità di arginare il riscaldamento globale, una riflessione sul costo ambientale degli allevamenti intensivi e sugli effetti che hanno a livello mondiale appare un’urgenza sempre più difficile da rimandare.

A questo link è possibile guardare per intero il documentario Soyalism, di Stefano Liberti ed Enrico Parenti.

da qui

mercoledì 28 agosto 2019

L’avvocata kenyota che si batte contro il piombo. E vince – Marina Forti




Al tribunale di Mombasa, in Kenya, è in corso un processo molti aspetti eccezionale. È la class action lanciata da migliaia di abitanti di Owino Uhuru, una delle poverissime borgate che circondano la città, contro “Metal refinery EPZ”, ditta che lavorava vecchie batterie d’automobile per recuperarne il piombo. I querelanti accusano i responsabili dell’azienda, e gli amministratori pubblici che nel 2007 l’hanno autorizzata a insediarsi nella loro borgata, di aver scaricato piombo e altre sostanze tossiche senza nessuna precauzione, avvelenando l’aria e l’acqua e pregiudicando la salute dei lavoratori e degli abitanti.
Il caso di Owino Uhuru chiama in causa l’industria del recupero di materie prime secondarie. Nella sola Africa si stima che ogni anno 1,2 miliardi di tonnellate di batterie usate vengano “lavorate” per estrarne circa 800mila tonnellate di piombo, una quantità pari all’8% della produzione mondiale di questo metallo (sono dati del Lead Recycling Africa Project, 2016). Ma è un lavoro fatto spesso in modo artigianale, nei cortili di casa, a mani nude, o in stabilimenti come quello della periferia di Mombasa che non adottano alcuna precauzione.
Forza trainante della protesta di Owino Uhuru è Phyllis Omido, una giovane avvocata di Mombasa che nel 2009 era stata assunta dalla EPZ: doveva occuparsi delle “relazioni con la comunità”, e il suo primo incarico è stato preparare un rapporto sull’impatto ambientale dello stabilimento. Con un team di esperti, Phyllis Omido ha cominciato a raccogliere osservazioni e dati. “Vedevamo il fumo nero e denso che usciva dai camini e si diffondeva sulla borgata; i bambini faticavano a respirare, a volte svenivano”, spiega. Quel fumo, diffuso soprattutto la notte perché fosse meno visibile, era pieno di sostanze tossiche e in particolare di piombo. Poi c’erano i reflui liquidi scaricati attraverso un’apertura del muro di cinta, senza alcun trattamento, in rigagnoli che finivano nei corsi d’acqua: “Quindi l’acqua che gli abitanti usavano per lavarsi, fare il bucato, e anche per bere e cucinare, era avvelenata”.
“Nessun essere umano dovrebbe vivere in condizioni simili”, continua l’avvocata (che ho incontrato a Roma il 20 giugno scorso, dove era ospite del Consiglio nazionale forense). Nella relazione consegnata alla direzione aziendale Omido raccomandava di trasferire la fabbrica più lontano dall’abitato; l’azienda ha ignorato le conclusioni. Era il 2009. Proprio in quel periodo il figlio della stessa Phyllis Omido, un bimbo di pochi mesi, si è ammalato di febbri violente di cui nessuno capiva la causa, finché un dirigente dell’azienda ha suggerito che fosse un avvelenamento da piombo. I test clinici hanno confermato: il bimbo aveva nel sangue un livello di piombo allarmante, presumibilmente assorbito con il latte materno.
È allora che la giovane avvocata ha dovuto fare una scelta. L’azienda aveva pagato le esorbitanti spese ospedaliere del suo bambino, spiega: ma lei non se l’è sentita di restare in silenzio, di fonte a un caso di avvelenamento collettivo. Così si è licenziata. Con poche altre persone ha cominciato a incontrare gli abitanti e spiegare come stavano le cose. Ha fondato un gruppo indipendente, il Center for Justice, Governance and Environmental Action.
Non è stata una battaglia facile, racconta. La raffineria EPZ era proprietà di un esponente del governo e di due imprenditori indiani, e si era insediata nello slum di Mombasa su invito del governo, spiega Omido: “La presentavano come un ‘trasferimento di tecnologie’. Dicevano che la fabbrica avrebbe portato posti di lavoro in una delle zone più povere della città. Quello che non dicevano è che quella fonderia era tecnologia obsoleta, ormai bandita in Europa e anche in Asia, e nessun altro Paese l’avrebbe autorizzata”, dice Phyllis Omido. Il gruppo di legali-attivisti ha cominciato a raccogliere testimonianze, documentazione medica, dati. Hanno fatto analizzare il sangue di alcuni bambini della borgata: tutti avevano livelli di piombo quasi incredibili, fino a 37 microgrammi per decilitro di sangue (la soglia considerata d’attenzione negli Stati Uniti è 10 microgrammi per decilitro). Hanno ottenuto che i centri di salute del governo avviassero un’indagine. Omido racconta che spesso era lei ad accompagnare abitanti, magari analfabeti, a fare le analisi. A volte i medici ripetevano i test perché non potevano credere a ciò che trovavano.
“Uhuru è un quartiere molto povero, e quando ha aperto la fabbrica tutti sono andati a lavorarci”, spiega Omido. I lavoratori erano i primi esposti: come unica protezione ricevevano un paio di guanti di cotone al mese, che in pochi giorni cadevano a brandelli; allora continuavano a lavorare acidi e piombo a mani nude. Però vedevano i dirigenti entrare nello stabilimento con tute protettive totali. Alcuni lavoratori sono morti, altri si stanno spegnendo.
Hanno cominciato a morire le galline che razzolavano tra le baracche di Owino Uhuru, libere di beccare e bere nei rigagnoli: “Le facevamo analizzare e i medici dicevano di non mangiarle, erano avvelenate”. Erano avvelenati anche i pesci degli stagni, cioè la principale fonte di proteine della comunità.
C’era abbastanza per imporre la chiusura della fabbrica, sostiene Omido: ma l’ente ambientale del governo (la National Environment Management Agency) non ha fatto nulla. Sono cominciate quindi le proteste, lettere, manifestazioni pacifiche, blocchi stradali.
(…) La battaglia di Owino Uhuru non è finita. Innanzitutto perché va avanti il procedimento legale: sono passati  due anni da quando le denunce e i dati clinici raccolti in questi anni sono confluiti nella “class action”, e finalmente nel marzo del 2018 presso il tribunale di Mombasa è cominciato il dibattimento – che però si trascina. I querelanti chiedono la bonifica e 1,6 miliardi di scellini kenyani (13 milioni di euro) in risarcimenti.  Resta aperta anche la battaglia per l’accesso ai medicinali e “per ripristinare ciò che gli abitanti avevano prima: la possibilità di pescare, di attingere acqua, di avere accesso ai beni naturali e il diritto al proprio stile di vita”.
Resta anche una battaglia più generale per la conoscenza, l’informazione e la trasparenza, insiste Phyllis Omido (che nel 2015 ha ricevuto il premio ambientale della Fondazione Goldman, detto anche il “Nobel verde”). “Quella fonderia non avrebbe mai dovuto essere autorizzata, neppure per le leggi del Kenya”, spiega, e le autorità governative ne erano consapevoli. “Ma questo gli abitanti non potevano saperlo. Non si tratta solo di Owino Uhuru, vogliamo riaffermare il diritto di tutti i cittadini ad avere le informazioni necessarie a capire cosa succede, ad esempio quando una fabbrica si insedia accanto alle loro case. Il diritto alla salute è di tutti. Per questo dico che è una questione di diritti e di giustizia ambientale”.

(L’articolo completo è su Altreconomia del 1 settembre 2018)


lunedì 26 agosto 2019

Notizie da un altro pianeta: il rimboschimento di Cina e India - Pierluigi Fagan



La NASA ha pubblicato su Nature uno studio incredibile. Tramite osservazione satellitare, si sono accorti che il pianeta Terra è più verde di venti anni fa. Se ne sono accorti dopo un po’ dall’inizio del monitoraggio appunto venti anni fa, ed avevano pensato che questa ripresa del verde planetario fosse un prodotto inaspettato dell’esubero di CO2, una sorta di effetto benefico collaterale all’effetto ritenuto malefico dell’eccesso di emissioni, una applicazione della logica Zichichi, un maitre à penser che ultimamente ha molto seguito qui da noi.

Col tempo però, comparando le rilevazioni su mappe, hanno scoperto che tutto il rinverdimento planetario era concentrato in due zone di questo strano altro pianeta, le zone dette “Cina” ed “India”. Caramba, che sorpresa! Hanno poi scoperto che gli abitanti di questo strano altro mondo, i cinesi, usano quello che chiamano “Esercito Popolare” per piantare alberi che contrastino l’avanzata dei deserti interni ed anzi, pare che questi strani esseri si siano messi in testa di rubare spazio al deserto stesso, piantando alberi a ripetizione. Un esercito di vangatori, che buffa idea, no? Mettete dei fiori nei vostri cannoni, diceva una antica canzone … . Si sono anche detti sorpresi del fatto che, alla stessa NASA, avevano letto i giornali che mostravano quanto pazzi fossero questi cinesi che si auto-soffocavano con l’emissione di CO2 a causa della dissennata idea di far avanzare il loro sviluppo. Ma allora non erano così pazzi se il satellite dotato addirittura di un Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer, o Modis (un po’ di auto-pubblicità su gli effetti meravigliosi degli investimenti in tecnologia ci vuole sempre, no?), mostrava questa massiccia avanzata del bosco cinese.

Quanto a quegli altri alieni degli indiani, alla NASA hanno scoperto che a furia di fare figli che chiedevano di mangiare, si sono messi a coltivare sempre più spazio con culture multiple.
Insomma, i bizzarri indiani continuando pervicacemente a volersi nutrire con i vegetali, con l’agricoltura invece che le manipolazioni molecolari driven by biotecnologie di società quotate in borsa (creazione di valore dogma centrale della nostra forma di civiltà avanzata), piantano cose che poi crescono aumentando il verde. Che buffo, no?
Certo, che i cinesi siano strani visto che si ostinano a definirsi addirittura "comunisti", si sa, ma gli indiani sarebbero pure "democratici". Cose dell'altro mondo...

E dire che invece, qui nel nostro pianeta, il nostro campione del nuovo Sud America liberato dalla presa dell’illiberismo chavista-lulista, Bolsonaro, il verde lo sta eliminando. Mah, comunque in quell’altro strano pianeta del quale non avremmo notizie senza l’occhio vigile della NASA, anche gli etiopi stanno piantando alberelli, 350 milioni per la precisione in meno di dodici ore, giusto ieri. Su quell'altro pianeta sottosviluppato, deve esserci una strana epidemia di ragion pratica ...

Mano umana (nome della strana specie che abita questo altro pianeta di esseri strani), non mano invisibile. La mano invisibile il verde lo distrugge per creare valore salvo poi mandare ragazzine con l’aria truce in giro per le grandi assemblee dei potenti a far da coscienza infelice che ammonisce. Qui da noi, allora, si scrivono corposi libri sull’Antropocene, usando carta che è presa dagli alberi che Bolsonaro sta buttando giù. Lì invece nell’altro pianeta, non scrivono libri ma prendono zappe e vanghe e piantano semi.

Chissà, magari invece che lo scontro delle civiltà e la guerra dei mondi, ci converrebbe copiare questi alieni animati da una ragione strumentale così diversa dalla nostra? Chissà, forse è una fake news della sezione orientalista della NASA …

["Richiede una mente davvero insolita intraprendere l'analisi dell'ovvio" A. N. Whitehead]

*tratto da Facebook e da 
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-notizie_da_un_altro_pianeta_il_rimboschimento_di_cina_e_india/82_2979


domenica 25 agosto 2019

Caro turista ti scrivo… - Sandro Roggio



Caro turista, le ho già scritto qualche anno fa. Dopo la pubblicazione, su La Nuova, di una sua lettera preoccupata per  la Sardegna  assediata dalle  brutture.
Spero sia sempre interessato alle sorti dell’isola. A saperne di più  di cosa accade oltre  la scorza costiera. E di chi sta qui pure d’inverno, quando il mare biancheggia. La prova che  l’anima sarda esiste  non  solo  nell’etichetta di una birra.
So che non apprezza le messinscene, la folklorizzazione per compiacere i bagnanti (i carnevali estivi, con l’issohadore nella battigia  – brrr!). Si intuisce la sua insofferenza  per le sciatterie, come l’imbarazzante varo del “treno verde” e i palloncini in volo sul mare (dove fatalmente finiranno). Piccolezze,  in fondo, rispetto agli  incendi che  divorano  centinaia e centinaia di ettari di preziosa vegetazione ancora in queste ore. Altro che  sabbia e conchiglie di Gallura e Baronia in vendita su eBay, di cui comunque è bene occuparsi.
Sarebbero utili le sue rimostranze, specie se arrivassero a chi  dovrebbe dare risposte sul futuro del turismo in Sardegna. E pure  per sfatare la nomea dei viaggiatori postmoderni poco propensi a guardarsi attorno (le vacanze apatiche  – secondo Marc Augè).

D’altra parte si sa: nel grande esercito del selfie sono molti  i cultori della vacanza uguale dappertutto. E a una domanda grossolana corrisponde purtroppo un’offerta dimessa, scolorita.  Sapori senza saperi.  Come si capisce, appunto, dai menu di piatti pronti scongelati  a microonde. O dalle vetrine apparecchiate di patacche (dal corallo di plastica ai coltelli pattadesi made chissà dove), perché  ciò che si compra  in Sardegna, 8/10,  viene da fuori.
Chissà quanto pesa sul decremento del flusso di villeggianti la delusione di quelli  esigenti come lei, sempre più numerosi secondo il trascurato rapporto Aci- Censis 2001. Verosimile che chi spende troppo – per arrivare al paradiso promesso – possa rimanerci male a ritrovarsi in luoghi troppo uguali a quelli dietro casa.
Nel web l’insoddisfazione. Un danno serio se montasse in risposta a disservizi intollerabili, tipo i divieti di balneazione da troppi anni in rinomate località; o la circostanza ignorata che raggiungere i villaggi vacanze con mezzi pubblici è quasi impossibile; ma il cielo è sempre più blu, uh-uh, uh-uh.
Il fastidio per  il degrado  di  paesaggi  è in crescita. Con qualche inquietudine qua e là, finalmente. Perché la materia prima compromessa sarebbe il crac: nonostante  lo sforzo  di tanti impegnati con competenza e passione nell’accoglienza di turisti. 
La Sardegna a rischio: lei è insieme causa incolpevole del suo logorio, ma potenziale impedimento per future manomissioni e falsificazioni.  Le rimostranze  del cliente, che ha sempre ragione, possono prevenire lo schianto, e guai se si spargesse la voce  che la Sardegna  non vale  più un  viaggio troppo faticoso-dispendioso.  
Ecco,  caro turista,  vorremmo contare sul suo contributo per  difendere l’isola  dai malintenzionati  e  dagli improvvisatori seriali che ripetono lo stesso sfigato slogan che basta  “fare sistema” per avere  turisti tutto l’anno (come ha osservato Luca Rojch su La Nuova Sardegna); e rilanciano le  promesse #continuità territoriale #destagionalizzazione che non ci hanno dato più aerei/più navi, nè più turisti in primavera (e interrogarsi  sull’ esagerato successo  di  Malta-Cipro-Croazia – di cui ha scritto Il Corriere?).
Le notizie che arrivano dai palazzi della Regione non sono tranquillizzanti, perché stringi- stringi lo sviluppo  turistico consusamente invocato è nell’ arruffato impasto con il ciclo edilizio liberato dalle regole di tutela dei territori, proprio quando su paesaggio-cultura (e accessibilità) s’immagina il Grand Tour delle nuove generazioni.
Per questo sarebbe bene se lei lasciasse traccia del suo auspicio:  di ritrovarle intatte quelle dune e quelle falesie, e che nessuno piano-casa  impedisca la vista del  mare dalla terrazza  della suo ristorante preferito. Lo dica  in giro, dal barbiere e al benzinaio, lo  twitti e  lo ritwitti, spiegando che non serve a nulla ampliare  alberghi  con  indice di occupazione attorno al 50% nel mese di agosto,  un’inezia nel resto dell’anno.
Ha titolo per farlo,  non solo da cliente affezionato,  ma perché la Sardegna  è in buona parte  “bene paesaggistico” d’interesse nazionale/europeo.  È anche un po’ sua per legge.

sabato 24 agosto 2019

Il riscaldamento del clima minaccia la terra – Marina Forti




La terra è sotto pressione, i terreni e le fonti d’acqua del pianeta sono sottoposti a uno sfruttamento “senza precedenti” nella storia umana, avverta un nuovo rapporto delle Nazioni unite. E lo sfruttamento di queste risorse fondamentali, combinato con l’impatto del cambiamento del clima, minaccia la capacità del pianeta di nutrire la specie umana.
Siamo abituati ad associare la questione del cambiamento climatico alla produzione di energia, ed è giusto: è bruciare petrolio, carbone o gas che genera i gas “di serra” che si concentrano in modo abnorme dell’atmosfera terrestre e riscaldano il pianeta.
Anche la relazione tra noi umani e la terra però ha dirette conseguenze sul clima. Come produciamo cibo, se proteggiamo le foreste o continuiamo a disboscare. Non solo: se le popolazioni rurali hanno accesso alla terra, o ne vengono cacciate; che tipo di agricoltura pratichiamo e quali consumi alimentari prevalgono; se la sicurezza alimentare è garantita a tutti o solo a pochi: tutto questo è legato al riscaldamento terrestre. Tra la crisi del clima e molte crisi sociali c’è una relazione diretta.
Di questo tratta il rapporto su “Terra e cambiamento del clima” (Climate Change and Land, Summary for Policymakers) diffuso giovedì 8 agosto dal Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il comitato scientifico istituito dalle Nazioni Unite per fornire ai governi valutazioni scientifiche condivise sui cambiamenti climatici.
Il rapporto, redatto da un centinaio di ricercatori di 52 paesi, conferma ciò che molti scienziati e attivisti sostengono da tempo: se non cominciamo da subito ad abbandonare i combustibili fossili, le conseguenze della crisi del clima sulla terra e sul sistema alimentare globale saranno catastrofiche – anche se non equamente distribuite, perché colpiranno soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili.
Riassumiamo. Sappiamo che ogni cambiamento nelle condizioni del territorio influisce (e molto in fretta) sul clima circostante e su quello globale, perché può modificare il regime delle piogge e le temperature nel raggio di centinaia di chilometri.

La terra colonizzata dagli umani
Oggi la specie umana usa circa il 70 per cento della superficie terrestre libera da ghiacci, ci ricorda il Ipcc. Tra un quarto e un terzo delle terre disponibili sono usate per produrre cibo, mangimi, fibre tessili, legname, energia. L’agricoltura usa circa il 70 per cento dell’acqua dolce disponibile.
Nell’ultimo mezzo secolo, l’effetto combinato della crescita della popolazione umana e del cambiamento dei consumi alimentari ha prodotto una pressione senza precedenti sulla terra e le fonti d’acqua. Dal 1961 a oggi ad esempio la produzione pro capite di carne e oli vegetali è raddoppiata.
Un uso così intenso della terra ha esacerbato il degrado dei suoli, la perdita di nutrienti, erosione, desertificazione e così via. Il cambiamento climatico aggrava tutto: con eventi estremi più frequenti e più intensi, siccità, alluvioni, ondate di caldo, l’erosione delle coste, il livello dei mari che sale e il permafrost (le terre perennemente ghiacciate) che si scioglie. E tutto questo minaccia direttamente proprio la produzione di cibo.
Il cambiamento climatico ha già messo a repentaglio la sicurezza alimentare in molte regioni del pianeta, afferma il Ipcc. I rendimenti agricoli sono ormai declinati in molte regioni tropicali e subtropicali, e così anche la produttività dei sistemi pastorali in Africa. Abbiamo più regioni esposte alla desertificazione (in Asia e Africa, e nel Mediterraneo), agli incendi (nelle Americhe, Africa meridionale e Asia centrale), ai cicloni (le zone costiere tropicali e subtropicali). Avremo verosimilmente più persone costrette a spostarsi per cercare sopravvivenza, all’interno delle regioni e all’esterno. Vedremo sempre più conflitti per la terra e risorse sempre più scarse. Questi allarmi sono già circolati, ma qui abbiamo una conferma autorevole.
Ancora un dato: agricoltura, attività forestali e altri usi della terra rappresentano circa il 23 per cento della quantità totale di gas di serra di origine antropogenica (cioè generati dalle attività umane), calcola il Ipcc (il 13 per cento dell’anidride carbonica, 44 per cento del metano e 82% degli ossidi di azoto). Se si sommano le attività pre e post produzione, arriviamo a oltre un terzo delle emissioni.
Dunque, come usiamo la terra può fare una differenza fondamentale, per mitigare l’impatto del cambiamento del clima.
Il punto è come. Il documento del Ipcc parla di organizzare la produzione alimentare e gestire le foreste in modo sostenibile, per conservare gli ecosistemi e i nutrienti nei suoli. Raccomanda di eliminare gli sprechi (oggi circa un terzo del cibo prodotto viene scartato per vari motivi, spiega lo studio), e di rivedere la struttura dei consumi alimentari: nel mondo ci sono circa 2 miliardi di adulti in sovrappeso o obesi, mentre 821 milioni di persone sono denutrite.
(Molti si aspettavano dal Ipcc un appello a diventare vegetariani o vegani: ma sarebbe stato riduttivo. Il documento parla di diversificare il sistema alimentare, di diete bilanciate con più vegetali e legumi e proteine animali prodotte in modo non distruttivo – e meno carne, sì, perché l’allevamento intensivo è insostenibile).
Alcune misure evocate dal documento hanno impatto immediato: ad esempio preservare le foreste di torba, le mangrovie e le zone umide, perché intrappolano tonnellate di carbonio. Altre sono indispensabili ma daranno frutti più a lungo termine, come ripiantare alberi e rigenerare suoli degradati. In ogni caso sono tutte possibili, urgenti, e spesso già praticate.
Il Ipcc però sottolinea due cose importanti. La prima è che c’è un limite al possibile uso della terra per “mitigare” il cambiamento climatico. Se ad esempio volessimo puntare tutto sugli agro-carburanti dovremmo usare almeno 7 milioni di chilometri quadrati di territorio, avverte: più dell’intero Brasile. Territorio che sarebbe tolto alla produzione alimentare, magari spingendo coltivatori e allevatori su zone naturali ancora protette. Il risultato sarebbe accelerare il degrado, invece di fermarlo, mettendo agrocarburanti contro la sicurezza alimentare. Il Ipcc raccomanda opzioni che non competano per la terra.
(E questo significa che non si sfugge: resta indispensabile cominciare subito la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili – sole, vento).

La giustizia della terra
L’altra cosa importante è che un uso sostenibile della terra ha benefici immediati e a lungo termine per chi ci vive. Ovvero, conservare la produttività della terra e la biodiversità, aumentare la concimazione organica, preferire le varietà autoctone, proteggere i bacini idrici e le foreste, invertire il degrado degli ecosistemi e così via, sono una strategia che contribuisce allo sviluppo umano, alla sicurezza alimentare e alla lotta alla povertà.
Per questo il documento parla anche di garantire l’accesso alla terra, per esempio riconoscere i diritti consuetudinari delle popolazioni native, e valorizzare i saperi locali, garantire più potere alle donne, promuovere la partecipazione. Un po’ di giustizia sociale fa bene al clima, e viceversa.

venerdì 23 agosto 2019

Niger, a rischio la grande riserva naturale di Termit Tin Toumma. La Cina vuole il petrolio - Antonella Sinopoli




Si chiama Termit Tin Toumma, si trova in Niger, in pieno deserto del Sahara, è stata “creata” nel 2012 ed è considerata tra le più grandi, se non la più grande riserva naturale terrestre in Africa.
Oggi il Paese ha deciso di modificarne i confini per consentire lo sviluppo di un progetto di sfruttamento petrolifero da parte della CNPC (China National Petroleum Corporation), progetto che minaccia la biodiversità africana nel suo complesso.  
Con una superficie di quasi 100.000 chilometri quadrati – tre volte più grande del Belgio – l’area ha guadagnato il titolo di più grande riserva naturale in Africa.
Tra i suoi “abitanti” più di 130 specie di uccelli, dozzine di rettili e oltre quindici specie di mammiferi tra cui l’Addax (Addax nasomaculatus), un’antilope classificata dall’Unione Internazionale per conservazione della natura (IUCN) come pericolosamente minacciata dal rischio di estinzione. 
La ONG responsabile della riserva (Noah) ha fatto sapere di avere più volte tentato di dialogare con la China National Petroleum Corporation al fine di discutere per misure ambientali per prevenire i danni che deriverebbero dallo sfruttamento petrolifero nell’area. Ma l’azienda “non ha mai risposto alle nostre sollecitazioni“, ha lamentato l’organizzazione.
Per tentare di salvare la riserva è stata avviata una forte mobilitazione e una raccolta firme.
Il Governo nigerino, sotto la pressione della Cina – si legge sul sito che raccoglie le firme a difesa di Termit Tin Toumma – ha appena declassato questa riserva naturale. Non possiamo permettere alla Cina di distruggere la biodiversità africana con impunità. 
Proprio l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), sotto la presidenza cinese, organizzerà in Francia (a Marsiglia) nel giugno 2020 il “Congresso mondiale per la natura”. La Cina – dal canto suo – ospiterà anche la prossima COP15 della “Convenzione per la diversità biologica” (novembre 2020).  

Dai Tir ai monopattici elettrici, il trasporto diventa verde: il piano dell’imprenditore italiano che si ispira a Elon Musk - Giuliano Balestreri




Prima ha trasformato la sua Mecar, un’azienda di trasporti, in un gruppo data driven con l’obiettivo di fornire servizi a sempre maggior valore aggiunto utilizzando l’impatto dell’internet of things sull’intera filiera della logistica. Poi ha iniziato la battaglia per l’eco-sostenibilità scommettendo sulla diffusione del metano liquido (Lng). Adesso, avviata la conversione dei mezzi pesanti, Gianandrea Ferrajoli, 38 anni, ha l’ambizione di costruire un vero ecosistema della mobilità verde: “Sogno di portare una ventata di disruption in Italia, sul trasporto delle merci e delle persone possiamo fare cose enormi. Abbiamo iniziato con il trasporto a lungo raggio con l’obiettivo di eliminare tutti i mezzi a diesel entro il 2022; stiamo lavorando sull’ultimo miglio, ma dobbiamo arrivare a coprire l’ultimo millimetro per ridurre al massimo le emissioni”.

Il suo modello di riferimento, in questo senso, è Elon Musk “perché sta costruendo aziende diverse destinate a convergere in un unico ecosistema. Mi piacerebbe fare la stessa cosa nella mobilità, per questo abbiamo investito in GoVolt, la flotta di motorini elettrici. A settembre arriveranno anche i monopattini perché bisogna allargare l’offerta e la platea dei destinatari”.

La piattaforma da cui tutto parte è sempre la Mecar perché genera i flussi di cassa fondamentali a sostenere il business; nutre le aziende di logistiche e soprattutto è in grado di creare nuovi stakeholder. E – di conseguenza – permette di investire in innovazione. Nel 2019 Ferrajoli ha investito in Macingo “già profittevole con ricavi superiori al milione di euro” e in GoVolt “perché è un’azienda giovane, interamente guidata dallo studio dei dati. E’ fantastica: diventerà una vera mobility company perché dopo i monopattini arriverà altro”.

Macingo è una start up calabrese che si ispira un po’ a Uber e un po’ a BlaBlaCar solo che il core business non è il trasporto delle persone, ma quello delle merci: su e giù per l’Italia. Per il resto il servizio funziona più o meno allo stesso modo, tutto online attraverso una piattaforma che mette in rete le aziende di trasporto e chi ha bisogno di ricevere o consegnare merci di ogni tipo: dagli alimentari all’abbigliamento; dalle moto alle carpenteria.
L’idea di Macingo è quella di ridurre al minimo i viaggi a vuoto dei camion che spesso dopo aver completato la loro consegna rientrano alla base senza carico. In questo modo si possono ridurre al massimo gli sprechi permettendo al trasportatore di guadagnare di più consumando di meno e a chi deve consegnare di spendere meno, riducendo l’inquinamento permettendo a tante aziende del settore di riposizionarsi. GoVolt, invece, “era una società che noleggiava motorini, poi con il suo approccio ditigale si è trasformata e continuerà a farlo. Magari arriveremo al peer to peer sulle auto dei privati: chi va in vacanza in treno o in aereo potrebbe mettere la sua macchina a disposizione di altri anziché lasciarla parcheggiata per una o due settimane”.
A muovere tutto è la speranza di ridurre al massimo l’impatto sull’ambiente con la convinzione che l’efficienza possa aumentare con la riduzione dei mezzi in circolazione: “La chiave del successo – spiega l’imprenditore – è la capacità di far funzionare l’intero ecosistema. Penso, per esempio, ai furgoni elettrici che di notte si muovono per riparare o sistemare motorini e monopattini e sarà sempre di più lo stesso con i camion. Noi ci stiamo attrezzando proprio per questo”. Anche perché insieme alla guida autonoma, l’ecosostenibilità è la più grande sfida del settore. Gli standard Ue impongono di ridurre le emissioni del 35% entro il 2030: un obiettivo quasi impossibile per molti dei costruttori in gioco. Motivo per cui sarà probabile assistere a nuove aggregazioni. E Mecar vuole giocare un ruolo di primo piano all’interno del nuovo ecosistema.

giovedì 22 agosto 2019

povera Amazzonia


Amazzonia in fiamme, Leonardo DiCaprio: “Brucia da 16 giorni, perché i media non ne parlano?” - Andrea Parrella

L’attore, da sempre impegnato nella causa ambientalista, si sfoga sui social contestando il silenzio dei media sui fatti che stanno caratterizzando la foresta Amazzonica da giorni: il polmone del mondo è falcidiato da incendi e deforestazione in aumento, con presunte responsabilità del nuovo governo brasiliano.

Quelle delle fiamme che divorano la foresta Amazzonica sono immagini che stanno facendo il giro del mondo in queste ore. Il polmone verde del mondo continua ad essere falcidiato da una piaga ben nota, ma i dati resi noti dall'Istituto Nazionale per la ricerca spaziale, che ha rilevato un aumento dell'83% dei roghi rispetto allo scorso anno, hanno allarmato più che mai attivisti, uomini delle istituzioni, semplici cittadini e personaggi del mondo dello spettacolo.

Su tutti Leonardo DiCaprio, notoriamente sensibile alla causa ambientale, tra i personaggi più esposti e ingaggiati sul tema. L'attore, che due anni fa ha prodotto e sostenuto con gran vigore il documentario "Before the flood", incentrato proprio sui problemi ambientali provocati dall'uomo e il surriscaldamento globale, ha commentato quanto sta accadendo in Amazzonia con sdegno e paura, contestando attraverso il suo profilo Instagram un certo silenzio da parte dei media su un fatto, gli incendi appunto, di rilevanza planetaria:
Terrorizzato nel pensare che l'Amazzonia, la più grande foresta pluviale del pianeta, capace di produrre il 20% dell'ossigeno sulla Terra, praticamente il polmone del mondo, stia bruciando da 16 giorni senza che i media abbiano coperto la notizia. Perché?

Cosa accade in Amazzonia
La foresta pluviale dell'Amazzonia è avvolta da un numero di roghi senza precedenti. Dall'inizio dell'anno ad agosto, i rilievi satellitari effettuati dall'INPE (Instituto Nacional de Pesquisas Espaciais, Istituto nazionale per la ricerca spaziale) hanno conteggiato circa 73mila incendi, l'83 percento in più rispetto ai 39.759 rilevati dall'ente nello stesso periodo del 2018. Solo negli ultimi giorni sono stati più di 6.000. Si tratta del numero di roghi più alto da quando nel 2013 è stato avviato il monitoraggio. Svariati i problemi generati dalle colonne di fumo, capaci di mettere praticamente in ginocchio alcune città vicine.

Le accuse al presidente brasiliano Bolsonaro
I dati relativi al disboscamento, pure quelli in aumento, hanno portato molti a ritenere il presidente brasiliano Bolsonaro il principale responsabile di questi numeri clamorosi. Molti ambientalisti e studiosi contestano proprio le politiche di Bolsonaro, che hanno favorito le attività industriali e agroalimentari allentando la morsa delle sanzioni per i reati ambientali. Il nuovo presidente, a sua volta, ha definito i dati dell'Inpe come “fake news”.



Brasile, lo scienziato silurato da Bolsonaro per i dati sulla deforestazione: "Non staremo zitti"

Ricardo Galvao, rimosso dall'Inpe, l'Istituto nazionale di ricerche spaziali, dopo aver criticato il presidente Jair Bolsonaro, oggi ha lanciato un appello agli scienziati perché non accettino di essere zittiti. "Gli scienziati non possono restare in silenzio! Dobbiamo esprimerci con forza. Non possiamo abbassare la guardia", ha dichiarato il fisico e ingegnere 71enne, nel corso di una riunione all'Università di San Paolo in cui ha ricevuto un'ovazione da parte di studenti e docenti.

Galvao era direttore dell'Istituto, incaricato di osservare e monitorare l'evoluzione della deforestazione. Dopo la pubblicazione a luglio di dati che hanno mostrato un drammatico aumento del disboscamento in Amazzonia nei mesi precedenti, lo scienziato è stato accusato dal presidente d'estrema destra di mentire e nuocere all'immagine nazionale.
Galvao difese la correttezza dei dati rifiutandosi di dimettersi, ma è stato destituito a inizio agosto, nonostante avesse dovuto rimanere in carica fino al 2020. "Le autorità si arrabbiano sempre quando i dati dicono che le cose sono in un modo che loro non hanno voglia di capire", ha dichiarato Galvao.

L'arrivo al Planalto di Bolsonaro, scettico sul cambiamento climatico, ha suscitato molte preoccupazioni per il futuro della foresta amazzonica, considerata "il polmone del pianeta". La Norvegia, principale elargitrice di fondi per la protezione della zona, ha annunciato giovedì il blocco di circa 30 milioni di euro in fondi destinati al Brasile, accusando il Paese di non voler agire in quest'ambito. "Ciò che il Brasile ha mostrato è che non vuole più fermare la deforestazione", ha dichiarato il ministro norvegese dell'Ambiente e del Clima, Ola Elvestuen.

Dopo la Norvegia, anche la Germania ha sospeso parte delle sovvenzioni al Brasile: 35 milioni di euro, sino a quando i dati sulla deforestazione torneranno incoraggianti.

Bolsonaro ha reagito con violenza alla decisione di Oslo: "La Norvegia, non è quel Paese che uccide le balene là in alto, al Polo Nord? Che sfrutta anche il petrolio? Non è per nulla un esempio per noi. Si tengano il loro denaro e aiutino la cancelliera Merkel a rimboschire la Germania". L'ex militare aveva già accolto con disinvoltura il passo indietro di Berlino: "Possono usare questo denaro come desiderano, il Brasile non ne ha bisogno", aveva detto.

Jair Bolsonaro sta mantenendo le promesse fatte in campagna elettorale, e cioè che avrebbe ammorbidito i vincoli che limitano la deforestazione dell'Amazzonia.