lunedì 31 gennaio 2022

La resa di Giacarta - Emanuele Giordana

 

Abitanti di un arcipelago di 17mila isole che si estende per 5 milioni di kmq di cui solo due di terre emerse, gli indonesiani chiamano il loro Paese «Tanah air kita», la nostra terra d’acque. Non deve quindi stupire che nel decidere il nome della nuova capitale dell’Indonesia, il Presidente Joko «Jokowi» Widodo abbia scelto di chiamarla Nusantara, letteralmente: «Arcipelago».

L’ACQUA È UN PROBLEMA, soprattutto a Giava, dove l’inverno, la stagione più piovosa, si accompagna ad allagamenti che fanno isole di quartieri attanagliati dalla morsa del mare e delle alluvioni. Un problema aggravato dalla lenta ma inesorabile erosione del terreno su cui poggia la Grande Giacarta, una capitale che – con Giacarta centro, città limitrofe e altre zone amministrative – costituisce un’area metropolitana di oltre 30 milioni di esseri umani.
Vessata da traffico, sovrappopolazione, inquinamento, alluvioni ed erosione – diventata in epoca Covid l’epicentro dei contagi – Giacarta sta per implodere. Scegliere una nuova capitale significa dunque tentare di ridurne rischi e impatto ambientale in un futuro dal quale sembra però difficile invertire la rotta.
Jokowi ci prova e ha pensato di fare di Nusantara – un termine giavanese che indicava i possedimento dell’antico impero marittimo di Majapahit sopravvissuto sino agli inizi del XVI secolo – la sua Brasilia.

IL PARLAMENTO il 18 gennaio ha approvato la legge che la istituisce, dopo una lunga fase di studio annunciata ufficialmente nel 2019. È uno dei piani più ambiziosi del presidente riformatore al suo secondo mandato. Assieme a una controversa legge di liberalizzazione dell’economia, l’adesione a un’ampia alleanza che ha istituto una free trade zone asiatica (Rcep), la riforma del welfare (pensioni e sanità pubblica) è la scommessa di un personaggio che si è conquistato una statura internazionale: prima nell’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico, poi nel mondo, arrivando quest’anno alla presidenza del G-20.
Il parlamento ha votato a stragrande maggioranza la legge che consegna all’ex sindaco di Surakarta oltre 32 miliardi di dollari, tanto è previsto nel piano di costruzione avveniristico di una capitale (tra le reggenze di Penajam Paser Utara e Kutai Kartanegara attualmente non collegate tra di loro), che disterà dall’attuale circa 2mila chilometri in linea d’aria…. e 60 ore di macchina e traghetto se qualcuno avesse paura di volare.

LA NUOVA CAPITALE è stata disegnata per sorgere nel Kalimatan orientale (l’isola di Borneo), in un certo senso al centro del vasto arcipelago. Teoricamente Jokowi si aspetta di inaugurarla nel 2024: solo due anni. Potrebbe sforare nei tempi e nel budget ma, stando alla stampa locale, potrà contare su soldi e finanziamenti «amici»: dal Giappone agli Emirati. E difficilmente i cinesi ne sono fuori anche se l’oculata politica di Widodo ha sempre dato un colpo al cerchio e uno alla botte.

Diverrà il centro politico e amministrativo ma Jokowi pensa in grande. Non vuole farne una nuova Naypyidaw (Myanmar) o una nuova Putrajaya (Malaysia), che hanno sostituito Yangon e Kuala Lumpur senza riuscire a emularne il fascino e soprattutto trasformando le nuove città in posti poco vivibili che costringono tanti a fare i pendolari. Ma se Putrajaya è a 34 km da KL e Naypidaw a 4 ore di macchina da Yangon, per andare a Nusantara ci vorranno ore di viaggio che, tra attese, check in e misure di sicurezza, trasformerebbero il volo in almeno 4-5 ore di tempo buttato.

LA SCELTA PERÒ ERA INEVITABILE. Lambita dal mare e attraversata da una dozzina di corsi d’acqua, Giacarta poggia su un terreno fradicio e paludoso. Non era così quando si chiamava solo Sunda Kelapa ed era un piccolo porto posseduto dal regno di Sunda. Attratti dalla sua posizione ci arrivano per primi i portoghesi nel 1513 e si accordano col monarca per rafforzare le difese del piccolo porto in posizione commercialmente strategica sul mare interno di Giava. Dopo che nel 1527 il comandante Fatahillah scaccia gli stranieri con la spada dell’islam, Sunda Kelapa diventa Jayakarta, dipendenza del sultanato di Banten. Si barcamena tra le mire di nuovi intrusi: inglesi e olandesi. Questi ultimi hanno la meglio e nel 1619 fanno di Jayakarta la capitale della Vereenigde Oost-Indische Compagnie (Voc), rinominandola Batavia.

Fonte: il manifesto

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venerdì 28 gennaio 2022

Mr. Osman: l'uomo che ha piantato 40mila alberi in 35 anni - Maria Rita D'Orsogna

Il signor Osman Erol vive nella piccolissima citta’ di Hallaçlı a Çankırı, nella Turchia centrale.

Ha 90 anni.

Hallaçlı ha solo 169 persone. E poi almeno 40,000 alberi tutti piantati dal signor Osman nel giro di 35 anni.

Osman da giovane era un agricoltore e ha inziato a piantare alberelli attorno al suo villaggio per nessun motivo specifico. Semplicemente gli piaceva vedere il verde. Nel corso degli anni ne ha piantati altri ed altri ancora ovunque gli sembrasse opportuno e in tante localita’ vicine al suo villaggio.

Pini, pioppi, ma soprattutto alberi da frutta fra cui pere, mandorle e prugne.

Adesso che e’ in pensione li cura tutti a tempo pieno e continua a piantarne, sotto il sole e sotto la pioggia. A volte, quando lo prende l’insonnia esce a studiare dove poterne piantare di altri.

Dice che porta sempre con se dei semi di mandorle ed e’ contento quando la gente mangia la frutta dei suoi alberi. Tutti possono prenderne. Dice pure che spera di poter fare tutto questo fino alla fine dei suoi giorni.

Prima di Osman, Hallaçlı aveva poco verde, perche’ la zona e’ molto arida. Ma grazie al suo lavoro il villaggio e’ ora pieno di alberi, i pastori ne trovano l’ombra molto utile, la gente ne e’ orgogliosa e anzi cerca di curarli anche loro. La frutta viene reglata a tutti, e ce n’e’ cosi tanta che la regalano pure a quelli dei villaggi vicini.

La Turchia ha dichiarato il giorno 11 Novembre il giorno nazionale delle forestazione, con la speranza di aumentare il numero di alberi nel paese. In parallelo una campagna per incentivare il consumo e l’esporatazione di prodotti collegati alla foresta, come miele e frutta, per dare reddito in piu’ ai residenti.

E poi c’e’ il signor Osman, esempio per tutti.


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giovedì 27 gennaio 2022

Affrontare le paure ci rende più liberi - Marcelo Trivelli

 

La paura è la reazione corporea e/o psicologica a un pensiero che nasce nel cervello, derivante da esperienze passate o immaginarie, di fronte alla proiezione del verificarsi di un evento non desiderato. È una reazione flessibile per sopravvivere nel lungo percorso evolutivo.

Nel XXI secolo, le necessità fondamentali per la sopravvivenza vengono soddisfatte, ma nonostante ciò la paura continua a essere un’emozione molto frequente nella società. I nostri antenati conoscevano i pericoli ai quali erano esposti e la loro vita si adattava a questa realtà. Oggi la paura, come base dell’istinto di sopravvivenza, viene sostituita dalla sfiducia e dal timore del cambiamento. Il paradosso è che col passare del tempo diventiamo sempre più dipendenti da altre persone e che nella società di oggi il cambiamento è l’unica certezza che abbiamo.

Nella maggior parte dei casi, la paura genera angoscia e paralizza non solo il corpo, ma anche la mente. D’altra parte, chi riesce ad affrontare le proprie paure allarga i confini dell’immaginazione e dell’azione. In questo modo si avanza nel percorso della libertà.

Affrontare le paure significa addentrarsi nell’ambito della ragione, significa osare mettere in discussione ciò in cui crediamo, ciò che siamo e che ci circonda, non allo scopo di confermare i nostri timori, ma per aprirci alla scoperta delle nostre origini e dei nuovi mondi a cui siamo esposti ogni giorno. A questo proposito, le reti sociali e i loro algoritmi sono progettati per confermare le nostre paure, più che per abbattere confini autoimposti.

Le bambine e i bambini nascono liberi dalle paure. Imparano a camminare, a cadere e a parlare senza paure. Cosa più importante, le loro vite cominciano senza la paura per l’ignoto e senza mettere in discussione ciò che li circonda. Ed è proprio questo pensiero critico che permette loro di imparare a una velocità impressionante. Purtroppo questa capacità si perde man mano che ci addentriamo nel mondo adulto e dove il sistema di istruzione formale svolge un ruolo determinante nel limitare la capacità di sorprenderci, curiosare e creare. Le metodologie di insegnamento/apprendimento sono incentrate sulle materie cognitive e lasciano decisamente in secondo piano lo sviluppo delle abilità socio-emotive necessarie per affrontare i cambiamenti che sono ormai una costante delle nostre vite.

La sfida per l’istruzione è quella di sviluppare le abilità che consentano a bambine, bambini e giovani di sostituire la paura con la fiducia. Per fare ciò, chi opera nel campo dell’istruzione deve essere un modello di empatia e partecipazione, quest’ultima intesa come la nuova convivenza dei giorni nostri, ricevendo sempre sostegno da un sistema di incentivi che possa equilibrare tutti gli ambiti contemplati nei programmi del Ministero dell’Istruzione.

Passare a un’istruzione di qualità è il più grande atto di trasformazione sociale e il contributo principale per raggiungerla è mettere ogni bambina, bambino e giovane nelle condizioni di poter analizzare a fondo i legami basati sulla fiducia. Possedere le capacità per affrontare le paure spalanca le porte a una libertà maggiore: la libertà di vivere, creare, innovare e condividere.

Traduzione dallo spagnolo di Cinzia Simona Minniti

Revisione di Anna Polo

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mercoledì 26 gennaio 2022

Benvenuti - G. Carmosino, M. Calabria, R. Troisi

 Viviamo anni in cui sempre più parole perdono di significato e il loro portato di idee. Una di queste parole, un verbo, è proteggere. Possiamo davvero continuare a pensare che siano i governi e gli Stati, come appaiono oggi, così poco amati e in declino, a proteggerci dalle grandi minacce del nostro tempo? Quello a essere protetta, in qualunque contesto, è un diritto fondamentale per ogni vita. Possiamo cominciare a immaginare espressioni organizzate della politica – magari comunitarie, cittadine, rurali, più vicine alle realtà locali di ogni giorno – potenzialmente capaci di farlo? Possiamo smettere di aggirarci come sonnambuli, l’espressione metaforica è di Arundhaty Roy, nei meandri dell’architettura di un capitalismo della sorveglianza che, una volta preso il controllo del nostro tempo e di ogni comportamento non assimilabile alla sua riproduzione, ci chiede anche di esserne felici? Possiamo provare a proteggerci l’una con l’altro da quell’architettura?

Libertà di movimento

Gli anni che passano si portano via una cosa dopo l’altra. Quello che si avvia a conclusione mostra in prima pagina, sul territorio italiano, certamente ancora il segno della pandemia e delle sue molteplici conseguenze, anche sul piano delle restrizioni delle libertà di movimento. Per quel che riguarda i migranti e i rifugiati (la distinzione è arbitraria, può avere senso solo in specifici contesti normativi), le persone limitate nei movimenti per eccellenza nel mondo contemporaneo, è stato un anno durissimo. Lo hanno segnato le vite stroncate in mare ma anche, in misura certo diversa, le detenzioni nei luoghi di concentrazione, su entrambe le sponde del Mediterraneo. Le detenzioni amministrative di persone che non hanno commesso reati sono state introdotte in Italia alla fine del secolo scorso, con una mostruosità giuridica. L’istituzione dei Centri di permanenza “temporanea”, con la legge Turco-Napolitano (1998), venne dettata, tra le altre cose, dal prevalere delle retoriche dell’invasione e dell’emergenza, generate in buona parte da scelte irresponsabili dei grandi mezzi d’informazione.

 

Logiche di emergenza

Oltre vent’anni dopo, il sistema di accoglienza italiano, ricucite solo in superficie le ferite prodotte dalla furia devastante dei decreti sicurezza introdotti dal primo governo Conte, è ancora largamente dominato dalle logiche di emergenza. Dal punto di vista giuridico, il concetto di emergenza non può essere disgiunto da eventi contingenti, dall’insorgere di particolari situazioni estreme che non ne permettono la gestione con leggi ordinarie. Dal punto di vista politico, in genere, le logiche di emergenza sono solite ostacolare o rendere impossibile il riconoscimento delle ragioni sociali e culturali che generano le crisi, le responsabilità ad esse connesse e gli interessi in gioco. Concentrano l’attenzione sugli effetti immediati di quel che accade, o si presume che accada. Poi tutto scivola via, nel rumore di fondo della palude mediatica.

 

Un paese di transito

Negli anni più recenti, la costruzione dell’emergenza è stata quasi sempre utilizzata dai poteri dominanti per introdurre logiche di controllo, segregazione e contenimento al fine di tutelare presunti interessi generali, leggasi nazionali. L’apporto mediatico a quella costruzione ha scandito spesso i tempi della costruzione dell’emergenza in modo intermittente, con periodi di sovraesposizione mediatica seguiti da lunghe pause di silenzio. Fino alla successiva emergenza. Ne consegue, con ogni evidenza, l’enorme difficoltà nella proposizione di interventi risolutivi o “strutturali”, capaci di produrre reali cambiamenti in profondità e alternative politiche che esulino dal contesto emergenziale. Non si tratta di errori di valutazione, sono strategie e consapevoli scelte politiche. L’Italia viene considerata un “paese di transito” incapace di accogliere ma soprattutto di includere (azione che, a differenza dell’integrare, comporta un cambiamento culturale profondo e non la “normalizzazione” dell’altro) nuovi cittadini soltanto perché sceglie di esserlo. Lo scelgono i suoi governi. Ogni giorno.

Benvenuti Ovunque

Nelle pagine che seguono, in questo nostro secondo Rapporto sull’accoglienza diffusa in Italia, intitolato con ostinazione “Benvenuti” – questa volta anche in dialogo vivo con i versi di Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura nel 1986, che trovate in controcopertina – c’è soprattutto una declinazione dettagliata, limitata per lo più ai problemi dell’accoglienza, della pervasività nefasta delle inossidabili logiche emergenziali. Quell’influenza malefica proviamo a raccontarla, giorno per giorno, settimana dopo settimana, nelle centinaia di articoli pubblicati ogni anno su “Benvenuti Ovunque”, la testata interna a Comune-info in cui raccogliamo l’informazione dedicata ai migranti, ai rifugiati e ai richiedenti asilo. E la raccontiamo qui, nei diversi approfondimenti sulle difficoltà cronicizzate che ostacolano anche solo il riavvio (dopo lo smantellamento salviniano) di un sistema pubblico marcato in profondità dal dominio del controllo delle prefetture e dall’impronta emergenziale.

 

L’accoglienza diffusa

L’intervista a Gianfranco Schiavone traccia un quadro molto preciso di un sistema che la legge indica come binario e la realtà delle volontà politiche fa pendere decisamente da una parte, la solita. Roberta Ferruti ci racconta invece le potenzialità e le capacità di resistenza di straordinarie esperienze di accoglienza diffusa, messe tenacemente in rete, malgrado cresca la criminalizzazione della solidarietà. È avvenuto a Riace, com’è a tutti noto, ma lo si vede anche al confine con la Slovenia, come spiega Gian Andrea Franchi nella conversazione con Rossella Marvulli. La registrazione video di un incontro molto ricco di sguardi plurali, che insieme compongono la trama della restituzione di dignità alla parola accoglienza, allarga lo sguardo della critica dell’emergenza sostenendolo con proposte puntuali, praticabili e ambiziose. Sono state raccolte intorno al tavolo “Lo Sai?” a conclusione di un lungo e partecipato percorso di incontri territoriali che è andato avanti per mesi. Di quell’incontro trovate anche una sintesi scritta.

L’Europa dei fili spinati

Non poteva certo mancare, in questo nostro resoconto annuale sullo stato delle cose dell’accoglienza, un punto di vista rigoroso sull’esternalizzazione delle frontiere e sui silenzi, le responsabilità e le complicità dell’Unione Europa sulla tragedia di persone inermi, strumentalizzate e respinte. Bambine e bambini compresi, naturalmente, quelli che magari si preferisce chiamare “minori stranieri non accompagnati”, privandoli – spiega Lavinia Bianchi – della condizione di soggetto di diritto per poi collocarli all’interno di strutture. Ingranaggi di un apparato. Di quell’Europa lì, perché sappiamo bene che ce n’è anche un’altra, meno visibile e meno raccontata, si occupano Filippo Miraglia, a partire dallo scandaloso doppio ricatto esercitato sui rifugiati ammassati al confine tra Bielorussia e Polonia, e Fulvio Vassallo Paleologo, soprattutto dal punto di vista giuridico, con una lunga analisi del quadro normativo sulla protezione internazionale e una breve storia ignobile di Frontex, l’agenzia del divieto d’entrata.

 

Settant’anni di pace

Accanto all’Europa abbiamo messo la guerra. In questo piccolo angolo del mondo, si continua a credere che non esista solo perché non si combatte dentro i confini continentali: nei settant’anni di “pace” seguiti al secondo conflitto mondiale, almeno duecento milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case. Lo ricorda l’ottimo articolo di Fabio Alberti. Molte di quelle persone sono nate in Afghanistan. Fanno parte di un esodo che dura da oltre venticinque anni, ne scrivono Paolo Moroni e Orlando Di Gregorio del Laboratorio Percorsi di secondo welfare. Un esodo condannato a un’eterna dimensione emergenziale che suscita una pietà effimera quanto surreale anche in Italia. La denuncia dell’Asgi è netta e non afferma certo una novità. Eppure ogni volta pare si debba ricominciare da capo. Mancanza di memoria? Il tema della rimozione del passato anche recente, per quel che riguarda le donne e gli uomini in fuga da Kabul, è estenuante quanto scandaloso. Per fortuna, sulla memoria c’è anche chi lavora in tutt’altra direzione creando comunità narrative e coinvolgendo da molti anni i soggetti della migrazione nella raccolta di storie e testimonianze. È l’Archivio delle memorie migranti di cui si è preso cura Alessandro Triulzi.  

Il razzismo di ogni giorno

Ci sono almeno altri due temi, pur limitando il discorso all’accoglienza, che ci sembrava essenziale sottolineare. Il primo è che il razzismo si combatte, con qualche speranza di successo, non solo con le normative e sui gommoni ma se lo si affronta nella vita di ogni giorno. Per questo siamo andati a cercarne la profondità nei supermercati delle province basche, con la straordinaria indagine raccontata magistralmente da June Fernández. Ne fanno le spese le donne discriminate per antonomasia, le zingare, che in Spagna si chiamano gitane, una popolazione che in quel paese riesce almeno a vivere, per il 92 per cento, in case o appartamenti veri. Un’utopia realizzata, se la si guarda dalle periferie delle città italiane. La seconda immersione nella vita quotidiana, a far da contraltare al razzismo antizigano, è la bella esperienza del mondo di Coloriage, la sartoria che abbiamo scelto per “arredare” tutte le nostre pagine con il prezioso reportage fotografico bianconero di Leonora Marzullo e Manuel Grande. Andate poi sul sito del laboratorio romano di saperi e pratiche artigianali a inondarvi di tonalità brillanti e di meraviglie del colore.

 

Aprire i concetti

Il secondo tema che ritenevamo impossibile trascurare è quello del linguaggio. L’articolo di Laura Morreale è forse il più importante, dal punto di vista del grande racconto contenuto in questo quaderno, perché prova ad aprire il concetto stesso di accoglienza e a guardare nelle sue profondità meno scontate, visibili e discusse. È solo così che si sfugge alla falsa rappresentazione dei salvatori e dei salvati e si rivela quanto il lessico che utilizziamo generalmente, anche tra chi si batte strenuamente per l’affermazione dei diritti delle persone migranti, sottintenda e riproduca un rapporto di disuguaglianza. Aprire i concetti è la cosa più ambiziosa e importante che tentiamo di fare, con alterne fortune, dal 2012 sulle pagine di Comune-info. Non abbiamo molta compagnia in questa disperata impresa, ma non ci siamo ancora stancati, teniamo duro. O almeno ci proviamo, perché vogliamo arrivare in un mondo che non esiste, come quello del sogno dei migranti. I migranti hanno abolito le frontiere tra il mondo che esiste e quello che desiderano. Rifiutano di pensare che ogni speranza sia un’illusione.

Bussare alle porte

In uno splendido articolo uscito su Doppio Zero un paio di anni fa e intitolato “Derrida a Riace”, Gianluca Solla ricorda come il filosofo francese avesse visto già negli anni ‘90 del secolo scorso l’incombente ricchezza di questioni che le migrazioni avrebbero portato all’interno dell’orizzonte europeo: “Nel momento in cui si pretende di abolire le frontiere interne, si procede a un blocco ancora più stretto delle frontiere esterne della cosiddetta Unione Europea. Coloro che chiedono asilo bussano successivamente alle porte di ciascuno degli Stati dell’Unione europea e finiscono per essere respinti a tutte le frontiere. Con il pretesto di lottare contro un’immigrazione travestita da esilio o in fuga dalla persecuzione politica, gli Stati respingono sempre più spesso le domande di diritto d’asilo… lasciano che sia la polizia a fare la legge”.

Illegalità e terrorismo

L’unica istanza diventa così quella della polizia, come un altro acuto osservatore del Novecento, Walter Benjamin, aveva a suo tempo prontamente profetizzato, sottolinea Solla, aggiungendo poi che “senza invenzione politica, senza il coraggio che serve perché la polis sia qualcosa in più di una semplice espressione territoriale, non si evita che le città perdano vitalità propositiva per chi ci vive, per esempio musealizzandosi. Giocoforza allora soccombere alle istanze poliziesco-securitarie della nostra Società: la polizia finisce per sostituire la politica, diventa la vera erede della polis, ossia ne decreta la morte ad oltranza. Da qui sorge quella equiparazione di illegalità e terrorismo, che è il vero sintomo della brutalità linguistica e politica della nostra epoca”. 

Il controllo del territorio

Le frontiere sono state inventate per dividere le persone. Una falsa rappresentazione della realtà che dura da troppo tempo. Così come l’accoglienza prigioniera delle logiche emergenziali finge di dividerne la gestione in un sistema binario per affermarne in realtà soltanto una, quella dello Stato e delle questure. Ancora una falsa rappresentazione della realtà. A noi le frontiere piace guardarle dalla parte di chi non ha l’ossessione del controllo del territorio in nome di una presunta identità nazionale. Fino a farle via via scomparire.

[Marco Calabria, Gianluca Carmosino e Riccardo Troisi]


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lunedì 24 gennaio 2022

Vietiamo le pubblicità delle fonti fossili, come fatto per le sigarette - Andrea Barolini

 

«La propaganda pubblicitaria di qualsiasi prodotto da fumo, nazionale od estero, è vietata». Era il 1962 quando veniva promulgata la legge n. 165, che segnava una svolta per il settore del tabacco. Niente più sigarette negli spot in tv o sui giornali: occorre tutelare la salute dei cittadini e limitare i costi sanitari legati alle patologie.

Anni dopo, nel 1983, venne meno anche la distinzione tra pubblicità diretta e indiretta. E nel 1991 con decreto ministeriale fu «vietata la pubblicità televisiva delle sigarette e di ogni altro prodotto del tabacco, anche se effettuata in forma indiretta, mediante utilizzazione di nomi, marchi, simboli o altri elementi caratteristici di prodotti del tabacco o di aziende la cui attività principale consiste nella produzione e vendita di tali prodotti».

Quindi, più di recente, si è deciso di modificare anche i pacchetti di sigarette inserendo frasi e immagini in grado di avvisare i consumatori sui rischi che corrono. La scienza, infatti, è pressoché unanime nell’affermare che il fumo aumenta la possibilità di sviluppare numerosi tipi di patologie (cardiovascolari, oncologiche e non solo).

Allora, dal momento che la scienza è pressoché unanime anche nell’affermare che la combustione di fonti fossili è la principale responsabile dei cambiamenti climatici, non sarà il caso di – finalmente – vietare le pubblicità di carburanti? Non sarà giunto il momento di tappezzare le pompe di benzina con immagini di inondazioni, scioglimento dei ghiacci ed eventi meteorologici estremi, per ricordare ai consumatori cosa comportano le loro scelte? Chissà cosa ne pensa il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani.

https://valori.it/vietiamo-pubblicita-fonti-fossili-climax/

domenica 23 gennaio 2022

Non ce la possiamo fare, lo scempio ambientale nel destino di un territorio - Stefano Deliperi


Portoscuso, sud ovest della Sardegna. Da decenni terra di pesante 
inquinamento industriale, devastanti effetti sulla salute, subdoli ricatti occupazionali e apatìe sociali.

Unica zona rimasta ancora integra era Capo Altano. Costa alta, falesie dove vola il Falco della Regina (Falco eleonorae), macchia mediterranea, l’odore del mare e lo sciabordio delle onde.

Area costiera tutelata con il vincolo paesaggistico (decreto legislativo n. 42/2004 e s.m.i.), in gran parte terreni appartenenti al demanio civico (legge n. 1766/1927 e s.m.i.legge n. 168/2017regio decreto n. 332/1928 e s.m.i.legge regionale Sardegna n. 12/1994 e s.m.i.), scampati alla speculazione industriale anche grazie a risalenti azioni legali del Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG).

Il Comune di Portoscuso, secondo quanto dichiarato a L’Unione Sarda (edizione del 15 gennaio 2022) il sindaco Giorgio Alimonda, ha deciso di realizzare una pista ciclo-pedonale su una preesistente viabilità su fondo naturale con l’aggiunta di scorie Waelz.

I lavori rientrano nel progetto “lavori di messa in sicurezza permanente delle strade Waelz – I lotto” (importo complessivo euro 2.003.650,66, vds. https://www.comune.portoscuso.ci.it/lavori-messa-sicurezza-permanente-strade-waelz-lotto) e “II lotto”, finanziati dal piano di disinquinamento del Sulcis Iglesiente (importo complessivo euro 2.474.535,81, vds. https://www.comune.portoscuso.ci.it/messa-sicurezza-permanente-strade-waelz-ii-lotto), perché a Portoscuso sono state utilizzate delle scorie industriali per pavimentare strade secondarie.

In seguito, l’andazzo di utilizzare le scorie industriali per pavimentare strade e piazzali in quel di Portoscuso è andato avanti illecitamente per un bel pezzo (e speriamo che sia cessato), tanto da aver dato luogo a una delle poche condanne passate in giudicato per traffico illecito di rifiuti, procedimento nel quale il Gruppo d’Intervento Giuridico (GrIG) era costituito quale parte civile, analogamente al Comune di Portoscuso..

Fin dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso le scorie Waelz sono quindi state utilizzate dal Comune di Portoscuso, che oggi sta attuando, finalmente, la bonifica ambientale.

Quello che sfugge al sindaco di Portoscuso è che non è obbligatorio sanare uno scempio ambientale con un altro (pur diverso) scempio ambientale: non è obbligatorio realizzare quella pista ciclopedonale in uno dei pochi lembi del territorio comunale che sono riusciti a conservarsi sul piano naturalistico e paesaggistico nonostante l’indefessa opera umana degli ultimi sessant’anni.

Realizzare una pista ciclopedonale è molto ecologicogreenpoliticamente e socialmente corretto.

Bene, finalmente qualcosa di pulito e verde a Portoscuso.

E invece no.

Niente da fare, dev’essere uno scempio.

Bisogna rimanere in tema con ciminiere e discariche.

Una striscia rossastra che richiama i fanghi rossi con segnaletica visibile da lunga distanza.

Una pista così migliora una periferia cittadina, una pista così degrada un ambiente fino a prima sostanzialmente integro come quello di Capo Altano.

Non è necessario un genio della progettazione naturalistica per capirlo.

Il GrIG ha inoltrato (14 gennaio 2022) una specifica istanza di accesso civico, informazioni ambientali e adozione degli opportuni provvedimenti per verificare la sussistenza o meno delle necessarie autorizzazioni amministrative.  Coinvolti il Ministero della Cultura, la Regione autonoma della Sardegna, il Comune di Portoscuso, la Soprintendenza per Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Cagliari, la Provincia del Sud Sardegna, il Corpo Forestale e di Vigilanza Ambientale.  Informata, per opportuna conoscenza, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari.

Al di là della presenza o meno delle autorizzazioni di legge, rimane tristissimo il modus operandi per un ambiente che meriterebbe ben altra cura.

Stefano Deliperi è il portavoce del Gruppo d’Intervento Giuridico odv

https://www.manifestosardo.org/non-ce-la-possiamo-fare-lo-scempio-ambientale-nel-destino-di-un-territorio/

sabato 22 gennaio 2022

Volo Lufthansa con destinazione crisi climatica, imbarco immediato - Andrea Barolini

 

 

La compagnia tedesca Lufthansa ha annunciato che effettuerà 18mila voli vuoti, pur di conservare gli slot orari che ha a disposizione

Regole, interessi particolari, lungaggini burocratiche. È un mix esplosivo quello che spingerà la compagnia aerea della Germania Lufthansa ad operare una scelta del tutto folle dal punto di vista ambientale e climatico. Il colosso dei trasporti tedesco, infatti, ha annunciato che nel corso del mese di gennaio farà volare 18mila aerei senza passeggeriVuoti, a parte il personale di bordo.

La scelta di Lufthansa e le regole aeroportuali europee

La ragione è semplice. Nel corso delle ultime settimane, a causa dei problemi legati alla pandemia, Lufthansa si è già vista costretta ad annullare 33mila voli. Qualcosa come il 10% del totale programmato. Si dirà: d’accordo ma perché disporre il decollo di 18mila aerei vuoti? Perché la compagnia non può permettersi di mancare altri decolli e atterraggi.

Le regole in vigore nell’Unione europea, infatti, impongono ai vettori di utilizzare almeno l’80% degli slot orari a loro disposizione. Altrimenti, questi possono essere concessi ad altre compagnie. È noto come quelle di bandiera abbiano, spesso, a disposizione le partenze e gli arrivi più ambiti nel corso di ciascuna giornata, poiché i più comodi per i passeggeri.

Di qui la volontà di mantenere ad ogni costo tale vantaggio sulla concorrenza. A farne le spese saranno però clima e ambiente. Con enormi quantitativi di emissioni di gas ad effetto serra e di sostanze inquinanti disperse senza alcuna ragione, se non gli interessi di una singola azienda privata.

«Purtroppo siamo costretti ad effettuare migliaia di voli inutili»

Nel corso della prima ondata della pandemia, nella primavera del 2020, Bruxelles aveva accettato di sospendere la regola dell’80%. Quest’ultima, però, è tornata in vigore lo scorso anno (pur se abbassata al 50%). «Purtroppo, per questo siamo costretti ad effettuare migliaia di voli inutili», ha affermato un portavoce di Lufthansa. Al contempo, la dirigenza della compagnia ha chiesto all’Europa di applicare nuovamente una deroga, al fine di evitare un’autentica aberrazione ecologica.

L’amministratore delegato Carsten Spohr, in un’intervista concessa alla Frankfurter Allgemeine, ha spiegato che far viaggiare gli aerei a vuoto «è totalmente contrario rispetto agli obiettivi che la Commissione si è fissata con il programma “Fit for 55”». Ovvero il piano che prevede la riduzione del 55% delle emissioni di gas climalteranti in Europa, entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990.


Questo articolo è stato pubblicato in 10 anni – storie e approfondimenti sulla crisi climatica, la newsletter che Valori.it invia ogni venerdì. Se vuoi riceverla iscriviti alla newsletter e seleziona “Ambiente” tra i tuoi interessi.


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venerdì 21 gennaio 2022

New York vieta il gas nelle case nuove entro il 2023 - Maria Rita D'Orsogna

  

Cingolani, cosa hai da dire?

 

Se ne parlava da settimane, ed ecco qui.

La citta’ di New York vieta il gas naturale come fonte di riscaldamento e per cucinare nei palazzi nuovi per combattere i cambiamenti climatici. Le nuove palazzine dovranno usare solo ed esclusivamente energia elettrica e neanche un grammo di energia fossile.

E’ la citta’ piu’ grande d’America a prendere questa decisione.

E pure se Cingolani fa finta di non saperlo, e’ bene ricordare che il gas e’ energia fossile!

Questo divieto al gas naturale si applica agli edifici nuovi sotto ai sette piani entro il Dicembre del 2023, fra due anni, e per gli edifici superiori ai sette piani entro la fine del 2027. Saranno esenti strutture particolari, come ad esempio gli ospedali.

La citta’ ha l’obiettivo di essere “carbon neutral” entro il 2050; una legge del 2019 aggiunge che tutta l’energia della citta’ deve essere da fonti che non generano CO2 entro il 2040.

Sara’ un bel passo in avanti, visto che in questo momento circa il 40% delle emissioni di CO2 della citta’ arriva dal gas usato per usi domestici.

E poi’ e’ importante ricordare che ogni edificio nuovo durera’ per almeno 100 anni, e quindi restare attaccati al gas significa che per altri 100 anni staremo ancora li a scavare sottoterra per trovare gas, qualche volta con il fracking, qualche volta senza, e a bruciarlo per generare energia.

Quindi, meglio darci un taglio.

Ovviamente questa decisione sara’ di esempio a tante altre localita’ in giro per il mondo. Se lo puo’ fare una citta’ grande e complessa come New York, lo possono fare tutti, no?

Ci saranno sacrifici associati? Puo’ darsi. Anzi gia’ i cuochi dicono che il fornello elettrico e’ meno efficente del gas, e i soliti gufi dicono che non potremmo mai farcela in nessun altro modo se non con le fossili, ma il mondo non puo’ aspettare e necessita davvero di essere fossil-fuel free.

Altrimenti non avremo ne cucine ne gufi veri.

Cingolani tutte queste cose non le sa e non le vuole sapere. Occorre rendersi conto che prima o poi queste leggi arriveranno anche in Europa (o forse ci sono gia’?) , e un po’ dopo ancora in Italia che ci piaccia o no.

Ed e’ per questo che e’ criminale quello che Cingolani sta facendo, nel rimpinzare l’Italia di centrali a gas.

Perche’ queste centrali a gas sono investimenti costosi e che ci condanneranno ad usare gas (e a sottostare ai capricci di russi o libici) per altri di 30, 40, 50 anni perdendo il treno delle rinnovabili e tutto quello che fossile non e’. Programmare oggi centrali a gas significa non programmare per il vero futuro che ci aspetta e che non ha niente a che vedere con le trivelle e i rigassificatori.

Cosa alimentera’ queste centrali a gas di Cigolani? Lui bla-bleggia con le trivelle nostane ma lo sa meglio di tutti noi che ce ne abbiamo troppo poco di gas in Italia. E quindi ogni centrale a gas significa continuare sulla strada del passato, importare fossili, creare rigassificatori, gasdotti, centrali di alimentazione.

Ma poi, chi paghera’ per dismettere queste centrali a gas quando il gas sara’ obsoleto?

da qui

giovedì 20 gennaio 2022

La vulva in fiamme - Martina Carpani *


La campagna per il riconoscimento della vulvodinia mette in discussione i paradigmi biomedici della medicina patriarcale e indica la malattia come un potente terreno di lotta

Nel dibattuto sul ruolo della medicina che ha infuocato i talk show e i social network negli ultimi anni pandemici, è stata lasciato poco spazio al punto di vista diretto di chi vive l’esperienza di una malattia cronica e prova sulla propria pelle i limiti della medicina e le disuguaglianze del Sistema sanitario nazionale. 

Il 23 ottobre dello scorso anno il movimento femminista Non Una Di Meno ha portato in piazza la campagna «Sensibile-invisibile», nominando per la prima volta nello spazio pubblico parole tabù e discriminazioni abiliste, di genere e di classe vissute da chi si confronta giornalmente con vulvodinia, endometriosi e fibromialgia. Il Comitato Vulvodinia e Neuropatia del Pudendo, animato dalle associazioni di pazienti e dal personale medico-sanitario, ha avviato contestualmente una campagna politica per promuovere il riconoscimento della vulvodinia nei livelli essenziali di assistenza del Sistema Sanitario Nazionale, al fine di garantire tutele sanitarie, economiche e lavorative a tutte le persone che ne soffrono. 

Spesso questo tipo di lotte sono declassate a battaglie di retroguardia poco generalizzabili e poco interessanti, se non per solidarietà – e a tratti pietismo – verso le donne e le persone amiche che ne soffrono. Invece, utilizzando la pratica femminista che rende il personale politico e facendo lo sforzo di eliminare la lente abilista che oscura il nostro sguardo – ossia la convinzione-norma che tutte le persone siano «sane» e abbiano un corpo abile, da cui deriva la prassi di considerare «eccezione» e dunque soggetto discriminabile tutte le persone che non lo sono – è possibile analizzare quanto sia politica e attuale l’esperienza «sociale» di una malattia sottodiagnosticata che coinvolge 1 donna o persona con vulva ogni 7 e che rappresenta un esempio vivo di come mettere a critica la medicina, pur rivendicando con forza il servizio pubblico.

Cinquant’anni fa, nel pieno dei moti femministi, faceva il giro del mondo il libro Our Bodies, Ourselves del Boston Women’s Health Book Collective, scritto dalle donne per le donne, che ha portato migliaia e migliaia di donne in tutto il mondo a riappropriarsi delle conoscenze sul proprio corpo e a iniziare una feroce critica alle istituzioni della medicina patriarcale, grazie a una dialettica virtuosa tra saperi di natura scientifica ed esperienze delle donne. Scrivono le autrici: 

Fu per noi un’esperienza politica fondamentale: scoprire che non disponevamo di quasi nessun controllo sulla nostra vita e il nostro corpo; uscire dall’isolamento per imparare l’una dall’altra le cose di cui avevamo bisogno; sostenerci reciprocamente nel chiedere i cambiamenti che il nostro nuovo atteggiamento critico indicava come necessari. In quel momento abbiamo preso coscienza del nostro potere in quanto forza politica e sociale in grado di operare cambiamenti.

Da quel momento a oggi, molto è certamente cambiato, ma sul corpo delle donne esiste ancora un grande problema culturale, tanto da renderlo ipersessualizzato e al contempo costantemente negato. L’antropologa femminista Christine Labuski nel suo It hurts down there, the bodily imaginaries of female genital pain racconta che tutte le donne con vulvodinia che hanno varcato la porta dello studio medico in cui ha svolto la sua ricerca non abbiano mai usato le parole «mi fa male la vulva». La percezione è che manchino le parole giuste per descrivere il dolore, non solo nei manuali degli studi medici, ma anche e soprattutto nelle nostre vite di donne e persone con vulva. È anche questa una delle tantissime conseguenze negative dell’assenza di un’educazione sessuale e di un’educazione al corpo che non deleghi solo al personale medico il riconoscimento dei sintomi: non renderci capaci di capire e percepire il nostro corpo in tutte le sue manifestazioni, comprese quelle dolorose.

Bruna Orlandi nel suo libro Nonostante, libera. narra la sua storia di vulvodinia esordendo con queste parole: «Parlerò della vulva per emanciparla dal falso mito che la ammanta e la vede solo come portatrice di piacere. Come ogni parte del corpo può far male, ammalarsi ed essere curata, tuttavia è ad alto indice di sconvenienza sociale manifestarne il dolore».

La vulvodinia è, infatti, una malattia cronica imprevista sia dal punto di vista medico che dal punto di vista sociale, definita in letteratura come dolore vulvare che si protrae per oltre tre mesi. Si presenta con sintomi di tipo spontaneo o provocati dal contatto, quali bruciore, sensazioni di spilli, scosse elettriche e lacerazioni, spesso accompagnata da contratture del pavimento pelvico e da una sofferenza del nervo pudendo. 

In medicina è considerata una tra le cosiddette «contested illnesses» che sfidano il paradigma biomedico positivista. La diagnosi avviene per esclusione da altre patologie, attraverso il cosiddetto «swab test», grazie al quale, praticando pressione con un cotton fioc, si verifica la presenza di un dolore intenso anomalo, riconoscendo la sola esperienza di dolore della persona come prova inconfutabile dell’esistenza del dolore stesso. Gran parte del personale medico-sanitario non solo non è formato per diagnosticare questa patologia, ma – come accade per la fibromialgia – ne mette in discussione la stessa esistenza, nonostante la larga diffusione e il riconoscimento nella letteratura medica internazionale, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Il racconto portato in piazza e diffuso sui social da tantissime è quello di anni di totale invalidazione dei sintomi da parte del personale medico. Ciò è, infatti, diretta conseguenza del paradigma positivista biomedico che non riconosce il dolore senza causa organica o le sue manifestazioni fuori dallo «standard» e che, pur di non aprirsi a una crisi epistemologica, scarica violentemente su di noi i propri limiti sotto forma di colpa individuale, usando l’espediente della critica ai nostri stili di vita per mettere in discussione l’esperienza soggettiva del dolore. La lista di «è tutto nella tua testa», «per le donne è normale soffrire» e «sei stressata ultimamente?» che ci siamo sentite dire non è un caso, ma conferma che la medicina patriarcale utilizza una lente sessista per formulare diagnosi e ipotesi mediche, svaluta e discredita il dolore delle donne, costantemente normalizzato come «castigo di genere» o «eccesso di fragilità». 

In realtà, sebbene la causa della vulvodinia non sia univocamente determinata, è stato individuato un ventaglio di possibili eventi – o cluster – di diversa natura che innescano una percezione alterata del dolore, tra i quali anche quello psicosessuale. Secondo le maggiori ricerche, l’eventuale origine psicosomatica del dolore, anche quando presente, non giustifica in nessun modo l’approccio medico che nega la sua esistenza e che costituisce invece una manifestazione della violenza di genere istituzionale. Anzi, secondo i maggiori studi, tantissime donne vivono depressione, ansia e altre conseguenze psicologiche come conseguenza e non come causa della malattia, proprio a causa di anni di soprusi e dolore non riconosciuto, sia dai medici che dalla società.

La storia clinica di centinaia e centinaia di donne rifiutate dalle istituzioni sanitarie come «moderne isteriche», dimostra quindi come la propaganda della «iper-razionalità» medica, esemplificata da alcuni tristemente noti divulgatori scientisti che si sono distinti anche in questi anni di pandemia, non sia solo profondamente errata, ma soprattutto facilmente riutilizzabile a danno dei soggetti marginalizzati, sui cui corpi non esiste adeguata ricerca medica, in quanto – parafrasando Johanna Hedva ne La teoria della donna malata – non conformi all’inarrivabile paradigma di salute abile, bianco, non stressato e benestante costruito dalla nostra cultura. 

Secondo Vulvodinia Online, la vulvodinia ha un ritardo diagnostico medio di quattro anni e mezzo ed è diagnosticata dopo aver consultato diversi specialisti. In questo limbo, la maggiore fonte di informazione in merito alla malattia è lo spazio virtuale, unico luogo dove il dolore viene legittimato e trova un nome. Grazie ai gruppi social e ai siti web delle associazioni, tantissime scoprono l’esistenza della parola «vulvodinia» e iniziano la sfilza stressante di visite presso i pochissimi specialisti formati e consigliati da altre donne, quasi tutti nel settore privato e con un anno di lista d’attesa. Internet, lo stesso luogo messo alla gogna dall’opinione pubblica per la diffusione di informazioni sbagliate in ambito medico, risulta in questo caso uno spazio fondamentale di autodifesa dal gaslighting medico, poiché rappresenta – nel pieno delle sue ambiguità e dei suoi rischi – l’unico spazio di conoscenza accessibile per le persone malate tagliate fuori dalla sanità pubblica e dalle fonti di conoscenza «ufficiali». 

Questa esperienza diretta di migliaia di donne rappresenta un forte squarcio nella narrazione della medicina come divulgabile solo «dagli addetti ai lavori» che non va affatto in una direzione «antiscientifica». Rivendicare la medicina come scienza non esatta e non neutra, le conoscenze sulla salute come saperi collettivi e non elitari, l’esperienza dei nostri corpi come parte fondamentale e attiva del processo di costruzione del sapere medico, darsi occasione di riconoscerci tra pari, ognuna nei sintomi dell’altra, scambiarsi conoscenze per poter diminuire il rapporto di potere medico-paziente non significa aprire uno spazio «antiscientifico», ma riaprire un processo virtuoso che viene dalla tradizione dell’autocoscienza femminista e che considera la medicina come un sapere necessariamente aperto e fondato sull’integrazione tra saperi di natura diversa, tra i quali sicuramente l’esperienza del corpo.

Se i consultori fossero ancora il luogo autonomo di produzione di saperi femministi, di sensibilizzazione pubblica e di raccolta dei bisogni di cura di donne e persone con vulva per cui sono nati, potrebbero essere il luogo di confronto dialettico tra le istituzioni mediche e i processi di mutuo aiuto e produzione di saperi sulla salute elaborati dalle donne e dalle soggettività dissidenti. Oggi, invece, mancano luoghi, strumenti e processi di apertura del sapere medico alla società, che integrino le conoscenze scientifiche con le ricerche antropologiche e sociologiche e con i processi di raccolta dei bisogni di cura, che orientino le priorità di ricerca in base ai bisogni sociali e a criteri diversi dal profitto. Sembra assurdo, infatti, che una malattia che colpisce il 15% della popolazione assegnata femmina alla nascita sia passata per anni inosservata e sottodiagnosticata, persa nelle carenze della medicina territoriale e nell’arroganza della medicina specialistica.

A seguito della diagnosi, la vulvodinia porta con sé, secondo le associazioni di pazienti, una spesa mensile media di oltre 300 euro, necessaria per accedere all’indispensabile trafila di farmaci, manipolazioni ostetriche o fisioterapiche settimanali, visite specialistiche e controlli, che corrispondono a una spesa mensile pari a quasi il 20% dello stipendio netto medio di una lavoratrice dipendente. La cura è dunque un percorso a ostacoli particolarmente estenuante che risulta sostenibile solo da parte di donne bianche, cis, del nord Italia e di ceto quanto meno medio, pur con grandissime difficoltà economiche ed emotive. Per le donne del sud Italia lontane 800 km dal primo centro specializzato, per le persone meno abbienti, razzializzate, precarie, trans o con difficoltà linguistiche la possibilità di accedere alla cura è fortemente limitata, poiché il sessismo della discriminazione medica è attraversato da altre disuguaglianze e violenze istituzionali.

C’è urgenza che tutto questo cambi, perché, anche se di vulvodinia non si muore, con la vulvodinia non si vive. In un mondo che fa scandire all’abilismo i ritmi del lavoro produttivo e riproduttivo, poter ascoltare il dolore del proprio corpo e il livello del bruciore spontaneo delle proprie vulve è un privilegio incompatibile con la maggior parte degli impieghi e del carico di lavoro domestico. L’imprevisto dolore alla vulva non dà diritto alla malattia, né al riconoscimento di percentuali di disabilità, neppure per chi di noi ha fitte spontanee lancinanti, anzi, spesso richiede di iniziare un secondo lavoro per poter sostenere il costo delle cure. 

Inoltre, il fatto che la malattia colpisca proprio la vulva, rappresenta un imprevisto sociale in una società fondata su relazioni sessuali e romantiche ancora troppo ancorate al modello patriarcale. Per molte donne cis, specialmente eterosessuali, vivere la vulvodinia significa fare i conti con lo stigma causato dall’impossibilità di aderire alle norme di genere della cultura patriarcale dominante, vuol dire sentirsi «donne rotte», «donne inadeguate», «donne a metà», come raccontano le ricerche sociologiche che parlano di vulvodinia. 

Come cinquant’anni fa, dunque, oggi diverse generazioni di vulvodiniche si sono accorte di non sapere ancora abbastanza del proprio corpo, di subire collettivamente ingiustizia e abusi di potere. Elaborando il ruolo di «soggetto imprevisto», donne con la vulva in fiamme rivendicano la propria esistenza medica e sociale, la propria espressione erotica e la propria desiderabilità nonostante la malattia. Grazie alla sorellanza e a esperienze di mutuo aiuto, gruppi di malate rivendicano l’altalenarsi del proprio stato di salute e del proprio stato emotivo senza autogiudizio, rifiutando quella «cultura del dolore» socialmente costruita e rafforzata dai media, che non lascia spazio alle micro-resistenze quotidiane ma rafforza solo narrazioni pietistiche della malattia. Soprattutto ancora oggi sperimentano il potere di unire insieme i corpi malati – con forme e modalità compatibili con lo stato del dolore – nella lotta, con l’urgenza di pretendere la gratuità delle cure per tutte, formazione medica obbligatoria sui nostri corpi e un centro pubblico specializzato in dolore pelvico in ogni Regione, per lanciare un j’accuse alle istituzioni mediche patriarcali ed alla «cultura dell’essere sani». 

Nelle contraddizioni della medicina e della cura istituzionale, in una pandemia globale la cui gestione appare scaricata sempre più sulle persone che hanno corpi più esposti alle potenziali conseguenze avverse del long Covid, la malattia è uno spazio politico poco esplorato che andrebbe politicizzato ardentemente, sia per far emergere le contraddizioni del sistema capitalista, sia per rivendicare con ancora più forza l’accesso universale alle cure. Per dirla con Johanna Hedva: «Non avete bisogno di essere aggiustate, mie regine: è il mondo che ha bisogno di essere rifatto».

*pur conscia che tanti uomini trans e tante persone non binarie soffrono di vulvodinia come me, in questo articolo ho scelto di utilizzare il femminile universale e di riferirmi alle donne, in linea con la mia esperienza soggettiva di malattia, grazie alla quale ho riconosciuto con ancora più urgenza la necessità di mettere al centro il mio posizionamento situato. La mia esperienza non ha la pretesa di essere assoluta e sarei felice di metterla in dialogo con quella di altre soggettività.

Martina Carpani, attivista in Non Una di Meno e malata cronica, si occupa di giustizia riproduttiva e salute in ottica femminista e intersezionale

https://jacobinitalia.it/la-vulva-in-fiamme/

mercoledì 19 gennaio 2022

Si illudono di tornare come prima - Guido Viale

 

È ormai un’armata Brancaleone quella che dovrebbe traghettarci nella transizione ecologica. Il Governo Draghi? Forse è il peggiore di tutti quelli che l’hanno preceduto, se non altro perché di fronte alle aspettative che ne hanno promosso e accompagnato il varo, il tonfo è ancora più evidente. Come se a due anni dallo scoppio della pandemia che Draghi era stato chiamato a combattere – e ad attenuarne le conseguenze – non si fosse ancora capito che essa è destinata a durare a lungo, forse per sempre, anche se con alti e bassi dovuti al continuo ripresentarsi di nuove varianti (anche per il nulla di fatto per arginarla a livello mondiale) o alla sempre più probabile comparsa di altri virus.

La pandemia avrebbe potuto e dovuto insegnare che per convivere con essa non servono né misure estemporanee, né l’attesa messianica di sconfiggerla con dei vaccini, peraltro improvvisati – e per questo rischiosi – e dimostratisi tutt’altro che efficaci, a meno della loro non prevista e non programmata ripetizione a scadenze sempre più strette. Il fatto è che per conviverci bisognava e bisogna imparare e abituarsi il più in fretta possibile a uno stile di vita diverso, a produrre beni e servizi differenti, a ri-orientare tutte le nostre istituzioni. Innanzitutto, a mettere al centro le future generazioni. Se sono loro (la NextGenerationEU, che finora ha fatto da alibi a uno sperpero irresponsabile dei fondi del PNRR) i destinatari di quei denari, l’obiettivo doveva essere non farle vivere in stand by a tempo indeterminato. Al primo posto si doveva mettere la scuola e l’istruzione: requisire spazi pubblici e privati per avere più aule a disposizione (in attesa di costruirne di nuove); distribuire borse di studio e strumenti didattici, anche informatici; assumere insegnanti (che ci sono) e garantir loro un trattamento dignitoso; utilizzare i bus turistici – in gran parte inutilizzati – per portare a scuola in sicurezza gli studenti (e non solo), precostituendo gestione e struttura di un servizio pubblico di trasporto locale che funzioni anche quando sarà diventato difficile o impossibile continuare ad usare l’auto (sia convenzionale che elettrica) come si fa oggi. E poi, moltiplicazione dei presidi sanitari territoriali, interventi tempestivi sui contagiati prima che un ritardo li trascini in ospedale; assunzione dei (pochi) medici e infermieri ancora disponibili, allargando immediatamente le maglie della loro formazione. E poi, ancora, investimenti massicci e rapidi solo su fonti rinnovabili e sulla necessaria infrastruttura, ma anche contenimento dei consumi energetici superflui: era ovvio che il mercato dei fossili si sarebbe rivelato sempre più turbolento (come peraltro quello delle materie prime, o dei microchip e chissà di che altro…).

Ma si doveva anche prevedere che ci sarebbero stati meno viaggi aerei, meno turismo internazionale, meno fiere, mostre ed eventi in presenza, con la necessità urgente di offrire, a chi era impegnato nelle tante attività connesse, delle alternative di impiego, di riqualificazione, di conversione produttiva. E questo, in molti altri settori, per prevenire le crisi aziendali con progetti di riconversione, senza “inventarli” all’ultimo minuto. Per non parlare delle armi…

Il covid ha offerto l’occasione di una prova generale di un’effettiva conversione verso un assetto sociale e produttivo che un futuro non lontano renderà ineludibile; perché molte delle attività che si cerca in tutti i modi di tener in piedi per sostenere il PIL (stella polare di tutti i provvedimenti di questo governo, ma anche di quelli di gran parte del resto del mondo) non sono in grado di reggere l’impatto della crisi climatica a cui andiamo incontro.

Questa opportunità non è stata né percepita né colta come tale dalle forze politiche in campo – ecologisti e verdi compresi – e meno che mai da Draghi che, proprio perché osannato (finora) sia in patria che a livello internazionale, rappresenta visivamente tutti i limiti e i difetti dell’establishment globale.

È cinquant’anni che si parla di una crisi climatica sempre più vicina e sempre più grave quanto più si persevera nell’ignorarla: a parole o di fatto. Ma il ceto politico e imprenditoriale che governa il mondo non si è mai veramente interrogato sugli scenari futuri che quella crisi avrebbe portato con sé, confidando, al più, nella geoingegneria per combatterla, come oggi confida nei vaccini per “disfarsi” dell’”inconveniente” covid, senza mai vedervi una prima, anche se parziale, manifestazione del disastro incombente. Continua ad agire – o a far finta di agire – come se tutto potesse continuare (anzi, riprendere) come prima. Mentre il covid continua a infierire senza che nemmeno i medici-scienziati, quelli che lo commentano giorno per giorno in Tv e sui giornali, sentano il bisogno di andare al di là delle speranze, sempre più flebili e problematiche, riposte in un vaccino a cui viene affidato il compito di farci riprendere il trantran di sempre.

https://comune-info.net/si-illudono-di-tornare-come-prima/

lunedì 17 gennaio 2022

La lotta per le risorse energetiche è appena cominciata - Alessio Marchionna

 

Uno degli aspetti più interessanti della transizione energetica verso fonti rinnovabili è il modo in cui trasformerà (sta già trasformando, in realtà) gli assetti geopolitici. Come è successo dopo l’avvento dei combustibili fossili – che per la maggior parte dell’ultimo secolo hanno condizionato i rapporti tra i paesi – anche la corsa alle risorse necessarie per ridurre le emissioni di anidride carbonica creerà dei vincitori e degli sconfitti, e probabilmente ribalterà alcuni dei rapporti di forza attuali.

In linea di massima gli analisti tendono a pensare che i paesi che hanno costruito la loro politica estera sulla vendita di petrolio e gas naturale perderanno peso sulla scena internazionale, a vantaggio di quelli che detengono le materie prime necessarie per sostenere la transizione energetica e di quelli che riusciranno a sfruttarle.

Ma, come spiega un lungo e interessante articolo di Foreign Affairs, è meglio non fare valutazioni avventate in proposito, perché molto dipenderà da una serie di fattori che al momento sono difficili da prevedere – come i cambiamenti nelle catene di distribuzione, l’introduzione di nuove tecnologie, la scoperta di nuovi giacimenti – e anche perché il processo sarà molto lungo. “I cosiddetti petrostati vivranno un periodo positivo prima che cominci il loro declino, perché i combustibili fossili convivranno inizialmente con le fonti rinnovabili, soprattutto per consentire la crescita di paesi in via di sviluppo”.

Inoltre è probabile, come sostengono i promotori delle energie pulite, che un mondo basato sulle rinnovabili sarà più stabile e sicuro di quello attuale; ma il periodo di transizione – i prossimi trent’anni – sarà segnato da sconvolgimenti senza precedenti negli equilibri globali, nelle dinamiche di potere e nella situazione generale dei singoli stati.

Partner ideale
La cosa certa è che la sfida tra le grandi potenze per il controllo delle risorse necessarie a sviluppare e a far funzionare le tecnologie pulite è cominciata, e gli Stati Uniti non sembrano posizionati benissimo. Il New York Times ha pubblicato una lunga inchiesta dalla Repubblica Democratica del Congo, che al momento fornisce più della metà delle scorte mondiali di cobalto, usato per produrre le batterie delle automobili elettriche. L’articolo fa luce sulla corruzione dei politici locali, sulle pessime condizioni di lavoro e sui danni ambientali, ma è anche il racconto del declino di Washington sulla scena internazionale.

I rapporti tra i due paesi sono sempre stati molto stretti. Durante la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si rivolsero al Congo belga dell’epoca per procurarsi l’uranio necessario per costruire le bombe atomiche che poi furono sganciate su Hiroshima e Nagasaki. E nei decenni successivi spesero decine di miliardi di dollari per proteggere i siti minerari nel territorio. Negli anni settanta il paese africano (che aveva cambiato nome in Zaire per volere del presidente Mobutu Sese Seko) fu fondamentale nella strategia di Washington per limitare l’influenza dell’Unione Sovietica in Africa. “Se perdiamo lo Zaire, ogni paese africano arriverà alla conclusione che Mosca rappresenti il futuro”, disse una volta il segretario di stato americano Henry Kissinger.

Mobutu pensava che gli Stati Uniti fossero il partner ideale per sfruttare le grandi risorse minerarie del suo paese, perché portavano gli investimenti delle grandi aziende statunitensi e aiutavano a combattere e reprimere i ribelli filosovietici. Poi una serie di scelte sbagliate, negli anni duemila, ha cambiato la situazione. La Freeport-McMoRan, l’azienda statunitense che controllava le miniere congolesi, ha deciso di puntare forte sul gas e sul petrolio, spendendo venti miliardi di dollari per comprare due aziende del settore. Quando il prezzo del petrolio è crollato, l’azienda si è trovata sommersa dai debiti, e nel 2016 ha dovuto vendere la miniera di cobalto e rame di Tenke Fungurume, la più importante del paese. Le uniche acquirenti erano aziende cinesi sostenute dagli investimenti di Pechino. Se l’è aggiudicata la China molybdenum, per 2,5 miliardi di dollari.

L’amministrazione Obama era consapevole che il cobalto stava diventando una risorsa fondamentale nell’economia mondiale e che gli Stati Uniti sarebbero rimasti indietro, ma non ha avuto né la capacità né la volontà di impedire l’ascesa della Cina nel settore: in quel periodo il grosso delle risorse economiche e degli sforzi politici di Washington era dedicato alle guerre in Afghanistan e in Iraq e alle operazioni contro il gruppo Stato islamico.

Poi è arrivato Donald Trump, con la sua promessa di “far tornare di nuovo grande” il carbone. Appena entrato alla Casa Bianca, Trump ha cancellato le misure pensate per accelerare la transizione verso le auto elettriche, dando un ulteriore vantaggio alla Cina. Al momento Pechino controlla 15 delle 19 miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo.

A metà novembre Joe Biden, parlando da uno stabilimento della General Motors a Detroit, ha ammesso che Pechino sta vincendo la corsa sulle auto elettriche: “Qualcosa è andato storto lungo il percorso. La Cina è avanti”. Poi, con tono di sfida, ha aggiunto: “Ma le cose stanno per cambiare”.

La caccia al litio
Le speranze degli Stati Uniti di recuperare terreno dipendono in buona parte da quello che riusciranno a trovare sotto il deserto nel nord del Nevada. Secondo le stime, in quella regione, conosciuta come Thacker Pass, c’è la più grande riserva di litio del Nordamerica. Ne parla un articolo di Le Monde. Come il cobalto, anche il litio è fondamentale per la transizione energetica, perché è in grado di trattenere una grande quantità di energia in un piccolo volume. È usato per le turbine eoliche, per i pannelli solari e, soprattutto, per le batterie delle auto elettriche. Al momento metà delle forniture di litio proviene dall’Australia, il resto dalla Cina (17 per cento), dal Cile (22 per cento) e dall’Argentina (8 per cento).

Gli Stati Uniti, che hanno circa il 10 per cento delle riserve mondiali, hanno una sola miniera attiva a Silver Peak, sempre in Nevada, e forniscono appena cinquemila tonnellate all’anno. Una quantità insignificante rispetto alla produzione mondiale (82mila tonnellate nel 2020). Sono in ritardo anche nella produzione di batterie agli ioni di litio: la Cina ospita 107 delle 142 fabbriche del mondo, gli Stati Uniti solo nove, anche se sono un esportatore di veicoli elettrici.

Biden sta provando a invertire la tendenza. Dopo essersi insediato ha firmato due decreti: uno stabilisce che entro il 2030 la metà delle nuove auto vendute negli Stati Uniti dovrà essere elettrica; un altro serve a migliorare la gestione delle riserve di litio e a sviluppare l’industria per la produzione di batterie. Le riserve di Thacker Pass quindi sono fondamentali. Secondo la Lithium Americas, l’azienda che realizzerà il progetto, una volta a pieno regime la miniera potrebbe soddisfare un quarto della domanda mondiale di litio e alimentare un milione di auto elettriche.

Al progetto si oppongono gli attivisti ambientali del Nevada, convinti che non abbia senso sacrificare un territorio incontaminato in nome (paradossalmente) della transizione ecologica. Secondo loro la miniera renderà la terra circostante inabitabile per le piante e metterà in pericolo una serie di animali. Inoltre l’attività estrattiva potrebbe disperdere nell’acqua metalli pericolosi come arsenico, antimonio e uranio.

da qui