martedì 30 giugno 2020

Africa terra di conquista


La spada europea nel Sahel - Mauro Armanino

L’operazione militare francese nel Mali, il cuore del Sahel, era stata battezzata Serval, nome di un felino selvatico originario dell’Africa sub sahariana. Fermare l’avanzata dei presunti djhadisti verso la capitale del Paese era stato il pretesto dell’intervento, iniziato nel mese di gennaio del 2013 e terminata l’anno seguente. Il mese di agosto del 2014 l’operazione Serval è stata sostituita dall’operazione Barkhane, nome di una particolare duna ‘migrante’ col vento nel deserto sahara-saheliano. Costituita da una forza francese di circa 5 mila militari ha la sua sede principale nella capitale del Tchad, N’Djamena.
Lo scopo affermato dell’operazione è quello di fare in modo che gli Stati del Sahel acquisiscano la capacità di assicurare, in modo autonomo, la loro sicurezza. La strategia riposa, almeno sulla carta, su un approccio globale (politico, sicuritario e dello sviluppo). L’operazione Barkhane è di natura anti-insurrezionale contro i gruppi terroristi armati di ispirazione djihadista. Nel frattempo le forze in campo si sono moltiplicate in modo proporzionale ai soldi, ai militari e ai gruppi armati. Si prospetta una guerra di lunga durata che oltre a migliaia di morti ha creato centinaia di migliaia di sfollati, rifugiati e intere zone abbandonate dallo stato. Il panmilitarismo continua a proporsi come profezia che si (auto) avvera: chi di spada ferisce di spada perisce, sta scritto.
Takouba è il nome attribuito alle forze speciali europee che dovrebbero aiutare quelle maliane nella lotta contro il terrorismo nel Sahel. Ora Takouba è una parola in Tamachek, la lingua dei Tuareg, che significa la spada usata nella tradizione per proteggere l’onore. Il detto tuareg, infatti suona così…che i tuoi schiavi proteggano il gregge e che la tua takouba protegga il tuo onore. In ambito bellico, si sa, l’onore delle armi è tenuto in alta stima, molto più della pace che non interessa a quelli che contano. D’altra parte, per parafrasare, la guerra è una cosa troppo importante per lasciarla nella mano dei generali.
E allora ecco che spunta dal cilindro la forza Takouba. Detta forza era stata annunciata, secondo la ministra della difesa francese, Florence Parly, da Emmanuel Macron in occasione del contestato incontro di Pau. Il ‘summit’ era stato convocato dallo stesso ineffabile Macron che voleva mettere a tacere le voci crescenti di dissenso di una parte della società civile dei paesi africani in guerra contro la presenza francese.  L’epidemia indotta del Covid 19 ha poi messo a tacere chiunque avesse avuto velleità alternative alla guerra totale perché gli interessi economici e strategici erano e sono ingenti. E dunque, oltre l’operazione Barkhane, la forza delle Nazioni Unite ‘Minusma’, la presenza di accordi bilaterali di addestramento e formazione militare, il G5 Sahel, altre migliaia di militari, ecco il prossimo arrivo della forza europea battezzata Takouba.
Secondo la ministra Parly i risultati delle operazioni sono assai incoraggianti in particolare nelle zone delle ‘tre frontiere’, Burkina, Mali e Niger. Proprio in questa regione, si registrano gli abusi più consistenti nei confronti dei civili. Alcuni di questi sono stati discussi giorni fa dalla Commisssione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite che ha invitato i militari a terminare le violenze e i massacri sulle popolazioni locali. Secondo la ministra della difesa, estoni e svedesi sono già della partita, e i cechi hanno dato il loro accordo di principio, mentre altri Paesi manifestano interesse per unirsi alla forza europea Takouba. Un primo contingente dovrebbe essere operativo prima della fine dell’estate e comprenderà un centinaio di militari presi dalle forze speciali. L’Unione Europea esprime la sua inquietudine sulla possibile estensione della crisi ad altri Paesi vicini e a quelli della Costa di Guinea, sull’Atlantico. A questo proposito dall’Unione Europea sono stati promessi altri 194 milioni di euro di rinforzo per le forze di sicurezza.
Non si capisce dunque perché si dovrebbe far cessare una guerra che arricchisce molti e che soprattutto conferma che solo con guerra si potrà generare la pace. In effetti le armi, in Africa, non mancano. Sono stimate, secondo lo specialista George Berghezan in una recente intervista, a circa 40 milioni, per buona parte possedute in modo illecito e una dozzina di milioni di armi in Africa Occidentale. Creare le guerre per vendere le armi e usarle per creare le guerre è una storia troppo conosciuta per stupirsi della perenizzazione dei conflitti armati. Senza dimenticare, last but not least, ultimo ma non meno importante, che la corruzione prolifica laddove ci sono somme cospique di denaro. Il Niger, ad esempio, ha investito miliardi di franchi per la sua difesa ed è di queste settimane l’inchiesta per chiarire nomi e mandanti del misfatto. Le prime stime, filtrate dal rapporto, parlano di circa 116 milioni di euro che mancano all’appello. Chi di spada ferisce di spada perisce, così sta scritto.


L’Africa e l’italico spettacolo - Mauro Armanino


L’ipocrisia è un’epidemia che passa di solito inosservata tra le pieghe della realtà. Un buon esempio di ciò è la recente celebrazione del compleanno numero 57 dalla creazione dell’Unione Africana da parte delle autorità istituzionali italiane. Etimologicamente la parola ipocrita, derivata dal greco antico, allude all’attore di teatro e a ragione si può affermare che l’ipocrisia è quanto definisce i commedianti, recitino o meno a soggetto.
Il presidente Sergio Mattarella, il ministro degli Esteri Luigi di Maio e la vice ministra agli Esteri Emanuela Del Re, hanno offerto, ognuno a suo modo  e con modalità proprie, un gratuito spettacolo sulla scena nazionale. Cosciente o incosciente, la coreografia scelta in questa circostanza, bene evidenzia l’immaginario che alcune delle massime autorità della Repubblica perpetuano sul Continente Africano. In effetti, se vogliamo essere onesti, dovremmo proprio partire da lì, dal rispetto nei confronti di questo Continente e dalla presunzione di considerare l’Africa come un ‘partner’, per usare la parola delle signora Del Re. Un paese come l’Italia che ha l’ardire di instaurare un’operazione di questo tipo con un continente di 54 paesi riconosciuti e un paio d’altri in condizione di clandestinità amministrativa, recita.
L’umiltà e un atteggiamento più realista, dovrebbero condurre al riconoscimento che non è possibile presumersi come ‘partner’ di un continente così ricco, diverso e plurale come l’Africa e ricondurlo ad una sola ed unica entità. Ridimensionare le proprie ambizioni, accettare i propri limiti e mettersi, semmai, all’ascolto di questo continente, che meglio sarebbe definire ‘Afriche’, appare più onesto. Non confessato o rimosso, invece, riappare sotto mentite spoglie il fallimentare complesso della breve stagione coloniale italiana in Africa. Cinquant’anni nei quali l’immagine dell’Africa è stata ridotta ad una maschera di falsità, tra rigurgiti massonici, fascisti e capitalisti del ‘posto al sole’ per essere annoverati nella corsa per la spartizione del Continente. L’uso dei gas in guerra, deportazioni ed efferati massacri sono stati per decenni espunti dalla storiografia insegnata nelle scuole della penisola a tutto beneficio della favola degli ‘italiani brava gente’. Il frutto di questo immaginario, riassunto dal ritornello “Faccetta nera bell’Abissina…” non è mai stato messo seriamente processato, come del resto sarebbe avvenuto per la storia, sofferta e ambigua dell’emigrazione italiana. “Certo i problemi non mancano – riconosce la vice ministra – e tra tutti il più grave è la sicurezza. Il terrorismo in Africa continua ad essere una piaga devastante“.
La Commedia dell’Arte, in questi frangenti, riscopre il suo particolare stile. Non c’è un copione e gli attori, anziché imparare a memoria le battute, basano la loro interpretazione su una trama e improvvisano in scena. Quanto i ministri in questione hanno affermato per la circostanza non sono altro che improvvisazioni che possono essere credibili e credute solo da chi continua a lasciarsi ‘confinare’ lo spirito e la memoria. Affermare, come sopra menzionato, che il problema principale dei 54 paesi che compongono il Continente è il terrorismo, appare come una commedia che offende la realtà. Semmai, per buona parte dei Paesi, la prima sicurezza è quella alimentare, seguita dall’accesso all’acqua potabile, al lavoro decente, al rispetto della dignità e alla giustizia sociale….”Il legame tra Italia e Africa è saldo: ci riconosciamo gli uni negli altri perché il destino è comune“, conclude Del Re. Provate a chiedere sull’effettiva solidità di questo legame alle politiche di esternalizzazione delle frontiere europee fino ad Agadez, passando dalla Mauritania, al Marocco, alla Tunisia e alla Libia che, assieme al Niger, si sono adattati a trasformarsi in aziende a cui sub-appaltare il controllo dei migranti ‘irregolari’ dell’amato Continente. Il destino è comune ma fino ad un certo punto, finchè conviene ad una delle parti in causa. Questa si chiama ipocrisia e cioè messa in scena.
Di Maio ricorda il forte impegno dell’Italia nella cooperazione allo sviluppo in Africa, ‘strumento utile a rafforzare la stabilità e la crescita locale che ci consente di agire anche sulle cause della migrazione’. Appunto e come per confermare l’agenda più o meno occulta delle politiche di aiuto italiane ed europee: agire sulle cause della migrazione. Questo implicherebbe un cambiamento radicale di sguardo, di politiche e di azioni conseguenti a ciò che la Del Re, definiva ‘destino comune’. Apparentemente non è ‘comune’ nell’ennesima sanatoria per i migranti ‘invisibili’ che rendono però ‘visibile’ l’economia del Paese, accordata per la durata di sei mesi. Ritornerà poi il reato di clandestinità che obbligherà migliaia di persone a recitare la parte che è stata loro attribuita, braccia utili e persone scomode…“Il Mediterraneo potrà essere fedele alla sua vocazione, storica e geografica, di ponte fra i due continenti…”, ricorda il presidente Mattarella. L’ipocrisia è a questo punto senza confini. I campi di detenzione in Libia, le armi italiane vendute tra l’altro all’Egitto, all’Algeria, al Marocco e Israele, appunto nell’area mediterranea, sono tutto meno che ponti e somigliano semmai a fili spinati nei quali restano impigliati i sogni e le vite di coloro che sperano in un mondo differente. L’anniversario dell’Africa di cui le nostre autorità parlano, si è poi tradotto in una ‘maratona video’ organizzata dalla Farnesina. I… “percorsi di cooperazione internazionale promuovendo la pace, la dignità umana e lo sviluppo sostenibile…”, proposti dal messaggio del presidente della repubblica, si realizzeranno il giorno in cui si smetterà di fare spettacolo con la politica. Inizieranno quando cadranno le maschere dalle parole e dagli occhi.




lunedì 29 giugno 2020

Facciamo luce sullo sfruttamento - Deborah Lucchetti




A fronte di un forte aumento di richiesta di eticità e sostenibilità nel mondo della moda, i marchi hanno risposto con grandi campagne di marketing e corposi report di sostenibilità. Nel frattempo però, hanno continuato a cercare in maniera spietata prezzi sempre più bassi per la produzione dei propri beni, costringendo i fornitori a lavorare con margini di profitto ridotti e comprimendo i salari dei lavoratori già costretti a vivere sulla soglia di povertà.
I salari da fame sono spesso nascosti in complesse e segrete catene di fornitura. Per decenni, marchi e distributori hanno realizzato profitti attraverso un modello a basso costo e ad alta intensità di manodopera. La mancanza di trasparenza ha permesso ai marchi di prendere le distanze dai lavoratori lungo la filiera ed eludere le proprie responsabilità di garantire salari dignitosi e porre fine allo sfruttamento nelle catene di fornitura. Inoltre ha impedito ai lavoratori di organizzarsi e chiedere una retribuzione equa per il loro lavoro.
Le aziende spesso non pubblicano informazioni sulla loro catena di fornitura perché ciò significherebbe associare il proprio brand ai salari di povertà che ricevono i lavoratori e le lavoratrici. Questo comportamento è irresponsabile e non può continuare: per questo motivo la necessità di avere dati precisi e aggiornati sui fornitori e sui salari effettivamente pagati lungo la filiera è ormai diventata urgente
“Non abbiamo mai visto dati sui pagamenti dei marchi, sui prezzi che pagano davvero. Il nostro direttore dice sempre che siamo in perdita. Secondo lui dovremmo lavorare ancora di più” ci ha raccontato una lavoratrice dalla Croazia.
La pandemia di COVID-19 ha messo ulteriormente a nudo le disuguaglianze nel settore della moda: i marchi annullano gli ordini e unilateralmente impongono sconti ai fornitori, costringendo i lavoratori alla miseria. La crisi ha di fatto frantumato l’immagine illusoria di una moda sostenibile ed etica creata ad arte dai marchi negli ultimi anni. I consumatori si informano sempre di più sugli squilibri di potere nelle catene di fornitura che mantengono i lavoratori in condizioni di povertà. I lavoratori e le lavoratrici, senza risparmi accumulati, sono vittime delle chiusure delle fabbriche e dei licenziamenti di massa: la rivendicazione di un salario dignitoso non è mai stata più urgente.
Il sito Fashion Checker aumenterà la trasparenza nell’industria tessile, facendo luce sui bassi salari, sugli straordinari eccessivi e sullo sfruttamento endemico del settore. Il portale contiene informazioni dettagliate sui salari, sulle condizioni delle donne e dei migranti e in generale sulla situazione di tutti i lavoratori.

Si stima che l’industria tessile impieghi circa 60 milioni di lavoratori, di cui l’80% donne. I bassi salari hanno pesantemente condizionato le loro capacità di lottare per migliori condizioni di lavoro e salari più equi, mantenendo lo status quo.
Accanto alla pubblicazione dei dati, la Clean Clothes Campaign ha elaborato anche una serie di richieste per i brand e i decisori pubblici. Le richieste principali riguardano la necessità di utilizzare parametri trasparenti e affidabili per il calcolo dei salari e la promozione della dovuta diligenza obbligatoria in materia di diritti umani lungo tutta la filiera.
Nonostante un aumento della trasparenza negli ultimi anni, gli attivisti chiedono ai brand e ai decisori pubblici di pubblicare più dati e velocizzare i processi di trasparenza nelle filiere internazionali.
· Secondo i Principi Guida delle Nazioni Unite sulle imprese e i diritti umani i marchi sono obbligati ad assumersi le proprie responsabilità: e ciò nonostante, nel 2020 i lavoratori e le lavoratrici tessili stanno ancora lottando per diritti umani di base.
·     Nel 2019, su 200 brand intervistati dal Fashion Transparency Index solo il 35% ha pubblicato informazioni sulle fabbriche e i laboratori di primo livello delle loro filiere. 
La piattaforma contiene informazioni su 108 brand e centinaia di interviste alle lavoratrici e ai lavoratori in cinque Paesi produttori. Il sito verrà aggiornato costantemente con informazioni fornite da lavoratori e attivisti. Ciò consentirà ai consumatori, ai decisori pubblici e a tutti gli stakeholders di verificare se effettivamente le promesse e le iniziative che i marchi dichiarano di assumere contribuiscano al raggiungimento dei salari dignitosi per tutti e tutte.


sabato 27 giugno 2020

L’esperimento che può rendere più giusti i prezzi al supermercato - Stefano Liberti



Quando è stata lanciata in Francia, ha avuto un successo incredibile: più di quattordici milioni di clienti, 33 referenze di prodotti e la presenza fissa in gran parte dei supermercati. Parliamo della “marca del consumatore”, un brand promosso dal basso che negli ultimi tre anni e mezzo si è imposto sugli scaffali della maggioranza dei grandi esercizi commerciali francesi.
Senza pubblicità né campagne di marketing, se non il passaparola e un uso intelligente dei social network, le confezioni con la scritta “C’est qui le patron?” (Chi è il padrone?) hanno conquistato spazi di mercato mai visti prima. “Per il latte siamo diventati il marchio più venduto, dietro solo a quello di primo prezzo”, sottolinea Nicolas Chabanne, l’uomo che nel 2016 ha avuto l’intuizione che sta rivoluzionando le dinamiche di funzionamento della filiera agroalimentare e il modo stesso di fare la spesa. Un cambiamento che dalla Francia si sta diffondendo in diversi altri paesi, tra cui l’Italia: il 25 giugno le prime confezioni di pasta con la marca del consumatore arriveranno nei punti vendita Carrefour in tutto il paese.
L’idea è semplice e innovativa al tempo stesso: attraverso un questionario online, le persone indicano le modalità di produzione preferite per un determinato prodotto. Sono loro a stringere un patto con i produttori, a cui chiedono una certa qualità in cambio di un prezzo stabilito e bloccato per tre anni che li remunera il giusto, come indica in modo evidente la stessa confezione.

L’esperienza francese
Racconta Chabanne che l’idea gli è venuta nel pieno di una delle cicliche crisi del latte. In Francia il prezzo era bassissimo tanto che, strozzati dai debiti, diversi produttori 
si erano tolti la vita. Lui ha interpellato i consorzi e chiesto loro quale sarebbe stato il prezzo giusto a cui vendere il prodotto. “Nessuno aveva una risposta precisa. Allora ci siamo messi a sedere e abbiamo preso una calcolatrice”. Alla fine, sono riusciti a stabilire che con appena otto centesimi in più al litro, i produttori passavano dalla crisi più nera alla possibilità di garantirsi un reddito. “In media ogni francese consuma cinquanta litri di latte all’anno. Con il piccolo aumento avrebbe speso quattro euro in più all’anno. Abbiamo fatto questa scommessa, proponendo l’equazione ai consumatori: siete disposti a spendere otto centesimi in più per un prodotto che remunera il giusto i produttori?”. La scommessa è stata vinta: l’imprenditore si dava come obiettivo la vendita di cinque milioni di litri all’anno. Ne ha venduti 170 milioni in tre anni, con una crescita così rapida che non ha eguali nella storia recente dell’agroalimentare. Al latte sono seguite le uova, poi il burro, la pizza, la carne, il miele e decine di altri prodotti.
Chabanne, che si definisce “il rappresentante della grande famiglia dei consumatori”, non ama parlare di rivoluzione. “Mi sembra più che altro un’evoluzione, in cui i consumatori diventano parte attiva della filiera e non subiscono scelte fatte altrove, spesso a scapito della qualità e del benessere dei produttori”. Il cambiamento ha permesso di invertire in modo radicale una tendenza che negli ultimi anni si è imposta nella grande distribuzione organizzata: quella di comprimere sempre di più i margini degli altri attori della filiera, basando il proprio marketing soltanto su una politica di riduzione dei prezzi.
A questa dinamica, la marca del consumatore risponde con il coinvolgimento delle persone, rendendo trasparenti i meccanismi di produzione e anche la parte di prezzo che arriva al produttore. “Probabilmente il movimento ha funzionato perché chi acquista la marca del consumatore si sente di partecipare al bene comune”, sottolinea Chabanne. “Siamo partiti da un assunto semplice: nessuno vuole essere complice di un sistema che crei sofferenza, danneggi l’ambiente e impoverisca i territori”.
Tutti possono compilare i questionari online per i singoli prodotti. Per entrare a far parte in modo attivo del movimento di “C’est qui le patron?” è sufficiente versare un euro e diventare socio di una cooperativa che vota in modo democratico indirizzi futuri, interagisce con i produttori, stabilisce rapporti con i punti vendita. L’accordo iniziale con Carrefour, che ha creduto nel progetto, ha dato una spinta all’iniziativa: oggi i prodotti a marca del consumatore sono una presenza imprescindibile in tutti i principali supermercati francesi.

La pasta dal prezzo giusto
“Anche in Italia partiremo con Carrefour, con cui abbiamo avuto un’interlocuzione positiva”, racconta Enzo Di Rosa, fondatore del marchio italiano. “Abbiamo scelto come primo prodotto un simbolo del nostro paese: la pasta”. Spaghetti, penne rigate e fusilli a marca del consumatore compariranno a fine giugno sugli scaffali, con una confezione blu su cui sarà scritto: “Questo prodotto remunera il giusto prezzo i produttori di grano”. Le modalità di produzione sono state stabilite attraverso un questionario aperto, a cui hanno risposto alcune migliaia di consumatori.
Per questo primo esperimento, la stragrande maggioranza delle persone che hanno partecipato ha chiesto che l’origine fosse al 100 per cento italiana, grano duro da agricoltura sostenibile, mulino annesso al pastificio, trafilatura in bronzo e remunerazione per l’agricoltore di quattrocento euro a tonnellata. “È un valore più alto del 35 per cento rispetto a quello del mercato”, sottolinea Di Rosa. “A questo prezzo gli agricoltori potranno avere un guadagno e sperimentare produzioni sostenibili”. Con le caratteristiche decise dalla maggioranza di quanti hanno risposto al questionario, il prezzo di vendita della confezione da cinquecento grammi sarà di 1,07 euro. Un prezzo più alto rispetto a quello proposto dalla maggior parte delle marche, ma più basso rispetto a quello dei marchi che si sono imposti nella fascia più alta dei consumatori.
Sarà il gruppo veneto Sgambaro a produrre la pasta. “Quest’iniziativa è per me un laboratorio, con cui proveremo a sperimentare modalità più virtuose di funzionamento della filiera”, sottolinea Pierantonio Sgambaro, amministratore delegato dell’azienda. “Partiremo con quantità piccole, come una start-up, per capire se il mercato italiano è pronto”, dice questo imprenditore della pasta che già da trent’anni promuove politiche di filiera integrata, lavorando in sintonia con gli agricoltori e producendo pasta rigorosamente con grano duro di origine italiana. “Oggi venderla non è facile. C’è un’enorme concorrenza e una politica dei prezzi feroce. Se questo esperimento consentirà di cambiare rotta, sarà un grande passo in avanti”.
Alla pasta seguiranno a breve anche la passata di pomodoro, il latte e le uova. “Con il questionario, i consumatori diventano ‘consumattori’, cioè parte attiva della filiera. Aspirano ad assumere il controllo diretto di quello che hanno nel piatto, sostenendo direttamente i produttori agricoli”, dice Di Rosa. In un panorama in cui gli agricoltori sono spesso costretti a subire i prezzi imposti dalla distribuzione, l’alleanza con i consumatori può fare la differenza, tanto più che i margini di guadagno ci sono per tutti, anche per gli esercizi della grande distribuzione organizzata. “Siamo tutti d’accordo che la marca del consumatore non debba mai partecipare a iniziative promozionali o sconti. E questo va bene anche alla grande distribuzione, che avrà i suoi utili, come è giusto che sia”.
In un contesto di grande crisi, in cui il potere d’acquisto delle famiglie è destinato inevitabilmente a calare, riuscirà la marca del consumatore a sfondare da noi come è già successo in Francia? Di Rosa non ha dubbi. “In ogni paese dove è stata lanciata, ha registrato crescite straordinarie”. Oggi la marca del consumatore è presente a vari stadi di sviluppo in Spagna, nel Regno Unito, in Belgio, in Grecia, in Germania e fuori dall’Europa, negli Stati Uniti e in Marocco. “In Grecia, dove il latte è stato messo a scaffale alla fine di maggio, ne hanno venduto 30mila litri in due settimane. E questo dimostra che anche in contesti di crisi l’iniziativa funziona”.

venerdì 26 giugno 2020

Le cose da non dimenticare più - Alberto Castagnola




Un virus che ci ha colti impreparati e un sistema sanitario depauperato ci hanno costretto a fare a caro prezzo delle scoperte importanti, di forte impatto sui nostri comportamenti e sulle relazioni con gli altri. Non dobbiamo dimenticare nessuna di queste esperienze imposte che ci hanno però offerto molte opportunità preziose. Non perdiamone nessuna e la qualità delle nostre vite può cambiare radicalmente. Questo promemoria è solo uno strumento, aggiungetevi le vostre scoperte e le vostre scelte personali.
1.      I vicini di casa sono delle persone, alcuni anche divertenti, non solo dei membri ostili di un caseggiato.
2.      Essere disponibili per gli sconosciuti è sempre possibile, come pure essere gentili anche senza virus in giro.
3.      Uscire sui balconi o affacciarsi dalle finestre, per battere le mani o fare musica insieme può assumere cento significati diversi, non stanchiamoci di cercarli.
4.      Avere un balcone o un terrazzo con tante piante è un modo essenziale di sentirsi nella natura.
5.      Ho molte piante in casa, una in particolare nata da sei noccioli di nespola e un ficus che non si stanca di crescere, curarle e ammirarle ha riempito le mie giornate recluse.
6.       I bambini sono molto curiosi delle cose nuove inventate da loro o per loro.
7.      I bambini possono saper fare molte più cose di quelle che immaginiamo.
8.      Per i bambini la scuola è anche fonte di esperienze e di relazioni.
9.      Per i bambini possono esserci anche molte altre fonti che spesso trascuriamo, come la natura e i loro coetanei.
10.  Mio nipote fa il percussionista da quando aveva tre anni, forse hanno più capacità di quanto siamo abituati a pensare.
11.  Mio nipote a Natale, a quattro anni, ha chiesto un trapano e a cinque una sega elettrica, forse il suo mondo è più ricco e complesso di quanto immaginassi.
12.  La spesa sospesa deve diventare una abitudine almeno in tutti i supermercati, ma la dovremo richiedere e sorvegliare noi.
13.   Portare la spesa ad un anziano è una forma semplice di relazione, non soltanto una forma spinta di volontariato e deve diventare una solidarietà abituale di prossimità allargata cioè deve valere anche negli uffici e nelle fabbriche, non solo nei condomini.
14.  Gli acquisti di cibo direttamente dai produttori, specie se biologici o prodotti con metodologie alternative come la permacultura  o la bioenergetica, devono diventare un’abitudine in rapida crescita.
15.  Prendiamo l’abitudine di fare regali solo in forma di cibi alternativi o di oggetti fatti da noi.
16.   Fare ogni giorno una passeggiata è un diritto, non un dovere faticoso, e proviamo a organizzarla con persone care.
17.   Possiamo insegnare qualunque cosa via web, non rinunciamoci.
18.  Sentire ogni mattina per telefono un amico non è un obbligo ma arricchisce la giornata.
19.   Possiamo essere più attenti alle esigenze di chi abita nella nostra stessa casa.
20.   Quante cose utili si possono fare via web, oltre a chattare o inviare messaggi insulsi.
21.   La medicina di territorio (sistemica integrata) che molti affermano essere l’unica difesa seria dai prossimi virus, sarà una ricchezza da conquistare.
22.   Il riconoscimento diffuso del ruolo svolto dalle donne contro la pandemia deve essere trasformato in una cultura diversa, ancora tutta da costruire (in particolare da parte degli uomini).
23.   La mia compagna ha riscoperto l’uncinetto e ha prodotto tante piccole opere d’arte piene di colori che regala alle sue amiche impegnate nel sociale.
24.   Quanti anziani abbiamo scoperto essere attivi anche negli anni successivi agli ottanta, forse dovrebbero avere un peso ben diverso nei valori sociali. Chi prenderà l’iniziativa?
25.   Forse l’aver capito che la nascita di un virus può essere dovuta ad un grave danno ambientale arrecato al pianeta ci costringerà a difendere la Terra negli ultimi anni che ci sono rimasti.

giovedì 25 giugno 2020

Mobilità sostenibile: ripensare i trasporti per proteggere il clima - Federico Spadini




Nei film ambientati nel futuro siamo abituati a vedere persone che si muovono in auto super-tecnologiche, sospese in aria, con guida autonoma e velocità impensabili. La rivoluzione della mobilità non ci porterà a viaggiare sospesi in aria, ma sicuramente il nostro modo di muoverci deve cambiare drasticamente nei prossimi anni per vincere la sfida climatica che abbiamo di fronte.
Nel nuovo scenario energetico “Italia 1.5” commissionato da Greenpeace mostriamo la strada da percorrere per decarbonizzare il settore energetico italiano entro il 2040, per rispettare gli Accordi di Parigi e limitare l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi centigradi. Il settore dei trasporti conta da solo per circa un quarto delle emissioni italiane di gas serra, ed è ovviamente uno dei protagonisti della rivoluzione energetica che auspichiamo.
Come fare per andare verso una mobilità sostenibile?
Dobbiamo innanzitutto elettrificare i trasporti e abbandonare i combustibili fossili al 2040, se vogliamo rispettare gli impegni climatici presi dall’Italia. I motori elettrici dovranno essere più efficienti, così come le batterie, e dove l’energia elettrica non basterà a soddisfare i consumi, dovremo fare affidamento su quote più piccole di biocombustibili sostenibili e combustibili sintetici ricavati da energia rinnovabile. Ma il grosso del risparmio in termini di emissioni arriverà da interventi per aumentare l’efficienza energetica del settore, ad esempio producendo auto più piccole e leggere, convertendo quote significative di trasporto su strada e aereo in trasporto su rotaia, e investendo su forme di mobilità pubblicacondivisa e attiva (bici e piedi) a zero emissioni.
L’Italia ha tra i tassi più alti di immatricolazione di veicoli a livello europeo, con 64,4 veicoli ogni 100 abitanti. Che senso ha, dal momento che questi veicoli rimangono per la maggior parte del tempo fermi e sono spesso usati da una sola persona alla volta? E ancora, perché a livello mondiale il 50% della superficie delle città è occupata da strade e parcheggi? E perché passiamo così tanto tempo imbottigliati nel traffico, con Roma al terzo posto di questa sfortunata classifica con in media 166 ore all’anno perse in coda?
Tutti questi numeri ci fanno capire che ripensare la mobilità ci porterà anche ad avere una migliore qualità della vita. Ma stiamo davvero andando in questa direzione? Alcuni segnali sono incoraggianti, ad esempio l’impegno dei sindaci a costruire bike lane, o il bonus mobilità per l’acquisto di biciclette anche elettriche. Purtroppo però sono molti di più i provvedimenti e i soldi pubblici impegnati a favore di chi inquina: ad esempio nel governo si discute della possibilità di offrire incentivi per comprare auto a diesel e benzina, mentre perfino in Germania, vera patria dell’automotive europeo, questi veicoli inquinanti sono stati esclusi dagli incentivi quando si rottama un vecchio mezzo. E tutto ciò considerando che la vendita di queste auto va interrotta entro il 2028 per contribuire davvero alla lotta contro la crisi climatica.
Ci troviamo oggi di fronte a una possibile svolta, causata o accelerata dalla pandemia di Covid-19, in cui abbiamo davvero la possibilità di cambiare il modo in cui ci muoviamo. E mentre siamo ancora impegnati a uscire dalla crisi sanitaria una volta per tutte, non dimentichiamoci che i trasporti hanno un grande impatto sulla nostra salute, oltre che su quella del clima. In Italia ad esempio il biossido di azoto, prodotto soprattutto dalle auto, in particolare diesel, contribuisce a più di 14.000 morti premature all’anno. 
Ripensare il sistema dei trasporti significa quindi andare verso una vita migliore, dove la salute del Pianeta si muove di pari passo con quella di tutti noi che lo abitiamo. 

mercoledì 24 giugno 2020

Pier Luigi Lattuada : “Il pensiero Femminile è una delle medicine per questa società“ – ReNero




Pier Luigi Lattuada è un medico psicoterapeuta che grazie alla propria ricerca e alla propria passione è riuscito ad andare oltre gli schemi classici della scienza e a portare l’aspetto spirituale nel suo lavoro.

Guardiamo insieme quali sono le disarmonie (che a lungo andare sono divenute patologie) della società che abbiamo creato.
Il problema principale, a mio avviso, è l’identificazione con l’ego, un eccesso di importanza personale il cui risultato è una cultura della competizione, del dominio, fondata sull’ipertrofia del razionale. Il pensiero occidentale moderno si basa sul tenere a bada tutto ciò che è mito, inconscio, spiritualità. L’idea di fondo è che la scienza attraverso la ragione, la misurazione, la ripetibilità possa costruire una società migliore. In questo modo, si sono messe da parte tutte le qualità che sono più genuinamente umane al fine di ottenere risultati.
La società è fatta di obiettivi e questo comporta predazione, competizione e conflitto. Nella nostra società, il codice della paura costruisce una struttura del dominio, tenuta in piedi dall’egemonia del razionale che mira a controllare tutto. Questa è una cultura archetipicamente maschile. L’approccio che potremmo definire “femminile” è completamente estromesso.  Il pensiero Femminile è una delle medicine per questa società.
La nostra società basata sul fare, sul produrre ci porta a un’accelerazione continua che non lascia tempo per fermarci. Viviamo presi dal raggiungere obiettivi e dalla ricerca smodata di divertimento come valvola di sfogo. È possibile creare una società in cui essere e fare siano in equilibrio? Quali potrebbero essere le chiavi per raggiungerla?
Nella vita quotidiana, nessuno si ferma, nessuno ascolta, nessuno sta dentro. È tutto basato sul pieno: riempire le giornate, riempire le tasche, riempire il proprio tempo.
Questo ha come conseguenze la paura (paura di perdere, di soffrire, di non essere riconosciuto…) e il controllo (controllare i propri passi, gli imprevisti, gli altri…). Riconoscere il codice della paura che ci determina e il bisogno di controllo che nasce dal pensiero analitico-razionale è il primo passo della trasformazione.
Rifacendoci alle grandi Tradizioni Orientali e Occidentali, scopriamo che oltre a questa modalità ne abbiamo un’altra: è possibile osservarsi pensare, osservarsi agire ; possiamo avere un atteggiamente consapevole e meditativo. Questa è una chiave.
Osservandomi, mi accorgo se sono guidato della paura e posso, quindi, assumermi la responsabilità di scegliere la fiducia.
Se non vedo quello che sto facendo, perché sono nel pieno, nel bisogno, agirò manifestando all’esterno lo stesso conflitto che vivo all’interno.
Se ho paura e mi metto un obiettivo, questo obiettivo sarà figlio della paura e sarà al servizio del potere.
L’obiettivo, la strategia dovrebbero essere al servizio dell’umanità, non sopra l’umanità.
Prima dell’agire, dovremmo mettere l’ascoltarsi e l’osservare, il riconoscere qual è la vera natura di quello che vogliamo fare e cominciare così ad andare oltre la paura e il controllo per accedere a una dimensione di fiducia dove è possibile tollerare l’incertezza e riconoscere che il versante dimenticato del femminile è ricco di un’infinità di doni.
Quando equilibriamo maschile e femminile, la spinta interna non è più solo alla conquista, al separare per ottenere ma porta con sé l’accoglienza e la fiducia. Il nostro sguardo è più solidale, fraterno e umano. La cultura che nasce da questo è una cultura della condivisione e della solidarietà.
Il sistema culturale attuale, invece, è basato solo sulla “ragione” e non può dare vita a un mondo pacifico e soddisfacente per l’essere umano. Il nostro è oggi un pensiero etnocentrico: ci dividiamo in tribù che confliggono per le differenti credenze. Dobbiamo passare a un pensiero mondocentrico: ragionare in termini planetari e creare una cultura della fiducia.
L’attitudine anche in questo momento è, invece, quella della separazione, della lotta, del cercare una risposta esclusivamente tecnica e razionale a quello che sta accadendo. Com’è accaduto che nell’uomo, ci sia stato questo squilibrio verso la sola polarità maschile?
Per rispondere a questo dobbiamo parlare dell’istituzionalizzazione del trauma.
È una storia che trova radici nel nostro passato remoto. Circa 3000 anni fa,ci furono le invasioni degli Indoeuropei. Erano popolazioni che vivevano in una condizione di costante trauma: la vita era durissima, l’emergenza era costante, vinceva solo il più forte, la donna contava poco. Quando sono arrivati qui, hanno portato la loro cultura fatta di spade e dominio.
In Europa, prima, c’era il culto della natura, della Dea Madre che è stato soppiantato dal Dio maschile che, dalla natura, è stato portato nell’alto dei cieli. Così è nata la cultura attuale, che riconosciamo essere fondata sulla forza, sul potere, sul maschile. Ecco perché ogni volta che affiora un’emergenza agiamo attuando la retorica della guerra. Il potere costituito si alimenta di questo perché di fronte allo stato di necessità, entriamo nella dinamica della delega anziché della responsabilità.
La responsabilità di cui parla si stacca dall’idea di colpa e ci pone di fronte a “luce e ombra” come due elementi fondamentali affinché si possa vedere. Si può mantenere una relazione viva con entrambe senza giudizio?
La responsabilità è l’abilità di rispondere, l’essere in grado di vedere chi sono e di conseguenza essere consapevole di quali siano le dinamiche che mi portano ad agire, pensare, sentire in un certo modo. Di fronte a questo grande atto di coraggio che è il conoscersi e l’essere onesti con se stessi, arriva la paura dell’ombra, dei nostri di difetti.
La mente razionale vuole combattere l’ombra per ottenere la perfezione. Questo è un atteggiamento limitato.
Nella tecnica, è possibile lavorare per eliminare l’errore, ma con la psiche l’approccio deve essere diverso. Dobbiamo usare una mente unitiva, in grado di integrare i vari aspetti del nostro essere. Tenebra e luce sono al servizio l’una dell’altra: entrambe sono due componenti che hanno una loro funzione essenziale. Andare oltre il pensiero razionale che divide, separa e giudica è possibile. L’osservazione consapevole porta ad accorgersi che l’ombra e la luce fanno parte di una Gestalt più ampia.
Il nostro Sé ha due caratteristiche: la capacità di auto-rinnovarsi e di auto-trascendere. L’auto-rinnovarsi è la facoltà di riconoscere cosa ci sposta dall’equilibrio e la possibilità di ritrovarlo.  L’auto-trascendenza è il saper imparare dall’esperienza ed evolvere. Affinchè queste qualità, vengano in atto occorre raggiungere la dimensione di vuoto che si trova al di tutto il rumore.
La vera consapevolezza è accorgersi che si è a casa, in se stessi, in ogni momento, fermarsi in questo luogo sacro, godere del silenzio al di là di tutti i bisogni cui diamo valore, di tutte le paure cui diamo potere, di tutti gli obiettivi che ergiamo a senso della vita. Fermarsi nella nostra casa ci permettere di ascoltare il muoversi dei pensieri e possiamo non scegliere, lasciar fluire e far affiorare così il nostro vero Sé, una dimensione di silenzio, di pace, di armonia, di connessione e di amore. Ecco che in questo modo, superiamo il giudizio, il bisogno di raggiungere la perfezione, di essere giusti e cominciamo a unire, integrare, essere completi.
Ascoltando le sue parole, riconosco la paura che c’è in me nell’avere fiducia e mi accorgo che così perdo l’incanto della vita. Perdere il contatto con il mistero magico che mi rende vivo mi allontana dal trascendente. Siamo abituati all’idea di realtà pragmatica e materiale che ci porta a definire ciò che è la normalità.
Esiste la “normalità”? E cosa significa la frase “torneremo alla normalià” che nel linguaggio di oggi viene molto usata?
La “normalità” è un concetto figlio della sola ragione, che definisce il mondo in termini di giusto e sbagliato, bene e male, salute e malattia. Se, invece, ragioniamo in termini di processo, di trasformazione, ogni evento della vita, anche il più inaspettato (come il momento che stiamo vivendo), sarà un’occasione per divenire migliori, per evolvere. Ecco che “tornare alla normalità” è un atteggiamento che deriva dalla paura e che esprime il nostro bisogno di controllo.
Uscendo da questa logica, possiamo stabilire fin da ora quali siano le cose realmente importanti per creare da questa crisi i presoppusti di un’evoluzione planetaria e totale, che abbracci l’individuo e la collettività. Se vogliamo che ciò accada dobbiamo cominciare a usare un pensiero analogico, in grado di cogliere il simbolo dietro la materia. Solo così possiamo comprendere cosa sta realmente accadendo.
Qual è il significato di questo momento, secondo lei? Cosa è venuto a dirci questo virus?
Questa è una questione delicata. Posso solo dare la mia opinione.
Questo virus colpisce gli alveoli polmonari che sono il luogo dove l’aria e il sangue si incontrano: l’invisibile e il visibile, lo spirito e la materia. È venuto a fermarci. Ci è chiesto di chiuderci in casa. Questa situazione fa sì che si possa recuperare il nostro tempo, trovare lo spazio di incontro con il nostro Sé e così osservare le nostre vite.
Ci viene ricordato che respirare è importante e non possiamo vivere sempre in affanno e che se togliamo lo spirito dalla nostra vita, viviamo a metà e perdiamo di vista ciò che è veramente fondamentale. Ci suggerisce di osservare quali sono le nostre paure, quali i valori che abbiamo fatto nostri, quale il linguaggio che usiamo e con cui descriviamo la nostra realtà.
Possiamo riconoscere la retorica della guerra e la logica della paura di cui è intrisa la vita di ognuno di noi.
Un consiglio per cominciare sin da oggi una trasformazione a chi ci ascolta.
Chiudi gli occhi e sta in silenzio per 10 minuti.

martedì 23 giugno 2020

1 giugno 2001: muore Nkosi, un piccolo principe - Giampaolo Cassitta



Nkosi era nato in un villaggio vicino a Dannhauser, in Sudafrica, nel 1989. Oggi avrebbe compiuto 31 anni. La sua sfortuna è stata quella di essere stato concepito da una madre sieropositiva e la sua strada era terribilmente segnata. Nkosi, da subito, ha capito che la sua vita in compagnia dell’AIDS sarebbe stata breve e ha deciso di intensificare i secondi, di riempire anche gli attimi provando a ribellarsi a quello che era un vero e proprio razzismo strisciante: “Sei sieropositivo, non puoi frequentare le scuole”. Nkosi Johnson non poteva stare a guardare e seppure bambino, seppure fragile, seppure con un destino segnato ha avuto la capacità di dire no, di protestare contro questa terribile discriminazione. La scuola elementare di Melville a Johannesburg ha ceduto davanti alle rimostranze di Nkosi, del suo padre adottivo e di moltissime persone che si erano schierate dalla sua parte.
Nelson Mandela lo definì “un’icona della lotta per la vita”.
E’ difficile convivere con l’AIDS, è difficile sapere di essere sieropositivo contro la  tua volontà e sapere che non ci sono medicine adatte per respingere quella malattia. Nkosi lo sapeva e continuava a studiare. Fu il relatore principale alla tredicesima conferenza internazionale sull’AIDS e dal palco, quel bambino consapevole di essere molto più di un uomo, pronunciò delle parole bellissime, degne di un piccolo principe: “Abbiate cura di noi e accettateci – siamo tutti esseri umani. Siamo normali. Abbiamo le mani. Abbiamo i piedi. Possiamo camminare, possiamo parlare, abbiamo bisogni come tutti gli altri – non abbiate paura di noi – siamo tutti uguali”.
Sono parole semplici, forse semplicissime ma raggiungono le pulsazioni più profonde dell’animo e ci fanno riflettere. Soprattutto di questi tempi.
Quel “siamo tutti uguali” è la frase più naturale e più semplice che un uomo dovrebbe tenere sempre in tasca e mostrarla quando incontra qualcun altro.
Nkosi è morto il primo giugno del 2001. Sono passati 19 anni e questa piccola storia è grande come l’universo.
Nkosi era un bambino. Semplicemente un bambino. Con le sembianze di un principe: un piccolo principe. Non dimentichiamolo. 

domenica 21 giugno 2020

Inno al corpo - Paul B. Preciado




Amiamo il corpo malato. Amiamo le cicatrici e i morsi lasciati sulla pelle dalle ferite. Amiamo il corpo anziano, segnato dal tempo, raggrinzito dal sole, pieno di ricordi. Amiamo il corpo lento. Amiamo l’imperfezione e lo squilibrio, il labbro screpolato, l’occhio che vede a malapena, la mano che fatica ad afferrare l’oggetto, il pene moscio, la gamba più corta dell’altra, la colonna vertebrale che non può raddrizzarsi.
Amiamo il vero corpo, fragile e vulnerabile, e non il corpo ideale e tirannico della norma. Amiamo il corpo poetico, perché il linguaggio è solo uno degli organi astratti del corpo vivo. E amiamo il corpo in tutte le sue dimensioni organiche e inorganiche.
Il linguaggio e la tecnologia sono organi collettivi e politicizzati. Come tutti gli altri organi del corpo, ci sono stati rubati. Non sappiamo quasi niente del corpo vivo. Occorre quindi amarlo là dove esso si esprime: nella sua tremula fragilità.

Senza virtù coloniali e patriarcali
Amiamo sia il corpo che nasce sia quello che si avvicina alla morte, questo corpo considerato già obsoleto, inutile, improduttivo, un corpo che ci viene presentato in termini di spesa pubblica, corpo-debito, cifra nelle statistiche su infettati e morti.
Amiamo questo corpo che, pure se sull’orlo della morte, è ancora sensibile a un raggio di luce sulla pelle, a una parola, a un suono. Il corpo vivo in tutte le sue dimensioni è la nostra unica religione. Di conseguenza più un corpo si fa corpo, quando non presenta alcuna delle virtù patriarcali e coloniali – forza, produzione, giovinezza, lusso – più lo amiamo.
E questo anche perché le istituzioni della sanità pubblica, gli ospedali e le case di riposo, le prigioni, le scuole e le aziende sono i nostri primi nemici: perché cercano di ridurre il corpo vivo all’anatomia, all’indicatore di pubblica sanità, alla redditività dei pensionati, alle cifre sulla prevenzione della criminalità, al livello d’istruzione, al profitto.
I governi hanno parlato della guerra al virus, ma in realtà hanno fatto la guerra ai nostri corpi poetici. La nostra pelle è stata strappata, siamo stati privati di qualsiasi contatto o cura, siamo stati separati da amici e amanti, e i corpi preziosi dei nostri cari malati di covid-19 sono stati gettati in una fossa senza nome, privati del rituale che collega la memoria dei morti ai corpi dei vivi. Lo stato farmacopornografico si è comportato come un Creonte neoliberista, che c’impedisce di seppellire i nostri morti perché sarebbero diventati dannosi per una comunità che sogna di essere immunizzata. Noi, i figli bastardi di Antigone, esigiamo cure e celebrazione dei corpi dei nostri amati ammalati di covid, sia vivi sia morti.

Gioiosamente virali
Perché non siamo la comunità immunizzata, siamo la comunità malata. Siamo intossicati e tossici. Il mondo al quale abbiamo appartenuto, questo mondo che non parla d’altro che di sanità pubblica, di prevenzione e d’igiene, non ha fatto altro, dal colonialismo a Hiroshima, passando dall’Olocausto e da Chernobyl, che distruggere il corpo vivo. La religione ha fatto del corpo la prigione dell’anima e il nemico di dio. L’ha fustigato, legato, ha cercato di purificarlo con il tormento e il fuoco. Ha voluto negarlo, dominarlo, sublimarlo. La scienza ha trasformato il corpo in un oggetto anatomico, l’ha sezionato, l’ha diviso in organi e in funzioni, ha voluto conoscerlo e controllarlo.
Lo stato liberista moderno ha fatto del corpo un bene e una merce, una responsabilità e una proprietà privata dell’individuo. L’ha disciplinato, normalizzato, uniformato. Il capitalismo coloniale ha fatto del corpo una forza lavoro, l’ha schiacciato, gli ha preso non solo tutta la sua energia vitale, ma anche tutto il suo potere creativo. Ha voluto catturarlo, comprarlo, venderlo, trarne profitto. Il patriarcato ha trasformato il corpo in forza di riproduzione. L’ha violentato, lo ha ingravidato. Nel neoliberismo questo corpo distrutto, devastato, espropriato, catturato… dal quale è stata estratta ogni forza vitale, è ancora negato. Al suo posto, un avatar edulcorato viene presentato come un’immagine elettronica condivisa. Ma il corpo resiste.
La distanza sociale che ci viene imposta riguarda le pratiche politiche e poetiche. Non possiamo né manifestare né riunirci per amare, per dibattere o per creare. Ma possiamo incontrarci per produrre e procreare. La società è morta: restano solo la tele-fabbrica e la famiglia, due sfere nelle quali il corpo vivo è ancora negato e sfruttato.
Ma noi, contro ogni legge, amiamo il corpo sieropositivo, tumorale, obeso, tubercolotico, sterile, claudicante, lebbroso, ansioso, depressivo, nevrastenico, psicotico, il corpo consumato dalla cirrosi, il corpo sconvolto dalle crisi cardiache, il corpo in attesa del trapianto di un qualsiasi organo, vivo o immaginario. Amiamo il corpo malato di covid-19. Vogliamo, come fanno ogni giorno infermieri e operatori sanitari, accompagnarlo. Siamo anti-igienici, gioiosamente virali, e contagiosamente vivi.

(Traduzione di Federico Ferrone)


COVID-19. Il commissariamento della sanità in Sardegna come in Lombardia - Claudia Zuncheddu



Il COVID-19, il virus che nella storia della virologia ha determinato i più grandi sconvolgimenti politici e clamorosi dietrofront. Chi avrebbe mai immaginato lo sbarco in Italia di medici neri cubani giunti per soccorrerci mentre gente in fuga dal ricco nord verso il sud cercando la salvezza dal virus mortifero nella speranza di essere accolti, memori delle teorie di chiusura di porti e aeroporti per chi fugge da emergenze ambientali e politiche.
Sarà colpa della sorte, ma l’area del mondo con il più alto tasso di casi e di decessi per covid è nell’opulento occidente, nella ricca Lombardia: simbolo per eccellenza della privatizzazione della Sanità pubblica. Senza entrare in merito a questioni demografiche, all’inquinamento ambientale che rende più vulnerabile la salute, per non parlare dei condizionamenti della Confindustria su regione e governo, è tempo di bilanci e di assunzioni di responsabilità.
Il covid è il banco di prova di quanto in questi anni siano stati sbagliati e letali i tagli al sistema sanitario pubblico. Il controllo della nuova emergenza è una questione di organizzazione e di costi, ma per chi ha fatto della Salute solo fonte di profitto, gestire l’epidemia non conviene.
L’alto prezzo pagato con la vita da parte dei medici di base, del personale ospedaliero e dei malati covid “segregati” in strutture non adeguate come le RSA, è un forte segno del disinteresse, per ragioni di profitto, della Sanità privata e dell’inefficienza di un sistema sanitario pubblico sempre più declassato, smantellato e non più in grado di assolvere ai suoi compiti: quello di garantire le cure per tutti al di là degli interessi economici. E’ tempo di bilanci sul fallimento di queste politiche neoliberiste adottate da tutte le forze politiche che si sono alternate nei governi e nelle regioni sino ad oggi.
E’ tempo di assunzioni di responsabilità da parte della Lega e del centro destra che governa la Lombardia, ma anche del centro sinistra e del M5S che governano a Roma. Poco importa il patetico ping pong di scarico delle responsabilità tra il premier Conte e il presidente Fontana, oggi l’uno contro l’altro e ieri alleati in stretta sintonia nel governare l’Italia. E’ per questa trasversalità politica che la richiesta del commissariamento della sanità lombarda, oggi sotto la Lega, non deve assolvere dalle responsabilità le altre parti politiche.
La nomina di un commissario da acta, richiesto dal “gruppo Milano 2030” di cui fanno parte associazioni e partiti di sinistra, rischia di colpire in modo mirato la Lega di Fontana e di assolvere altre parti politiche che hanno avuto responsabilità, altrettanto decisive, su covid e sulla gestione globale della sanità in Italia in questi anni.
Il fallimento della gestione Covid trova le sue ragioni nella privatizzazione del sistema sanitario pubblico di cui tutti sono responsabili, benché nelle acque torbide della politica, anche in Sardegna, consiglieri regionali del centro sinistra e del M5S, con nove parlamentari del M5S hanno proposto le dimissioni immediate dell’assessore leghista della Sanità e un commissario per l’emergenza Covid.
Un assessore leghista sovrapponibile per l’operato e per gli intenti politici al suo predecessore del PD, a cui dobbiamo tagli radicali ai servizi territoriali e agli ospedali pubblici di ogni ordine e grado. Non esente da queste logiche è l’allora ministra della Salute Grillo del M5S, che nella lettera di risposta ad un documento sulla situazione sanitaria in Sardegna, della Rete Sarda Difesa Sanità Pubblica, fece una sola precisazione: “quella di non demonizzare la privatizzazione della sanità”, confermata dal palese sostegno al Mater Olbia.
Nella “richiesta di un cambiamento strutturale” non si occultano né si dimenticano le responsabilità di nessuno. Dietro ogni assessore c’è una maggioranza che gli impone le linee guida, ma ancora una volta, nel gioco delle parti, si cerca la vittima sacrificale per non mettere in discussione l’intero sistema.
Chi commissaria chi? E’ il governo PD-M5S che nominerebbe un suo commissario per l’assessorato sardo. Un fedele gattopardismo: “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”. E’ l’ennesimo inganno per l’aspirazione popolare ad un reale cambiamento del sistema sanitario.
L’unico commissariamento politico utile nelle istituzioni è quello popolare. Il controllo e la partecipazione democratica dal basso, alle scelte politiche e amministrative a partire dai comuni e dalle regioni.