martedì 30 luglio 2019

povero Pep



…Pep, “the dog catmurdering”, un Labrador Retriever nero che il 12 agosto 1924 fu rinchiuso all’Eastern State Penitentiary di Philadelphia colpevole di aver fatto fuori il gatto preferito della moglie dell’allora governatore della Pennsylvania, il quale usò i suoi poteri per condannare all’ergastolo il cane, detenuto a vita all’Eastern State per ben dieci lunghissimi anni...
da qui





I just watched on mysteries at the museum that the governor hadn't sentenced the dog. He sent the dog there to help rehabilitate the inmates. The staff at the prison thought they'd be funny and take a pic of the dog w an inmate number and fabricated the crime. The dog never killed a cat. And spent the rest of his days at the prison beloved by the guards and the inmates.

domenica 28 luglio 2019

Cosa sono i “Beni comuni”? - Luca Casarotti



Nel febbraio 2008, una commissione istituita l’anno prima dal ministro della giustizia (era Clemente Mastella), e presieduta da Stefano Rodotà, presentò allo stesso ministro della giustizia (era ancora Mastella) il progetto per una riforma che mirava tra l’altro a introdurre nell’ordinamento giuridico italiano una disciplina organica dei beni comuni. La Commissione Rodotà si era anzitutto premurata di darne una definizione: «Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona». La commissione precisava ancora che tali utilità dovessero essere tutelate anche avendo riguardo alle generazioni future. Dunque, secondo questa definizione, un bene non è comune tanto per una sua qualità naturale, quanto in relazione al fine che consente di perseguire: ossia, come ha più volte precisato lo stesso Rodotà, l’attuazione dei diritti costituzionali della persona. Diritti il cui catalogo lo studioso auspicava che venisse ampliato e aggiornato a causa dell’emergere di nuovi bisogni individuali e collettivi. Con ciò ovviamente non si esclude che un bene sia comune per natura, quando questa soddisfa quel vincolo finalistico.
Caduto il governo Prodi allora in carica, il progetto di riforma è stato in sostanza abbandonato, a dispetto dei molti sforzi – compiuti anche recentemente – di portarlo a nuova vita. Il che non ha impedito alla Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite 14 febbraio 2011 n. 3665, di accogliere la definizione di beni comuni contenuta in quel progetto (per approfondire l’iter giurisprudenziale che ha condotto a quest’esito, vedi qui). Ancora, il fallimento del progetto di riforma non ha impedito alla riflessione sui beni comuni di dare impulso alla fase più alta del movimento che si è battuto contro la privatizzazione del servizio idrico, culminata con la vittoria ai referendum del 2011.
Per contro, anche (se non soprattutto) sull’onda dell’esito referendario, si è cominciato a parlare di beni comuni nei contesti più vari, a proposito e a sproposito, con l’effetto inevitabile di rendere sempre più vago e inafferrabile il significato dell’espressione. Nel vocabolario politico, il lemma «beni comuni» ha così perso intensione; la sua definizione si è dilatata al punto da non connotare più nulla di preciso. Lo nota giustamente Rocco Alessio Albanese nel testo su Democrazia e beni comuni, pubblicato nella sezione utopie reali del terzo numero di Jacobin Italia. Evocando un concetto riportato in auge nel lessico della filosofia politica da Ernesto Laclau, Albanese scrive che «negli ultimi dieci anni i beni comuni sono diventati un significante vuoto». L’esempio scelto per dimostrarlo non potrebbe essere più calzante: la coalizione di centrosinistra si è presentata alle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013 con il nome «Italia, bene comune». Un nome che suonava antifrastico per un rassemblement guidato da un partito liberista, il Pd, a sua volta guidato da un segretario, Pierluigi Bersani, noto – metafore a parte – soprattutto per le liberalizzazioni approvate quando era ministro per lo sviluppo economico. Vogliamo fare un esempio ancora più attuale? Marco Minniti, colui che ha preceduto Matteo Salvini al vertice del ministero dell’interno, non si stanca di ripetere che la sicurezza è un bene comune. Nel suo La buona educazione degli oppressi (Alegre, 2019), Wolf Bukowski spiega che quando si dice «sicurezza» si dice «decoro», e che attraverso il cortocircuito tra questi due termini, soprattutto negli ultimi dieci anni, il legislatore è giunto sovente a negare i diritti e la dignità della persona: sicurezza e decoro svolgono perciò una funzione esattamente opposta a quella assegnata ai beni comuni dalla commissione Rodotà.
Preso atto di questo progressivo svuotamento di significato, Albanese prova a risemantizzare l’espressione «beni comuni» ipotizzandone una definizione che tenga insieme il piano giuridico e quello politico. La definizione è articolata in tre passaggi. L’assunto di partenza è che i beni comuni sono l’opposto della proprietà (1). «Prendersi cura dei beni comuni», chiosa Albanese, «è occasione per liberarsi dall’individualismo proprietario, per costruire – con i beni e nelle comunità che si definiscono a partire dal loro uso – forme inclusive di relazione e di appartenenza». Affermazione, quest’ultima, che sposta (o meglio: allarga) la visuale dal diritto alla politica, e conduce al secondo passaggio: dato che «tutti e ciascuno possono accedere alla [loro] fruizione», «I beni comuni fanno tutt’uno con le ipotesi e i tentativi di sperimentare forme di democrazia radicale. Si pongono accanto e oltre il suffragio universale, la democrazia rappresentativa e il principio di maggioranza» (2). Ne deriva la proposta d’intendere la locuzione «beni comuni» come una metonimia: essa «allude non tanto a certi beni, quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo» (3). Da questa definizione vorrei ora prendere spunto per le mie considerazioni: nel farlo, seguirò i tre passaggi che ho appena isolato.
1) Cos’è l’opposto della proprietà? Verrebbe da rispondere che l’opposto della proprietà è il comunismo. Più d’un teorico del comune non alzerebbe il sopracciglio a fronte di questa risposta, che a livello lessicale non ha oltretutto nulla di scandaloso: in fondo, «comunismo» è il sostantivo derivato dall’aggettivo che qualifica i beni di cui stiamo parlando: prova ne sia che l’appellativo gergale con cui talvolta ci si riferisce a chi si occupa di beni comuni è «benecomunista». Ma non è il comunismo integrale l’orizzonte in cui si muoveva chi ha reso celebre la massima «i beni comuni sono l’opposto della proprietà»: cioè, ancora una volta, Stefano Rodotà.
Rodotà pensava l’opposto della proprietà come un regime in cui l’accesso (ovvero l’uso, la fruizione) del bene e la sua gestione (cioè il suo governo) sono collettivi e diretti e non producono profitto. Quando la gestione non può essere diretta a causa del numero troppo elevato dei fruitori, questa deve quantomeno essere partecipata, cioè coinvolgere una rappresentanza significativa di coloro che hanno accesso al bene. Il regime teorizzato da Rodotà riguarda però solo la categoria dei beni comuni, vale a dire quelli che rientrano nella definizione contenuta nel progetto di riforma del 2008, e presuppone la Costituzione repubblicana vigente, pur nell’auspicio di una sua riforma che estenda il catalogo dei diritti della persona. Ma la Costituzione riconosce e garantisce la proprietà pubblica, la proprietà privata, e la trasmissione di quest’ultima per via successoria (art. 42). Dunque, l’idea di Rodotà era che il regime dei beni comuni e quello della proprietà privata, applicandosi a generi diversi di cose, potessero convivere nello stesso ordinamento giuridico. Su tutto ciò, rimando al saggio Verso i beni comuni, ora compreso nella raccolta di scritti uscita postuma con il titolo Vivere la democrazia (Laterza, 2018).
Ancora più esplicito è Ugo Mattei, che accetta la qualificazione dei beni comuni come opposto della proprietà, ma in un suo saggio apparso nel 2017 chiarisce: «I beni comuni […] non sono nemici della proprietà individuale, ma soltanto degli eccessi legati al suo accumulo. Allo stesso modo non sono ostili al Governo, ma si prefiggono soltanto di limitare le concentrazioni eccessive di potere, attraverso decisioni dirette assunte dalla comunità, in base al riscontro da parte dei fruitori». Nello stesso scritto, il giurista torinese aggiunge: «Questo processo [il commoning] finirà per cambiare le regole di fondo del sistema sociale attuale in modo tale che il diritto, anche senza battaglie per introdurre alcune eccezioni alla logica estrattiva, favorisca di regola i beni comuni, proprio come oggi invece si mostra favorevole alla proprietà privata».
Va detto che lo stesso Mattei, in un testo comunque divulgativo qual è il manifesto per i beni comuni (Laterza 2011), affrontava il tema in modo molto più critico. Le citazioni che ho tratto dall’articolo più recente sembrano tuttavia tratteggiare una visione ottimistica secondo la quale non è necessario ipotizzare una rottura dell’ordine giuridico, perché nella tendenza le pratiche di fruizione e gestione comunitaria dei beni avranno l’effetto di perequare l’allocazione delle risorse. Un po’ come se la mano invisibile del mercato fosse destinata a cedere il posto alle buone pratiche del commoning. Ma se questi processi hanno per obiettivo d’impedire le distorsioni dovute all’accumulo di proprietà privata e di limitare le concentrazioni di potere, che fare quando l’accumulazione è in atto o si è già data? Cioè, che fare nella realtà in cui viviamo? Mattei non nega che sia utile ricorrere all’espropriazione. È chiaro però che, per contrastare seriamente il livello attuale di concentrazione della ricchezza, l’espropriazione dovrebbe darsi su vasta scala. Si pongono allora, direi, due questioni. La prima: quanto all’Italia, se si accetta la premessa che debba effettuarsi senza la rottura radicale dell’ordine giuridico, allora l’espropriazione deve essere disposta per legge, e previo indennizzo dell’espropriato, come prevedono gli artt. 42, comma III, e 43 della Costituzione. Sappiamo che l’art. 43, specie nella parte in cui prevede la possibilità di affidare al controllo di comunità di lavoratori o di utenti determinate categorie d’imprese (quelle che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, in quello dell’energia, o in regime di monopolio), non è costituzione materiale del paese. I principi costituzionali sull’espropriazione devono oltretutto fare i conti con i vincoli imposti dal diritto dell’Unione europea (art. 117, comma I, cost.), improntato alla tutela quasi assoluta della libera concorrenza. Seconda questione, che si può considerare dipendente o indipendente dalla prima. Ammettendo in astratto che lo si possa fare conservando l’integrità dell’ordine giuridico, quale soggetto potrebbe imporre al parlamento di approvare leggi che dispongano un vasto programma di espropriazioni come quello che stiamo ipotizzando? Io rimango classicamente dell’idea che la questione debba porsi in termini di classe e non di popolo sovrano. Non è (o non è solo) per la scarsa lungimiranza dei governanti che l’espropriazione della grande proprietà privata è così tanto chimerica ai giorni nostri. È che non si può chiedere a chi ha la proprietà dei mezzi di produzione, cioè alla borghesia, di approvare un programma d’espropri in danno di sé stessa. Il compito spetterebbe semmai alla classe lavoratrice. Il che resta vero anche se si rifiuta la premessa dell’integrità dell’ordine giuridico, e quindi si accetta l’ipotesi rivoluzionaria.
2) Cosa significa che i beni comuni «si pongono accanto e oltre il suffragio universale, la democrazia rappresentativa e il principio di maggioranza»? A prima vista, i due avverbi di luogo (figurato) «accanto» e «oltre» sembrerebbero contraddirsi. Chiamo in causa solo per un attimo la dialettica. L’avverbio «accanto» suggerisce l’idea di un nesso di azione reciproca (o compenetrazione degli opposti), dove i termini in contrasto si condizionano a vicenda, ma vengono entrambi mantenuti, nel senso che l’uno non nega l’altro. Avremmo dunque che le pratiche del comune condizionano gli istituti fondamentali della contemporanea democrazia – uso l’aggettivo con molta cautela – occidentale (suffragio universale, principio della rappresentatività e principio di maggioranza), ma anche che questi ultimi condizionano le prime. L’esito di questa concezione mi pare che si possa riassumere così: il commoning dovrebbe sottrarre determinati ambiti della politica all’applicazione rigida delle regole della rappresentatività e della maggioranza, alle quali si sostituirebbe l’assunzione diretta/partecipata e consensuale delle decisioni. Regola della rappresentatività e principio di maggioranza tornerebbero a operare quando non sia possibile coinvolgere nella decisione da assumere tutte e tutti gli interessati. L’esperienza maturata nella pratica del commoning farebbe tuttavia in modo che ciascuno agisca anche la democrazia rappresentativa con maggiore consapevolezza.
Al contrario, l’avverbio «oltre» suggerisce l’idea di un movimento dialettico di superamento, o negazione della negazione: in questo caso, avremmo che le pratiche del comune, intese come negazione delle regole della democrazia rappresentativa, sorte e sviluppatesi a loro volta dalla negazione dell’assolutismo monarchico, mirerebbero a superare quella forma di stato e a instaurarne una diversa.
Ho banalizzato in poche righe argomenti molto più grandi delle mie capacità. E ad ogni modo credo che insistere sulla contraddizione tra «accanto» e «oltre» sia soltanto una mia pignoleria linguistica. Probabilmente, quell’oltre vuole solo rafforzare l’accanto, e quindi l’ottica è quella della complementarità tra regime dei beni comuni e regole della democrazia rappresentativa a suffragio universale. Un’ambiguità tuttavia rimane, e ne dirò al punto 3.
Qui invece mi preme soprattutto rendere esplicito un altro problema, che occorre avere sempre presente quando si ragiona sulla gestione dei beni in comune. Una premessa: la riflessione sui beni comuni spazia dal piccolo (un immobile recuperato a uso sociale) all’infinitamente grande, come nel caso dei beni dichiarati patrimonio comune dell’umanità (fondo del mare, Antartide, spazio extratmosferico etc.). Possiamo lasciare da parte il patrimonio comune dell’umanità e l’intrico di questioni di diritto internazionale che suscita. Il problema a cui alludevo è messo molto lucidamente in evidenza da Maria Rosaria Marella: la comunità che gestisce un bene, osserva la studiosa, può essere inclusiva o escludente, sessista o antisessista, razzista o antirazzista. Aggiungo: una comunità, piccola o grande che sia, è attraversata da conflitti e plasmata da rapporti di forza. Non è detto che la gestione comunitaria di un bene sia buona in sé. Dipende dalla prassi.
Ancora Ugo Mattei mi dà l’occasione di fare un esempio per illustrare quel che intendo dire. Nel suo saggio già linkato sopra, Mattei scrive: «Il commoning, definito come partecipazione, in qualità di comunità, alla cura del bene pubblico, genera il sapere collettivo necessario per risolvere i problemi sistemici odierni, risultato non ottenibile con strutture gerarchiche basate sulla concentrazione del potere e l’esclusione. Si pensi, per esempio, a wikipedia: nessun’altra enciclopedia consentirebbe di raccogliere intelligenza e conoscenza collettive di tale entità, in quanto, indipendentemente dall’acutezza e cultura di un singolo, la somma di molti si rivela più sagace e sapiente del singolo». Questa fiducia nel general intellect non è certo malriposta in astratto (e Mattei è comunque consapevole che l’internet non è un luogo dominato dall’orizzontalità), ma va sottoposta alla verifica impietosa dei fatti. Dal 2014, il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki ha condotto diversi studi di caso sulla wikipedia in lingua italiana, occupandosi soprattutto delle voci inerenti le vicende del confine orientale italiano, la Resistenza e il secondo dopoguerra: ne è emerso che gruppi di utenti di idee nazionaliste, neoirredentiste o in alcuni casi tout court neofasciste hanno negli anni presidiato quelle voci, con l’obiettivo di mantenerle orientate secondo il loro punto di vista. Si tratta di utenti esperti, vale a dire con una militanza di lungo corso su wikipedia e svariate migliaia di edit (cioè interventi nelle voci dell’enciclopedia), e si tratta di utenti che si coordinano e si danno reciprocamente manforte: ciò rende loro agevole bloccare l’iniziativa di altri utenti, non adeguatamente organizzati o attivi su wikipedia da poco tempo, che tentassero di migliorare le voci presidiate. Di nuovo, è una questione di rapporti di forza. Mai dimenticarsi del materialismo! Il risultato è che nelle voci presidiate la storiografia più autorevole ha sempre fatto fatica a entrare, o vi è entrata solo nominalmente, in bibliografia e non a testo, o ancora è stata manipolata a forza di citazioni incomplete, tagliate e cucite ad hoc. Almeno in una porzione della wikipedia in lingua italiana, ma una porzione di rilevanza strategica, operano perciò quelle «strutture gerarchiche basate sulla concentrazione del potere e l’esclusione» di cui parla Mattei. Quando dico «importanza strategica», mi riferisco al contenuto delle voci esaminate (la storia italiana soprattutto del secondo Novecento), e alla possibilità di veicolarne un’interpretazione di destra più o meno estrema, facendo leva sull’autorevolezza di cui wikipedia generalmente gode nell’opinione pubblica, e sull’ideologia della neutralità che costituisce uno dei suoi cinque pilastri. Ideologia che gli studi di Nicoletta Bourbaki (e non solo quelli) hanno messo in questione.
3) Vengo alla metonimia che conclude la definizione da cui siamo partiti. La ri-trascrivo per comodità di lettura: «la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni, quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo».
Breve excursus terminologico: l’inciso «affermandosi tra pubblico e privato» rimanda al titolo di almeno due libri molto influenti negli studi sul comune. Uno è Commonwealth di Michael Hardt e Toni Negri, alla cui traduzione italiana (Rizzoli 2010) è stato aggiunto il sottotitolo oltre il privato e il pubblico, assente nell’originale inglese. L’altro è il volume collettaneo a cura di Maria Rosaria Marella, Oltre il pubblico e il privato. per un diritto dei beni comuni (Ombre corte 2012). Anche l’espressione «individualismo possessivo» è ricorrente nel lessico degli autori di Commonwealth: tra i tanti esempi a cui si può rimandare, è interessante vedere questo scritto di Negri, nelle cui conclusioni il filosofo individua quello che ritiene essere un punto di convergenza tra la sua teoria del comune e quella di Rodotà. Per riassumere in un giro di frase cos’è il comune per Hardt e Negri, cito Girolamo De Michele, che a sua volta cita una sententia di Commonwealth: «Il comune di cui si sta parlando non è soltanto la terra che condividiamo, ma anche il linguaggio che creiamo, le pratiche sociali che costituiamo, le forme della socialità che definiscono i nostri rapporti». In quest’ottica, il termine antitetico a «comune» è «privato», da intendere alla latina, cioè nel significato dell’aggettivo sostantivato privatus. Scrive bene De Michele: privatus è «colui al quale manca qualcosa, perché si priva della relazione pubblica, cioè del pubblico interesse». Per completezza preciso che, specialmente nella lingua giuridica, «privatus» – in opposizione a «magistratus» – indicava in particolare il cittadino che non ricopriva alcuna carica pubblica, avendo rinunciato – o non avendo ancora intrapreso – il cursus honorum.
Ciò detto, cosa significa che i beni comuni alludono a un assetto istituzionale che si afferma tra pubblico e privato? Ci si potrebbe chiedere se le espressioni «tra il pubblico e il privato» e «oltre il pubblico e il privato» siano equivalenti, o se abbiano sfumature di significato diverse. Assumendo – come si fa comunemente – che i termini «pubblico» e «privato» siano contrari, un assetto istituzionale che si afferma tra pubblico e privato in logica sarebbe un terzo inclusivo, perché si frappone ai due contrari, ma non li nega. Un assetto istituzionale che si afferma oltre il pubblico e il privato sarebbe un terzo includente, perché, ponendosi al di là del primo e del secondo termine, che sono contrari e dunque si negano a vicenda, a sua volta li nega entrambi e li supera dialetticamente.
Messa così, però, la questione è formale e un po’ oziosa. Prendiamo la definizione per com’è scritta, senza sottoporla a inutili sminuzzamenti. La parafraso: le istituzioni del comune sono in grado di condizionare sia la sfera pubblica, liberandola dallo statalismo, sia quella privata, liberandola dall’individualismo possessivo.
Se nei termini puramente logici in cui l’ho posta, la questione è formale e oziosa, qual è quindi la sostanza? La sostanza è che questa definizione lascia aperto un problema, vorrei dire, di teoria dello stato: è questa l’ambiguità che segnalavo al punto 2). Da un lato è invocata la convivenza tra le regole del comune e gli istituti della democrazia rappresentativa. Dall’altro si avanza l’aspirazione a giungere, per il tramite del comune, a un pubblico non statalista. La domanda a cui quindi mi sembra che la definizione non risponda con chiarezza è questa. Il pubblico non statalista è compatibile con la forma di stato attuale? Detta come va detta: il pubblico non statalista è compatibile con lo stato borghese, sub specie di democrazia pluralistica in un’economia di mercato? Se la risposta fosse affermativa, potrebbe da sola la categoria dei beni comuni, seppure con le buone pratiche che presuppone, eliminare la corruzione ambientale e la burocratizzazione oppressiva, additate a ragione come vizi dello statalismo? O non sono questi, più radicalmente, difetti strutturali del capitalismo?
Se la risposta alla prima domanda fosse invece negativa, a quale teoria dello stato e dei rapporti internazionali s’accompagnerebbe o metterebbe capo la categoria dei beni comuni? Quale forma assumerebbe la democrazia radicale evocata al punto 2) della definizione? Uno stato ci sarebbe ancora o dovrebbe estinguersi? Con o senza un periodo di transizione? Irrigidisco a bella posta la domanda: riforma o rivoluzione?
Per concludere. Un luogo comune storiografico che prendeva di mira già la giurisprudenza romana vuole che i giuristi rifuggano le definizioni, e preferiscano usare le parole nel significato socialmente accettato. È un luogo comune in cui c’è qualcosa di vero, ma c’è anche molto di falso. Certo non si può dire che la dottrina giuridica non si sia affaticata sulla definizione di beni comuni. Se sull’accezione tecnica dell’espressione sembra esserci un sostanziale accordo nell’accettare quella delineata nel progetto di riforma presentato dalla commissione Rodotà nel 2008, le differenze si danno quando si tratta di stabilire come questa categoria debba essere usata politicamente. Qui, anche tra le giuriste e i giuristi, strategie e tattiche si diversificano. È per questo motivo, io credo, che riesce difficile elaborare una definizione unitaria non ambigua dei beni comuni che assommi i due piani del diritto e della politica. Ed è per questo, inoltre, che quando li si definisce in ottica politica, andrebbe sempre esplicitato non dico per forza l’orizzonte teorico, ma l’obiettivo strategico che s’intende raggiungere per il loro tramite.

*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale.


venerdì 26 luglio 2019

turismo da boicottare


TripAdvisor favorisce le violazioni israeliane dei diritti umani in Cisgiordania - Amnesty International

Per molte persone nel mondo stanno per cominciare le vacanze estive, e molti si connettono a Airbnb, Booking.com, Expedia o TripAdvisor senza pensare ad altro.
Solo in pochi si rendono conto che, oltre ad aiutare i vacanzieri a prenotare soggiorni sulle spiagge, viaggi nelle città, alberghi a buon prezzo e voli scontati, queste compagnie incrementano il turismo nelle colonie israeliane che violano la legge internazionale, contribuendo così a un sistema di discriminazione istituzionalizzata e alle violazioni dei diritti umani sofferte da centinaia di migliaia di Palestinesi.
Nel mio lavoro di attivista di Amnesty International su Imprese e Diritti Umani, ho constatato in prima persona queste conseguenze in una visita che ho fatto l’anno scorso al villaggio di Khirbet Susiya durante un viaggio nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).
Le donne della famiglia Nawaja mi accolsero nella loro casa (una grande tenda in stile beduino) e mi raccontarono la loro storia tra una tazza e l’altra di the dolce e in mezzo alle voci dei bambini che giocavano. Mi descrissero come un insediamento israeliano e un sito turistico archeologico, con l’impresa di affari connessa, avevano devastato la vita di un’intera comunità palestinese.
Khirbet Susiya, che ospita circa 300 Palestinesi, è un piccolo villaggio nelle Colline a Sud di Hebron, nella parte meridionale della Cisgiordania. Girando per il villaggio, mi colpì innanzitutto la povertà degli abitanti. La maggior parte vive in precarie baracche appoggiate su pali di legno o in tende coperte di polvere. A solo un chilometro di distanza nell’arido paesaggio circostante, si trova l’insediamento israeliano di Susya. Questa tranquilla cittadina di 1000 abitanti mi ricordava i ricchi suburbi dell’Occidente che sono così spesso l’immagine della diseguaglianza.
Susya fu fondata nel 1983 su terreni che appartenevano ai Palestinesi di Khirbet Susiya, sloggiando una comunità che era vissuta per decenni attorno alle rovine dell’antica Susya e nei campi coltivati circostanti. Nel 1986 le autorità israeliane dichiararono che le rovine e le terre del villaggio erano un sito archeologico e trasferirono con la forza tutti gli abitanti palestinesi. L’espropriazione della comunità palestinese e la fondazione dell’insediamento sono crimini di guerra; l’esistenza stessa dell’insediamento è una violazione del diritto internazionale.
Il sito archeologico in questione, oltre ad una cantina e a un vigneto all’interno della colonia di Susya, sono elencati da TripAdvisor come attrazioni turistiche. Il centro visitatori al sito archeologico vende prodotti agricoli ed oggetti coltivati o confezionati dai coloni nell’insediamento e nella zona circostante, come vino, liquori, erbe aromatiche, miele, cioccolato, olio di oliva, creme e oggetti artigianali.
Facendo promozione a questi siti per i turisti di tutto il mondo, TripAdvisor ricava un profitto dall’incremento che dà all’economia di un insediamento costruito su terra rubata e che è causa di violazioni dei diritti umani a danno dei Palestinesi.
Alle famiglie sfrattate da Khirbet Susiya non furono offerte né sistemazioni alternative né indennizzi. Per la maggior parte si spostarono nei villaggi vicini, ma la famiglia Nawaja decise di restare nella zona, vivendo tra l’insediamento israeliano e il sito archeologico.
La comunità ha perduto larghe fasce di terra coltivabile e ha dovuto ridurre la dimensione delle sue greggi che sono una delle principali fonti di reddito. Le autorità israeliane si sono rifiutate di allacciare il villaggio all’acqua, all’elettricità e alle fognature, costringendo gli abitanti a pagare l’acqua che viene portata con autobotti. Per contro, gli abitanti del vicino insediamento hanno un’abbondante fornitura d’acqua e persino una piscina pubblica.
I Palestinesi di Khirbet Susiya vivono anche sotto la continua minaccia che la loro casa o le loro proprietà possano essere demolite in qualunque momento, poiché sono stati costretti a costruire senza permessi, che vengono sistematicamente negati loro dalle autorità israeliane. Chi abita in una casa che ha già avuto un ordine di demolizione vive in uno stato di ansia continua. Molti ne risentono dal puto di vista psicologico. Di notte un bulldozer potrebbe distruggere tutto. I bambini vivono sotto la paura, come mi ha detto Fatma, una delle donne che mi hanno ospitato, che ha due figli e fa l’assistente sociale.
Devono anche affrontare sistematiche violenze e molestie da parte dei coloni israeliani che vandalizzano e danneggiano sistematicamente olivi, alberi e altre proprietà palestinesi, fanno volare droni sopra le loro tende per intimidirli e li attaccano fisicamente e verbalmente.
Ola, che ha tre figlie, racconta che quando le bambine avevano rispettivamente 7, 12 e 13 anni erano state attaccate da due coloni che le avevano prese a sassate mentre tornavano da scuola. “Qui nel villaggio, le mamme hanno paura che i bambini vadano fuori dalla strada asfaltata perché potrebbero essere attaccati dai coloni.” E la figlia maggiore aggiunge: “Non mi piace andare a scuola per via dei coloni. Sono sempre armati e sono anche più pericolosi dei soldati.”
A un anno dalla mia visita a Khirbet Susiya e alla zona circostante, TripAdvisor continua a pubblicizzare le due attrazioni turistiche di Susya legate all’insediamento, malgrado le ben documentate e continue violazioni dei diritti umani da loro causate. Così facendo, TripAdvisor continua deliberatamente a contribuire a queste violazioni e ne trae un profitto.
Le imprese hanno la responsabilità di rispettare i diritti umani e di adeguarsi alla legge internazionale in qualunque parte del mondo si trovino ad operare. Non devono causare o contribuire ad alcuna violazione e hanno anzi il dovere di opporsi a tali violazioni.
Ciononostante, gli appelli che Amnesty International ha rivolto a TripAdvisor affinché smetta di pubblicizzare attrazioni che si trovano in insediamenti illegali come Susya, sono stati ignorati.
È molto difficile mettere di fronte alle loro responsabilità delle potenti corporazioni, e dubito che questo piccolo articolo da solo possa convincere TripAdvisor o altre compagnie di prenotazioni a cambiare il loro comportamento. Ma spero che possa almeno contribuire a orientare le scelte di vacanze di chi lo legge, e spero che grazie a un attivismo collettivo si possa una buona volta porre fine alle violazioni israeliane dei diritti umani ai danni dei Palestinesi nei TPO.
Intanto, gli abitanti di Khirbet Susiya si sono impegnati a continuare la loro lotta per la sopravvivenza. Come mi ha detto Ola: “Questa è la nostra terra e non la lasceremo. Loro distruggeranno e noi ricostruiremo, ma rimarremo qui.”


Amnesty International invita il personale di TripAdvisor a protestare contro il sostegno alle colonie illegali israeliane dato dalla compagnia.

Amnesty International ha fatto appello agli impiegati di TripAdvisor affinché usino ogni loro potere per far sì che la compagnia smetta di trarre profitto da crimini di guerra includendo nei suoi elenchi attrazioni turistiche e proprietà che si trovano negli insediamenti israeliani illegali nei Territori Palestinesi Occupati (TPO).
In una lettera aperta indirizzata al personale di TripAdvisor, Amnesty International ricorda che gli insediamenti hanno avuto un impatto devastante sui diritti umani dei Palestinesi, con decine di migliaia di case demolite e un gran numero di Palestinesi sfrattati con la forza per far posto alle costruzioni israeliane, in flagrante violazione della legge internazionale, a partire dall’occupazione israeliana della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, nel 1967.
“La politica israeliana di insediare suoi cittadini su terre palestinesi rubate in un territorio occupato è un crimine di guerra. Promuovendo il turismo in questi insediamenti illegali, TripAdvisor li aiuta a incrementare la loro economia e contribuisce all’immensa sofferenza dei Palestinesi che sono stati sradicati dalla loro terra, hanno avuto le loro case distrutte e le loro risorse naturali saccheggiate ad uso delle colonie,” ha detto Mark Dummett, responsabile di Imprese e Diritti Umani ad Amnesty International.
“Per mantenere ed espandere gli insediamenti illegali, Israele impone un sistema di discriminazione istituzionalizzata e di violazioni dei diritti umani ai danni dei Palestinesi, trasformando la loro vita quotidiana in una battaglia continua. Invitiamo tutti coloro che lavorano per TripAdvisor a schierarsi per i diritti umani e unirsi a noi per chiedere che la compagnia rimuova dalle sue liste tutte le colonie e le attrazioni connesse con le colonie nei TPO. I crimini di guerra non sono attrazioni turistiche.”
Nel gennaio scorso, Amnesty International ha pubblicato Destinazione: Occupazione, un’inchiesta su come le compagnie di prenotazioni attirano il turismo nelle colonie illegali israeliane, contribuendo così alla loro espansione, al loro mantenimento e alla loro normalizzazione. Si è visto che TripAdvisor, uno dei siti turistici online più visitati dai turisti stranieri in Israele, elenca più di 70 diverse attrazioni, visite, caffè, hotel e appartamenti in affitto nei vari insediamenti dei TPO.
La lettera aperta è stata inviata ai dipendenti di TripAdvisor a seguito della rispostadella compagnia all’inchiesta di Amnesty International, in cui TripAdvisor sembra suggerire che non rientra tra le responsabilità della compagnia quella di interrompere le sue attività promozionali per le colonie israeliane o altre entità che violano la legge internazionale.
(Per ulteriori informazioni sulla campagna di Amnesty International affinché TripAdvisor smetta di elencare o promuovere attrazioni e imprese che si trovano nelle colonie illegali dei TPO, cliccare qui)


Traduzione di Donato Cioli



giovedì 25 luglio 2019

SOS biodiversità planetaria - Un milione di specie animali e vegetali a rischio estinzione - Luigi Campanella



Sta avvenendo per la diversità biologica quanto già avvenuto per i cambiamenti climatici: malgrado l’evidenza da parte di alcuni si ritiene che non ci siano dati scientifici a dimostrare che essa è minacciata.

Oggi questi dubbi non possono che cadere dinnanzi al Rapporto della Piattaforma intergovernativa scientifico-politica sulla biodiversità e gli ecosistemi, l’organizzazione delle Nazioni Unite che ha presentato così la sintesi globale dello stato della natura, degli ecosistemi e dei contributi della natura al genere umano.

Si tratta di quasi 2000 pagine scritte al termine di 3 anni di lavoro di 400 esperti provenienti da oltre 50 Paesi. Sono un milione le specie animali e vegetali che rischiano di sparire in ,pochi decenni e, se la natura è in pericolo, lo siamo anche noi: pochi infatti considerano che 3⁄4 delle nostre colture alimentari essenziali alla nostra nutrizione, richiedono l’impollinazione degli insetti e l’abuso di pesticidi minaccia questi impollinatori. Vertebrati, farfalle, api, insetti, scoiattoli, pipistrelli, ricci, sono alcune delle specie più esposte e più in pericolo di non sopravvivere.

L’Italia in particolare potrebbe perdere magnifici predatori, come l’aquila ed il gipeto. Purtroppo ancora una volta è l’uomo a creare questa situazione: ha alterato il 75% delle terre emerse, e la vita del 60% degli oceani. Sono nate a causa delle attività antropiche 400 zone morte nel mondo, una superficie paragonabile a quella dell’Italia e destinata ad aumentare.

Il tempo per intervenire si riduce progressivamente tanto che la National Geographic Society è giunta alla proposta – l’unica possibile a questo punto per lei –al fine di innescare un’inversione delle attuali tendenze: tutelare metà del pianeta entro il 2050 con un target intermedio a 30% al 2030. I riflessi di questa nuova auspicata politica saranno non solo ambientali- generalmente incentrati su una limitazione a 2°C dell’aumento della temperatura rispetto al periodo preindustriale, ma anche economici, entrando in un’ottica – come ha affermato il direttore scientifico di WWF Italia Gianfranco Bologna - che non considera più la natura come un blocco allo sviluppo del territorio.


domenica 21 luglio 2019

L'Artico, la Siberia e la Groenlandia in fiamme




Fa caldo, i terreni sono pieni di vegetazione secca creando le opportunità perfette per il disastro. .

Pierre Markuse esperto di immagini da satellite ha dunque raccolto tutto ciò' che poteva su questa estate di fuoco 2019 in Artico.

Fiumi, montagne e foreste, tutte coperte dal fumo e dagli incendi.

Alaska: bruciati più' di 6500 kmq di terreno;  Anchorage che arriva a 32 gradi a Giugno, roba mai vista prima, e si è' sviluppato un enorme incendio chiamato Swan Lake Fire fuori dalla città.

Le cose non vanno meglio in Siberia. Anche se non si vedono perché zone poco abitate, fotografate e fuori dall'interesse mondiale, ci sono vari incendi anche qui e le temperature sono più alte del normale. Le torbiere, tipicamente congelate, sono in fiamme e questo è tutto dire.

Queste torbiere sono caratterizzate da grande abbondanza di acqua, sono una specie di zona paludosa ricca di muschi e graminacee. A causa del freddo i batteri che dovrebbero degradare i resti di animali e piante non riescono ad essere attivi e quindi si accumulano vari strati di materiale organico melmoso, ricchi di carbone. Le fiamme causano dunque un grande rilascio di CO2.  E' quello che accade in Batagay, Siberia centrale e lungo il fiume Lena.

Infine c'è la Groenlandia coperta da incendi, e non è la prima volta. Anche se incendi più limitati che in Siberia e in Alaska sono lo stesso parte dello stesso discorso: laddove dovrebbero esserci nevi e freddo e temperature miti ci sono invece calura e incendi.

I dati del programma europeo Copernicus non sono ottimistici e dicono che siamo nel mezzo di emergenze climatiche mai viste prima: il mese di giugno più caldo che mai, incendi inaspettati, record di caldo in Germania, Francia e Spagna, una spirale crescente di anidride carbonica in atmosfera.

In questi ultimi anni secondo gli esperti di clima e di datazione gli incendi nella foresta boreale sono arrivati a livelli record in 10,000 anni a questa parte.

Diecimila anni.

Sono arrivati a queste cifre studiando i residui di carbonio trovati nei sedimenti dei laghi nella zona della foresta boreale nello Yukon d'Alaska.

Nessuno si preoccupa davvero.



Il porto delle crisi a Cagliari - Monia Melis




“Due anni fa arrivavano tre navi al giorno, ora se va bene sono due in una settimana”. In effetti, guardando l’orizzonte dal porto industriale di Cagliari – chiamato da tutti porto Canale – non si vede un gran via vai di navi merci. Marco racconta la situazione con un tono rassegnato. Preferisce non rivelare il suo vero nome perché ha paura di esporsi troppo. È uno dei 210 operai specializzati che il 17 giugno sono stati inseriti in una procedura di licenziamento collettivo dalla Cagliari international container terminal (Cict), l’azienda che dal 2003 gestisce lo scalo sardo e che fa parte della Contiship Italia.
La crisi andava avanti da tempo, ma si è aggravata definitivamente con l’addio di Hapag Lloyd. L’azienda tedesca di trasporti navali è stata uno dei clienti più importanti di porto Canale, ma nell’aprile scorso ha deciso di saltare la tappa sarda in favore di Livorno. Da allora i lavoratori hanno organizzato assemblee e sit-in, e ci sono stati degli incontri con il governo a Roma. Ma alla fine è arrivato il piano di risanamento della Cict.
Il consiglio d’amministrazione alla fine di maggio ha deciso di ripianare le perdite del 2018 – quasi nove milioni di euro – e ricapitalizzare per altri quattro milioni. Ma non è bastato. Il licenziamento collettivo è stato ratificato il 27 giugno dall’assemblea dei soci e infine comunicato formalmente via email ai sindacati.

Le conseguenze per i lavoratori
“Finora mi sono considerato un privilegiato”, racconta Marco, “ero uno dei dipendenti della società principale, avevamo più tutele, ma le cose sono cambiate anche per noi”. In 16 anni la paga è arrivata sempre puntuale, ma oggi questa certezza vacilla. A lui e ai suoi colleghi – che ora sono in ferie forzate – il salario di maggio è arrivato con tre settimane di ritardo: “La nostra dignità è a rischio, abbiamo in media cinquant’anni, abbiamo figli e mutui da pagare”.
Le conseguenze della crisi di porto Canale non sono pesanti solo per i dipendenti della Cict. Nell’indotto che gira intorno allo scalo lavorano altri 140 operai. E poi ci sono 350 persone che si occupano dei contratti di spedizione, delle pratiche doganali, delle pulizie, oltre a chi gestisce l’entrata delle navi nel porto. Se arrivasse lo stop rischierebbero il posto in settecento.
Prima di loro sono stati licenziati sei addetti ai container della Marine technology services. E settanta dipendenti dell’azienda Iterc sono in bilico da anni: stipendi a singhiozzo, contratti di solidarietà e alcune lettere di fine rapporto. Un’altra azienda – la Cts srl, i cui operai manovravano i container sottobordo – è in liquidazione.

Uno spettacolo un po’ desolante
Sono questi i numeri della crisi del più importante scalo merci della Sardegna, che si trova fra lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez, cioè tra due dei più importanti snodi al mondo. Raggiungerlo e guardarlo da vicino è come assistere a uno spettacolo un po’ desolante.
Strade, piazzali e moli sono lontani solo qualche chilometro a ovest dal centro della città, tra il porto civile e Giorgino, il villaggio dei pescatori. Lungo i 1.500 metri di banchina le sette gru sono ferme, nei piazzali non si vedono camion e non ci sono rimorchiatori che solcano il mare. Alle spalle del porto industriale c’è la laguna di Santa Gilla e un intrico di foci, mentre sullo sfondo, in alto, ci sono il quartiere Castello e le torri medievali.
Alla prefettura di Cagliari si è insediato un tavolo permanente dedicato alla vertenza di porto Canale. Dopo l’annuncio dei licenziamenti anche il neopresidente della regione, Christian Solinas (sardista-leghista), chiede l’intervento del governo: “Auspichiamo che la Cict riveda le sue scelte, trovando un accordo che coinvolga anche l’autorità portuale della Sardegna”. Gli fa eco il presidente dell’autorità portuale, Massimo Deiana del Partito democratico, ex assessore ai trasporti della giunta Pigliaru: “Sono giorni molto tristi, anche se non vuol dire che il porto è chiuso, ci sono persone che lavorano in altri settori, come quello dei container”.

Un crollo
Inserito tra i progetti finanziati dalla Cassa del Mezzogiorno negli anni sessanta, e terminato solo nel 1987, porto Canale ha una capacità di movimentazione all’anno di 1,3 milioni di teu (l’unità di misura del trasporto merci che indica il numero di container caricabili). Tuttavia, al momento non si arriva a 215 mila teu all’anno. La Spezia e il porto di Tangeri, in Marocco – gestito sempre dalla Contship – ne movimentano più di un milione.
Nel “dossier merci” la Uil trasporti Sardegna tratteggia un crollo del 50 per cento del traffico tra il 2017 e il 2018. E considerando il periodo tra il 2016 e il 2019, il calo si attesta all’82 per cento. Al porto Canale si smistava di tutto: dalla frutta alle armi della Rwm, l’azienda del Sulcis che esporta le bombe utilizzate dalla coalizione saudita nello Yemen.
“Da qui imbarcavamo il famoso pecorino romano dop per gli Stati Uniti e il marmo di Orosei”, racconta Marco, “ma anche vino, pasta, pane, il sale industriale dalle vicine saline, ora per spedire queste merci negli Stati Uniti bisogna prima mandarle in un altro porto, come per esempio Livorno”. A farne le spese sono anche i commercianti cinesi che a porto Canale finora hanno ricevuto le merci da rivendere nei loro negozi.
I cargo facevano la spola con l’Asia e gli Stati Uniti, il Canada e il nord Europa. “L’unica prospettiva è differenziare le attività, utilizzando il porto soprattutto come un punto di snodo per lo stoccaggio di merci destinate altrove”, spiega William Zonca, segretario regionale della Uil trasporti, “e offrire alle compagnie marittime gli enormi piazzali, dove potrebbero sostare i container”.
Ora però il tentativo è quello di trovare degli ammortizzatori sociali per aiutare le persone licenziate ed evitare lo stop totale nel settore transhipment, ossia nel trasbordo delle merci direttamente da una nave all’altra. “Chiediamo che la situazione sia gestita al pari di grandi realtà industriali come l’ex Alcoa”, dice Zonca, “perché sono in ballo centinaia di posti di lavoro”.

Spiragli, vincoli, progetti fermi
In mezzo alla crisi spunta lo spiraglio di un investimento, quello del gruppo Grendi, che a porto Canale ha inaugurato un hub per Barilla. “Ci sarebbe il progetto di un secondo deposito, ma c’è il vincolo paesaggistico”, spiega ancora Zonca. Il problema è che le autorizzazioni paesaggistiche sono scadute e quelle nuove sono state bocciate dal tribunale amministrativo regionale (Tar) e dal consiglio di stato: di fatto l’intero porto è abusivo. Tuttavia, a fine maggio è stato approvato l’iter per ottenerne di nuove.
Un progetto di rilancio come quello proposto nel 2006 prevedeva la realizzazione di un altro terminal con quattro attracchi, ma ormai è un ricordo lontano. Un altro ancora ruota intorno al rigassificatore – contestato da un comitato locale – da realizzare insieme a un terminal che dovrebbe accogliere il metano liquido in arrivo dal mare.
 “Un’altra strada percorribile per il rilancio”, dice Zonca, “potrebbe essere quella di applicare una fiscalità di vantaggio. Ma l’attività centrale dovrebbe essere comunque la movimentazione di container carichi”. Sulla creazione di una zona economica speciale – e sulla crisi del porto – è stata votata una mozione in consiglio regionale.
Ma le nubi al momento non sembrano diradarsi. C’è chi sospetta che Contship preferisca abbandonare Cagliari per Tangeri, in Marocco, dove già opera con meno tasse e un costo del lavoro più basso.
I rappresentanti sindacali di Cgil, Cisl e Uil citano il caso di Gioia Tauro, in Calabria, gestito sempre dalla Contship. In questo caso lo faceva attraverso la Medcenter container terminal (Mct), che tra i soci aveva anche la Msc della famiglia Aponte. Lo scalo reggino era da tempo in crisi e i portuali erano in cassa integrazione. Poi tre mesi fa la Msc – attraverso la Til, un’azienda che controlla – ha comprato tutte le quote ed è diventata l’unico gestore del porto.
La ristrutturazione è costata centinaia di posti lavoro, ma la Uil la considera comunque una possibilità: “Ci sono dei punti negativi, ma Gioia Tauro ora ha una prospettiva. E d’altronde è una dinamica che interessa gli scali di tutto il mondo, non solo europei. Ogni compagnia, con delle alleanze strategiche, cerca di gestire autonomamente il punto d’approdo per ridurre i costi e avere il controllo diretto. Così saltano le società intermediarie, come Contship a Cagliari”.

Un contesto difficile
Porto Canale fatica anche perché il contesto è molto cambiato rispetto agli anni in cui è nato. Il mercato oggi se lo dividono quattro grandi gruppi, penalizzando le realtà più piccole. Questa concentrazione, spiega Anna Maria Pinna, docente di economia e politica internazionale all’università di Cagliari, “da una parte è dovuta al fatto che le leggi che dovrebbero regolare il settore sono vecchie, e dall’altra al fatto che le navi merci sono diventate sempre più grandi, anche del 30 per cento negli ultimi dieci anni”.
Per far attraccare imbarcazioni da 10mila teu e più come la Triple E (Daewoo e Maersk) e come l’ultima della sudcoreana Hyundai non vanno bene i porti piccoli, e anche le gru devono essere più alte. Insomma, c’è bisogno di investimenti e risorse che, secondo Pinna, “solo i grandi gruppi possono permettersi, spesso attraverso alleanze strategiche”.
“Eppure il fatto di essere un’isola”, dice Pinna, “in questo campo dovrebbe essere un ulteriore fattore d’attrazione e di forza. C’è chi lotta anche oggi per avere uno sbocco al mare”. Secondo Italo Meloni, professore di ingegneria civile all’università di Cagliari e componente del Comitato di gestione dell’autorità portuale: “Lo scalo ha dei punti di forza, primi fra tutti la posizione e le migliaia di metri quadrati di piazzali dove movimentare e stoccare le merci”.
Secondo il docente, “sarebbe stato meglio intravedere lo scenario e muoversi d’anticipo”. Il piano potrebbe essere creare un network di scali controllati da uno stesso gestore, non per forza quello attuale, ma è necessario trovare nuovi investitori o intercettare gli interessi delle grandi compagnie.

venerdì 19 luglio 2019

Connessioni lente - Rosa Bruno




Sentiamo spesso gli onnivori, quelli che chiamiamo carnisti con un neologismo, giustificarsi con un splendido terzetto di luoghi comuni. Il primo e preferito da gli pseudo amanti dell'ambiente è: “Io mangio pochissima carne”L'altro quello prediletto dagli pseudo salutisti ed amanti degli animali è: “Io compro pochissima carne e solo biologica e di provenienza contadina”. Le volte in cui ho sentito queste due scuse sono innumerevoli, persino di più della terza, molto usata: “Io, purtroppo, devo mangiare carne per la mia salute”Alla prima affermazione è facilissimo rispondere, lo dico spesso, scherzando, ma non troppo "Peccato che l'animale da cui è tratta la tua pochissima carne è, pur sempre, moltissimo morto”Alla seconda, che viene spesso accampata insieme all'idea che possa esserci un allevamento e quindi una macellazione “accettabile e compatibile, quasi giusta” è, comunque, possibile rispondere in modo esauriente: “Tutte le azioni che abbiano come conclusione la morte sono altrettanto dolorose e spaventevoli per chi muore”Non è che che allora il fatto che al maiale, al vitello, all'agnello o al pollo venga concesso di giocare con la palla prima di venire ammazzato renda più giusta la sua morte e, soprattutto, non rende meno terribile e atroce la sua esecuzione. Non esiste un modo gentile e simpatico di uccidere, mettetevelo nella testa! Questa risulta una giustificazione sofistica un po' come la scelta fra la ghigliottina e la mannaia o il pretendere che se si ammazza qualcuno a tempo di musica questi sia meno morto che se lo si fa in silenzio. 
L'ultima poi è l'assoluto capolavoro della disinformazione è, ormai, scientificamente comprovato che in nessun caso la carne sia indispensabile alla sopravvivenza, nessuna malattia giustifica una dieta carnea. 
D'altra parte il danno arrecato alla salute da salumi e carni rosse o bianche che siano è assolutamente certo e verificato. Ora, io non ho alcuna intenzione di portare avanti una crociata, so che ciascuno arriva alla maturazione spirituale ed alla comprensione dell'unicità del “Principio Naturale” con i propri tempi e nei propri modi... nel frattempo però, per evitare la noia e fracassamenti di zebedei, per favore, evitiamo le arrampicate sui vetri e l'uso di luoghi comuni.

giovedì 18 luglio 2019

Il caso e la sfortuna non c’entrano. A causare i tumori è l’ambiente - Miriam Cesta




La sfortuna non c’entra: l’insorgenza di un tumore non dipende dalla malasorte o dal caso. Un gruppo di studiosi dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo) e dell’Università Statale di Milano guidati da Piergiuseppe Pelicci, direttore della Ricerca Ieo e professore di Patologia generale all’Università Statale di Milano, e Gaetano Ivan Dellino,  ricercatore, in collaborazione con i colleghi dell’Università Federico II di Napoli, ha scoperto che dietro a una delle alterazioni del Dna più frequenti e importanti per lo sviluppo del cancro, le traslocazioni cromosomiche, non ci sono il caso o la sfortuna, come ipotizzato fino a oggi, ma degli specifici input che le cellule ricevono dall’ambiente esterno, quest’ultimo condizionato a sua volta dall’ambiente in cui viviamo e dal nostro stile di vita.

Il cancro non si sviluppa per caso o sfortuna
I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista Nature Genetics, sembrerebbero dunque rappresentare un primo colpo inferto al mito della casualità del cancro lanciato da Bert Vogelstein della Johns Hopkins Medical School (Baltimora, Stati Uniti), uno degli scienziati contemporanei più autorevoli, quando sulla rivista Science in tre studi pubblicati nel 2016, 2017 e 2018 sostenne come due mutazioni su tre nei tumori fossero dovute a errori casuali effettuati durante i meccanismi di replicazione del Dna delle cellule, e quindi inevitabili. Siccome queste mutazioni venivano considerate del tutto casuali, Vogelstein ha concluso i suoi studi sostenendo che avverrebbero in ogni caso, anche se il nostro pianeta fosse perfetto e i nostri stili di vita irreprensibili. Quindi non possiamo fare nulla per evitare di ammalarci di cancro: possiamo solo sperare che non tocchi a noi, contando sulla fortuna.

Le traslocazioni cromosomiche
Un tumore si sviluppa quando una singola cellula accumula 6 o 7 alterazioni del Dna a carico di particolari geni, detti “geni del cancro” o “oncogeni”. Gli autori dello studio pubblicato su Nature Genetics spiegano che possono essere di due tipi le alterazioni presenti nei geni del cancro: le mutazioni, che causano piccoli cambiamenti della struttura di un gene, e le traslocazioni cromosomiche, che causano la fusione di due geni. «Le traslocazioni sono la conseguenza di un particolare tipo di danno a carico del DNA, ossia la rottura della doppia elica», spiega Dellino. Come per le mutazioni, gli studiosi pensavano che questo tipo di danno avvenisse casualmente nel genoma, ad esempio durante la divisione cellulare, come ipotizzato da Vogelstein. «Al contrario il nostro lavoro mette in discussione la casualità delle traslocazioni cromosomiche. Studiando le cellule normali e tumorali del seno, abbiamo scoperto che né il danno al Dna né le traslocazioni avvengono casualmente nel genoma: possiamo prevedere quali geni si romperanno con una precisione superiore all’85%. Tuttavia solo una piccola parte di questi darà poi origine alle traslocazioni, cioè alla fusione di due geni rotti. La questione centrale, che cambia la prospettiva della casualità del cancro, è che l’attività di quei geni è controllata da segnali specifici che provengono dall’ambiente nel quale si trovano le nostre cellule, e che a sua volta è influenzato dall’ambiente in cui viviamo e dai nostri comportamenti, per esempio dal tipo di microbi con cui conviviamo, dalle sostanze che ingeriamo, ecc., non certo dalla sfortuna».

Non allentare sulla prevenzione
Le traslocazioni forse in futuro potranno essere usate come marcatore per identificare il rischio di sviluppare neoplasie o come bersaglio per mettere a punto farmaci che aiutino a prevenire il cancro. «Per ora non abbiamo capito esattamente quale sia il segnale che induce la formazione delle traslocazioni, ma abbiamo capito che proviene dall’ambiente. Ci stiamo lavorando», afferma Piergiuseppe Pelicci, coordinatore  dello studio dello Ieo e della Statale. Che spiega che, anche grazie a questo studio, la prevenzione in campo oncologico torna ad assumere un’importanza centrale: «Abbiamo dimostrato che non esiste una base scientificache ci autorizzi a sperare nella fortuna per evitare di ammalarci di tumore. Anzi: ora abbiamo un motivo in più per non allentare la presa sulla prevenzione riguardo allo stile di vita, al tipo di mondo che vogliamo, ai programmi di salute che chiediamo al nostro servizio sanitario. E anche al tipo di ricerca scientifica che vogliamo promuovere».

Il fascino discreto dell’aliga - Stefano Deliperi


Come ne Il fascino discreto della borghesia, grande capolavoro di Luis Buñuel, il rapporto della Sardegna con la gestione dei propri rifiuti rivela aspetti decisamente surreali e grotteschi.
Nel dicembre 2018 l’allora Assessore regionale della difesa dell’ambiente Donatella Emma Ignazia Spano vantava con una punta d’orgoglio i risultati della Sardegna nella raccolta differenziata dei rifiuti: l’Isola è sesta nella classifica nazionale della raccolta differenziata, con il 63% di raccolta differenziata rispetto ai rifiuti prodotti, dopo il Veneto (al 72,9%), il Trentino Alto Adige, la Lombardia, il Friuli e l’Emilia Romagna.
Sì, è un bel risultato, ma non tiene minimamente conto di una realtà diffusissima in tutta la regione, l’abbandono dei rifiuti. A Cagliari, con il vecchio sistema di raccolta differenziata dei “cassonetti”, i dati ufficiali del catasto rifiuti I.S.P.R.A. indicavano un lento calo della percentuale della raccolta differenziata dei rifiuti 88-90 mila tonnellate all’anno) dal 34,15% del 2011 al 28,87% del 2017.
In poco tempo, con il nuovo sistema di raccolta differenziata “porta a porta”, la percentuale è salita dal 29% dell’aprile 2018 al 64% del maggio 2019. Un bel successo, innegabile, tuttavia, con l’estensione progressiva del nuovo sistema di raccolta differenziata al centro storico e alle periferie, sono aumentati esponenzialmente i roghi di rifiuti, da Pirri a Mulinu Becciu,da San Michele a Sant’Elia.
Nessun complotto, come pur si dubita, ma un banale dato di fatto: le migliaia di evasori della TARI, la tassa sui rifiuti, non hanno diritto ai contenitori per la raccolta differenziata “porta a porta” e buttano i rifiuti per strada, dove – prima o poi – qualcunoli elimina con il fuoco.
Tant’è, con tutti i gravi problemi ambientali e sanitari che ne derivano. Un bel successo degradato da un aspetto della metodologia di raccolta differenziata non adeguatamente considerato. Surreale, ma vero. Pur dovendo intensificare la lotta all’evasione della TARI, si tratta di un aspetto assolutamente da rivedere (per esempio, realizzando e mantenendo alcune “isole ecologiche” nei vari quartieri), se non si vuol vedere la città ridotta a una terra dei fuochi. A questo si somma l’eterna inciviltà di troppa gente, mai abbastanza sanzionata.
Elemento, quest’ultimo, da non sottovalutare, come dimostra la realtà isolana. Da Pratobello, fra Fonni e Orgosolo, a Mores, dal parco Europa di Quartu S. Elena a S.Agostino di Alghero, sono infiniti le campagne, i cigli stradali, i parchi pubblici allietati da cumuli di rifiuti sistematicamente abbandonati pressochè impunemente da cafoni e incivili. Finora non si sono avvertiti miglioramenti e solo puntuali esposti alle amministrazioni pubbliche competenti portano a una (temporanea) bonifica ambientale.
Lungo le strade gli obblighi di pulizia e di decoro ambientale competono ai titolari e ai concessionari della rete viaria (art. 14 del decreto legislativo n. 285/1992 e s.m.i.), mentre per i terreni contigui e le campagne sono compiti dei soggetti pubblici e privati proprietari (art. 192 del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.), come rammentato anche da una circolare assessoriale dell’ottobre 2012.
Non sono esenti da compiti anche gli amministratori locali: la recente  sentenza Corte cass., Sez. III, 15 novembre 2018, n. 51576 ha affermato che, nell’ordinamento delle Autonomie locali, pur sussistendo una netta distinzione fra i poteri d’indirizzo politico-amministrativo di competenza dei vertici istituzionali e i poteri gestionali attribuiti ai dirigenti o ai responsabili tecnico-amministrativi dei servizi (art.107del decreto legislativo n. 267/2000 e s.m.i.), non è certo escluso il dovere di attivazione da parte del sindaco di un Comune quando siano note situazioni che pongano in pericolo l’ambiente e/o la salute dei cittadini, non derivanti da fatti contingenti e occasionali.
Un esempio eclatante è dato dalla località di Sa Muxiurida, nelle campagne di Selargius. Un vero e proprio far west dei rifiuti. In proposito il Corpo forestale e divigilanza ambientale ha fornito (nota prot. n. 77011 del 3 dicembre 2018) gli imponenti numeri dell’attività svolta:
*attività in campo penale: n. 23 sequestri preventivi per discarica abusiva (2010-2018), n. 4 sequestri di automezzi pesanti per traffico illecito di rifiuti, n. 22 persone indagate;
*attività in campo amministrativo: n. 14 violazioni amministrative (2015-2018), n. 22 segnalazioni al sindaco di Selargius per l’emanazione di provvedimenti di bonifica ambientale (art. 192 del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i.).
Sono numeri che fanno comprendere come vi sia una vera e propria lucrosa attività organizzata di gestione dei rifiuti parallela a quella legale per ragioni legate al risparmio economico nello smaltimento di rifiuti speciali e non (detriti, pneumatici, mobili, vernici, rottami, ecc.), prima depositati, poi bruciati.
Un’attività illecita, sanzionata in particolare ai sensi degli artt. 255 (divieto di abbandono di rifiuti) e 256 (attività di gestione di rifiuti non autorizzata) del decreto legislativo n. 152/2006 e s.m.i., nonché 674 del codice penale, che va stroncata con adeguata attività di vigilanza predisposta dal Comune e provvedimenti della magistratura se non vogliamo che le campagne di Selargius siano destinate a diventare una permanente discarica a cielo aperto, con tutte le ovvie conseguenze ambientali e sanitarie.
E’ fondamentale, quindi, l’attività di sensibilizzazione dei cittadini e un efficiente servizio di raccolta e gestione dei rifiuti, ma davanti a vere e proprie attività criminali di smaltimento illecito dei rifiuti di ogni genere non può mancare la giusta risposta preventiva e repressiva di amministrazioni pubbliche e magistratura.