venerdì 30 aprile 2021

Come non si deve agire per contrastare la pandemia di coronavirus Covid-19 - Grig

 

 

Quanto accaduto in Sardegna fra marzo e aprile 2021 dovrebbe esser di lezione su che cosa non si deve fare per contrastare la pandemia di coronavirus Covid-19.

Da unica regione in “zona bianca”, con una gestione sanitaria schizofrenica e deficitaria, a unica regione in “zona rossa” (ordinanza Ministero salute del 23 aprile 2021).

Nel mentre, la Giunta regionale a guida indipendentista d’obbedienza leghista, incapace ad affrontare efficacemente la pandemia, continua a occuparsi del più greve clientelismo, in un clima di gravissima disobbedienza prandiale di troppi esponenti del ceto dirigente regionale, meritevole degli opportuni accertamenti da parte della magistratura.

Certo, non è un caso isolato, basti pensare alla nota malagestione lombarda.

Comunque, così non si deve agire.

E bisognerebbe imparare dagli errori, una volta per tutte.

Stefano DeliperiGruppo d’Intervento Giuridico odv

 

 

da Il Corriere della Sera25 aprile 2021


Da zona bianca a rossa in 40 giorni: nell’isola si è passati da 40 a 444 casi. «Ecco cosa succede se si riapre troppo presto». (Alberto Pinna)

Le settimane bianche hanno messo in ginocchio la Sardegna, unica «zona franca» e libera da Covid in Italia per 20 giorni e ora unica regione rossa, con il rischio di rimanerci fino al 10 maggio. E stavolta nessuno può scaricare le colpe sugli «untori» venuti dal mare, come fu nella folle estate 2020 quando un pugno di vacanzieri con licenza di far gregge in discoteca portò il virus e al rientro lo diffuse anche nella Penisola. Stavolta virologi, epidemiologi, infettivologi tutti d’accordo: «È un esempio di ciò che può accadere ovunque, se si riapre quando i dati lo sconsigliano». Sergio Babudieri, direttore di malattie infettive dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Sassari, dice di più: «La Sardegna è la dimostrazione, scientificamente inequivocabile, che quando si riapre, per la gente è come un cessato allarme, molti non rispettano le regole. Il mio reparto è al limite e gran parte dei ricoverati non sono anziani».

 

La parabola

La parabola dell’isola: 1 marzo bianca, 22 marzo arancione, 12 aprile rossa. I numeri: da 40 contagi/giorno a febbraio a 444 il 31 marzo, a una media oltre i 300 al giorno nell’ultima settimana, con uno spiraglio: Rt in calo, da 1,54 a 0,97. Ma ben 157 focolai, 132 positivi ogni 100 mila abitanti (erano 29 in zona bianca), vaccini ancora indietro, per quanto gli 11 mila di media negli ultimi giorni non siano lontani dai 17 mila, obiettivo per fine aprile del generale Figliuolo. I numeri non sono tutto. Insiste Babudieri: «Il calo che ha consentito la zona bianca era conseguenza dei comportamenti virtuosi nelle vacanze di Natale. Dopo l’ondata di novembre, la gente ha avuto paura. Il mio reparto si è svuotato. Poi con la zona bianca, liberi tutti. Noi eravamo preoccupati e insieme con i colleghi volevamo fare una provocazione, andare in un bar con tute bianche e maschere, per ricordare: il pericolo non é passato. Lo avessimo fatto… Il 21 marzo 5 ricoveri in un giorno». E poi arriva lo sfogo: «Non voglio insultare nessuno, ma come definire certi comportamenti: stupidità? Immaturità? Noi medici vediamo i malati morire soffocati, ma quando avvertiamo che non è prudente riaprire si grida al golpe dei camici bianchi».

 

Al supermercato

Non parlano di stupidità il governatore Christian Solinas e l’assessore alla Sanità Mario Nieddu, ma concordano su «atteggiamenti irresponsabili. Il virus cammina sulle gambe delle persone. Dipende tutto da noi» (sardi). «C’è stato un calo di attenzione, un sentimento errato di liberazione dal virus mentre arrivava la variante inglese». Liberazione? A Bono (Goceano) il sindaco è stato costretto in pochi giorni a ordinare due volte la zona rossa: quando ha allentato le restrizioni, giovani e vecchi hanno riaffollato i bar. A Olbia con 600 positivi avrebbero dovuto esserci almeno 2 mila persone in isolamento volontario, invece ne risultavano meno di 300: gli altri «liberi» di contagiare. A Sassari un medico ha visto in un supermarket un suo paziente positivo e lo ha fatto chiamare: «Il signore che è positivo si presenti al box informazioni…». Si sono presentate sette persone. A Cagliari il primo fine settimana bianco migliaia in movida. E in un b&b dell’Ogliastra irruzione dei carabinieri, 18 minorenni festeggiavano con alcol, uno ha dovuto essere ricoverato in ospedale. Fra stupidità e farsa il pranzo in un hotel termale a Sàrdara, 40 tra alti dirigenti regionali, manager pubblici e della sanità, qualche politico di secondo piano. All’arrivo della Finanza, fuga generale: chi si rifugia in bagno, chi scavalca la finestra e si nasconde in un bosco e chi si barrica in camera. Verbale, 20 sanzioni, inchiesta della magistratura, incredibili dichiarazioni: «Io non c’ero… anzi c’ero». «Dormivo». «Capitato là per caso, ho salutato un amico». «Convocato: riunione di lavoro». Anche un sussulto di dignità («C’ero e chiedo scusa») e 5 dimissioni «spontanee». Non quelle del capo delle Guardie forestali (corpo di polizia regionale che controlla gli arrivi in porti e aeroporti): avrebbe dovuto, lui, sanzionare i presenti e invece se l’è cavata così: «Mi sono affacciato nella sala — ha detto Antonio Casula —, ho mangiato un panino e sono andato via».

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giovedì 29 aprile 2021

I Pfas in tribunale

  

Pfas: che cosa e quali conseguenze hanno sulla salute

Le sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) vengono prodotte dalla seconda guerra mondiale e sono presenti in quasi tutti i prodotti della nostra vita quotidiana, dal filo interdentale alla giacca impermeabile. Sono resistenti ad alte temperature, alla degradazione in acqua e non vengono assorbite dall’ambiente. Finiscono nell’ambiente perché gli scarichi delle industrie chimiche non sono ancora normati e l’acqua dei fiumi è da sempre stata vista come mezzo per portare via i residui lavorati.

Attraverso l’acqua, sostiene l’accusa, queste sostanze sono arrivate nel sottosuolo dell’industria Miteni, posta sopra la ricarica naturale della falda più grande d’Europa. Così i Pfas sono entrati nei rubinetti di oltre 300 mila persone, che l’hanno bevuta per decenni. Berla significa portare nel corpo interferenti endocrini, questo sono per il corpo i Pfas, che ostacolano il processo ormonale.

Tumori, malformazioni, aborti e malattie del sistema cognitivo hanno percentuali altissime nelle tre province colpite, Padova, Vicenza e Verona. Gli studi condotti in loco dall’università di Padova dimostrano come siano sostanze nocive per la nostra salute, nello specifico per il nostro sistema nervoso e ormonale…

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Si è aperto il più grande processo italiano per crimini ambientali - Marco Cedolin

 

Abbiamo parlato diffusamente lo scorso anno dello scandalo dei Pfas, a causa del quale solamente in Veneto oltre 350mila persone hanno bevuto per decenni, e continuano a bere, acqua pesantemente contaminata da sostanze tossiche in grado di provocare malattie degenerative del cervello, una lunga serie di tumori, cardiopatie e malattie collegate al diabete, solo per citare alcune delle moltissime patologie messe in relazione con l’accumulo di questi veleni all’interno del corpo umano nel corso di molteplici studi.

L’inquinamento da Pfas, sostanze vietate negli stati Uniti dal 2001 a causa della loro tossicità per l’ambiente e gli esseri viventi e considerate dalla Commissione europea interferenti endocrini dal 2009 non riguarda solamente il Veneto (che comunque risulta essere la più vasta zona oggetto di contaminazione), ma anche la provincia di Alessandria, quella di Pisai bacini dei fiumi Lambro e Olona in Lombardiail distretto tessile di Prato e il Polo conciario campano.

Finalmente nello scorso mese di marzo al tribunale di Vicenza si è aperto, dopo otto anni di denunce e un anno e mezzo di udienze preliminari, quello che può essere considerato il più grande processo per crimini ambientali italiano.

Sul banco degli imputati la Miteni e le varie società che dal 1966 ne hanno guidato la gestione e pur essendo state a conoscenza fin dall’inizio del problema concernente la contaminazione delle acque di scarico, così come appurato dai carabinieri, hanno evitato con ogni mezzo di rendere pubblico quanto stesse accadendo.

Stiamo parlando di 15 responsabili civili, dieci dirigenti stranieri e cinque italiani, accusati di avvelenamento delle acque, disastro ambientale e bancarotta fraudolenta. Si tratta dei dirigenti delle diverse società che a partire dal 2002 hanno prodotto sostanze chimiche all’interno del polo industriale di Trissino in provincia di Vicenza e di quelli della società che ha gestito il fallimento della Miteni nel 2018. Dalla parte dell’accusa si sono costituiti come parti civili oltre 230 soggetti, fra i quali 150 singole famiglie e due ministeri rappresentati dall’avvocatura di Stato, il Ministero dell’Ambiente e quello della Salute che chiedono la bonifica del sito inquinato e il risarcimento delle spese sanitarie conseguenti alla contaminazione in oggetto.

Il prossimo 13 aprile ci sarà la conferma del rinvio a giudizio per gli imputati e dovrebbe avere inizio la fase dibattimentale, durante la quale le difese saranno chiamate a rispondere dei reati imputati. Le varie associazioni di cittadini stanno al contempo organizzando una grande manifestazione per la fine del mese di aprile, con lo scopo di aggiornare la popolazione sulla situazione processuale e sensibilizzarla riguardo alla gravità del problema.

Nonostante da due anni sia stato infatti aperto un tavolo tecnico regionale, con lo scopo di portare avanti un progetto di bonifica del sito e della falda, concretamente non è ancora stato fatto nulla e la contaminazione delle acque continua a mettere a repentaglio la salute della popolazione e con tutta probabilità continuerà a farlo anche nei prossimi anni.

La speranza è quella che non si ripeta il caso di Spinetta Marengo, nell’alessandrino, dove dopo un processo durato 10 anni contro l’azienda chimica Solvay, accusata di avere prodotto veleni che hanno inquinato oltre 1150 metri cubi di terreno nel raggio di tre chilometri dal polo chimico, delle 38 persone indagate solamente 3 sono state ritenute colpevoli, oltretutto esclusivamente di disastro ambientale colposo, un reato con pene meno gravose rispetto a quello di avvelenamento doloso richiesto dall’accusa. Tutto ciò nonostante in tribunale, nel 2013, l’epidemiologo dell’Arpa Ennio Cadum avesse dimostrato come il cromo esavalente e altri 20 veleni rilasciati nelle acque di Spinetta avessero provocato un incremento dell’80% del numero dei tumori in un’area di 3 chilometri intorno allo stabilimento.

Il processo che si sta aprendo al tribunale di Vicenza rappresenta insomma sicuramente una buona notizia, ma la strada per ottenere giustizia e risolvere il problema rischia di manifestarsi purtroppo ancora lunga e tortuosa, pur nella speranza che risulti esserlo il meno possibile.

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I comitati ambientalisti veneti esultano: «Chi ci ha avvelenato paghi» - Riccardo Bottazzo

Il rinvio a giudizio dei quindici manager della Miteni, l’azienda vicentina responsabile di aver avvelenato con i Pfas le acque di mezzo Veneto, è stato accolto con grande entusiasmo dalle 226 tra associazioni ambientaliste, comitati cittadini e pubbliche amministrazioni, che si erano costituite parte civile e che, per tutto lo scorso fine settimana hanno assediato il tribunale con un presidio permanente che si è concluso alla lettura della sentenza.
«Stiamo piangendo di gioia – ha commentato Patrizia Zuccato delle Mamme No Pfas – Temevamo che ancora una volta il potere e il denaro mettessero tutto a tacere, ma questa sentenza ci apre una strada. Sappiamo che sarà tutta in salita ma ora è una strada aperta e vi assicuro che la percorreremo sono in fondo». Anche Luigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, parla di «una prima grande vittoria». «Ci aspettiamo che venga applicato il principio che sta alla base degli ecoreati: chi inquina paga. La difesa delle falde e della salute deve stare al centro del Piano nazionale di ripresa».

La decisione del giudice per l’udienza preliminare Roberto Venditti ha accolto in toto l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri vicentini Barbara De Munari e Hans Roderich Blattner. I quindici manager sono stati rinviati a giudizio con le accuse di disastro doloso, avvelenamento delle acque, inquinamento ambientale ed anche di bancarotta fraudolenta per il fallimento della società Miteni nel 2018. Si tratta di quindici dirigenti d’azienda di rilevanza internazionale che fanno riferimento a importati multinazionali come la Mitsubishi e l’Icig, proprietarie della Miteni negli ultimi decenni in cui l’avvelenamento è stato più pesante per l’utilizzo di Pfas di ultima generazione, come GenX e C6O4.
Dunque, il primo luglio prossimo in Corte d’Assise ci sarà il più grande processo per crimini ambientali mai svoltosi nel Veneto, e probabilmente anche in Italia, sia per la pericolosità dei materiali versati che per l’ampiezza dell’area interessata dall’inquinamento e che investe le provincie di Vicenza, Verona, Padova. Mezzo Veneto, per l’appunto. Senza contare che l’area inquinata si sta tutt’ora espandendo e che la presenza di Pfas è stata rilevata recentemente anche nella laguna veneziana. Solo nei prossimi anni riusciremo a quantificare con precisione l’impatto causato dallo sversamento di queste molecole killer nelle falde acquifere. Gli effetti sulla salute dei cittadini che hanno bevuto l’acqua inquinata o che si sono nutriti di verdure locali è già testimoniato da varie ricerche mediche che hanno riscontrato un forte aumento di patologie come tumori ai reni e ai testicoli, coliti ulcerose sino a ictus, osteoporosi precoce, diabete, Alzheimer. I Pfas colpiscono in particolare i bambini e le donne in stato di gravidanza causando aborti e malformazioni nei feti. Un disastro ambientale e sociale le cui conseguenze le pagheremo anche negli anni a venire, in quanto questi acidi perfluoroacrilici agiscono come una sorta di bomba ad orologeria. Una «pandemia chimica» che si accumula nel metabolismo e i cui effetti possono manifestarsi anche a decenni di distanza.

La soddisfazione per questa primo pronunciamento che riconosce le pesanti responsabilità della Miteni non riuscirà ad allontanare la paura di ammalarsi in un prossimo futuro. Così come non diminuirà i disagi di chi non potrà ancora bere l’acqua del rubinetto, continuerà a guardare con sospetto le verdure in vendita nei mercati ed a rinunciare a coltivare l’orto sotto casa. Allo stesso mmodo, il processo non può rimediare i ritardi di una amministrazione regionale che per tanti anni si è dimostrata sorda alle denunce dei residenti che sin dai primi anni del nuovo secolo chiedevano come mai nei prati di Trissino le margherite nascessero con due corolle o con i petali raggrinziti. Solo nel 2013, l’Arpa ha cominciato a studiare il fenomeno, riscontrando ufficialmente la presenza di Pfas nelle falde. Per il rinvio a giudizio, ci sono voluti altri 8 anni. I tempi della giustizia non sono mai quelli della salute e dell’ambiente. Tanto più che nella maggioranza che guida la Regione, di bonifiche ancora non se ne parla.

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mercoledì 28 aprile 2021

Bonifica ambientale sulla spiaggia del Poetto (Cagliari)

 

 

E’ davvero osceno l’ultimo degrado, in ordine di tempo, ai danni della splendida spiaggia del Poetto, otto-nove chilometri di sabbia fra Cagliari e Quartu S. Elena, fin troppo massacrata da pessima gestione nel corso degli ultimi decenni.

Centinaia di sacchi realizzati con nylon si degradano lungo la battigia, alcuni integri, la maggior parte molto meno.

Attualmente non sono altro che rifiuti, l’ennesimo oltraggio a una splendida spiaggia chilometrica fin troppo impreziosita da risalenti prelievi di sabbia e più recenti ripascimenti disastrosimaleducazionecafonate.

Un vero e proprio gioiello ambientale maltrattato.

L’associazione ecologista Gruppo d’Intervento Giuridico odv aveva, quindi, inoltrato (16 marzo 2021) un’istanza di accesso civico, informazioni ambientali e adozione dei necessari provvedimenti di bonifica ambientale, coinvolgendo la Guardia costiera, il Comune di Cagliari, la Soprintendenza per archeologia, belle arti e paesaggio cagliaritana, i Carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale, il Corpo forestale e di vigilanza ambientale.

Le risposte sono arrivate, precise:

* la Capitaneria di Porto di Cagliari – Servizio Demanio ha comunicato (nota prot. n. 12688 del 24 marzo 2021) “che a seguito di accertamento di P.G. personale dipendente da questo Comando ha accertato la presenza di diversi sacchi in ‘nylon’ contenenti sabbia nel tratto di arenile antistante la concessione ‘il Lido’. I sacchi ‘visibili’ sono posizionati per tutta la lunghezza della concessione ad una distanza di circa 3 mt dal bagnasciuga. E’ stata inoltre accertata la presenza di altri sacchi nello specchio acqueo.

Il posizionamento dei sacchi, richiesto dall’allora concessionario, è stato autorizzato dalla R.A.S. Assessorato degli Enti Locali Finanza ed Urbanistica con nota prot. 3729 in data 25 luglio 1995 per il ‘ripascimento della spiaggia consistente nella posa di tubi in tessuto, nella fattispecie nylon, del diametro di due metri e di lunghezza variabile che, riempiti ed anche ricoperti di sabbia, vengano posti dietro la battigia impedendo che l’arenile venga trascinato via dalle ondate di risacca ….’.

Della attuale problematica e della necessità di una sua risoluzione, è stato formalmente interessato l’Assessorato competente della R.A.S.”;

* il Comune di Cagliari – Servizio Igiene del Suolo ha comunicato (nota prot. n. 96725 del 30 marzo 2021) ha comunicato “quanto segue:

 in data 18.03.2021 gli agenti della Sezione Vigilanza Igiene del Suolo della Polizia Locale della Amministrazione scrivente effettuavano apposito sopralluogo presso lo Stabilimento il Lido per la verifica di quanto lamentato.

 nel corso della verifica veniva riscontrata l’effettiva presenza dei sacchi segnalati contenenti sabbia, alcuni dei quali in cattivo stato manutentivo.

 nel corso dell’ispezione, inoltre, gli agenti intervenuti sul posto prendevano contatto con l’amministratore dello Stabilimento Il Lido s.r.l., il quale esibiva autorizzazione, da parte della Regione Sardegna – Direzione generale enti locali e finanze, di prelievo e insacchettamento della sabbia risalente al 1995.

 con nota prot. n. 88336 del 23/03/2021 sulla scorta di quanto sopra, l’ufficio scrivente richiedeva, agli uffici regionali sopra richiamati e agli altri organi competenti, l’adozione sollecita di ogni determinazione, rivolta anche ad impartire al concessionario ogni indicazione utile ad eseguire interventi di ripristino, finalizzate in via d’urgenza a prevenire l’aggravarsi della situazione”.

Le notizie più recenti raccontano di una prossima conferenza di servizi per delineare le modalità della bonifica ambientale della spiaggia.

Tuttavia, è opportuno sottolineare che il Gruppo d’Intervento Giuridico non ha mai promesso alcun aiuto ad alcun intervento fai-da-te di rimozione dei sacchi che tuttora scandalosamente appestano la spiaggia, anzi ha fatto presente che l’operazione di rimozione necessita di procedure, analisi della sabbia contenuta, cautele nello smaltimento del nylon che devono avere il coordinamento delle amministrazioni pubbliche competenti.  Oltre alla semplice impossibilità di realizzare alcuna operazione volontaristica di pulizia vista la presenza delle normative di contrasto alla pandemia di Covid-19 e il collocamento della Sardegna in “zona rossa”.

I sacchi, oggi in palese stato di degrado, sono rifiuti e come tali vanno trattati, in ragione della loro composizione.

L’entusiasmo e la buona volontà possono condurre anche a risultati opposti a quelli desiderati.

Auspichiamo il rapido svolgimento delle operazioni di bonifica e ripristino ambientale, in caso diverso effettueremo i necessari ulteriori passi in sede legale perchè il ripristino ambientale di una spiaggia fin troppo martoriata dalla cattiva gestione sia finalmente compiuto.

Gruppo d’Intervento Giuridico odv

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martedì 27 aprile 2021

Babaco, la startup della frutta e verdura "brutta ma buona" sta raccogliendo 2 milioni e punta a espandersi anche all'estero - Raffaele Ricciardi

 

Prendete una carota un po' storta, un peperone ammaccato, una mela troppo piccola e con 'difetti di buccia'. Tutti prodotti buoni, sia chiaro: qualcuno è anche un presidio Slow-Food, a garanzia della sua qualità. "Peccato che per motivi estetici rischino di essere sprecati: si calcola che ogni giorno sia questo il destino del 14% dei prodotti ortofrutticoli". Da questo dato, Francesco Giberti, classe 1987, è partito con Luca Masseretti per lanciare, in piena pandemia, Babaco Market. E ora, dopo il rodaggio dei primi mesi e la successiva affermazione su Milano e dintorni, mette nel mirino lo sviluppo in altri capoluoghi e - perché no? - guarda all'estero. Forte di un giro di finanziamenti fino a 2 milioni che sta finendo di raccogliere, con il supporto - tra gli altri - di un lanciatore seriale di startup.

La giovane società, nata nel maggio scorso, recupera questa frutta e verdura "brutta ma buona", la confeziona in box da 6 o 10 chili l'una (senza plastica e con il QR code, da scansionare con lo smartphone, per sapere la storia di ogni pezzo contenuto) e la consegna settimanalmente a casa degli utenti abbonati. Questi, dunque, non sanno cosa ci sarà di volta in volta nella scatola, ma hanno la certezza di avere prodotti di qualità con un occhio all'ambiente: nel 2020, Babaco dichiara di avere "salvato" 40 tonnellate di ortaggi e frutti, cui si sommano altre 70 tonnellate di quest'anno.

Considerando che la box più piccola costa 19 euro, ne viene un prezzo medio di poco più di 3 euro al chilo. A ben vedere, nonostante sia cibo che rischiava di esser sprecato, non si può dire che sia più conveniente (per gli utenti) di un banco frutta e verdura della grande distribuzione. "Non vogliamo approfittare di un problema del produttore, ma riconoscergli un prezzo etico - chiarisce Giberti - D'altra parte, per la carota storta ha messo lo stesso impegno di quella dritta. Inoltre, considerando la qualità dei prodotti, se ci confrontiamo con un livello più 'alto' d'offerta il prezzo è competitivo". Oggi i produttori nella rete di Babaco, sparsi in tutta Italia, sono una novantina. Inizialmente hanno 'aiutato' la startup a partire, dandole credito nonostante gli ordini iniziali fossero piccoli. Ma visto il successo, ora sono ben contenti di avere trovato un canale di vendita dalle prospettive interessanti.

Babaco ha messo il suo magazzino vicino all'Ortomercato, comodo per ricevere le consegne dagli agricoltori, preparare le box e ridistribuirle. La logistica è affidata all'esterno: "Su Milano, già oltre la metà delle consegne avviene con bici cargo o messi elettrici, nell'hinterland è ancora impossibile. Certo non usiamo i rider sfruttati", dice Giberti. Gli affari sono cresciuti in poco tempo, cavalcando senz'altro il trend pandemico della spesa a domicilio che ha fatto la fortuna di altre realtà, quali Cortilia: Babaco è arrivata a 4 mila consegne al mese per 1.700 utenti abbonati (in alcuni casi, optano per l'invio bi-settimanale). Nel team ci sono 13 persone a tempo pieno, alcune delle quali reclutate dall'altra realtà dedicata alla lotta allo spreco, questa volta nei supermercati, lanciata da Giberti: Myfoody.

Oltre al capoluogo, Babaco serve l'hinterland di Nordest, arrivando fino a Monza e Brianza, e si prepara a coprire la cinta che si spinge a Varese. Ma i piani d'espansione sono ben più ambiziosi. Babaco è stata premiata nel progetto "StartupPerMilano" della Digital Week, con altre due giovani società: ArtUpp che si occupa di arte diffusa e tecnologica in città; e Phononic Vibes che lavora sui pannelli per la riduzione del rumore. L'iniziativa è stata promossa da B Heroes, l'ecosistema di supporto alle startup lanciato da Fabio Cannavale (imprenditore seriale che ha nel carnet, per dire, Lastminute.com e la stessa Cortilia, ora nell'orbita del patron di Diesel, Renzo Rosso), con la Presidenza del Consiglio Comunale di Milano ed Endeavor Italia.

Proprio B Holding, il braccio d'investimento di Cannavale, ha deciso di scommettere 100 mila euro suBabaco, nell'ambito di un finanziamento di 1,5-2 milioni di euro in equity da investitori privati e business angels, che Giberti sta chiudendo in queste settimane. "Nella call abbiamo analizzato oltre 50 idee, a dimostrazione che in città ci sono progetti di giovani che meritano attenzione e hanno bisogno di supporto", racconta Cannavale. "Abbiamo deciso di investire su Babaco perché pensiamo abbia le migliori possibilità d'impatto e di scalabilità del modello". In effetti, con i fondi che sta raccogliendo Giberti ha già in agenda l'apertura a Torino, Bologna, Bergamo e Brescia, ma pensa anche all'estero.

Quanto alla possibilità che l'innovazione in chiave sostenibile giochi un ruolo importante nella ripartenza di Milano, che è già per distacco la capitale delle startup italiane, Cannavale dice: "Ci credo molto. A Milano c'è storicamente una borghesia imprenditoriale attenta ai temi sociali. E l'accoglienza che i milanesi hanno dato ai servizi della mobilità in sharing, solo per citare un caso, dicono quanto ci sia fame di questo genere di proposta. Anche a costo di spendere qualcosa in più: non è su questo che risparmia la maggioranza delle famiglie".

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lunedì 26 aprile 2021

A quando un nuovo patto tra scienza e società? - Elena Camino

 

Piuttosto che affermare a gran voce di conseguire la verità, peraltro difficilmente conseguibile, la pratica scientifica dovrebbe ammettere incertezza e ignoranza, esercitare un giudizio etico e una riflessione epistemica, e assicurare per quanto è possibile che siano i bisogni della società a guidare i progressi delle scienze, anziché la scienza a presumere di saper condurre la società.

(Jasanoff, 2009)

 

In questo articolo presento una specie di ‘studio di caso’: si tratta di una sequenza di decisioni via via modificate nel processo di individuazione – da parte dell’Unione Europea – di criteri di ‘sostenibilità’ per assegnare finanziamenti utili alla decarbonizzazione dell’economia. Le riflessioni che emergono da questa singola storia possono essere applicate a molte situazioni che si stanno verificando con crescente frequenza a livello nazionale e sovranazionale, e che riguardano in generale le crisi sanitarie, economiche, ambientali in cui siamo ormai da tempo coinvolti.

Fin dagli anni ’80 due studiosi, J.Ravetz e S.Funtowicz, avevano scritto che “non è più possibile per l’élite al potere servirsi degli esperti per convincere il pubblico che le loro politiche sono vantaggiose, corrette, inevitabili e sicure”. Negli anni successivi essi proposero una nuova concettualizzazione della scienza, da utilizzare in situazioni in cui i fatti sono incerti, la posta in gioco elevata, i valori in conflitto e le decisioni urgenti. La chiamarono Scienza Post Normale (Post Normal Science – PNS), sottolineando che questa modalità di indagine non è libera da valori né eticamente neutrale. La riflessione sulla natura e sulle proprietà di questo modo di investigare le relazioni tra le azioni umane e gli ecosistemi si è sviluppata negli ultimi decenni dando luogo a una vasta letteratura. Anni fa ne avevamo parlato anche nelle pagine del CSSR.  

Un anno fa, il 2 aprile 2020, un breve articolo firmato da un team internazionale aveva richiamato l’attenzione dei lettori con questo titolo: “Pandemie post-normali. Perché CoViD-19 richiede un nuovo approccio alla scienza”.  Come per la pandemia, per molte altre situazioni complesse e controverse in cui siamo ormai coinvolti, l’approccio della scienza post-normale potrebbe risultare prezioso. A differenza della scienza disciplinare, specialistica e necessariamente riduzionista, la scienza post-normale richiede la partecipazione di tutti gli ‘stakeholders’, cioè di tutti coloro che sono coinvolti nel problema di cui si cercano soluzioni: occorre il contributo di tante prospettive diverse (studiosi di diverse discipline), e di una varietà di interessi e visioni (categorie sociali,  comunità, associazioni, singoli cittadini), per affrontarlo in modo democratico.

Leggendo lo ‘studio di caso’che vi propongo qui di seguito risulta evidenteche il vecchio schema della scienza che ‘dice la verità al potere’ non funziona più: dal confronto tra esperti di diversa preparazione, e spesso di diversa ideologia, si arriva spesso a una situazione di paralisi che il più delle volte si risolve con la ‘vittoria’ di chi ha più potere politico, più denaro, più controllo dei media… e spesso più capacità di corruzione.

Il caso studio. Come finanziare la transizione ecologica del settore energetico?

Ben prima che il COVID-19 facesse irruzione nelle nostre vite, in Europa era iniziato un acceso e articolato dibattito volto a stabilire alcune regole comuni da condividere per orientare i flussi finanziari verso una decarbonizzazione dell’economia. Già a maggio 2018 la Commissione Europea aveva sottolineato che la transizione energetica non poteva essere realizzata solo con fondi pubblici: occorreva coinvolgere le imprese private, selezionandone le proposte più ‘sostenibili’. Il 28 marzo 2019 il Parlamento Europeo approvò con voto una proposta di classificazione delle attività sostenibili, che escludeva l’energia da gas fossile e quella prodotta da impianti nucleari, allo scopo di ri-orientare gli investimenti da queste tecnologie, considerate inquinanti, verso tecnologie ‘pulite’.   

Ma i sostenitori dei combustibili fossili e del nucleare non si diedero per vinti, e a più riprese reinserirono nuove proposte per far accogliere l’industria basata su queste fonti tra le opzioni ‘verdi’ da finanziare. 

La tassonomia UE

La classificazione delle attività economiche in grado di favorire la transizione ecologica ha preso il nome di ‘tassonomia UE’. Il 9 marzo 2020 è stato pubblicato il report finale che individua le attività economiche sostenibili, redatto dopo oltre un anno di lavoro dal Technical Expert Group on Sustainable Finance (TEG), un gruppo di esperti – 35 membri e oltre 100 consulenti – incaricati dalla Commissione Europea di fornire le loro raccomandazioni sulle nuove normative per una finanza sostenibile.

Il loro compito era di individuare le attività economiche in grado di contribuire a raggiungere l’obiettivo emissioni zero entro il 2050 e i relativi criteri di selezione. Questo “vocabolario” della sostenibilità ambientale doveva essere un riferimento per molti soggetti: per il mondo della finanza responsabile, al fine di indicare quanto sostenibile fosse effettivamente un investimento; per i governi, per stabilire gli incentivi ad aziende green; per le aziende, cui si richiedeva  l’impegno a dichiarare il proprio impatto sull’ambiente.

Il 18 giugno 2020 la Commissione Europea ha approvato il Regolamento sulla tassonomia, e a dicembre 2020 – a integrazione di questo Regolamento – è stata pubblicata  sul sito della Commissione europea una bozza di ‘Atti delegati’, redatta da una piattaforma di esperti creata a settembre dalla Commissione europea, che contiene i criteri tecnici per attribuire il bollino di attività sostenibile

La consultazione sulle bozze degli Atti delegati si è conclusa il 18 dicembre 2020. La Commissione europea ha dichiarato che avrebbe valutato entro il 31 dicembre i feedback ricevuti, prima di finalizzare l’adozione degli atti delegati. La bozza dovrebbe poi essere soggetta all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio dei ministri che rappresentano i 27 Stati membri dell’UE e – una volta adottata, si applicherà dal 1 ° gennaio 2022.

All’assalto della tassonomia verde

Prima il gas fossile….

Il 22 marzo 2021 il sito francese Contexte rende pubblica una bozza di documento inviato dalla Commissione Europea ai 27 Paesi della UE, in cui propone importanti modifiche nei criteri di accesso alla tassonomia dello sviluppo sostenibile, in particolare nel settore energetico. La nuova proposta elaborata dalla Commissione prevede che il gas fossile possa entrare nella tassonomia come investimento verde, se la nuova centrale a gas rispetta una serie di condizioni. Secondo questa proposta, un’attività è sostenibile se fornisce un contributo sostanzialeallamitigazione del cambiamento climatico oppure all’adattamento al cambiamento climatico, e se non danneggia in modo rilevante gli altri obiettivi ambientali della tassonomia, come la tutela della biodiversità e la riduzione dell’inquinamento.

Il 25 marzo il WWF, insieme a scienziati, istituzioni finanziarie e ONG, lancia l’allarme su questa proposta, che permetterebbe ai combustibili fossili di entrare nella Tassonomia UE sugli Investimenti Sostenibili.  Greenpeace denuncia che «Dopo mesi di intense pressioni a Bruxelles, una serie di industrie – dal gas alla bioenergia, all’aviazione e al nucleare – sono pronte a incassare grazie alla nuova bozza della cosiddetta tassonomia della Commissione europea».uestas

Il 29 Marzo 2021, in una lettera aperta indirizzata alla Commissione europea, questi  scienziati, esperti e ONG ambientaliste hanno messo nero su bianco i loro timori di fronte alla proposta di includere fra le attività di transizione ammesse dalla Tassonomia Ue anche quelle relative allo sfruttamento del gas di origine fossile, e hanno chiesto ai massimi vertici dell’esecutivo di Bruxelles di non dare seguito a una simile ipotesi. I firmatari della lettera ricordano come l’inclusione di impianti a gas fossile vada apertamente contro le raccomandazioni, basate su studi e analisi scientifiche, del Technical Expert Group (il TEG).

… poi il nucleare!

Si pensava che l’opzione dell’energia nucleare, soprattutto a causa degli enormi investimenti richiesti, ai molti anni necessari per la realizzazione, e a causa dei problemi irrisolti sullo smaltimento delle scorie radioattive, sarebbe rimasta definitivamente fuori dalla lista delle iniziative sostenibili. Invece, dopo pressioni politiche molto forti e azioni concordate delle lobbies nucleari, ecco spuntare un’ulteriore proposta di modifica della tassonomia UE:  il 29 marzo l’industria nucleare ha chiesto alla Commissione Europea di accelerare la pratica di inclusione dell’energia nucleare nella Tassonomia UE sulla finanza sostenibile, accompagnando la richiesta con un documento nel quale si legge:

Le analisi non hanno messo in luce alcuna evidenza scientifica che l’energia nucleare arrechi più danni alla salute umana o all’ambiente rispetto ad altre tecnologie di produzione di elettricità già incluse nella tassonomia come attività a sostegno della mitigazione del cambiamento climatico.

Questa è infatti la conclusione di un Report redatto dal Joint Research Centre (JRC), la cui missione ufficiale è quella di sostenere le linee di condotta dell’UE con prove indipendenti durante l’intero processo decisionale.  

Le reazioni sono immediate: a esprimersi sono sia le organizzazioni pro-nucleari (Quarante-six organisations pronucléaires demandent à la Commission d’intégrer l’atome dans la taxonomie verte sia quelle che chiedono conferma dell’esclusione (Une large coalition demande l’exclusion des énergies nucléaires et fossiles de la directive ENR).  Purtroppo gli articoli di cui ho riportato i titoli non sono accessibili al pubblico, e non ho potuto ‘comparare’ il peso (scientifico? politico?) dei due schieramenti contrapposti.  Come finirà? Per il 29 aprile è in programma un evento pubblico organizzato dalle Authority di vigilanza europee

Per saperne di più… su scienza, politica, potere

Nelle grandi questioni in cui si dibatte la società mondiale, la politica continua a rivolgersi alla ‘scienza’ e agli ‘esperti’ per giustificare le proprie scelte di fronte al pubblico. Ma le modalità, gli strumenti, e persino i fini per indagare la realtà sono profondamente mutati, nell’ultimo secolo. Persiste ancora, nell’immaginario collettivo e – purtroppo – nel nostro sistema educativo, l’idea che la scienza sia una grandiosa impresa sociale che descrive e spiega il mondo oggettivo dei fatti, (ben separato dal mondo soggettivo degli affari umani e dei valori), liberandoci dalla visione primitiva e carica di superstizioni dei nostri antenati.

In un articolo pubblicato pochi anni fa – Science on the verge [1] – alcun* studios* hanno provato a richiamare l’attenzione sull’esistenza di alcuni aspetti preoccupanti nell’attuale uso della scienza per la ‘governance’, cioè per l’esercizio delle scelte politiche da parte delle istituzioni pubbliche. Il libro esplora le dimensioni etiche, epistemologiche, metodologiche e persino metafisiche della crisi in cui si trova la scienza, che ha perso il carattere di comunità autonoma di pari, auto-governata e disinteressata, in grado di ‘dire la verità al potere’.  Nella progressiva ‘ibridizzazione’ della scienza con la tecnologia, e nello sviluppo della ‘big science’, sempre più si incontrano problemi che emergono dall’applicazione stessa della tecnoscienza, e che non possono più trovare risposte nella scienza intesa in senso tradizionale.

Nella pratica della scienza non possono più essere ignorati né il mondo soggettivo di emozioni e passioni né il mondo esterno dei valori sociali, politici ed economici.  Nell’interazione della tecnoscienza con il mondo reale dei sistemi sociali ed ecologici emergono rischi, incertezze e complessità che non possono più essere esternalizzate, e rendono impossibile separare fatti e valori.

Due sono le soluzioni che vengono proposte per gestire questo nuovo scenario, che in qualche misura sono antagoniste tra loro: c’è chi ritiene ancora (grazie alla scienza) di poter controllare e misurare le situazioni di incertezza riducendole a ‘rischi’ statisticamente quantificabili; chi invece sente l’esigenza di discutere apertamente i problemi accettando la prospettiva che non esista UNA soluzione, e attivando quindi processi democratici per arrivare a decisioni condivise.

Daniel Sarewitz, co-direttore del Consorzio for Science, Policy & Outcomes, nell’introduzione al libro[2] da cui è tratto l’articolo sopra citato, scrive:

“La comunità scientifica continua a concepirsi come un’impresa auto-correttiva e autonoma, ma la conoscenza che crea non è più contenibile all’interno di laboratori, pubblicazioni tecniche e brevetti. […]

Molte istituzioni e pratiche moderne sono state progettate nell’aspettativa che la scienza fosse una sorta di ‘macchina della verità’ che potesse aiutare a superare le condizioni fondamentali di incertezza e disaccordo. La dolorosa lezione degli ultimi decenni, tuttavia, è che la vera scienza non costruirà mai un’immagine unica, coerente e condivisa delle complesse sfide del nostro mondo e che la ricerca in tal senso promuove invece la corruzione dell’impresa scientifica, e l’incertezza e il sospetto tra i decisori e i cittadini impegnati (esemplificati nei dibattiti sugli OGM o sull’energia nucleare). Nella migliore delle ipotesi, tuttavia, la scienza può fornire una molteplicità di intuizioni che possono aiutare le società democratiche a esplorare le opzioni per affrontare le sfide che devono affrontare”.

La battaglia che da decenni il Movimento NOTAV sostiene contro la linea ad Alta velocità Torino Lione, e la costruzione dal basso di un progetto  di ‘società della cura’ sono due esempi di fruttuosa applicazione di un approccio post-normale alla scienza: gli esperti sono coinvolti in riflessioni e dibattiti ai quali partecipano – con uguale diritto di parola e di ascolto – cittadini e cittadine di competenze, situazioni economiche, esperienze e visioni molto diverse.    

La natura dei problemi richiede un cambiamento dei criteri di qualità e di verità della scienza tradizionale, e il riconoscimento di una molteplicità di interpretazioni tutte ugualmente rispettabili.


Note

[1] Benessia, A., Funtowicz, S., Giampietro, M., Guimarães Perei-ra, Â., Ravetz, J., Saltelli, A., Strand, R., and van der Sluijs, J. P. 2016. The Rightful Place of Science: Science on the Verge. Tempe, AZ: Consortium for Science, Policy & Outcomes.

[2] Benessia, A., Funtowicz, S., Giampietro, M., Guimarães Perei-ra, Â., Ravetz, J., Saltelli, A., Strand, R., and van der Sluijs, J. P. 2016. The Rightful Place of Science: Science on the Verge. Tempe, AZ: Consortium for Science, Policy & Outcomes.

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sabato 24 aprile 2021

Liberateli dalle catene del debito - Francesco Gesualdi

 

Fra le decisioni assunte dall’ultimo vertice del G20 c’è anche quella di estendere fino al dicembre 2021 la sospensione dei pagamenti sul debito che i Paesi più poveri hanno nei confronti dei governi dei Paesi più ricchi.

Prolungamento di una pratica già deliberata nell’aprile del 2020 per permettere anche alle nazioni maggiormente in affanno di poter disporre di qualche soldo in più per affrontare le spese eccezionali imposte dall’emergenza Covid.

Una situazione che anche i “ricchi” conoscono molto bene, considerato che complessivamente nel 2020 i 36 Paesi dell’Ocse hanno sostenuto una spesa supplementare di quasi 9mila miliardi di dollari per arginare le emergenze sanitarie e sociali dovute alla pandemia.

L’iniziativa assunta dal G20 è offerta solo ai Paesi più poveri, quelli con reddito pro capite inferiore a 1.185 dollari all’anno.

Tali Paesi sono anche detti “Ida” in ragione del fatto che sono ammessi a godere dei prestiti agevolati elargiti dall’agenzia della Banca Mondiale denominata International Development Assistance (Ida, appunto).

In tutto si tratta di 73 nazioni, per oltre la metà localizzate in Africa, che ospitano 1,7 miliardi di persone corrispondenti al 22% della popolazione mondiale.

Secondo gli ultimi dati disponibili riferiti al 2019, complessivamente i governi dei Paesi Ida detengono un debito di 523 miliardi di dollari, ma solo il 34% è bilaterale, ossia è nei confronti di altri governi. Il resto è verso organismi multilaterali come Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale (46%) o verso banche commerciali e altri soggetti privati (20%).

Pertanto la sospensione si applica solo a un terzo degli importi, quelli riferibili al debito bilaterale che è l’unica parte su cui i governi del G20 hanno potere decisionale.

Quanto al resto, il G20 ha invitato gli altri creditori a fare altrettanto, ma sinora la risposta è stata deludente. Nessun soggetto privato ha risposto positivamente all’appello, mentre gli organismi multilaterali si sono limitati a offrire il proprio supporto tecnico affinché i governi possano perseguire i propri propositi.

Dai conti elaborati da Eurodad, organizzazione europea che si occupa del debito del Sud del mondo, risulta che nel biennio 2020-21 i 73 Paesi più poveri devono versare ai creditori 71 miliardi di dollari come pagamento del servizio del debito, ossia degli interessi e delle rate in scadenza.

Ma solo 27,4 miliardi di dollari fanno parte del perimetro della sospensione: in termini di ripartizione pro capite sugli abitanti dei Paesi Ida, si tratta di un beneficio di 16 dollari a cittadino.

A titolo di confronto, nel solo 2020 i Paesi Ocse hanno arginato la pandemia con un surplus di spesa corrispondente a 7.000 dollari per cittadino.

Il risultato, però, è ancora più scarno considerato che su 73 Paesi che possono aderire all’offerta, solo 43 ne hanno fatto richiesta.

 

Tant’è che fino ad oggi è stata attuata una sospensione complessiva di appena 5,7 miliardi di dollari. Fra i motivi avanzati dagli esperti per spiegare una risposta così poca entusiastica, c’è che le cifre sospese dovranno essere rimborsate fra il 2022 e il 2024. Un periodo molto breve che rischia di creare un sovraccarico di esborsi che a molti fa paura.

Secondo i calcoli di Eurodad, solo per il normale servizio del debito, i 73 Paesi più poveri devono essere pronti a sborsare 115 miliardi di dollari nel biennio 2022-24. Cifra che si appesantirebbe di un ulteriore 23% qualora dovesse essere sovraccaricata di tutta la sospensione che in linea teorica può essere attuata nel biennio 2020-21.

Considerato che una buona metà dei Paesi più poveri è già in stato di insolvenza o è vicina a diventarlo, è abbastanza comprensibile che molti non sottoscrivano patti che saprebbero di non poter onorare.

Del resto mancano informazioni sulle contropartite che i governi debitori dovrebbero dare in cambio delle sospensioni, né si sa quali misure scatterebbero in caso di inadempienze.

Considerato che la consulenza è del Fmi, non ci sarebbe da sorprendersi se l’offerta fosse condizionata al rispetto di regole che in passato si sono rivelate altamente destabilizzanti sul piano sociale e politico.

Da tempo la parte più avanzata della società globale sostiene che l’unica strada da perseguire per liberare i Paesi più poveri dalle catene del bisogno è l’annullamento del loro debito ed è di grande significato che papa Francesco abbia inserito questa indicazione nella lettera inviata l’8 aprile scorso alla Banca Mondiale:

«Lo spirito di solidarietà globale impone di ridurre in maniera significativa il debito delle nazioni più povere, un peso che la pandemia ha ulteriormente esacerbato. Scegliendo di alleggerire il loro debito compiremmo un gesto di grande umanità perché permetteremmo a quelle popolazioni di accedere ai vaccini, alla sanità e all’istruzione».

Per quanto riguarda la parte di debito dovuta ai governi, buona parte dell’annullamento dipende dalla Cina, considerato che detiene il 60% di tutto il debito bilaterale dei 73 Paesi più poveri. Segue il Giappone col 15% mentre Germania e Francia che si collocano attorno al 5%.

Generalmente si invoca il senso di generosità per indurre a comportamenti di rinuncia, ma in questo caso basterebbe appellarsi alla lungimiranza perché l’avarizia non conviene a nessuno in un momento in cui basta un focolaio di non vaccinati per fare divampare di nuovo la pandemia a livello globale

 

Articolo pubblicato sull’Avvenire

 

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venerdì 23 aprile 2021

Giornata mondiale della Terra: la bellissima lettera del Dalai Lama


In occasione della Giornata della Terra non mancano certo i messaggi di leader da tutto il mondo che auspicano, pontificano, promettono. Tra questi una lettura la merita senza dubbio quella del Dalai Lama, Tenzin Gyatso, un leader religioso con la capacità di parlare a tutti. Ne riportiamo un ampio stralcio.

“Nella Giornata della Terra del 2021, mi rivolgo ai miei fratelli e sorelle di tutto il mondo per guardare sia le sfide che le opportunità che abbiamo davanti a noi su questo unico pianeta blu che condividiamo.

Spesso scherzo sul fatto che la luna e le stelle sono bellissime, ma se qualcuno di noi provasse a vivere su di esse, sarebbe infelice. Questo nostro pianeta è un habitat delizioso. La sua vita è la nostra vita, il suo futuro il nostro futuro. In effetti, la terra agisce come una madre per tutti noi. Come bambini, dipendiamo da lei. Di fronte a problemi globali come l’effetto del riscaldamento globale e l’impoverimento dello strato di ozono, le singole organizzazioni e le singole nazioni sono impotenti. Se non lavoriamo tutti insieme, non si può trovare una soluzione. La nostra madre terra ci sta dando una lezione di responsabilità universale.

Prendiamo come esempio la questione dell’acqua. Oggi, più che mai, il benessere dei cittadini in molte parti del mondo, specialmente delle madri e dei bambini, è a rischio estremo a causa della mancanza critica di acqua adeguata, servizi e condizioni igieniche. È preoccupante che l’assenza di questi servizi sanitari essenziali in tutto il mondo abbia un impatto su quasi due miliardi di persone. Eppure una soluzione è possibile. 

L’interdipendenza è una legge fondamentale della natura. L’ignoranza dell’interdipendenza ha ferito non solo il nostro ambiente naturale, ma anche la nostra società umana. Pertanto, noi esseri umani dobbiamo sviluppare un maggior senso dell’unità di tutta l’umanità. Ognuno di noi deve imparare a lavorare non solo per se stesso, la sua famiglia o la sua nazione, ma per il beneficio di tutta l’umanità. 

Se il nostro pianeta deve essere sostenuto, l’educazione ambientale e la responsabilità personale devono crescere e continuare a crescere. Prendersi cura dell’ambiente dovrebbe essere una parte essenziale della nostra vita quotidiana. Nel mio caso, il mio risveglio ambientale è avvenuto solo dopo essere arrivato in esilio e aver incontrato un mondo molto diverso da quello che avevo conosciuto in Tibet. Solo allora ho capito quanto puro fosse l’ambiente tibetano e come il moderno sviluppo materiale abbia contribuito al degrado della vita in tutto il pianeta.

In questa Giornata della Terra impegniamoci tutti a fare la nostra parte per contribuire a fare una differenza positiva per l’ambiente della nostra unica casa comune, questa bellissima terra.”

[Dalai Lama]

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