martedì 30 novembre 2021

La decrescita è possibile e necessaria - Maurizio Pallante

  

1.

La gravità raggiunta dalla crisi ecologica dipende dal fatto che la produzione e il consumo di merci hanno superato le capacità della biosfera di rigenerare annualmente con la fotosintesi clorofilliana le quantità crescenti di risorse rinnovabili necessarie a sostenerla (overshoot day il 29 luglio); emettono quantità crescenti di scarti biodegradabili che superano la capacità della fotosintesi clorofilliana di metabolizzarli (le concentrazioni di anidride carbonica in atmosfera, che per 8.000 secoli fino alla seconda metà del Settecento non hanno superato le 270 parti per milione (ppm), in meno di tre secoli sono arrivate alle attuali 419 ppm, facendo aumentare la temperatura terrestre di 1,1°C rispetto all’era pre-industriale); hanno consumato quantità crescenti di risorse non rinnovabili, riducendone gli stock e rendendone l’estrazione sempre più costosa e dannosa per gli ecosistemi (aumento delle tensioni internazionali e delle guerre per controllare i giacimenti); producono quantità crescenti di sostanze di scarto di sintesi chimica liquide, solide e gassose non metabolizzabili dai cicli biochimici, che si accumulano nell’atmosfera, nel ciclo dell’acqua (tra cui le masse di poltiglie di plastica grandi come gli Stati Uniti che galleggiano negli oceani) e sui suoli (le discariche di rifiuti, tra cui quelli tossici), provocando forme di inquinamento sempre più gravi, accrescendo la mortalità e riducendo la biodiversità; hanno dimezzato il patrimonio forestale (secondo i dati forniti da Stefano Mancuso, 3.000 miliardi di alberi su 6.000 miliardi) e le popolazioni ittiche; hanno ridotto la fertilità dei suoli; hanno ricoperto di materiali inorganici superfici sempre più vaste del pianeta.

La crescita della produzione e del consumo di merci ha superato la sostenibilità ambientale. Se si continuerà a finalizzare l’economia alla crescita, tutti i fattori della crisi ecologica si aggraveranno, fino a raggiungere il punto di non ritorno e rendere il pianeta inabitabile per la specie umana. Per attenuare queste dinamiche devastanti, che non si possono più negare, sono state formulate alcune proposte che possono essere sostanzialmente riunite in tre gruppi: 1) la proposta che riceve i maggiori sostegni politici e mediatici si basa su un imbroglio concettuale: l’identificazione del concetto di sostenibilità ambientale col concetto sviluppo sostenibile; 2) negli ultimi tempi si è fatta strada una proposta sintetizzata dall’affermazione che «in un mondo finito una crescita infinita è impossibile»;

3) la proposta della decrescita.

Il concetto di sostenibilità ambientale si riferisce al rapporto della specie umana con la biosfera. Questo rapporto è sostenibile se la specie umana non consuma annualmente una quantità di risorse rinnovabili superiore a quelle che la biosfera è in grado di rigenerare con la fotosintesi clorofilliana; se le sostanze di scarto biodegradabili prodotte dai processi di trasformazione delle risorse in beni e dai consumi non superano la sua capacità di riutilizzarli per generare nuove risorse; se si smette di produrre sostanze di sintesi chimica non biodegradabili. Ma nella definizione di sviluppo sostenibile l’obbiettivo non è rendere sostenibile il rapporto tra la specie umana e la biosfera, ma di rendere sostenibile lo sviluppo, che è la definizione edulcorata della crescita. La sostenibilità ambientale non è più l’obbiettivo da perseguire, ma viene declassata alla connotazione che si vorrebbe dare allo sviluppo. Così mentre in buona fede la maggior parte delle persone ha finito per considerare sinonimi le due definizioni, i sostenitori consapevoli di questo spostamento di significato lo hanno utilizzato per promuovere l’adozione di tecnologie che accrescono l’efficienza nell’uso delle risorse e riducono l’impatto ambientale dei processi produttivi con l’obbiettivo di continuare a produrre sempre di più inquinando di meno. Di disaccoppiare, come dicono coloro che hanno studiato, la crescita della produzione di merci dall’aggravamento della crisi ecologica. L’inconsistenza di questa teoria è stata confermata dai fatti, come era facilmente intuibile: si veda per esempio il bilancio fallimentare degli obbiettivi di riduzione della crescita delle emissioni di gas climalteranti (non della riduzione delle emissioni, come si è voluto far credere) concordata alla COP 21 di Parigi nel 2015. Il fatto è che suoi sostenitori non prendono nemmeno in considerazione la possibilità di usare le tecnologie più sostenibili per ridurre la domanda riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse in beni, allungando la vita dei prodotti e riutilizzando i materiali contenuti negli oggetti dismessi, ma si propongono di ridurre l’impatto ambientale dell’offerta per poter continuare ad accrescerla. Di conseguenza la riduzione dell’impatto ambientale per unità di prodotto viene sistematicamente vanificata dall’aumento della quantità dei prodotti.

Una risposta alternativa che si sta facendo strada nell’opinione pubblica, ma non incide ancora a livello politico, è sintetizzata da una frase ripetuta come un mantra: «in un mondo finito una crescita infinita è impossibile». Questa affermazione, pur indicando nel meccanismo della crescita economica la causa della crisi ecologica, in realtà non definisce una prospettiva efficace per superarla perché la produzione e il consumo di merci hanno già superato abbondantemente la sostenibilità ambientale, per cui, se si bloccasse la crescita economica al livello attuale, la crisi ecologica continuerebbe ad aggravarsi.

Per attenuarla progressivamente ed evitare che raggiunga il punto di non ritorno occorre ridurre il consumo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, i consumi energetici, la produzione di sostanze di scarto biodegradabili e non biodegradabili, il consumo di carne nell’alimentazione, il consumo di suolo, la chimica nell’agricoltura, la circolazione automobilistica e i viaggi aerei, i tassi di natalità e l’urbanizzazione. TINA: there is no alternativePer rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale occorre decrescere. La decrescita non è un’opzione politica da demonizzare, ma una semplice deduzione matematica che non richiede nemmeno la conoscenza delle quattro operazioni. Bastano l’addizione e la sottrazione.

2.

Fatta questa premessa, occorre fare una precisazione e porsi alcune domande.

La precisazione: la decrescita non può essere la connotazione di un sistema economico e produttivo alternativo a quello attuale. La società della decrescita, di cui alcuni parlano, è un non-senso. La decrescita non è la meta da raggiungere, ma la strada obbligata da percorrere in questa fase storica per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale. La meta da raggiungere percorrendo questa strada è una società sostenibile, equa e solidale.

Le domande: è possibile perseguire una decrescita che non distrugga l’economia e l’occupazione, che non generi sofferenza soprattutto tra i popoli poveri e le classi sociali povere dei popoli ricchi, che non esasperi le diseguaglianze sociali e la conflittualità tra i popoli? Che consenta di attenuare la crisi ecologica, di rimettere in moto al contempo l’economia e di creare occupazione? Per rispondere a queste domande occorre precisare innanzitutto che la decrescita non è la recessione. La recessione è la diminuzione generalizzata e incontrollata della produzione di tutte le merci. È il segno meno davanti al PIL in un sistema economico e produttivo che ha fatto della crescita del PIL il fine delle attività produttive e la misura del benessere. La conseguenza sociale più grave della recessione è l’aumento della disoccupazione. La decrescita è la riduzione selettiva e governata della produzione di merci inutili e dannose, degli sprechi e delle inefficienze nei processi di trasformazione delle risorse in merci. Richiede pertanto il ripristino della differenza tra il concetto di beni (oggetti e servizi che rispondono a un bisogno o soddisfano un desiderio) e il concetto di merci (oggetti e servizi scambiati con denaro). Questa distinzione consente di capire che non tutte le merci sono beni e non tutti i beni si possono avere soltanto comprandoli. La decrescita è la riduzione della produzione di merci che non sono beni, che non hanno oggettivamente alcuna utilità e creano danni: l’energia che si spreca negli edifici mal costruiti (fino al 70%), il cibo che si butta (in Italia 65 kg pro capite all’anno, 7 kg in più rispetto alla media europea: così Food Sustainability Index, realizzato dalla Fondazione Barilla per l’ottava Giornata nazionale di prevenzione degli sprechi di cibo, 5 febbraio 2021), l’acqua che si disperde dalle reti idriche (fino al 60%), i materiali contenuti negli oggetti dismessi che si portano agli inceneritori e nelle discariche invece di essere raccolti per tipologie omogenee ed essere riutilizzati per produrre altri oggetti.

Se la decrescita si limitasse a proporre di mettere il segno meno davanti al PIL non uscirebbe dalla logica quantitativa di chi vuole che il PIL sia preceduto sempre dal segno più. La decrescita richiede l’introduzione di criteri qualitativi nella valutazione del fare umano. È il meno quando è meglio. La riduzione della produzione e del consumo di merci che non sono beni non riduce il benessere, ma soltanto l’impatto ambientale; richiede l’uso di tecnologie più evolute e crea un’occupazione utile che ripaga i suoi costi con i risparmi economici che consente di ottenere dalla riduzione delle inefficienze e degli sprechi.

In Italia per riscaldare il 56% degli edifici residenziali si consumano più di 180 chilowattora (circa 18 metri cubi di metano) al metro quadrato all’anno. In un edificio ben coibentato i consumi energetici possono essere ridotti a un valore vicino allo zero (near zero energy building). Se si riducono le dispersioni termiche di un edificio coibentando le pareti esterne con un cappotto, utilizzando infissi coibentati con doppi vetri evoluti, sostituendo la caldaia a gas con una pompa di calore alimentata da pannelli fotovoltaici, si riducono in rapporto direttamente proporzionale sia le emissioni di CO2, sia i costi della bolletta energetica. Più si riducono le emissioni, più si riducono i costi. I progetti più vantaggiosi economicamente sono quelli che riducono di più le emissioni di CO2 e i risparmi economici che si ottengono consentono di pagare in un certo numero di anni i costi d’investimento. Lo stesso vale per la riduzione delle perdite di acqua delle reti idriche, per il recupero delle materie prime contenute negli oggetti dismessi, per l’aumento della durata di vita degli oggetti ecc. Se le innovazioni tecnologiche che riducono il consumo di risorse e le emissioni per unità di prodotto sono finalizzate alla riduzione della domanda di merci che non sono beni (gli sprechi e le inefficienze) la diminuzione dei costi che consentono di ottenere le rende concorrenziali rispetto alle tecnologie finalizzate all’incremento della produttività, mentre non possono usufruire di questo vantaggio competitivo se vengono utilizzate per sostituire in parte o in toto l’offerta di quelle tecnologie.

3.

Questi processi virtuosi, tecnicamente realizzabili senza grandi problemi, trovano ostacoli politici formidabili perché riducono i profitti di chi vende energia, di chi vende acqua, di chi gestisce le discariche e gli inceneritori, dei produttori di merci inutili, dannose, non riparabili, progettate con un’obsolescenza programmata per accelerare i processi di sostituzione. E dei lavoratori dipendenti impiegati in questi settori produttivi, che temono di perdere il posto di lavoro e non immaginano la possibilità di occupazioni alternative. In un sistema economico finalizzato alla crescita della produzione di merci le tecnologie che riducono l’impatto ambientale vengono boicottate se riducono la domanda. Trovano spazio solo se aprono nuovi settori merceologici che fanno crescere l’offerta. Solo se sono fattori di uno sviluppo sostenibile.

Il pregiudizio che le tecnologie ambientali non siano autosufficienti economicamente ha indotto a credere che, per attuare una conversione ecologica dell’economia, occorra sostenerle con contributi di denaro pubblico. Una scelta che gli ambientalisti sostengono sulla base di motivazioni etiche, in deroga alle leggi della concorrenza e del mercato. In realtà una conversione ecologica dell’economia si può realizzare solo con l’adozione di misure legislative finalizzate a favorire una conversione economica dell’ecologia, cioè a favorire la diffusione e lo sviluppo di tecnologie che consentono di ricavare utili dalla riduzione dell’impatto ambientale a parità di benessere che riescono a ottenere. Poiché le più efficienti ecologicamente sono le più vantaggiose economicamente, le condizioni ideali per la loro diffusione e il loro sviluppo sono costituite dalla concorrenza in una logica di mercato. Se invece si pensa che le tecnologie ambientali si possano diffondere solo se la politica compensa le loro inefficienze con contributi di denaro pubblico, il loro sviluppo tecnologico verrà ritardato; la loro diffusione sarà sempre precaria, perché dipenderà dalle disponibilità annuali del bilancio statale e dalle scelte politiche con cui verranno distribuite nei vari capitoli di spesa; saranno sempre appannaggio dei più forti politicamente; saranno sempre soggette al rischio della corruzione, come è già successo.

La decrescita non è soltanto la strada obbligata per rientrare nei limiti della sostenibilità ambientale, ma è l’unica possibilità di superare la crisi economica creando un’occupazione utile in attività che consentono di attenuare i fattori della crisi ecologica. A patto che si rispettino le regole del mercato e della concorrenza. Soprattutto da parte di coloro che se ne fanno paladini a parole e le trasgrediscono sistematicamente.

da qui

lunedì 29 novembre 2021

È scontato vaccinare i bambini? - Daniele Novara

 

Eccoci pronti alla vaccinazione a tappeto dei bambini fra i cinque e i dodici anni. La Food and Drug Administration (Fda) – l’agenzia del farmaco statunitense – ha già dato la sua approvazione e sarà seguita il 29 novembre da quella italiana (Aifa). La decisione appare scontata, una pura e semplice formalità. Si tratta di una scelta necessaria? Utile? Direi di no. Le ragioni per cui tale opzione appare equivoca e priva di senso sono sostanzialmente tre.

La prima è legata al fatto che il vaccino che abbiamo assunto non pretende di eliminare la circolazione del virus, ma di ridurre i danni sanitari più significativi – e l’eventuale morte – e, aspetto ancor più importante, che tale risultato, per i piccoli, è già in atto naturalmente. I bambini, sotto i dodici anni, non si ammalano in modo grave di Covid né muoiono direttamente a causa del virus. La natura li ha dotati di quella protezione che gli adulti sono costretti a trovare nella vaccinazione.

La seconda ragione attiene alla nota argomentazione per cui i bambini vadano vaccinati per proteggere le persone, specialmente gli anziani, ossia i nonni, che li frequentano, creando una barriera igienico-immunitaria a prescindere dalla reale necessità di protezione vaccinale dei bambini stessi. Tale ragionamento appare fuorviante per due motivi: il primo è in ordine ai diritti dei bambini poiché non si può utilizzarli per proteggere altri soggetti. È un’operazione illegittima che va contro quanto stabilito dalla Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia che nel 1989 mise nero su bianco – a livello internazionale – i diritti inalienabili dei più piccoli. C’è anche un motivo più contingente: se in Italia quasi il 90 per cento della popolazione è ormai vaccinata, da quale contagio infantile dovrebbe proteggersi? In altre parole, possono i bambini contagiare adulti già vaccinati mettendo in pericolo la loro vita? I dati e le conoscenze in possesso, ovviamente, respingono questa ipotesi. Sta nella natura stessa della vaccinazione impedire, come ho detto e come sappiamo, i decessi da Covid. Chi minaccerebbero i bambini non vaccinati? Resta un mistero.

Infine, nessuna ricerca in corso può escludere del tutto eventuali complicazioni nell’uso dei vaccini sulla popolazione adulta e tanto meno sui bambini. Un margine di rischio rimane presente. È corretto eticamente sacrificare i bambini facendoli correre questo rischio benché minimo? Si tratta di un prezzo davvero necessario? Dalle ragioni offerte precedentemente direi proprio di no.

La scelta più legittima e opportuna appare piuttosto quella di vaccinare, su segnalazione pediatrica, i bambini più a rischio, quelli a cui il vaccino risulta effettivamente utile.

Ancora una volta, verrà chiesta ai genitori una decisione che pesa quasi unicamente sulle loro spalle e sulla loro responsabilità. Quegli stessi papà e mamme che durante la pandemia sono stati i soggetti sociali più trascurati e più lasciati da soli a reggere il peso che si è andato a creare sui loro figli, sia durante i vari lockdown con bambini e ragazzi chiusi in casa, sia con le restrizioni scolastiche più accentuate di tutta Europa, senza alcuna attenuazione nel periodo post-vaccinazione.

Pertanto, in merito alla vaccinazione ai bambini, mi sento di chiedere alle istituzioni pubbliche una riflessione più approfondita e più organica, che tenga in dovuto conto la complessità del loro diritto alla salute senza gravarne l’esistenza con decisioni che, allo stato attuale, appaiono del tutto inutili.

da qui

domenica 28 novembre 2021

Il vostro pranzo di Natale potrebbe inquinare come un volo per New York - George Monbiot

 

 

Le cifre erano così incredibili che mi sono rifiutato di crederci. Le ho trovate nascoste in una nota a piè di pagina, e ho pensato inizialmente che fossero un errore di stampa. Per questo ho controllato la fonte, ho scritto alla persona che per prima le ha pubblicate e ho seguito le citazioni. Con mio stupore, sembrano corrette.

Un chilo di proteine di manzo prodotto in una fattoria di collina britannica può generare l’equivalente di 643 chili di anidride carbonica. Un chilo di proteine di agnello prodotto nello stesso luogo può generarne 749 chili. Un chilo di proteine provenienti da entrambi gli animali, in parole povere, provoca più emissioni di gas serra di un passeggero che vola da Londra a New York.

Si tratta dell’opzione peggiore, e i dati vengono da un allevamento i cui terreni hanno un alto contenuto di carbonio. Ma i numeri che emergono da uno studio più ampio non sono particolarmente rassicuranti: in media potete scambiare il vostro volo per New York con circa tre chili di proteine d’agnello prodotti in una fattoria di collina inglese o gallese. Dovreste mangiare trecento chili di proteine di soia per avere lo stesso impatto ambientale.

Quando scegliamo il nostro pranzo di Natale, o facciamo qualsiasi altra scelta, crediamo di prendere decisioni razionali e avvedute. Ma quel che sembra giusto talvolta non lo è affatto. In questo caso, proprio quegli elementi che siamo stati spinti a considerare positivi (gli animali che vagano liberi nelle montagne, curati da pastori dalle mani sapienti, senza mostruosità di cemento o acciaio o nessuna delle altre brutture degli allevamenti intensivi moderni) hanno un impatto ambientale incredibile.

Le cifre sono così elevate perché questa forma di allevamento è particolarmente improduttiva. Per allevare un agnello serve un ampio terreno spoglio e concimato. L’animale deve muoversi nelle colline per trovare il cibo, bruciando più grassi e producendo più metano di quanto farebbe una bestia che vive in una stalla.

Quel che è buono per gli animali che vivono in fattoria è spesso negativo per la natura. La crudeltà dell’allevamento intensivo al chiuso è bilanciata dai danni dell’allevamento estensivo all’aperto. L’allevamento di maiali e polli liberi, praticato ai livelli attuali, può essere disastroso per l’ambiente. I nitrati e i fosfati talvolta possono passare dai recinti ai fiumi. A meno che gli allevamenti abbiano una bassa densità o che gli animali siano tenuti su terreni ben drenati, i maiali tendono a consumare il suolo: un mio amico descrive alcune delle fattorie che ha osservato come una miniera suina a cielo aperto.

Si può aumentare la produzione, il che significa meno gas serra per chilo di carne prodotto, somministrando agli animali ormoni e antibiotici. Ma anche questo ha un costo. Come ha avvertito questa settimana il direttore della Antibiotic research Uk ormai è quasi troppo tardi per prevenire una crisi mondiale di superbatteri. Questo è dovuto in parte al fatto che degli allevatori senza scrupoli hanno imbottito i loro animali, per aumentarne il peso, con l’antibiotico colistina, l’ultima grande speranza contro i batteri resistenti.

Ma di tutte le forme di produzione, la più attraente è una delle peggiori. L’allevamento in collina non solo contribuisce in maniera assolutamente sproporzionata ai cambiamenti climatici, ma inquina anche i nostri corsi d’acqua, aumentando il rischio di pericolose alluvioni, e distrugge quelli che altrimenti sarebbero i nostri rifugi naturali: i grandi altopiani vuoti, nei quali l’attività economica è sostenuta solo grazie a generosi sussidi. Risulta difficile pensare a una qualsiasi altra attività umana con un più alto rapporto tra distruzione e produzione economica.

I miei amici del settore mi accusano di essere un nemico degli allevatori. Ed è vero che ne sottolineo il lato oscuro, soprattutto perché, a quanto pare, ci sono davvero pochi giornalisti disposti a trattare l’argomento. Ma non ho un odio viscerale per l’allevamento, semmai il contrario. Visitando una fattoria a Exmoor la settimana scorsa, mi sono ricordato di tutta la bellezza dell’allevare pecore.

Un capriccio grande e costoso

L’idillio arcadico, una concezione della vita dei pastori (sia nella teologia del Vecchio testamento che nella poesia bucolica greca) come luogo di innocenza e purezza, un rifugio dalla corruzione della città, è ancora forte tra noi. Ma continuare a coltivare questa fantasia nel mezzo di una crisi così complessa – in cui si sommano la catastrofica riduzione della fauna selvatica, alluvioni devastanti ma evitabili e sconvolgimenti climatici – mi pare un capriccio grande e costoso.

Per quanto riguarda il consumo di alimenti locali, credo che a volte abbia senso: aiuta a creare un senso di appartenenza, a capire il luogo, aspetti che non vanno sottovalutati. Quando compriamo frutta e verdura di stagione da produttori locali, è una cosa giusta anche per l’ambiente.

Ma tendiamo a sovrastimare i chilometri percorsi dal cibo e a sottovalutare altri tipi d’impatto. In media, il trasporto rappresenta solo l’11 per cento delle emissioni di gas serra dell’industria alimentare. Legumi che arrivano dall’altra parte del mondo possono avere un impatto molto più basso della carne prodotta qui.

Uno studio pubblicato alcuni giorni fa suggerisce che sostituire la carne con le verdure danneggerebbe l’ambiente. Se si considerano le calorie, coltivare lattuga produce più gas serra che allevare maiali. Ma questo significa solo che la lattuga ha poche calorie. Una persona dovrebbe mangiarne 15 chili per soddisfare il proprio fabbisogno energetico giornaliero, il che sarebbe sensato solo per un coniglio di duecento chili. Come mostra un altro studio, “venti porzioni di verdure producono meno emissioni di gas serra di una porzione di manzo”.

Uno studio pubblicato sul Climatic Change Journal ritiene che, man mano che gli abitanti della Terra adottano una dieta occidentale, il metano e l’ossido di azoto prodotti dall’allevamento potrebbero arrivare all’equivalente di 13 miliardi di tonnellate di anidride carbonica all’anno entro il 2070. Si tratta di più di quanto tutte le attività umane possano produrre senza superare un aumento della temperatura globale di due gradi. Lo sconvolgimento climatico appare inevitabile, a meno che non cambiamo tutti la nostra alimentazione.

Questo, più di tutto, significa sostituire la maggior parte delle proteine animali che mangiamo con proteine vegetali. Non è una cosa dolorosa, a meno che noi non la rendiamo tale. Molti britannici erano soliti mangiare legumi ogni giorno. Lo chiamavano pease puddingpease pottage o pea soup. Come nell’Asia del sud, i suoi ingredienti variavano di luogo in luogo e di stagione in stagione. Si tratta solo di un alimento di una dieta che offre una grande varietà, senza distruggere la grande varietà della natura.

Non sto dicendo che non dovreste più mangiare carne o altri prodotti di origine animale. Sto solo dicendo che dovremmo tutti mangiare molto meno. Limitate l’abbuffata a Natale. E anche in quel caso, scegliete con cura.

Questo articolo è stato pubblicato da The Guardian.

da qui

sabato 27 novembre 2021

Vivere da vegani in Palestina - Nada Kitena, Michel Khoury

Quando si pensa al veganismo, vengono in mente molte immagini che potrebbero includere un hamburger di falafel molto costoso nel caffè di una capitale europea o una dieta alla moda di Hollywood composta da bacche e semi provenienti da diversi angoli del mondo. Qualunque cosa sia, raramente viene in mente la Palestina o qualsiasi altro paese arabo. Dopotutto, nel Regno unito la Vegan Society ha coniato nel 1944 la parola “vegan” prendendo l’inizio e la fine della parola “vegetarian” per denominare il movimento che lotta contro la crudeltà insita nelle industrie della carne, delle uova e dei latticini. Ma anche se il vocabolario arabo manca della parola “vegano”, secoli prima della creazione della parola vegan in lingua inglese, la storia attribuisce al poeta Al-Ma’arri di Aleppo dell’undicesimo secolo la prima poesia vegana, intitolata “Non rubo più dalla Natura.”

Secoli dopo, la parola الخُضْرِيّ (al-khodri, derivata dalla parola araba per verdure, khudra), creata dall’attivista vegano palestinese Sharbel Balloutine, è entrata nel lessico arabo all’incrocio tra salute ed etica. Inoltre, nonostante la mancanza di un vocabolario vegano, tradizioni culturali e religiose locali testimoniano la filosofia di Al-Ma’arri nella società palestinese. Pertanto, si può sostenere che l’ispirazione per la filosofia vegana palestinese si trova nella romanticizzazione da parte della musica popolare del nostro rapporto con la nostra terra o nel simbolismo delle piante nella nostra storia culturale e politica. Tali esempi vanno da un dipinto di Sliman Mansour all’allegoria dell’anguria per la bandiera palestinese. Questa immagine è stata catturata anche nel romanzo “Mornings in Jenin” della scrittrice vegana palestinese Susan Abulhawa. Abulhawa scrive: “Noi veniamo dalla terra, le diamo il nostro amore e il nostro lavoro, e lei in cambio ci nutre. Quando moriamo, torniamo alla terra. In un certo senso, essa ci possiede. La Palestina ci possiede e noi le apparteniamo”.

Diete vegane hanno radici anche nel digiuno religioso vegano praticato in segmenti della società palestinese locale, comprese le fedi islamiche e cristiane. Ogni anno, i cristiani palestinesi, come i cristiani di altre parti del Medio Oriente, digiunano per quaranta giorni durante la Quaresima in preparazione della Grande Festa. Durante questo digiuno, i fedeli sono incoraggiati ad adottare pratiche spirituali che includono l’autocoscienza e portano a una connessione spirituale con il proprio corpo. Per i musulmani che praticano la scuola di pensiero Naqshbandi Sufi, durante il Khalwa è raccomandata una dieta vegana per raggiungere l’illuminazione spirituale. Il Khalwa è un periodo di isolamento fisico e mentale dalle questioni mondane in cui i fedeli si impegnano nella spiritualità. L’implicazione che mangiare vegano aiuti a evitare il peccato e ad avvicinarsi a Dio, come praticato nelle tradizioni sia cristiane che islamiche, solleva interrogativi sull’etica del mangiare animali e sottoprodotti di origine animale.

L’impatto dello stile di vita e della salute individuale sulla salute pubblica viene sollevato regolarmente dai medici di medicina vegetale. Oltre agli effetti benefici di una buona salute spirituale sulla nostra salute fisica,  la ricerca nutrizionale ha rivelato prove a favore di una dieta a base vegetale. Documentari disponibili su Netflix come “What the Health”, “Forks Over Knives” e “Game Changers” sfidano la convinzione che carne e latticini siano necessari o addirittura benefici per la salute.

I legumi palestinesi.

Palestine Health Save, un gruppo che sostiene un’alimentazione con cibi vegetali integrali e non trasformati, organizza eventi per aumentare la consapevolezza su malattie prevenibili come le malattie cardiache e il diabete di tipo 2. Secondo il Palestine National Diabetes Program, il 15,3% dei palestinesi è affetto da diabete, un numero che supera di gran lunga la prevalenza mondiale del 6%.*1 In uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, è stato dimostrato che a Gerusalemme gli uomini e le donne palestinesi hanno due volte in più la probabilità di morire di malattie cardiache rispetto alla popolazione di altri paesi mediterranei.*2

Vi sono prove sostanziali che, oltre a un aumento del rischio di sviluppare il diabete, il consumo alimentare di prodotti animali come carne, pollo, uova e latticini porta a un aumento del rischio di ipertensione e malattie cardiovascolari (inclusi infarti e ictus), nonché lo sviluppo di alcuni tipi di cancro e altre malattie.*3

Così come nelle famiglie possono essere presenti condizioni mediche e predisposizioni ereditarie a molte malattie, anche le ricette di famiglia e le abitudini di vita vengono tramandate di generazione in generazione. Per la creazione di una società palestinese più sana, un’alimentazione vegana non solo offre un percorso più salutare, ma può facilmente continuare le tradizioni culinarie originarie della cultura palestinese. Ad esempio, il calcio si trova in tahini, fichi, noci varie, fagioli bianchi e ceci.*4  Le proteine possono essere sufficientemente ottenute da lenticchie, ceci, noci e fagioli, tra le altre fonti di cibo.*5 Inoltre, gli alimenti che contengono proteine ​​di origine vegetale sono preferibili a quelli contenenti proteine ​​di origine animale, dato che è probabile che anche le fonti alimentari di origine vegetale contengano più fibre.*6

Gli argomenti sollevati frequentemente dai palestinesi non vegani includono riferimenti ai pastori beduini e ai polli di proprietà familiare, suggerendo che le preoccupazioni ambientali ed etiche sollevate dal veganismo non si applicano con la stessa urgenza in Palestina come in altre parti del mondo. Queste voci si basano sulla nostalgia per il modo in cui vivevano i nostri antenati prima della Nakba. Il folklore palestinese e le storie orali dipingono immagini di una vita in cui le famiglie si riunivano per raccogliere i frutti della loro terra, quella da cui sono stati cacciati. Mentre pastori palestinesi e piccoli allevamenti a conduzione familiare ancora si vedono in Palestina, queste pratiche vengono ormai sempre più sostituite da allevamenti intensivi su larga scala in cui gli animali dalla loro nascita alla loro morte vivono confinati nello stesso spazio ristretto, senza luce solare o igiene e nutrizione adeguate. Un allevamento industriale a Beita, Nablus, ha fatto il giro dei social lo scorso anno quando un “errore tecnico” ha provocato la morte di migliaia di polli. Sullo sfondo del video, si sentono i polli sopravvissuti che cercano di stare in vita. Pertanto, l’affermazione secondo cui l’allevamento intensivo è interamente una questione dell’”Occidente” per giustificare il nostro consumo di animali come più etico o meno dannoso per la nostra salute e il nostro ambiente, è un mito che ignora la realtà in cui si è evoluto il consumismo palestinese nel secolo scorso.

Oggi, la ricerca di opzioni vegetali diverse da foul e falafel è inutile nella maggior parte dei ristoranti palestinesi. Anche i pasti tradizionali palestinesi preparati dalle famiglie, compresi gli alimenti spalmabili come l’hummus, e i piatti consumati a pranzo e cena, come l’”alayet bandora” (ndr: tegami di pomodoro, che può essere facilmente gustato senza le uova) o msakhan (cipolle caramellate servite su un pane speciale imbevuto di olio d’oliva, condito con noci e spezie), vengono ora preparate con carne macinata e pollo. Storicamente, gli animali venivano macellati come “sacrificio” alcune volte all’anno. Oggi, i palestinesi includono la carne in quasi tutti i pasti quotidiani, compresi i salumi cancerogeni per colazione o come spuntini.*7

Nello specifico, negli ultimi due decenni, l’economia alimentare palestinese ha introdotto bestiame importato allevato in fazendas brasiliane che sono complici della distruzione della foresta pluviale amazzonica. Importiamo anche i prodotti di Nestlé e delle catene di fast food americane che sono tra i maggiori inquinatori al mondo. Mentre l’inquinamento atmosferico è collegato a un aumento dei tassi di malattie respiratorie e cancro, l’inquinamento generale può esacerbare condizioni e malattie già esistenti. E niente di tutto questo parla dell’etica di ferire e uccidere altri esseri senzienti, indipendentemente dalle dimensioni della fattoria o dell’operazione, soprattutto perché i prodotti di base e i sostituti vegani sono facilmente disponibili tutto l’anno in Palestina.

Nell’ultimo anno e mezzo, il mondo ha vissuto la più grande pandemia globale in quasi un secolo. Mentre alcuni paesi in Europa e negli Stati Uniti sono stati in grado di raggiungere i loro obiettivi di un tasso di vaccinazione che si avvicina all’80% della popolazione, il sistema sanitario palestinese continua a lottare con la sua infrastruttura sanitaria limitata. Le precedenti pandemie che hanno fatto notizia per aver causato la morte di milioni di animali e migliaia di persone, come H7N7, H1N1, sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e sindrome respiratoria mediorientale, hanno avuto origine dall’allevamento di pollame, maiali, pipistrelli, e cammelli, rispettivamente.*8 L’ubiquità della diffusione del COVID-19 nei continenti ha incoraggiato gli esperti di salute pubblica a parlare delle connessioni tra allevamenti intensivi e pandemie in un mondo globalizzato. Le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto in cui affermano che “la stragrande maggioranza degli animali coinvolti in eventi zoonotici storici o zoonosi attuali sono domestici… il che è logico in quanto i tassi di contatto sono elevati”*9 Inoltre, le terribili  e crudeli condizioni di vita in cui gli animali vengono tenuti frequentemente negli allevamenti intensivi e durante il trasporto portano ad un aumento dello stress e indeboliscono il sistema immunitario degli animali. I sistemi immunitari indeboliti e stressati consentono al virus di amplificarsi all’interno di questi ospiti animali*10 il che crea le circostanze che danno ai virus una maggiore possibilità di sviluppare mutazioni che si diffondono più facilmente agli esseri umani. Con l’industrializzazione dell’allevamento e la conseguente distruzione degli habitat della fauna selvatica, gli esperti mondiali di salute non si aspettano che le pandemie scompaiano. Piuttosto, le pandemie potrebbero diventare eventi più comuni nel nostro futuro, a meno che non smettiamo di allevare e consumare animali e lavoriamo per preservare il nostro ambiente.


Nonostante gli effetti dell’industria della carne e dei latticini sui cambiamenti climatici*11 e sulla salute fisica dell’uomo, nonostante le crudeltà sugli animali presenti sia negli allevamenti di piccola scala che negli allevamenti intensivi, che includono la separazione delle madri dai loro figli, il trituramento dei pulcini maschi vivi e, infine, il massacro di esseri senzienti, gli attivisti vegani rimangono fiduciosi. Per i vegani palestinesi, non c’è dubbio che con l’aumento di ristoranti di pollo fritto e negozi di hamburger, c’è anche un aumento della consapevolezza riguardo alle fonti e all’etica presenti nei nostri pasti. I negozi palestinesi stanno introducendo nuovi cibi vegani e, sebbene non abbastanza velocemente, i nuovi ristoranti palestinesi stanno creando menu che considerano i vegani e i vegetariani.

Un nuovo gruppo noto come Vegan in Palestine organizza cene ed eventi vegani bisettimanali con l’intento di creare uno spazio per le persone che condividono i loro valori o sono interessate a saperne di più sulla filosofia vegana. Il gruppo fornisce anche servizi di consulenza ai ristoranti locali su come incorporare opzioni più salutari e vegane nei loro menu. I membri di Vegan in Palestina si considerano responsabili del cambiamento sia nelle comunità palestinesi che in quelle vegane e sperano che  la lotta per la liberazione degli animali-non umani   si unisca alla lotta per la liberazione degli animali umani. La filosofia di Vegan in Palestine è che la liberazione di sè stessi non può essere completa senza la liberazione di tutti.

Nel corso della nostra storia, noi palestinesi siamo stati conosciuti per la nostra creatività e la capacità di trarre il meglio dalle peggiori situazioni. La nostra partecipazione al movimento vegano non è diversa. Il veganismo è il futuro. Si tratta di vivere la vita con compassione, in un modo che minimizzi il danno a tutti gli esseri e valorizzi la vita in tutte le sue forme. Il veganismo sta crescendo, innovando e migliorando il mondo, con i palestinesi che lavorano in prima linea.

Nota: le informazioni in questo articolo non devono sostituire i consigli medici specifici forniti da un medico personale. Per rimanere aggiornato su Vegan in Palestine, seguici su https://www.instagram.com/veganinpalestine/ e https://www.facebook.com/VeganInPalestine.

*1 Palestine National Diabetes Program, WDF 15-1304, World Diabetes Foundation, available at https://www.worlddiabetesfoundation.org/projects/west-bank-and-gaza-wdf15-1304#:~:text=The%20prevalence%20of%20Diabetes%20in,higher%20(18%2D21%25).

*2 “Jerusalem Arabs have higher rate of heart attacks than Jews, study finds,” National Institutes of Health, available at https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1459574/.

*3 Papier et al., “Meat consumption and risk of 25 common conditions: outcome-wide analyses in 475,000 men and women in the UK, Biobank study,” BMC Medicine, 2021, available at https://bmcmedicine.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12916-021-01922-9; Ruggiero et al. “Egg consumption and risk of all-cause and cause-specific mortality in an Italian adult population,” European Journal of Nutrition, 2021; Ding et al., “Associations of dairy intake with risk of mortality in women and men: three prospective cohort studies,” BMJ, 2019, available at https://www.bmj.com/content/367/bmj.l6204; Huang et al. Association Between Plant and Animal Protein Intake and Overall and Cause-Specific Mortality. JAMA Intern Med. doi:10.1001/jamainternmed.2020.2790; “How plant-based food helps fight cancer,” Mayo Clinic, available at https://www.mayoclinic.org/healthy-lifestyle/nutrition-and-healthy-eating/in-depth/how-plant-based-food-helps-fight-cancer/art-20457590.

*4 “Micronutrients,” Plant-Based Health Professionals UK, available at https://plantbasedhealthprofessionals.com/micronutrients.

*5 “Protein Power Up With Plant-Based Protein,” Physicians Committee for Responsible Medicine, available at  https://www.pcrm.org/good-nutrition/nutrition-information/protein.

*6 “Vegan Nutrition for Athletes,” Physicians Committee for Responsible Medicine, available at https://www.pcrm.org/good-nutrition/nutrition-for-athletes.

*7 “Processed meat and cancer: What you need to know,” MD Anderson Center, available at  https://www.mdanderson.org/publications/focused-on-health/eat-less-processed-meat.h11-1590624.html

*8 “Covid and farm animals: nine pandemics that changed the world,” The Guardian,September 15, 2020, available at https://www.theguardian.com/environment/ng-interactive/2020/sep/15/covid-farm-animals-and-pandemics-diseases-that-changed-the-world.

*9 “Preventing the next Pandemic: Zoonotic diseases and how to break the chain of transmission,” UN Environment Programme, 2020, available at https://www.cbd.int/doc/c/084c/e8fd/84ca7fe0e19e69967bb9fb73/unep-sa-sbstta-sbi-02-en.pdf.

*10 “Emerging Zoonotic Diseases: Should We Rethink the Animal–Human Interface?” Frontiers in Veterinary Science, available at https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fvets.2020.582743/full.

*11 Springmann et al., “Options for keeping the food system within environmental limits,” Nature 562, 2018, available at https://www.nature.com/doi.org/10.1038/s41586-018-0594-0.

 

Nada Kitena risiede a Gerusalemme ed è attivista di Baladi Palestine Animal Rescue. I suoi interessi includono veganismo e femminismo e la sperimentazione di piatti vegani.

Michel Khoury, MD, è un neurologo con una formazione specialistica in neuro-oncologia e malattie neuroinfettive che attualmente è docente presso la Emory School of Medicine. È anche membro di Physicians for Human Rights e co-direttore della Georgia Human Rights Clinic.

Fonte: This week in Palestine

 

Traduzione di Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”

 

da qui


venerdì 26 novembre 2021

15 esercizi per uscire dalla zona di comfort in questo momento - Jennifer Delgado Suárez

 

“Non possiamo diventare ciò che vogliamo essere, se ci aggrappiamo a ciò che siamo oggi”, disse Max DePree. La crescita avviene quando lasciamo la nostra zona di comfort, quel luogo in cui ci sentiamo al sicuro, anche se è solo un’illusione.

La zona di comfort non è solo uno spazio fisico ma, soprattutto, uno spazio psicologico e un atteggiamento. Le nostre credenze, i pregiudizi, gli stereotipi e l’immagine che ci siamo formati di noi stessi e del mondo sono i limiti della zona di comfort in cui ci muoviamo.

Limitarci a quello spazio in cui ci sentiamo così comodi significa condannarci alla stagnazione, quindi non abbiamo solo bisogno di approfittare delle opportunità per lasciare la zona di comfort, ma dovremmo anche cercarle attivamente e addirittura crearle.

Ci sono mille motivi per lasciare la zona di comfort, un di questi ci viene proposto dai ricercatori della Colorado State University, che scoprirono che una delle chiavi per essere più felici e soddisfatti nella vita è assumere nuovi rischi e vivere con curiosità.

Esercizi per uscire dalla tua zona di comfort

Ogni persona ha costruito la sua propria zona di comfort a misura, il che significa che per uscire da quello spazio devi prima conoscere i tuoi confini, essere consapevole dei tuoi limiti e, soprattutto, delle tue paure. Questi esercizi ti aiuteranno a sviluppare il giusto atteggiamento per abbandonare la zona di comfort senza sottoporti a tensioni eccessive.

– Scopri un posto nuovo. Inizia ad uscire dalla tua zona di comfort facendo dei piccoli passi che non rappresentano una grande minaccia, solo per esporti alla diversità e abituarti al cambiamento. Fai in modo di scoprire un ambiente nuovo almeno una volta alla settimana. Può essere ovunque, una piccola piazza, una strada su cui non hai mai viaggiato o una mostra d’arte. L’idea è che ogni volta ti senta più a tuo agio con la novità e questa inizi a far parte di te.

– Segui un percorso diverso. Tutti noi abbiamo dei percorsi predeterminati, quelli che pratichiamo ogni giorno e conosciamo a memoria. Per uscire dalla tua zona di comfort, un esercizio molto semplice è scegliere nuovi percorsi. Non si tratta semplicemente di cambiare strada, ma godersi la novità e, come un bambino, scoprire i piccoli dettagli che rendono ogni luogo un posto speciale. Se viaggi su una strada diversa ma assorto in te stesso, a poco servirà il cambiamento.

– Prova qualcosa di nuovo. La novità non solo ci mantiene vivi, è anche essenziale per mantenere attivo il nostro cervello. Un semplice esercizio per abbandonare la zona di comfort consiste, ad esempio, nel provare nuovi sapori. Puoi anche ascoltare un genere musicale molto diverso da quello che ascolti di solito o scegliere di leggere un libro di un genere che non hai mai considerato. Il genere distopico, ad esempio, così come la fantascienza e la fiction, sono particolarmente interessanti per staccarci dal pensiero tradizionale.

– Non scegliere l’opzione sicura. Tendiamo a scegliere sempre l’opzione sicura perché vogliamo ridurre al minimo il rischio e avere tutto sotto controllo. Ma di tanto in tanto è conveniente optare per l’opzione meno comoda e più rischiosa. Non devono essere decisioni epocali in cui la posta in gioco è altissima, possono essere decisioni meno importanti, ma tieni presente che solo quando rischi sai quanto lontano puoi arrivare.

– Dì “sì” più spesso a cose che normalmente non accetteresti. Ogni volta che dici “no” rimani nella tua zona di comfort, aggrappato a ciò che già conosci. Pertanto, un buon esercizio per uscire dalla zona di comfort è dire “sì” più spesso, specialmente a quelle cose che di solito non accetteresti. Questo atteggiamento positivo ti aiuterà a intraprendere progetti e avventure nuovi o semplicemente a vivere nuove esperienze.

– Decidi velocemente. Certo, non deve trattarsi di una decisione di importanza vitale. Pensa a quelle decisioni relativamente insignificanti su cui tendi a pensare troppo. Quando affronti una di queste, scegli semplicemente la prima cosa che ti passa per la testa, senza pensarci troppo, anche se si tratta di qualcosa d’insolito. Con questo piccolo esercizio per uscire dalla tua zona di comfort aumenti la fiducia nella tua Intelligenza Intuitiva. Sarai stupito nello scoprire che eliminando il bisogno di riflettere su una decisione ti alleggerisce e genera una enorme sensazione di fiducia in te stesso.

– Fai qualcosa che ti fa paura. La paura non è sempre negativa, a volte è solo un indicatore del fatto che siamo sulla soglia di qualcosa di nuovo e sconosciuto. Pertanto, uno degli esercizi per uscire più efficacemente dalla zona di comfort è scegliere alcune di quelle cose che ti spaventano e farle. Ricorda le parole di Helen Keller: “Evitare il pericolo non è più sicuro, sul lungo periodo, che esservi esposti apertamente. O la vita è una avventura da vivere audacemente, oppure è niente”.

– Progetta una nuova sfida. C’è qualcosa che hai sempre voluto fare ma che, per una ragione o l’altra, hai finito per rimandare? Questo è il momento. Osa prendere in considerazione una nuova sfida che ti motiva davvero e cerca il modo migliore di affrontarla. Può essere qualsiasi cosa, devi solo trovare il coraggio di andare oltre i tuoi limiti.

– Impara qualcosa di nuovo. Non c’è niente come l’apprendimento per rompere le barriere e scoprire cose nuove. Pensa a qualcosa che hai sempre voluto imparare e dedicagli qualche ora alla settimana. Puoi iscriverti a dei corsi o apprendere da autodidatta, ciò che è veramente importante è che distogli l’attenzione dalla tua zona di comfort e crei nuove connessioni neuronali.

– Considera una posizione contraria. Un esperimento condotto presso le università di Winnipeg e dell’Illinois mostrò che il 63% delle persone preferisce perdere del denaro piuttosto che leggere un’opinione contraria alla propria. Un esercizio eccellente per lasciare la zona di comfort è cercare attivamente tutte quelle opinioni o idee che sono contrarie alle tue. Valutale senza pensare a chi ha ragione o torto, come un esercizio intellettuale che ti aiuterà ad ampliare la tua visione del mondo.

– Scegli un’area personale in cui desideri migliorare. Vuoi essere più estroverso? Vuoi acquistare fiducia in te stesso? Scegli un’area che vuoi migliorare e mettiti al lavoro. La zona di comfort è anche piena di scuse per continuare a essere quello che siamo, quindi è importante che tu faccia un lavoro interiore che ti aiuti a cambiare. Mettiti alla prova e stabilisci un piano d’azione per raggiungere il tuo obiettivo.

– Pianifica una giornata diversa e speciale solo per te. Si tratta di fare qualcosa che non hai mai fatto. Puoi, ad esempio, passare una giornata in solitudine così da poterti riconnettere con te stesso lontano dagli stimoli a cui sei sempre esposto. L’idea è immergerti per un’intera giornata in una situazione completamente nuova.

– Usa le emozioni “negative” a tuo favore. Tendiamo a pensare che le emozioni negative siano sgradevoli e che dovremmo evitarle. Ma queste emozioni hanno il potere di stimolare il comportamento, quindi dobbiamo solo imparare a usarle a nostro vantaggio, invece di considerarle nemiche. Se ti senti molto arrabbiato, ad esempio, approfitta della rabbia per creare arte o dare il meglio in palestra. Anche lo stress, quando è sporadico, può diventare tuo alleato quando devi affrontare situazioni che richiedono una dose extra di energia.

– Abbandona il controllo e impara a fluire. Ci aggrappiamo alla zona di comfort perché la identifichiamo con la sicurezza e il controllo, anche se è solo un’illusione. Pertanto, uno dei migliori esercizi per uscire dalla zona di comfort è imparare a fluire con gli eventi e abbandonare ogni tanto il controllo. Impara a delegare, lascia che gli altri pianifichino alcune cose, fidati di più di chi ti sta accanto e permettigli di prendere l’iniziativa.

– Elimina tutto ciò che non ti serve. La tua zona di comfort è composta anche da tutte quelle cose che ti confortano ma non ti servono veramente e occupano solo dello spazio inutilmente. Per uscire dalla zona di comfort, devi imparare a praticare il distacco, così da poter iniziare a far pulizia in casa buttando tutto ciò che non ti serve.

La chiave sta nel fare dei piccoli passi, così non percepisci l’uscire dalla tua zona di comfort come qualcosa di traumatico ma piuttosto come un’attività di scoperta che, anche se racchiude incertezza, rappresenta comunque un’opportunità per espandere i tuoi limiti e scoprire cose nuove.

 

Fonti:
Frimer, J. A. et. Al. (2017) Liberals and conservatives are similarly motivated to avoid exposure to one another’s opinions. Journal of Experimental Social Psychology; 72: 1-12. 

Kashdan, T. & Steger, M. (2007) Curiosity and pathways to well-being and meaning in life: Traits, states, and everyday behaviors. Motivation and Emotion; 31(3): 159-173.

da qui

giovedì 25 novembre 2021

Quando l’ecologia si trasforma in imbroglio ecologico - Valter Giuliano

  

Archiviata con un poco di fatto la Cop26 – a meno che ci si accontenti di qualche poco significativo passettino in avanti e di qualche ulteriore roboante dichiarazione di principio – dobbiamo prendere atto della dura verità che ci condurrà a uno scontro a muso duro contro il futuro il cui risultato è già scritto: sconfitta della perdurante presunzione del genere umano sempre meno sapiens.

Lo dicono i fatti. Biden, “dormiente” a Glasgow, quattro giorni dopo la chiusura del summit ha dato il via libera alla ricerca di idrocarburi e di gas nel Golfo del Messico. L’Italia, nel suo piccolo, tramite Cassa Depositi e Prestiti, insieme a Intesa San Paolo finanzia il progetto Artic Lng2, a trazione russa – Novatec ‒ con finanziatori internazionali. Le trivelle all’assalto dell’Artico dove già agiscono 559 campi di estrazione e di ricerca. Tutto ciò alla faccia del sì alla moratoria sui finanziamenti pubblici agli impianti di estrazione o utilizzo di fonti fossili.

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi parla dei giovani e del loro futuro, ma la sua politica dubitiamo possa essere quella capace di garantirlo alle generazioni che verranno. Il sistema economico finanziario che rappresenta continua a rifiutarsi di affrontare la pandemia più grave in corso e di cui quella sanitaria potrebbe essere soltanto una delle prime avvisaglie.

Il concetto labile e per ora vuoto di contenuti della rigenerazione ambientale, se sarà riempito con le vecchie ricette neoliberiste, non porterà nulla di buono. Con l’ex governatore della BCE ‒ e il sistema finanziario di cui è espressione ‒ a gestire le risorse straordinarie per la riconversione non solo energetica (di per sè non sufficiente) ma ecologica, è certo che la New Generation Eu ha già perso e prevarrà il restauro del sistema economico-finanziario che sostiene il mercato drogato della crescita infinita, in perfetta antitesi con la necessità di affrontare la ben più urgente crisi ambientale. Proseguirà la corsa in rotta di collisione con le ultime opportunità di reazione per cambiare radicalmente l’economia, e renderla sostenibile ambientalmente e socialmente. Il liberismo sarà alimentato con le ultime ricette di morte del pianeta e la new generation rischia di essere la last generation.

Ad oggi siamo ben distanti dai diciassette obiettivi dell’Agenda 2030 dell’Onu per lo sviluppo sostenibile e manca qualsiasi Strategia nazionale per le Agende urbane di sviluppo sostenibile. In un Paese nel quale il rischi correlati alla sommersione dei quasi ottomila chilometri di coste (di cui quasi duemila cementificate) lungo le quali vi sono città importanti tra cui Imperia, Savona, Genova, La Spezia, Carrara, Grosseto, Livorno, Napoli, Salerno, Messina Palermo, Trapani, Cagiari, Catania, Siracusa Reggio Calabria Taranto, Lecce, Brindisi, Bari, Pescara, Ancona, Pesaro, Rimini, Ravenna, Venezia, Trieste… esiste un piano per la loro protezione e salvaguardia? Se trasferiamo la nostra attenzione sulle Alpi, il cui versante Sud è praticamente tutto italiano, quali programmazioni si stanno immaginando davanti ai possibili rischi che comporterà la compromissione degli strati di permafrost, anticipati dai crolli sul Monviso, sul Monte Bianco, sulle Dolomiti Ampezzane? Per i fenomeni alluvionali innescati dal riscaldamento, Catania non è che l’ultimo esempio, destinato purtroppo a ripetersi e accentuato nei suoi risultati dalla mancata manutenzione del territorio.

Eppure di fronte a questa accelerazione della crisi ambientale c’è ancora chi vorrebbe riportare le misure di resilienza ai singoli comportamenti di ognuno di noi. Certo importanti, ma non sufficienti.

Come avvertono gli scienziati (che sulla pandemia da Coronavisrus tutti, indistintamente, invitano ad ascoltare seguendone le indicazioni) e come ha colto Papa Francesco, occorre un radicale cambio di paradigma, una vera e propria rivoluzione ambientale. Non bastano i timidi provvedimenti fideisticamente tecnocratici che sembrano avviati dal Governo dei presunti “migliori”, che mentre non manca di professare la sostenibiblabla e un ambientalismo di facciata è incapace di fermare le trivelle nel Mediterraneo e consente una ulteriore proroga alla tassazione sulle plastiche e sugli zuccheri. La transizione ecologica da sola non è sufficiente se non è sostenuta da un cambio di visione e di strategia anche dell’economia. Non è un caso che, per discuterne, lo stesso Papa Bergoglio abbia chiamato nel progetto “L’economia di Francesco” ‒ che fa riferimento non a se stesso ma al Santo patrono d’Italia ‒ giovani ricercatori, scienziati, economisti, sindacalisti, la cui mente non sia ancora segnata dall’imprinting, oggi inutilizzabile, delle vecchie teorie economiche che guidano i mercati e la finanza internazionale.

Valutati i protagonisti cui è stata affidata la “transizione ecologica” sorge il timore che si ridurrà a una transizione tecnologica, fatta di reti produttrici di inquinamento elettromagnetico dalle sconosciute conseguenze sanitarie e di fonti energetiche illusoriamente ecosostenibili.

Ciò che rischiamo è di trovarci ancora una volta davanti a quello che Dario Paccino, nel 1972 definì, nel noto libro pubblicato da Einaudi, l’imbroglio ecologico. Ieri come oggi il tema ambientale, ormai indifferibile per garantire la sopravvivenza della nostra specie – non del Pianeta, che se la caverà benissimo –, viene affrontato non alla radice ma nell’illusione che qualche leggero medicamento risolverà il problema.

Per affrontare davvero la crisi ambientale, che oggi ha nel riscaldamento climatico (non chiamateli “cambiamenti climatici” che il clima non c’entra, ma solo i dissennati comportamenti della nostra specie) la cartina al tornasole di tutta evidenza, occorre andare alle radici delle cause strutturali che l’hanno prodotta e che per decenni è stata ignorata. Dario Paccino ce le indicò già allora: i rapporti sociali di produzione e di forza. Se non si tengono in debito conto questi fattori si finisce con il trasformare l’ambientalismo «in un’ideologia che copre e fa scomparire sia lo sfruttamento del lavoro sia i processi di messa a profitto della natura». Vale la pena rileggere quel testo, appena ripubblicato (L’imbroglio ecologico, L’ideologia della natura, (Ombre corte, Introduzione di Gennaro Avallone, Lucia Giulia Fassini, Sirio Paccino) in cui Paccino si domandò, cinquant’anni, fa se non fosse che proprio nell’ecologia avesse trovato rifugio il vecchio Dio dei padroni.

È tempo di tornare a riconsiderare i rapporti capitale-natura-società. Naturalizzare l’uomo e umanizzare la natura, resta l’imperativo. Si comprenderà, allora, che non suona casuale il ritorno della prospettiva nucleare, «energia padrona, delle multinazionali, quintessenza del capitalismo», scienza ed energia del padrone, forza produttiva per l’accumulazione e la riproduzione del capitale, strumento per l’accrescimento del plusvalore, basato sulla crescita espansiva, senza limiti.

Non è solo l’economia che va sostituita, ma anche la scienza e la tecnologia che stanno a fondamento dell’attuale modello produttivo. C’è bisogno di un’altra scienza, capace di dare all’uomo una tecnologia di liberazione al posto dell’attuale, finalizzata all’asservimento.

Ma per sbarazzarsi dall’imbroglio ecologico non basta mandare via il padrone, cioè le forze sociali, economiche e politiche che sostengono i meccanismi socioeconomici e socioecologici che si sono imposti su scala globale. Non è sufficiente la riconversione secondo la definizione classica. È indispensabile ridefinire radicalmente i rapporti socioecologici partendo da un’ecologia conflittuale che si ponga l’obiettivo di salvare l’Umanità, non il Capitale.

La crisi ecologica non può prescindere dai processi di produzione e dai conflitti sociali che comportano; su questo anche il sindacato dei lavoratori si deve dare una mossa. Perché l’ecologia del padrone mette in circolo, ogni volta, il ricatto dell’alternativa tra inquinamento e disoccupazione. Ne abbiamo ormai tanti esempi, a cominciare dal disastro di Donoa in Pennsylvania del 1948, passando da tante situazioni analoghe, sino ad Agusta e Taranto per restare nel nostro Paese che vive ancora il dramma della Eternit.

È tempo di dire basta. Per farlo occorre un ecologismo conflittuale finalizzato a costruire un rapporto equo ed armonico tra gli esseri umani, le organizzazioni sociali e la natura, che torni denunciare, con forza, il nesso tra assetto capitalistico del lavoro, salute, nocività in fabbrica e degrado ambientale. Perché il rispetto dell’uomo e della natura è strutturalmente incompatibile con il modello di sviluppo dominante, con un’economia di mercato che produce a prezzi sempre più bassi beni di consumo sempre meno utili e con una obsolescenza programmaticamente sempre più breve.

Bisogna porre fine a un imbroglio che si avvale dell’uso ideologico e mistificato della natura. Per farlo, il programma New Generation EU è occasione che difficilmente si ripeterà, per rovesciare i paradigmi consolidati che ci hanno portato all’attuale situazione. Per una conversione ecologica vera che inverta la rotta del riscaldamento globale contenendo l’aumento di temperatura entro i 2°C indicati come punto oltre il quale non esiste altro che l’estinzione della nostra specie. Se si continuerà con la transizione, perpetuamente annunciata e puntualmente rinviata, finiremo dritti dritti a livelli di aumento della temperatura intorno a 2,7 gradi, dagli effetti imprevedibili.

Serve una conversione verso l’ecologia integrale che riporti al giusto posto l’economia: tra l’etica e l’ecologia. E che dia ascolto, come per la pandemia, ai moniti degli scienziati.

I giovani della New Generation Eu non devono rassegnarsi a lasciare il bastone del comando alle élite economiche e finanziarie che hanno posto le basi per la rapida distruzione del pianeta. Per farlo devono riprendersi e riprendere la politica. Non c’è spazio per il futuro se non nell’equilibrio tra tutela ambientale e giustizia sociale, con un orizzonte nel quale l’umanità faccia pace all’interno di sé e con la Natura che la nutre.

da qui

mercoledì 24 novembre 2021

La trappola della società in cui siamo caduti tutti, secondo Alan Watts

 

Dal blog https://angolopsicologia.com/

Siamo figli del nostro tempo. È praticamente impossibile sfuggire alla sua influenza. La società – che ci piaccia o no – ci “costringe” attraverso meccanismi più o meno sottili a condividere le sue norme e modi di fare le cose sotto pena di esclusione sociale. Tuttavia, “il nostro tempo è un’era di frustrazione, ansia, agitazione e dipendenza dai narcotici”, scriveva il filosofo Alan Watts per metterci in guardia dalla più grande dipendenza dei tempi moderni e dal terribile pericolo che ci attende se ci cadiamo.

 

L’Homo Consumens sottoposto all’illusione della felicità

“Questo modo di drogarci lo chiamiamo il nostro alto tenore di vita, una stimolazione dei sensi violenta e complessa, che ci rende progressivamente meno sensibili e, quindi, più bisognosi di una stimolazione ancora più violenta. Desideriamo la distrazione, un panorama di immagini, suoni, emozioni ed eccitazioni in cui il maggior numero possibile di cose deve essere accumulato nel più breve tempo possibile.

“Per mantenere quel livello, la maggior parte di noi è disposta a sopportare modi di vita che consistono principalmente in lavori noiosi, ma ci forniscono i mezzi per cercare sollievo dalla noia in frenetici e costosi intervalli di piacere.

“La civiltà moderna è, sotto quasi tutti gli aspetti, un circolo vizioso. Ha appetiti insaziabili perché il suo modo di vivere la condanna a una frustrazione perpetua. La radice di questa frustrazione è che viviamo nel futuro, e il futuro è un’astrazione.

“Il soggetto perfetto ai fini di tale economia è la persona che ascolta continuamente la radio, preferibilmente dispositivi portatili che possono essere trasportati ovunque. I suoi occhi fissano inesorabilmente lo schermo della televisione, il giornale, la rivista, trattenendosi in una specie di orgasmo senza liberazione.

“Tutto è fabbricato in modo simile per attrarre senza offrire soddisfazione, per sostituire ogni gratificazione parziale con un nuovo desiderio.

“Questo flusso di stimoli è progettato per produrre desideri dello stesso oggetto in quantità sempre maggiore, anche se più forte e veloce, e questi desideri ci costringono a fare un lavoro che non ci interessa per i soldi che offre… per comprare altre radio lussuose, auto più brillanti, riviste più vistose e televisori migliori, tutto ciò cospirerà per persuaderci che la felicità è dietro l’angolo se acquistiamo un altro oggetto.

“I miracoli della tecnologia ci fanno vivere in un mondo frenetico e meccanico che violenta la biologia umana e non ci permette di fare altro che perseguire il futuro con velocità crescente”.

 

Una violenta stimolazione dei sensi per fuggire da noi stessi

Watts si riferisce alla ricerca costante di esperienze, in modo frenetico, per godersele velocemente e passare a quelle successive. Scattare una foto senza godersi il luogo per passare velocemente alla scena successiva, di cui neppure ricorderemo nulla. Comprare per usare solo per un tempo limitato, quindi buttare e comprare di nuovo. Abbuffarsi di serials televisivi per passare velocemente alla prossima produzione audiovisiva di tendenza…

La stimolazione costante dei sensi diventa dipendenza perché ci mantiene in uno stato di allerta in cui non c’è spazio per stare da soli con noi stessi. Quella stimolazione diventa una droga a cui ricorrere per evitare di pensare. Tenersi impegnati a fare qualcosa diventa una strategia di coping (affrontamento) evitante che ci consente di tenere a bada le preoccupazioni.

Tuttavia, mantenere quel ritmo frenetico ci impedisce di connetterci con noi stessi, così non risolviamo i nostri problemi. Invece, ci immergiamo in uno stile di vita alienante in cui diventiamo semplici consumatori di prodotti che promettono felicità illusoria ed effimera. Di conseguenza, quando l’euforia svanisce, abbiamo bisogno di una nuova “dose” di prodotti.

Per mantenere quel tenore di vita abbiamo bisogno di lavorare di più, molte volte in lavori che non ci soddisfano o che addirittura generano disagio. Se non ci rendiamo conto di questo circolo vizioso, possiamo correre il rischio di vivere intrappolati in quel flusso di stimoli e prodotti per tutta la vita, sprecando l’opportunità di connetterci con noi stessi e trovare un significato vitale al di là del materiale. La decisione spetta a noi.

da qui