venerdì 26 luglio 2024

Sono sfratti e sgomberi a essere illegali, non le occupazioni - Stefano Portelli

 

Prima che il dibattito pubblico slitti via verso qualche nuovo scandalo estivo, forse è importante mettere agli atti una precisazione. Si parla di diritto alla casa e occupazioni di immobili disabitati, a partire da un’affermazione di Ilaria Salis su un canale social. Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia (la corporazione dei proprietari immobiliari), ha risposto naturalmente che quella di Salis è una “rivendicazione orgogliosa di una serie di reati”, definendo poi “eversiva” la proposta di depenalizzare le occupazioni. Simone Tulumello, geografo siciliano attivo a Lisbona, sul Manifesto ha spiegato che siccome da quarant’anni in Italia non si costruiscono case popolari, le occupazioni oggi sono l’unica politica per la casa esistente. Marco Travaglio ha risposto pubblicando l’indirizzo del giornale, per dire “andate a occupargli la sede” (come quando fai notare che il governo viola il diritto di asilo, e qualcuno ti risponde “ospitali a casa tua”). Una giurista su Domani ha ribadito che le occupazioni abitative sono sempre illegali e illegittime; su Repubblica Concita De Gregorio ha recuperato la politica delle “case minime” del sindaco democristiano di Firenze nel dopoguerra, e Luigi Manconi ha menzionato delle sentenze della Corte Costituzionale che tutelano il diritto alla casa. Un buon resoconto del dibattito lo ha fatto Isaia Invernizzi sul Post, concludendo con la domanda: occupare è “accettabile”?

Ma questi dibattiti mediatici spesso finiscono per confondere ancora i termini della questione. Ricordiamo che ad aprile 2020, quando migliaia di persone non potevano pagare l’affitto e rischiavano di finire per strada, Confedilizia tirò fuori una campagna per far ripartire gli sfratti, basata sull’immagine di un povero proprietario che si era inciso sul braccio a sangue le parole “non sulla mia pelle”. Nel 2022 la stessa organizzazione propose al governo di legalizzare gli sfratti extragiudiziali, cioè di permettere ai proprietari di cacciare inquilini o occupanti con le proprie mani, senza passare per i tribunali. Subito dopo la proposta di Confedilizia, un padrone di casa di Castel Gandolfo aveva rapito e torturato il suo inquilino moroso, insieme a due sgherri. Permettere ai proprietari di farsi giustizia da soli non è ben più eversivo che lasciare in pace chi si è adattato ad abitare in un’immobile abbandonato? Non è una “rivendicazione orgogliosa di una serie di reati”, molto più problematica che legalizzare chi ha trasformato in casa un immobile abbandonato? Spaziani Testa mi minacciò di querela per aver accostato la loro proposta al caso di Castel Gandolfo. Ma non è che uno dei continui tentativi di affossare il dibattito sulla catastrofe degli sfratti e degli sgomberi, per portarlo al “problema delle occupazioni”.

Il problema non sono le occupazioni, bensì sfratti e sgomberi. Non solo perché, come scrive Tulumello, in molti paesi occupare le case non è affatto un reato (in altri lo è diventato di recente; e quasi ovunque chi occupa una casa abbandonata ha dei diritti); ci sono anche decine di risoluzioni internazionali, trattati Onu, delibere delle commissioni sui diritti umani, che autorizzano esplicitamente le occupazioni di immobili abbandonati, condannando invece sfratti e sgomberi ingiustificati. L’Italia si sta discostando sempre di più dalla legalità internazionale, che considera gli sgomberi una violazione dei diritti umani; non l’occupazione. Le associazioni che difendono gli interessi della grande proprietà, e delle banche che si stanno accaparrando migliaia di immobili, sanno bene che il diritto alla proprietà è limitato dal suo valore sociale, e che la speculazione immobiliare sta distruggendo le vite di decine di migliaia di persone. Per questo costruiscono il panico su immaginari “racket” o “mafie delle occupazioni”, connettendo eventi disparati o inventandoli di sana pianta per presentarsi come vittime di occupanti violenti, inquilini morosi o “associazioni a delinquere finalizzate all’occupazione di immobili” (come nella sentenza contro gli attivisti per la casa del Comitato Giambellino-Lorenteggio di Milano).

L’obiettivo è creare l’allarme sociale verso questo “problema”, perché diventi impossibile discutere del problema vero, cioè la mancanza di case. Sanno bene che molti esperti di questioni urbane considerano depenalizzare l’occupazione come uno dei modi con cui affrontare la crisi. Decriminalizzare l’occupazione degli immobili abbandonati (ovviamente non di quelli abitati!) da una parte aiuterebbe a mitigare la penuria di alloggi, impedendo ai proprietari di tenere case vuote in zone ad alta pressione immobiliare: lo ha spiegato in un podcast il geografo Manuel Aalbers, il principale esperto europeo di finanziarizzazione dell’abitare; dall’altra, contribuirebbe alla decrescita urbana, cioè alla riduzione del cemento, dei consumi e della spesa pubblica, come ha scritto Claudio Cattaneo in un libro pubblicato da Routledge, Housing for Degrowth. L’occupazione, scrive, può “offrire alloggi dignitosi a costo zero, fermare la speculazione immobiliare, e, come conseguenza, redistribuire i diritti di proprietà, ottenendo la decrescita in termini monetari e materiali”. Ma la grande proprietà vuole proprio alimentare la crescita urbana, liberalizzare ancora il consumo di suolo e di cemento, rafforzare la distribuzione ingiusta della proprietà, renderci la vita impossibile, insomma, per monopolizzare la necessità vitale di avere una casa. Per questo devono rendere più impraticabile l’occupazione, e più facili gli sgomberi.

Una risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 ha chiesto a tutti gli stati dell’Unione di porre rimedi all’accaparramento di case da parte di banche, gruppi finanziari, speculatori, che sta facendo crescere il numero dei senzatetto in tutta Europa. Il parlamento Ue ha chiesto espressamente ai governi di garantire che tutte le persone abbiano una casa dignitosa, di evitare in ogni modo possibile che le persone rimangano senza casa, di combattere i padroni di casa che chiedono affitti troppo alti, o che affittano case in pessimo stato, di fare in modo che entro il 2030 non ci sia più nessuno senza casa, e soprattutto, di riconoscere sfratti e sgomberi come “palesi violazioni dei diritti umani”. L’Ue chiede di vietare “in ogni circostanza” gli sgomberi in cui chi viene cacciato di casa non ottiene un appartamento alternativo (comma 29 della risoluzione). Sta parlando di chi non riesce a pagare l’affitto, o ha smesso di pagare il mutuo, o non ha alcun titolo di proprietà, o ha occupato le case. La risposta del governo italiano? Un Decreto sicurezza che punisce l’occupazione degli immobili con pene fino a sette anni di carcere, considerando occupanti anche gli inquilini che non se ne vanno di casa quando arriva l’ufficiale giudiziario. Eppure ce lo chiedeva l’Europa.

A febbraio 2024, inoltre, la Commissione Onu per i diritti economici, sociali e culturali ha pubblicato la prima risoluzione definitiva su un caso di occupazione a Roma (qui la traduzione in italiano). Alla fine degli anni Novanta cinque famiglie nordafricane avevano occupato e ristrutturato un vecchio immobile del demanio, sui binari tra stazione Prenestina e stazione Tiburtina. Abbandonato dopo la guerra, il manufatto era diventato una crackhouse; gli “occupanti” riempirono secchi e secchi di siringhe prima di iniziare i lavori per ricavarne cinque case dignitose. Ci abitarono fino a ventiquattro persone, con una decina di bambini; gli agenti della polizia locale si complimentarono con loro perché li avevano aiutati a risolvere un problema del quartiere. Verso il 2009 arrivò la notizia che Ferrovie dello Stato era entrata in possesso dell’immobile (non è chiaro come) e ne esigeva lo sgombero. Il tribunale stabilì che gli “occupanti” avevano più diritto di abitare nell’immobile che Ferrovie di accamparne il possesso, poiché i primi avevano speso una gran quantità di soldi ed energie per rimetterlo a nuovo. Più avanti un nuovo processo diede ragione alla proprietà, che intanto era diventata Ferrovie dello Stato Real Estate. Per quei giudici i profitti del real estate contavano più del diritto a usare le case per la ragione per cui erano state costruite, cioè per abitare.Per tutto il 2021, 2022 e 2023, il Movimento per il diritto all’abitare, l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti, il sindacato Asia-Usb, organizzarono manifestazioni e picchetti davanti alle cinque case, per ribadire il diritto degli occupanti a rimanere lì, almeno fino a quando non avessero avuto un’alternativa dignitosa.

Con l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti aiutammo due delle cinque famiglie a inoltrare una comunicazione all’Alto Commissariato Onu per i diritti umani, affermando che uno sgombero senza alternative sarebbe stata una violazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. Le due famiglie furono tra le prime a usare questo strumento, che a partire dal 2021 impiegarono decine di altri inquilini e occupanti sotto sfratto in tutta Italia. Avevano ragione: la Commissione dichiarò immediatamente che quegli sgomberi si dovevano fermare e che gli autori delle comunicazioni dovevano avere una casa. I tribunali fermarono il procedimento per poco più di un anno; poi decisero di riprenderlo, violando la protezione internazionale accordata dall’Onu alle famiglie e le loro case. Solo i picchetti antisfratto continuarono a garantire il rispetto della legalità, impedendo l’esecuzione di uno sgombero potenzialmente illegale. A febbraio 2024 è arrivata la risoluzione definitiva: le famiglie non solo hanno diritto ad avere una casa dignitosa, se proprio devono essere sgomberate; lo stato italiano deve anche compensarle economicamente, vista la precarietà in cui le ha costrette a vivere per così tanto tempo.

La risoluzione definitiva dell’Alto commissariato non dà alcuna importanza al fatto che queste famiglie siano “occupanti illegali”; è lo sgombero, invece, a essere illegale. La Commissione considera che uno Stato “commette una violazione del diritto all’alloggio, se prevede che una persona che occupa un immobile senza titolo legale debba essere sfrattata immediatamente, indipendentemente dalle circostanze” (par. 8.3). È vero, riconosce l’Onu, che queste famiglie “non avevano alcun titolo legale”. Ma quello che importa per la legge non è se o quanto punirle per questa mancanza, bensì se il loro sfratto sia “necessario e proporzionato all’obiettivo perseguito, e se lo Stato abbia tenuto conto delle conseguenze dello sfratto” (par. 10.1). La Commissione prende in considerazione diversi elementi: che le famiglie hanno chiesto la casa popolare per oltre dieci anni, senza nessun risultato; che hanno dei bambini; che hanno fatto tutto il possibile per regolarizzare la loro situazione; e anche, sorprendentemente, che lo sfratto non è “il risultato di una richiesta di un individuo che aveva bisogno dell’alloggio come abitazione o reddito vitale”, ma di una compagnia finanziaria che non ha nessuna necessità vitale a quell’immobile. Come ogni altra cosa, sfratti e sgomberi non si valutano sulla base di concetti astratti di legalità e illegalità, ma soppesando attentamente le necessità e gli interessi di tutte le parti. La conclusione è che lo sfratto di questi “occupanti” è una violazione del “diritto a un alloggio adeguato” (par. 11.1).

Per la legge internazionale, non è importante con quale titolo, o se c’è un titolo, per garantire il diritto universale ad avere una casa. Quello che importa è che nessuno rimanga senza casa. Illegali, inaccettabili, abusivi, illegittimi, sono i procedimenti di sgombero che non tutelano questa necessità fondamentale, che non forniscono soluzioni, e che condannano le persone a vivere senza un tetto. Nel film Il tetto, di Vittorio De Sica, una famiglia senza terra e senza soldi si costruisce una casa di notte, sapendo che se all’arrivo della polizia la casa ha già un tetto costruito, non potrà cacciarli. Il dibattito attuale sulle cosiddette “occupazioni illegali” sta cercando di minare questo diritto consuetudinario che accompagna tutta la storia degli insediamenti umani: ricchi e potenti possono appropriarsi delle terre, possono recintare i pascoli e le foreste, ma chi non ha altra scelta che trasformare in casa un pezzo di terra disabitato, deve avere il diritto di considerarlo casa propria, indipendentemente dalla volontà del padrone, almeno fino a quando non viene offerta un’alternativa.

Colin Ward ha ricostruito la “storia nascosta” di questo diritto in Cotters and Squatters, un libro del 2002. Le occupazioni di oggi, spiega, sono eredi dirette dei cottage inglesi, costruiti “abusivamente” ma legalmente, su terreni altrui, e che lo Stato non poteva abbattere, perché erano a tutti gli effetti delle case abitate, anche se senza titolo. In questo diritto hanno vissuto le baraccopoli del dopoguerra a Roma e Milano del film di De Sica, gli asentamientos espontáneos in America Latina, i karien in Marocco, gli ashwayat in Egitto, e i gecekondu in Turchia, un termine che vuol dire proprio “costruiti di notte”. È una consuetudine vitale, che precede le normative urbanistiche, precede gli stati nazionali, precede le recinzioni delle terre; queste istituzioni hanno il dovere di riconoscere la precedenza, e di rispettarla.

Il “diritto di restare” che hanno gli occupanti dei palazzi e delle case abbandonate, ha molti secoli di storia, e ha permesso a milioni di persone in tutto il mondo di sopravvivere nonostante l’assenza di politiche abitative statali. È il prodotto di un diritto consuetudinario, la pratica di “abitare di notte” terreni e immobili abbandonati, grazie al duro lavoro di trasformazione di spazi che nessuno usa in case. È vero che chi entra in una casa popolare abbandonata deve farlo di notte, di nascosto, come la coppietta di De Sica. È comprensibile anche che questa azione possa destare preoccupazione o sconcerto per chi ha la fortuna di non dovervi ricorrere. Ma quelle ormai sono case. Non possono essere sgomberate, per legge, a meno che non venga offerta un’alternativa. Eversivo è chi tenta di criminalizzare questo diritto per aumentare i propri profitti.

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mercoledì 24 luglio 2024

Speculazione energetica? Molto di più! - Francesco Casula

 

Siamo di fronte non a semplici speculatori ma a veri e propri nuovi colonizzatori faccendieri e predatori incalliti invasivi invadenti e sbrigativi, alle porte della nostra Sardegna. Anzi: sono già entrati in casa nostra. Senza permesso.

Predatori venuti da tutto il Pianeta, d’oltreoceano e d’oltralpe, che hanno deciso di mettere a ferro e fuoco, ogni angolo di questa terra promessa, votata al ruolo di genio naturale, trasformata per scelte scalmanate e devastanti in terra di servitù per industrie nere e inquinanti, armi, rifiuti e ora pale eoliche e distese infinite di pannelli cinesi.

Piani di assalto studiato nelle casseforti delle banche d’affari mondiali, congegnato nelle diplomazie europee ma messi a punto “accolti” e “legalizzati” nei Palazzi romani. E, ahimè con il beneplacito o, comunque la connivenza e collusione dei “basisti” e vassalli locali: di ieri come di oggi.

Vengono per sfruttare, deprivandocene, le nostre risorse: vento e sole, terra e mare. Suolo e sottosuolo. Devastando il nostro territorio e imbruttendo il nostro paesaggio.

Ma non solo.

Violentando l’ambiente. Sradicando gli alberi. Interrando la nostra storia e la nostra cultura e identità etno-antropologica, e linguistica.

Noi sappiamo bene che l’ambiente è una risorsa, limitata e irriproducibile: la più preziosa che abbiamo. Di qui la necessità di difenderlo con le unghie e con i denti e di conservarlo, valorizzandolo e non semplicemente sfruttandolo e divorandolo: come vorrebbero fare i nuovi invasori e furones.

L’ambiente per noi sardi è la necessità stessa per sopravvivere. Ed il territorio deve essere certo utilizzato anche come supporto di attività turistiche, economiche e produttive ma nel rigoroso rispetto e della salvaguardia del nostro complesso sistema di identità ambientali, paesaggistiche, geografiche, etno-storiche, archeologiche culturali e linguistiche.

La loro propensione predatoria e di spoliazione si ammanta di mascherature ideologiche, odiose e mistificatorie quanto false: le energie rinnovabili, la transizione ecologica. Con cui siamo assolutamente d’accordo: purché lo sia veramente.

Insieme alla transizione ecologica occorre tener presente gli interessi dei sardi. La nostra Autonomia e Autodeterminazione. Il consenso e il coinvolgimento delle popolazioni e delle comunità? Che sono stati calpestati e interrati. Come nel passato. Più che nel passato.

A fronte dei novelli predatori savoiardi, chi dae su bentu e su sole nde cherent faghere milliones, pigandesi su ranu e lassende a nois sa palla.

Di qui la necessità di una mobilitazione capillare e ubiquitaria e di una lotta delle comunità sarde. Come in parte sta succedendo. Ma cui fin’ora, da parte dello Stato, nei confronti della protesta – penso soprattutto a quanto è successo nei giorni scorsi nel Porto di Oristano – c’è stata soltanto la risposta della forza e della repressione.

C’è da chiedersi, a questo proposito: ma lo Stato rappresenta e difende i “faccendieri” o dovrebbe rappresentare e difendere le popolazioni e i cittadini?

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martedì 23 luglio 2024

L’esempio dei milionari. Cucinelli e Isabella Seràgnoli: profitti divisi con la comunità e tasse tutte pagate in Italia - Milena Gabanelli e Andrea Priante

 

«Dare soldi è una cosa facile ed è in potere di ogni uomo. Ma decidere a chi darli e quanti e quando, e per quale scopo e come, non è in potere di ogni uomo e non è una questione facile» (Aristotele). In effetti è un tema difficile perché per donare soldi bisogna averli, e va considerato anche il «come» sono stati accumulati. Per dare concretezza a un concetto elevato, prendiamo come modello due esempi: Brunello Cucinelli, imprenditore del lusso, e Isabella Seràgnoli, azionista unico del Gruppo Coesia. Hanno in comune due cose: pagano per intero le tasse in Italia, non dove conviene di più, e pensano che nessuno faccia i soldi da solo, pertanto una parte deve tornare alla collettività. In quale modo? Un punto non banale.

I dipendenti

Brunello Cucinelli nel 1978, a 25 anni, si mette a produrre abbigliamento di lusso nel borgo di Solomeo, alle porte di Perugia. La materia prima è il cachemire che, fino ad allora, veniva venduto solo nelle sue tinte naturali (bianco, marrone e beige). Lui si inventa di colorarlo, i suoi capi diventano riconoscibili in tutto il mondo, le vendite decollano e oggi l’azienda fattura 1,144 miliardi di euro l’anno. Al contrario di prestigiosi marchi del made in Italy produce realmente tutto nel nostro Paese e le tasse versate per intero in Italia. Nel quartier generale di Solomeo, a Gubbio, a Carrara e in Abruzzo lavorano 1.500 dipendenti e altri 1.500 nei negozi sparsi un po’ in tutto il mondo. Si pratica il modello di sostenibilità economica, ambientale, culturale. Lo stipendio dei dipendenti è fino al 40% in più di quanto prevede il contratto nazionale del manifatturiero (tradotto: la busta paga di una sarta è di 2.300 euro netti al mese, a fronte dei 1.500 previsti dal contratto nazionale del manifatturiero), non si lavora il sabato e la domenica, la mensa aziendale è un ristorante, bonus cultura (i dipendenti possono spendere 500 euro l’anno – per chi ha figli la cifra è più alta – per acquistare libri, ingressi a teatro, concerti).

No consumo di suolo

I luoghi di lavoro sono in aree verdi. Operano per Cucinelli anche 391 laboratori privati, il 75% in Umbria, che danno lavoro ad altri 7.800 artigiani. Tutta la filiera di appalti e subappalti è vigilata e deve rispettare il rigidissimo codice etico di Cucinelli. Anche le materie prime arrivano da fornitori per il 94,5% operativi sul territorio italiano. Il piano ambientale va nella direzione del non consumo di suolo: 1) acquisto di aree degradate, 2) abbattimento di capannoni e bonifica, 3) trasformazione in siti aziendali con intorno coltivazioni.

Beneficio alla collettività

Nel 2010 nasce la Fondazione Cucinelli e negli anni ha investito un centinaio di milioni di euro nella ristrutturazione dell’antico borgo di Solomeo, dotato la collettività di un teatro, una biblioteca universale e una Scuola di Alto Artigianato dove gli studenti percepiscono uno «stipendio» mensile (fino a 1.500 euro netti) per imparare un mestiere. Ha costruito e donato al Comune il campo sportivo per i ragazzini del paese. Ora sta finanziando il restauro dell’acquedotto medievale di Perugia. Dal 2020 i capi invenduti vengono donati in beneficenza alle Ong internazionali.

Tes Pharma

Le multinazionali farmaceutiche ritengono antieconomico investire nella ricerca per la cura delle malattie che colpiscono un limitato numero di persone. A occuparsene restano quindi università e centri di ricerca che si sostengono con donazioni e modesti finanziamenti pubblici. Solo quando il loro lavoro dà risultati incoraggianti possono sperare che le big pharma acquistino il brevetto per concludere lo sviluppo del farmaco e metterlo in commercio. I 25 ricercatori di Tes Pharma fanno proprio questo: studiano molecole per la cura di alcune forme di tumore raro e per patologie renali acute per le quali non esistono ancora delle cure. A fondare Tes è stato il professor Roberto Pellicciari, esperto (anche) di malattie rare, che per dieci anni fa contemporaneamente il ricercatore, il manager e il procacciatore di finanziamenti. La svolta arriva nel 2020 quando Brunello Cucinelli decide di sostenerlo mettendoci 3 milioni di euro. Oggi la start up dispone di macchinari all’avanguardia e di un team che comprende biologi, chimici, informatici. Spiega il professor Pellicciari: «Trovare una cura alle malattie è sempre molto costoso e, senza risorse adeguate, anche l’idea migliore è destinata a fallire».

Il Gruppo Coesia

Isabella Seràgnoli è presidente e azionista unico del Gruppo Coesia, con sede a Bologna. Un secolo fa si chiamava Gd e faceva motociclette, poi il padre Enzo la trasformò in un’azienda di macchine incartatrici, diventando una delle più importanti al mondo nel settore del packaging. Oggi fattura 2 miliardi di euro, dà lavoro a oltre 8mila persone ed è presente in 36 Paesi. Non fa operazioni di ottimizzazione fiscale: paga interamente le tasse in Italia.

Filantropia sanitaria e sociale

Negli anni Settanta l’azienda costruisce e dona all’ospedale Sant’Orsola l’Istituto di ematologia oncologica e, negli anni, ne finanzia l’ampliamento e l’ammodernamento. Nel ‘98 costruisce a Bentivoglio uno dei primi hospice italiani. Nel 2003 nasce la Fondazione Seràgnoli, un modello di filantropia imprenditoriale che opera attraverso quattro enti, ciascuno attivo in settori diversi: Fondazione Mast, con mostre temporanee sul mondo dell’industria e del lavoro, attività di formazione legata all’ innovazione e sviluppo tecnologico rivolta ai dipendenti del gruppo e ai giovani del territorio; la Fondazione Gruber, che si occupa di disturbi alimentari con un centro ambulatoriale, ricovero e l’Accademia delle scienze della nutrizione; la Fondazione Alsos, che finanzia studi e ricerche in ambito sociale. Ma c’è soprattutto la Fondazione Hospice Chiantore Seràgnoli, interamente dedicata al finanziamento e alla gestione di strutture sanitarie destinate ad alleviare la sofferenza dei pazienti con malattie incurabili. Negli ultimi 15 anni ha finanziato l’apertura del reparto di cure palliative presso l’ospedale Bellaria, l’hospice di Casalecchio, l’Accademia delle scienze di medicina palliativa e, da ultimo, l’hospice pediatrico.

L’hospice per i bambini

Il rapporto sull’attuazione della legge sulla terapia del dolore stima, in Italia, una necessità di 35.000 posti letto per cure palliative dedicate a bambini. Solo il 10% di questo fabbisogno trova una risposta. La Fondazione Seràgnoli ha messo 50 milioni di euro nella costruzione dell’Arca sull’Albero, uno dei rari hospice che accoglie pazienti da 0 a 18 anni con patologie inguaribili o di grave complessità clinica. L’edificio, che a tutto somiglia fuorché a un ospedale, è stato inaugurato a Bologna il 14 giugno scorso e progettato da Renzo Piano: «Volevo costruire una struttura che assomigliasse a un luogo fatato, dove la morte purtroppo non diventa migliore, ma diventiamo migliori noi». Si tratta di 8.350 metri quadrati di spazi sospesi come palafitte immerse in un parco di 16mila metri. La struttura, dotata di 50 operatori, è in grado di ospitare 14 piccoli pazienti e le loro famiglie, ma alcune terapie si possono fare anche in day hospital. Ogni camera ha una parete di vetro circondata da alberi e sul soffitto un oblò per vedere sempre la luce del cielo. C’ è una piscina per l’idrochinesiterapia, l’angolo di arte-terapia, la sala del commiato e uno spazio meditativo. In questo e negli altri tre hospice i pazienti non pagano nulla perché le strutture sono accreditate dal Servizio Sanitario Nazionale che rimborsa alla Fondazione il costo vivo giornaliero per ogni paziente in cura. A quel 40% che manca per coprire i costi di gestione ci pensa sempre la signora Seràgnoli.

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domenica 21 luglio 2024

Come rendere Gaza inabitabile per le prossime generazioni - Farah Al Hattab

 

Stiamo assistendo a un genocidio in atto. Finché Israele non sarà ritenuto responsabile per il sangue che ha versato in Palestina, temo che il destino degli abitanti di Gaza toccherà anche a noi. 

Tra i luoghi felici della mia infanzia tra le montagne del Libano meridionale, la guerra e i bombardamenti non sono mai stati lontani. Se l’occupazione israeliana di gran parte del Libano meridionale è terminata il 25 maggio 2000, a due anni dalla mia nascita, l’occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza, delle Alture del Golan e delle Fattorie di Shebaa è ancora in corso. Nel luglio 2006, quando avevo otto anni, è stata scatenata una guerra di 33 giorni contro il Libano. Sono cresciuta con la convinzione che il destino dei libanesi e dei palestinesi fosse storicamente connesso e che un giorno la Palestina sarebbe stata libera. Ma questo blog non parla di me.

Mentre scrivo, la guerra israeliana contro la Striscia di Gaza infuria da 271 giorni, con più di 38 mila morti e oltre 87 mila  feriti dal 7 ottobre a oggi, secondo i dati forniti dal Ministero della Salute di Gaza. Stiamo assistendo a un genocidio in atto che ha conseguenze disastrose anche per gli ecosistemi e viola il diritto di molte persone di godere e vivere in un ambiente sano.

«Una delle gravi conseguenze della guerra a Gaza è la massiccia violazione del diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile… che rappresenta un grave rischio per la vita e il godimento di tutti gli altri diritti. La regione sta già sperimentando gravi impatti climatici che potrebbero peggiorare ulteriormente», ha spiegato sul Guardian, lo scorso 6 giugno, Astrid Puentes Riaño, relatrice speciale delle Nazioni Unite sul diritto umano a un ambiente sano. Dall’inizio della guerra, come ricercatrice ambientale e legale, ho letto e raccolto articoli e informazioni sull’impatto devastante della guerra sull’ambiente di Gaza. Di seguito un’istantanea di ciò che è stato documentato finora.

Il tributo ambientale della guerra in corso a Gaza

La guerra in corso a Gaza ha avuto come conseguenza anche gravi danni ambientali, con un impatto su aria, acqua e terra, e su tutti coloro che ne dipendono. Le emissioni immediate di CO₂ causate dalla guerra sono impressionanti, con una stima media di 536.410 tonnellate di anidride carbonica nei primi 120 giorni di guerra, il 90% delle quali attribuite al bombardamento aereo e all’invasione terrestre di Gaza da parte di Israele. Si tratta di una quantità superiore all’impronta di carbonio annuale di molte nazioni vulnerabili al cambiamento climatico. A seguito degli intensi bombardamenti, sono state registrate contaminazioni da metalli pesanti.

L’aria è contaminata da sostanze chimiche provenienti da armi come il fosforo bianco, a causa dell’uso massiccio di esplosivi, mentre l’esposizione alle munizioni al fosforo bianco porta, a sua volta, a una riduzione della produttività dei terreni agricoli e può danneggiare le piante esistenti.

Le risorse idriche sono state gravemente compromesse, con circa 60 mila metri cubi di liquami e acque reflue non trattate che confluiscono quotidianamente nel Mar Mediterraneo. Il sistema di acqua potabile di Gaza, già insufficiente prima della guerra, con il 90-95% delle acque sotterranee non potabili, è ora in uno stato ulteriormente critico. In media, nell’aprile 2024, gli abitanti di Gaza avevano accesso a circa 2-8 litri per persona al giorno, rispetto agli 85 litri per persona al giorno prima dell’ottobre 2023. Le ricerche indicano che 20 litri pro capite al giorno sono la quantità minima di acqua pulita necessaria per raggiungere i livelli minimi essenziali per la salute e l’igiene.

Il degrado del terreno e del suolo ha devastato la società agraria di Gaza. La distruzione delle fattorie e dei terreni agricoli, unita a 17 anni di blocco che ha privato la regione di fattori di produzione agricoli essenziali, ha causato una grave insicurezza alimentare. Considerando l’intensità dei bombardamenti, è molto probabile che i terreni agricoli di Gaza siano contaminati da metalli pesanti e altre sostanze chimiche associate alle attrezzature e alle munizioni militari. Nel maggio 2024, il 57% dei terreni coltivati di Gaza risultava danneggiato. Secondo le Nazioni Unite, Israele avrebbe distrutto il 70% della flotta peschereccia di Gaza. Il bestiame muore di fame, incapace di fornire cibo o di essere esso stesso fonte di cibo.

Gli ulivi, fondamentali in Palestina per il loro profondo significato culturale e per la loro importanza economica, in quanto forniscono sostentamento a molte famiglie attraverso la produzione di olio d’oliva, sono stati spesso deliberatamente presi di mira dai soldati israeliani o dai coloni, diventando un simbolo della sofferenza dei palestinesi espropriati del loro patrimonio e impossibilitati ad accedere alla loro terra e ai loro raccolti. La distruzione degli ulivi fa parte di un sistema più ampio di danneggiamento delle terre e delle proprietà – particolarmente evidente in Cisgiordania – e di restrizioni che hanno implicazioni significative per i mezzi di sussistenza, la sicurezza alimentare e l’ambiente dei palestinesi.

Salute pubblica e crisi climatica: i killer silenziosi

Le crisi della salute pubblica e l’aumento della vulnerabilità al peggioramento degli impatti del cambiamento climatico sono conseguenze silenziose, ma mortali, della guerra. La regione del Medio Oriente e del Nord Africa si sta riscaldando a una velocità quasi doppia rispetto alla media globale. Almeno 1.300 pellegrini del Hajj alla Mecca sono morti quest’anno per malattie legate al caldo a causa delle temperature estreme.

Gaza, una regione già vulnerabile al clima, deve affrontare un peggioramento delle condizioni a causa della guerra. Le proiezioni indicano che le temperature potrebbero aumentare di 4°C entro la fine del secolo, aggravando le precipitazioni irregolari, le ondate di calore e la siccità. In aprile, una ondata di calore ha evidenziato le condizioni disastrose della popolazione sfollata, con diverse persone morte a causa del caldo.

Le infrastrutture sanitarie, già indebolite da anni di blocco, stanno crollando sotto la pressione della guerra. I sistemi e le strutture di gestione delle fognature, delle acque reflue e dei rifiuti solidi sono collassatiMigliaia di tonnellate di rifiuti solidi si accumulano in discariche informali in tutta Gaza e le acque reflue non trattate si riversano liberamente in mare. La diffusione di malattie come infezioni della pelle, epatite A e diarrea è in aumento, con il rischio di epidemie che mettono a repentaglio migliaia di vite. Gli attacchi agli ospedali e il blocco delle forniture mediche hanno paralizzato il sistema sanitario di Gaza, lasciando milioni di persone in impellente bisogno di aiuti umanitari. La presenza di corpi in decomposizione aumenta ulteriormente il rischio di epidemie di colera. I bambini, il cui sistema immunitario e la mancanza di cibo li rendono pericolosamente deboli, sono particolarmente a rischio.

Le conseguenze ambientali della guerra a Gaza danneggiano anche i Paesi vicini

L’impatto ambientale della guerra si estende oltre Gaza, colpendo i Paesi vicini come Egitto, Giordania e Libano.

L’Egitto sta sperimentando l’inquinamento nel Sinai settentrionale e lungo la costa mediterranea, con potenziali danni agli stock ittici, alla vita marina e alle riserve di acqua sotterranea. Anche la qualità dell’aria è peggiorata, con conseguenze sulla salute pubblica. Anche la Giordania sta affrontando un aumento dell’inquinamento atmosferico a causa della sua vicinanza con Gaza.

Il Libano, in particolare le sue aree di confine meridionali, soffre di danni agricoli connessi alla guerra, inquinamento chimico e contaminazione da residui di esplosivi. Anche qui, una valutazione preliminare ha indicato che i bombardamenti al fosforo bianco hanno causato danni ambientali estesi, con un impatto sugli ecosistemi naturali, sulla qualità dell’acqua e con minacce alla salute umana e al bestiame.

Richieste a Israele di sostenere i costi della devastazione ambientale secondo il diritto internazionale 

Sebbene l’ambiente naturale sia protetto dal diritto internazionale umanitario, continua a essere una “vittima silenziosa della guerra”. La devastazione ambientale a Gaza vìola molteplici leggi e convenzioni internazionali volte a proteggere l’ambiente durante i conflitti armati. Lo Statuto di Roma e le Convenzioni di Ginevra evidenziano che la distruzione ambientale intenzionale può costituire un crimine di guerra.

Esperti e ONG hanno utilizzato concetti come “ecocidio” per descrivere la distruzione deliberata dell’ambiente di Gaza. Una recente analisi satellitare rivela che “la portata e l’impatto a lungo termine della distruzione hanno portato a chiedere che venga indagata come potenziale crimine di guerra e che venga classificata come ecocidio, che copre i danni causati all’ambiente da azioni deliberate o negligenti”.

Il diritto internazionale richiede che Israele sostenga i costi della ricostruzione di Gaza, data la sua riconosciuta responsabilità come potenza occupante.

La “distruzione senza precedenti di Gaza richiederà decine di miliardi di dollari e decenni per essere risolta”.

Recenti rapporti hanno cercato di quantificare i danni subiti, il tempo necessario e il costo per riparare e ricostruire, tra gli altri, l’economia, l’ambiente, gli edifici e le infrastrutture primarie di Gaza.

Una valutazione provvisoria dei danni da parte della Banca Mondiale ritiene che il costo totale dei danni alla fine del gennaio 2024 era di circa 18,5 miliardi di dollari; i danni già subiti nel settore idrico, igienico-sanitario e sanitario sono valutati in oltre 500 milioni di dollari; altri 629 milioni di dollari nel settore agricolo e 411 milioni di dollari nel settore ambientale (compresa la rimozione delle macerie).

Secondo un’analisi condotta da ricercatori del Regno Unito e degli Stati Uniti, il costo in termini di emissioni di carbonio della ricostruzione di Gaza sarà superiore alle emissioni annuali di gas serra generate singolarmente da 135 Paesi.

Secondo l’UNCTAD, la “distruzione senza precedenti di Gaza richiederà decine di miliardi di dollari e decenni per essere risolta”. Un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) afferma che “il livello di distruzione a Gaza è tale che la ricostruzione delle infrastrutture pubbliche richiederebbe un’assistenza esterna su scala mai vista dal 1948”; il rapporto afferma anche che Gaza ha bisogno di circa 80 anni per ripristinare tutte le unità abitative completamente distrutte, seguendo gli stessi schemi di ricostruzione delle ultime due escalation.

Senza un cessate il fuoco permanente all’orizzonte, i danni e i costi di ricostruzione aumenteranno inevitabilmente, compromettendo ulteriormente la capacità del popolo palestinese di vivere nuovamente a Gaza.

Sto assistendo a un genocidio in atto con i miei occhi, attraverso il mio telefono – una documentazione dell’orrore di prima mano. Finché Israele non sarà ritenuto responsabile per il sangue che ha versato nella mia regione, temo che il destino degli abitanti di Gaza toccherà anche a noi.

Le richieste di Greenpeace per proteggere le persone, l’ambiente e la pace a Gaza e nella regione

Misure urgenti:

1.      Un cessate il fuoco immediato e permanente.

2.      Un embargo globale su tutte le vendite e i trasferimenti di armi.

3.      La fine dell’occupazione illegale della Palestina.

4.      Un passaggio costante e sicuro dei camion degli aiuti.

5.      L’accesso di investigatori e specialisti ambientali per condurre indagini sul campo.

Misure a lungo termine:

1.      Il sostegno di donatori internazionali e regionali per lo sviluppo delle infrastrutture idriche.

2.      Valutazioni ambientali complete per il dopoguerra.

3.      Una ricostruzione sostenibile incentrata sulla mitigazione del clima, sulle politiche di resilienza e sul coinvolgimento delle comunità.

4.      Misure per ritenere Israele responsabile dei danni inflitti a Gaza in violazione dei suoi obblighi internazionali.

Affrontare gli ingenti danni ambientali a Gaza richiede un’azione immediata e una pianificazione strategica a lungo termine per garantire una ripresa sostenibile e una resilienza futura.

Azioni di solidarietà che potete intraprendere

Ovunque vi troviate, la vostra solidarietà può fare la differenza. Ecco alcune delle cose che potete fare:

Donare alle organizzazioni umanitarie della regione, come l’UNRWA.

Unirsi agli appelli per il cessate il fuoco e la fine del blocco, partecipando alle manifestazioni per la pace nel luogo in cui vi trovate.

Sostenere gli appelli ai governi affinché smettano di vendere armi a tutte le parti coinvolte. Amnesty International, Greenpeace UK e Greenpeace Italia sono tra i tanti gruppi che chiedono un embargo sulle armi in linea con le leggi nazionali e internazionali. Alcuni Paesi si sono già attivati per bloccare le esportazioni di armi. Paesi Bassi, Spagna, Canada, Belgio e Italia – che però non ha mai interrotto l’invio delle armi autorizzate precedentemente il 7 ottobre – si sono mossi per sospendere la vendita di armi e il sostegno militare a Israele.

Unirsi a Greenpeace Norvegia e ai suoi alleati per chiedere alla compagnia petrolifera statale Equinor di porre fine alle sue partnership commerciali distruttive e agli investimenti in combustibili fossili nella terra palestinese occupata, che violano il diritto internazionale.

*Farah Al Hattab – campaigner e ricercatrice legale di Greenpeace Medio Oriente e Nord Africa con sede a Beirut, nata e cresciuta nel sud del Libano – disponibile sul sito di Greenpeace International

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