mercoledì 22 marzo 2023

L’orca più sola al mondo - Alessandro Ghebreigziabiher

 

Come sono strane le parole degli umani, dal punto di vista degli animali, quasi quanto la loro stessa vita, le assurde azioni e ossessioni.

Prendete Kiska, l’ultima orca vissuta in cattività in Canada, prima di morire la scorsa settimana per un’infezione batterica a circa 47 anni.
Almeno quaranta di questi ultimi, la nostra, il cui nome viene associato all’aggettivo assassina, in inglese killer whale, li ha trascorsi rinchiusa in una vasca, a far spettacolo morente, più che il contrario, per quei maledetti bipedi fissati con le prigioni, i confini, i lager e tutto ciò che può costringere la vita in una scatola, possibilmente dalle pareti trasparenti.
Gli ultimi 12 è rimasta sola, dopo la morte del suo compagno, facendole guadagnare – si fa per dire – il titolo di orca più solitaria del mondo.
Una solitudine resa ancor più dolorosa dal quotidiano affollarsi di sguardi curiosi e divertiti oltre le vetrate che delimitano la frontiera tra chi è libero di far del male a tutto e tutti e chi è condannato a subire impotente ogni pena immaginabile.
Lungo la sua esistenza virtuale a nuotare in una boccia di vetro enorme per tutti tranne che per lei, Kiska ha visto scomparire da un giorno all’altro affetti e amori preziosi con cui perlomeno condividere l’iniqua sentenza degli umani.
Come Keiko, compagna di sventura al momento dell’ingiusto rapimento da parte di questi ultimi, la quale ha avuto la consolazione di vivere da protagonista almeno in un film, ovvero Free Willy. Dal successo del cinema a un parco di divertimenti, sino alla libertà che entrambe non avevano teneramente mai smesso di sognare. Perché anche le orche sognano, pure quelle assassine che non hanno mai ucciso nessuno, casomai è il contrario, e sono sogni semplici, roba normale, la natura che ci spetta e che era già perfetta così prima delle nostre imperdonabili intromissioni.
Tuttavia, il dolore per tale separazione non credo sia paragonabile al veder morire uno dopo l’altro ciascuno dei cinque figli messi al mondo, per quanto costretti in una cella che si finge oceano. È stato un inganno anche quello, l’illusione di poter vivere una vita normale, dove essere perfino madre, creatrice di vita nonostante il mondo ci si metta davvero di impegno per svilirla e soffocarla.
E così se n’è andata anche Kiska, sola a danzare per decenni per il godimento di ragazzini urlanti e adulti fotografanti, il solito, ma ha lasciato un dono, dicono.
Pare che è proprio grazie a lei se quattro anni addietro in Canada si è deciso di proibire una volta per tutte con una legge la cattività e l’allevamento di balene, delfini e focene.
Be’, che il cielo o chi per lui benedica quella specie, popolazione, comunità o anche singola vita, animale o meno, che non avrà bisogno di trascorrere  la maggior parte della propria esistenza in un carcere per veder bandita l’ottusa perfidia degli esseri chiamati umani.

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martedì 21 marzo 2023

Connessioni ecologiche: Haraway, Stengers e Latour - Costantino Cossu

 

“Siamo l’ultima generazione che può agire concretamente per bloccare il suicidio collettivo e garantire un futuro”. Apre con queste parole il sito di Ultima generazione, il movimento ecologista protagonista di recente di atti di protesta non violenta e di disobbedienza civile. Subito sotto si legge: “Le lobby del fossile faranno di tutto pur di mantenere i loro profitti e condanneranno a morte milioni di persone, se necessario. Abbiamo il dovere morale di ribellarci a questo genocidio programmato. Se non protestiamo, se accettiamo questo crimine senza ribellarci, ne saremo complici”. Insieme con le iniziative di Extinction Rebellion, altro movimento ecologista che pratica come metodo la non violenza e la disobbedienza civile, le azioni di Ultima generazione hanno riportato il tema della crisi ecologica se non proprio al centro almeno dentro il perimetro della discussione pubblica.

Perimetro dal quale quel tema era uscito (o comunque era stato marginalizzato) per effetto del terremoto geopolitico innescato dalla guerra in Ucraina. Che si riprenda a discutere sulle soluzioni possibili per arginare danni che potrebbero rivelarsi devastanti, è un bene. Anche se la strada è stretta e in salita.

La ventisettesima Conferenza delle parti (Cop 27) fra gli Stati che hanno ratificato la Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, tenutasi lo scorso novembre a Sharm el-Sheikh in Egitto, ha fatto registrare pochissimi passi in avanti, quasi tutti annullati dal ritorno massiccio all’utilizzo dei combustibili fossili e, in prospettiva, del nucleare seguito al conflitto tra Kiev e Mosca. Sul piano strettamente istituzionale – definito dai trattati internazionali, dalle politiche degli Stati nazionali e dalle strategie di attori economici e finanziari globali – siamo allo stallo. Tutto è di fatto fermo, a fronte di un orizzonte eco climatico che non smette di essere allarmante.

In una situazione del genere non c’è da stupirsi se i movimenti che contro gli effetti del cambiamento climatico si battono intensifichino la loro azione. Esiste, a livello internazionale, una costellazione varia che occupa il campo delle battaglie ambientaliste, con contenuti e metodi più o meno radicali. Si va dagli orientamenti più moderati (trovare soluzioni all’interno di un quadro che confermi nella sostanza rapporti sociali ed economici consolidati) sino a strategie che legano la soluzione della crisi climatica alla cancellazione dello stato di cose presente e al suo superamento in un ordine di rapporti, tra gli umani e tra gli umani e gli equilibri della biosfera, radicalmente differente.

A supporto di questa seconda tendenza esiste una produzione teorica che non sempre ha ricadute diciamo di movimento e che invece più spesso si articola in ricerche e in dibattiti che restano nei confini dell’accademia, delle università, dei centri di ricerca, delle riviste. È un universo vasto e multiforme, su un segmento del quale getta luce un testo appena pubblicato da Ombre Corte e curato da Andrea Ghelfi: Connessioni ecologiche. Per una politica della rigenerazione leggendo Haraway, Stengers e Latour” (159 pagine, 14 euro).

A dipanare la matassa di fili che congiungono i tre studiosi, Connessioni ecologiche convoca una squadra di studiosi composta da Carlotta Cossutta, Angela Balzano, Miriam Tola, Elisa Virgili, Francesco di Maio, Mirko Alagna, Gilberto Pierazzuoli, Nicola Capone, Michele Bandiera ed Enrico Milazzo. Che cosa leghi Latour (il pensatore che in sociologia ha ridefinito in maniera radicale il concetto di azione sociale), Haraway (esponente di primo piano del pensiero femminista dei gender studies) e Stengers (critica radicale delle pretese autoritarie del pensiero scientifico occidentale) lo spiega Ghelfi nell’introduzione: “Tra le diverse prospettive teoriche che ci aiutano a pensare il problema della rigenerazione ecologica quelle di Haraway, Latour e Stengers mi paiono particolarmente efficaci in quanto in grado di coniugare una critica dell’umanesimo moderno con una comprensione dell’ecologia oltre la dicotomia natura-cultura”.

Al centro, quindi, il superamento dell’umanesimo moderno, in un passaggio epocale che rende possibile una visione dell’ecologia e dei suoi temi fuori e oltre le opposizioni che il pensiero occidentale ha istituito nel corso del suo sviluppo, a cominciare da quella tra natura e cultura.

In Latour questo movimento si traduce in una radicale ridefinizione del concetto di azione sociale. “Il reale – nota Alagna a proposito del nocciolo duro del pensiero del teorico francese, è un reticolo di relazioni, connessioni, giunture, mediatori, in cui le entità individuali affiorano come assemblaggi che esistono fintanto che agiscono – finché cioè tengono fronte alle forze disgreganti che attirano verso altre composizioni”. Ciò che veramente esiste non sono gli individui o la natura (tantomeno esiste separatezza tra i due ordini), ma assemblaggi, ibridi in cui soggetti umani, manufatti umani e equilibri biologici si compongono e si scompongono continuamente, in perenne e reciproca tensione. 

Allo stesso modo, rileva Gheffi, “Haraway vede nell’esaurirsi della cultura dell’umanesimo moderno e nel simultaneo decentramento dell’umano rispetto al mondo materiale, alle tecnologie e ad altre specie una condizione di possibilità per sperimentare composizioni socio-materiali più ricche e convivenze multispecie più sostenibili”. Gli ibridi di Latour e il cyborg di Haraway sono concettualmente affini. Stengers, infine. Il volume pubblicato da Ombre Corte termina con un pezzo della studiosa belga, intitolato L’arte di osservare, che è la prefazione all’edizione francese (2017) del libro dell’antropologa Anna Tsing Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (Princeton University, 2015).

Tsing dà conto di una ricerca sui raccoglitori di funghi nei boschi dell’Oregon. Non funghi qualsiasi, ma esemplari di una varietà particolare molto amata dai giapponesi (che la chiamano matsutake) e di fatto estinta nelle isole del Sol Levante per la scomparsa delle foreste che ne erano l’habitat naturale, tanto che è soltanto grazie all’importazione dagli Usa che nei ristoranti di Tokyo può ancora essere gustata. Tsing racconta (il verbo raccontare è il più appropriato) l’intreccio fra tre dimensioni distinte: le vite border line dei raccoglitori; la compromissione degli equilibri ambientali sia nelle terre marginali in Oregon sia nelle aree di urbanizzazione intensiva in Giappone; le dinamiche dei mercati globali.

Sono “storie intrecciate di contingenze”, come le definisce Strangers, che precisa: “Nel lavoro di Tsing le frizioni che collegano i luoghi a interessi e prospettive divergenti lasciano il posto a questi stessi luoghi e a coloro che li popolano […] Non più la Natura o l’Uomo, ma persone e alberi che fanno la storia gli uni con gli altri, gli uni attraverso gli altri, e mai indipendenti dalle loro connessioni con altri ancora”. “Noi sappiamo, voi credete – nota ancora Ghelfi –. Questo è il motto dell’alleanza del Progresso”. Niente di più distante dall’ecologia delle pratiche comuni di Stengers. “Che invece ci suggerisce – specifica Ghelfi – modi per radunarci attorno a ciò da cui dipendiamo: un fiume, una foresta, una scuola, un consultorio, un campo coltivato. Ci invita a pensare a come le situazioni possono essere trasformate se coloro che le subiscono trovano tecniche e pratiche per pensare e agire insieme”.

Contro le teorie generalizzanti e omologanti attraverso le quali l’alleanza del Progresso costruisce consenso intorno a pratiche di violenza e di distruzione, i tre autori oggetto dell’attenzione di Connessioni ecologiche prefigurano – in un campo in cui ecologismo, femminismo e analisi post coloniale si incrociano e dialogano – un’alternativa che è fatta di pensiero antiautoritario e non violento e di pratiche dal basso capaci di costruire e di agire esperienze comuni in situazioni determinate. “Storie intrecciate di contingenze”, appunto, aperte a esiti multipli, non scontati, compreso quello del fallimento. Ancora Stengers: “Si tratta di imparare a vivere tra le rovine. […] Le rovine sono ovunque. Il miracolo del libro di Tsing è che lei non ignora nulla di tutto ciò. Non ci promette nulla. Ma il suo modo di scrivere, al tempo stesso poetico e preciso, ci impedisce di disperarci, perché rende presenti i mondi multipli e aggrovigliati che, con o senza di noi, anche nelle nostre rovine, i viventi continuano a fabbricare l’uno con l’altro”.

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lunedì 20 marzo 2023

Capitalismo carnivoro: è la bistecca che mangia noi, non il contrario - Diletta Coppi

  

Una tra le tante domande a cui fatico a dare una risposta completa è: “perché mangiamo la carne?”. Da quando ho iniziato a interrogarmi, la questione è diventata sempre più grande, finendo per coinvolgere una moltitudine di temi. È per cercare questa risposta che mi sono imbattuta in Capitalismo carnivoro di Francesca Grazioli. Questo saggio, edito da Il Saggiatore nel 2022, mette in luce i giochi di potere e le contraddizioni che stanno dietro all’atto del mangiare carne. Dentro alla bistecca che scegliamo di mangiare, infatti, si intrecciano questioni ambientali, di genere, antropocentrismo, disuguaglianze e ciò che Noemi Klein definisce “capitalismo dei disastri”, ovvero lo sfruttamento delle catastrofi e delle crisi come opportunità di profitto (privato!) e come ampliamento del libero mercato.

Il legame tra esseri umani e animali risale alla notte dei tempi, tanto che la nostra evoluzione come società si è basata anche sullo sfruttamento di questi ultimi, o meglio, sul cambio dei ruoli ricoperti dalle due parti: non più prede-predatori, bensì allevatori-allevati. Nel primo periodo della storia, il contesto in cui questa relazione si sviluppa è quello della fattoria a matrice familiare, ed è solo con lo sviluppo storico del capitalismo che l’industria animale conosce una crescita esponenziale.

Grazie al processo di industrializzazione, alla dislocazione dei macelli in luoghi in cui il costo della vita è più basso, alla globalizzazione, all’apertura dei mercati prima preclusi e all’abbattimento dei dazi per l’importazione dei mangimi, le proteine animali sono diventate una merce accessibile a sempre più persone. Questo abbattimento dei costi, però, ha delle conseguenze rispetto alle quali è difficile rimanere indifferenti e che impattano in modo diretto sulla crisi ambientale.

L’industria alimentare si è ben allontanata dall’immagine amena della fattoria e gli allevamenti intensivi sono ormai in modo conclamato una delle principali cause della crisi ambientale a cui stiamo assistendo, responsabili di emissioni di gas serra stimate tra le 4,6 e le 7,1 tonnellate. Per adesso le maggiori conseguenze del disastro ambientale ricadono sulle popolazioni più povere del pianeta, la cui voce trema di fronte agli abusi subiti dalle multinazionali che insediano le proprie industrie in queste zone attratte dal basso costo della manodopera. Le acque avvelenate dagli scarti industriali e gli uragani sono diventati scenari ricorrenti nelle comunità svantaggiate.

Distinguere un diritto da un privilegio

Se l’acqua potabile e l’aria pulita sono un diritto, perché non chiederci provocatoriamente se lo è anche il mangiare carne? Tra le visioni diffuse dal capitalismo la più sadica è sicuramente quella che inquadra la povertà come una colpa, da scaricare sui singoli individui per giustificare fino al paradosso i fallimenti di un sistema economico basato sul sopruso e sulla competizione truccata.

Così, mentre negli Stati Uniti il consumo di carne pro-capite è stimato a 101 kg annui, in Nigeria si aggira intorno ai 3,5 kg. È evidente che la carne sostiene un sistema di disuguaglianze, o che per lo meno ne è la spia: l’esclusione di una parte di mondo dal suo consumo è necessaria per l’abbuffata dell’altra parte. La disuguaglianza non si limita al divario tra il nord e il sud del mondo, ma si estende anche alle questioni di genere. L’antropologo Nick Fiddes sostiene che la funzione fondamentale della carne sia più simbolica che nutritiva: una sorta di emblema, di blasone del proprio dominio su ogni altro essere vivente. Dominio che si estende non solo agli animali non umani, ma anche a quelli umani, e possiamo osservare in piccola scala anche nel teatrino che avviene intorno a tutti i barbecue del mondo, dove i maschi, e solo loro, hanno il diritto di muoversi con sapiente e virile destrezza. Certamente il genere è un costrutto sociale, ma gli stereotipi intorno all’uomo forte che si nutre di carne ingrassano il costrutto stesso e tutte le relative gerarchie che ne derivano. Il dominio che esercitiamo sugli animali non umani ha come fine ultimo l’utilizzo di ogni parte del loro corpo all’interno di una logica di mercato che per il profitto giustifica tutto: la violenza, la tortura, l’oggettificazione.

Gli animali non umani sono sempre stati ad un livello più basso, ma non a tutti è riservata la stessa sorte: quelli da compagnia, infatti, sfuggono alla classificazione specista meritandosi un posto a sedere sui gradini più alti della piramide. La distinzione che facciamo all’interno del regno animale è sovrapponibile a quella attuata all’interno della nostra società in due modi: il primo riguarda il processo di consumo e oggettificazione vissuto dagli animali non umani, che secondo Carol J. Adams è lo stesso vissuto dalle donne; il secondo riguarda il processo di animalizzazione, che viene frequentemente utilizzato per negare a certe persone la dignità umana e giustificarne così l’esclusione dai diritti fondamentali garantiti alla nostra specie (tra cui quelli alla partecipazione politica, sociale e culturale). Le forme di animalizzazione usate dalla cultura occidentale nel corso della storia si sono rivelate necessarie per la riduzione in schiavitù di milioni di persone e per il colonialismo.

Ma allora perché mangiamo la carne?

Di fronte a queste, seppur brevi, riflessioni non è un caso se veniamo assaliti da un dilemma, una spaccatura interna vissuta come un’incoerenza. Lottiamo per la giustizia, l’uguaglianza, ci definiamo a favore della causa femminista poi però cediamo al consumo di carne. Questa dissonanza diventa ancora più grande se ci interroghiamo non solo sul perché la mangiamo ma se acquistiamo consapevolezza del fatto che mangiamo solo quella di alcuni animali non umani.

Mangereste mai il vostro cane? Ovviamente no e la risposta, secondo la psicologa Melanie Joy, sta nel carnismo: un sistema di credenze interne necessarie a sostenere questo specismo. La relazione che intercorre tra morale e dieta è complicata da razionalizzare poiché le variabili che entrano in gioco sono molte: abitudini alimentari, etica, questioni religiose, disponibilità economica, posizione geografica; ciò che è certo è che avere consapevolezza spesso si traduce in un agire più compassionevole e dunque in scelte più eque per gli animali, se stessi e il pianeta. Mangiare la carne è stato per molto tempo un lusso, nell’Italia del dopoguerra non era scontato potersi permettere un piatto di carne, lo è diventato con il tempo e non per tutti. Nei giorni di festa, invece, è un rito: non è raro che la portata principale sia a base di carne o, in caso del Natale, di pesce. La costruzione di un rapporto ritualizzato con la carne potrebbe essere una delle risposte al perché la mangiamo ma occupare questa abitudine in modo critico diventa necessario sia per avere un impatto meno dannoso sia per placare il senso di colpa che si elicita dalla presa di coscienza della nostra incoerenza.

Personalmente non ho ancora trovato una risposta esaustiva al motivo per cui mangiamo la carne, ma di certo il tempo dedicato a Capitalismo carnivoro di Francesca Grazioli mi ha permesso di assimilare concetti basilari sull’etica del non farlo. Sono molti gli studi che hanno dimostrato le brillanti capacità cognitive di maiali, polli e pesci, queste però non sembrano essere sufficienti a farceli percepire come nostri pari. Diviene dunque essenziale abbandonare la dicotomia noi-loro, al fine di contrastare l’individualismo e l’antropocentrismo figlio della visione prima aristotelica e poi cartesiana dell’essere umano, che ci vede gli unici in diritto di fregiarci del titolo di pensante (qualunque cosa questa strana parola voglia dire). Quello che troviamo all’interno dei nostri piatti infatti – per qualche strano motivo – non è più un animale, bensì carne: strappatogli il volto, luogo dell’Altro per eccellenza e specchio nella cui epifania Lévinas riconosceva l’origine dell’etica del comandamento “non uccidere”, siamo finalmente pronti per non riconoscere all’animale morto che stiamo inforcando alcun diritto né alcuna dignità.

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domenica 19 marzo 2023

In difesa della solitudine - Francesco Bercic

 L’ultima follia anglosassone, rappresentazione perfetta del pressapochismo che si ammanta di “verità scientifica” – il massimo riconoscimento della nostra epoca –, sta tutta nella battuta finale che suggella l’ultima ricerca dell’Università di Harvard: “La solitudine uccide”. Così afferma il direttore dell’indagine, Robert Waldinger, che si proponeva assieme ai suoi colleghi l’umilissimo compito di “scoprire cosa veramente conduca a una vita felice”. Ne dava notizia il Corriere della Sera, che dedicava all’ambizioso programma inglese il suo corsivo del giorno, lo scorso 27 febbraio. Il titolo? “Amore e salute sociale sono la ricetta per una vita felice”.

Ora, al di là della banalità della risposta, degna del più sdolcinato Bacio Perugina, ciò che colpisce non è soltanto l’approvazione entusiastica del corsivista. Come se ci volesse l’erudizione prosaica di qualche camice bianco per divulgare la sconvolgente notizia che amore e salute possono giovare all’uomo.

Ciò che colpisce di più è il controcanto della notizia, l’argomento che viene usato come esempio di pratica nociva e foriera, evidentemente, di infelicità: la solitudine. Non ci vogliamo qui ergere a paladini del silenzio, dell’esercizio difficile e necessario della convivenza appartata con sé stessi – per quanto la tentazione sia molto forte. Piuttosto, la suddetta ricerca conferma ancora una volta ciò che Paul Valéry scriveva poco più di cinquant’anni fa, con prodigiosa abilità profetica.

Dappertutto scintilla e agisce la critica degli ideali che hanno permesso all’intelligenza il piacere e le occasioni di criticarli. Come inattesa conseguenza dei suoi pensieri più forti, l’uomo può ridiventare un barbaro di nuova specie. (…) Le conquiste della scienza positiva ci stanno conducendo o riconducendo a uno stato di barbarie che, per quanto laborioso e rigoroso, sarebbe ancora più temibile delle barbarie antiche, proprio perché più esatto, più uniforme e infinitamente più potente. Ritorneremo così all’era del fatto, ma del fatto scientifico (Paul Valéry, Introduzione alle Lettere persiane di Montesquieu, Gallimard, 1957)

“La critica agli ideali che hanno permesso all’intelligenza il piacere e l’occasione di criticarli”. Come non sentire in queste parole un’assonanza con l’invettiva dell’Università di Harvard contro la solitudine? Non è forse dalla solitudine, dalla meditazione profonda e faticosa e mirabile con la propria interiorità, che la Civiltà ha partorito le sue opere più feconde, attraversando secoli di storia e giungendo fino alle nostre mani ingrate? Mentre ora, con il marchio sicuro della verità scientifica, del sapere esatto di una ricerca, con tre sole parole vengono destituiti di significato secoli di produzione scritta e orale che di quella solitudine hanno fatto una complice fidata. Perché la solitudine “fa male”. E per questo va condannata.

Ma, esattamente com’è accaduto alla solitudine, anche la felicità sembra destinata a un’identica usurpazione. Perché, appena scaviamo sotto la superficie limpida di un luogo comune, siamo obbligati a chiederci: che cosa hanno in mente i professori di Harvard quando usano con nonchalance il sostantivo “felicità”? Una sorta di assenza di dolore, di atarassia dal retrogusto epicureo? Una voluttà corporea? Uno stato di impassibile quiete?

La “felicità” che hanno in mente i dotti periti in questione non è altro che la “felicità” che promette ogni spot televisivo: qui nascosta con perfidia dietro il più nobile vestito della “ricerca scientifica”. Entrambe implicitamente suggeriscono che l’acme della felicità umana si possa comprare od ottenere per vie semplici, spesso (guarda caso) di natura economica. Entrambe sacrificano l’approfondimento sull’altare degli slogan. Per fortuna che, in un’epoca dove il silenzio e la solitudine sono luoghi che approssimano un’utopia, per fortuna che c’è la scienza a ricordarci che siamo “felici”. Stavamo quasi per piangere.

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sabato 18 marzo 2023

Il bicchiere mezzo pieno

 

Noi facciamo “politica” in senso lato ogni volta che interagiamo con la società umana che abbiamo attorno.

In genere facciamo politica contro.

Impedire i licenziamenti, il bullismo, la gentrificazione, il cambiamento climatico, la transfobia, l’immigrazione indiscriminata, le troppe tasse, l’imperialismo yankee, il fascismo, il comunismo, la discriminazione, icchevotu…

Tutte cose che hanno un colpevole.

Putin Meloni Soros Schlein Renzi Nardella Casapound Biden Conti Salvini Trump il Papa Marx Adolf Hitler il sindaco di Montegruffoli Vittorio Feltri

E c’è la fantasia che se solo riuscissimo a togliere di mezzo quel colpevole, scomparirebbero tutte le suddette schifezze…

Il colpevole lo identifichiamo notandone ogni singolo difetto, che sia una strage o un errore di sintassi non importa; e censurando rigorosamente ogni cosa positiva che il colpevole possa aver fatto.

Automaticamente, se il colpevole è lui, noi siamo innocenti.

Ma dall’innocenza, passiamo alla potenza: siamo automaticamente eletti a giudici e a boia, tutto insieme.

Ed ecco che la politica, da Destra o da Sinistra o da dove volete voi, esiste solo in funzione del nemico da sterminare: ci sturiamo il naso, mentre il politico che abbiamo votato spara lo ZyklonB sui nostri nemici.

In tutto questo, riusciamo a prendere di mira un umano, un esserino alto manco du’ metri e destinato a crepare presto, che passa almeno un terzo della sua vita a fare sogni e incubi, e gran parte del resto suddiviso tra fame, paura e lussuria.

Ora, anch’io sono un esserino alto manco du’ metri, e tutto il tempo che risparmio a pensar male di altra gentaglia come me, è tempo risparmiato.

Anch’io ho pensato tanto male di altri, e quindi di riflesso bene di me stesso.

Ma adesso, mi sarei anche stufato.

Voglio pensare soprattutto a ciò che riesco a fare, a cogliere, assieme alle persone cui voglio bene e di cui mi fido, tutte le occasioni positive, a costruire e non a distruggere.

Guardare la vita, il Mondo, la Toscana (l’Italia, saltiamola che non ci interessa), il Comune, il Quartiere, il Gonfalone,

come un bicchiere mezzo pieno.

Costruiamo il mondo come se fossimo crepe nel cemento.



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venerdì 17 marzo 2023

Cosa possiamo ancora fare? - Alberto Castagnola

La fase attuale del sistema economico

Si moltiplicano le analisi che evidenziano una svolta sostanziale dell’economia capitalistica, non ancora pervenuta a livello politico e nei mezzi di comunicazione di massa. In italiano è uscito di recente un testo dal titolo molto attraente, “Karl Marx aveva ragione”, (1), dove si sostiene che il capitalismo ha bisogno di riforme profonde, altrimenti soccomberà. In effetti si susseguono enormi problemi collegati fra loro.

La crisi energetica, lo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti, il rischio di una guerra mondiale, l’attacco dei populisti e dei leader autoritari alla democrazia e molti altri se ne potrebbero aggiungere. E l’articolo continua: “Fino a poco tempo fa, per tutti questi problemi sarebbe stata proposta una sola soluzione: il mercato.

Oggi chi ci crede più? Soprattutto alla luce del grande moltiplicatore di tutte le storture del sistema: la crisi climatica.” Ora non possiamo pensare che analisi di questo genere possano rivelarsi risolutive a breve termine, però non possiamo ignorare il fatto che la crisi climatica è in fase di rapido peggioramento (2) e che la mancanza quasi assoluta di interventi e politiche degli Stati in materia ambientale potrebbe nel giro di pochi anni diventare inutile di fronte a fenomeni che abbiano superato “il punto di non ritorno” dei quali gli scienziati parlano sempre più spesso, oppure  finora totalmente ignorati, come l’innalzamento del livello dei mari e le mutazioni avvenute nelle emissioni di metano.

Quali sono oggi le inizative possibili e concrete.

In linea generale sono almeno due i processi che potrebbero prendere forma nella fase attuale del sistema capitalistico dominante. La prima appartiene ancora integralmente a questo sistema, e comprende una molteplicità di politiche e azioni concrete che cercano di attenuare le difficoltà che le economie incontrano e di ridurre gli effetti negativi della crisi climatica in pieno sviluppo. Le strutture economiche sarebbero chiamate a modificarsi per tenere conto dei principali fenomeni indotti dal clima, senza però intaccare in alcun modo le logiche di fondo e strutturali del sistema dominante.

Questo tentativo viene effettuato periodicamente in sede IPCC dove si parla di mutazioni e adeguamenti, ma solo marginali e spesso, nella realtà, completamente trascurati per rispondere alle pressioni delle attività economiche in atto. In termini più generali si parla di “sostenibilità”, indicando in tal modo una serie di piccoli adattamenti alle modificazioni prodotte dagli andamenti climatici, senza intaccare in alcun modo le logiche di fondo del sistema economico complessivo.

Il secondo processo, in pratica ancora non calato nella realtà, descrive gli interventi, su una realtà socioeconomica ed ecologica in via di rapido peggioramento, che diventano sempre più urgenti e difficili da realizzare. Anzi questo tipo di processi è ormai costellato da analisi e previsioni che prendono sempre più in considerazione la pratica impossibilità di realizzare gran parte delle iniziative in tempi utili per modificare radicalmente gli andamenti climatici. In altri termini, aumentano le analisi che prendono in considerazione la pratica impossibilità di intervenire e suggeriscono solo misure dirette a contenere le perdite ambientali  e il numero delle vittime.

A tale proposito citiamo la copertina di un volumetto di Jonathan Franzen, stampato già nel 2019, intitolato “E se smettessimo di fingere?”  e che in copertina continua:  “Ammettiamo  che non possiamo più fermare la catastrofe climatica”  e ”L’apocalisse climatica sta arrivando.

Per prepararci ad affrontarla abbiamo bisogno di ammettere che non possiamo prevenirla”. ( 3 ) E da allora sono passati altri quattro anni. In effetti anche interventi di pura sopravvivenza su scala planetaria richiederebbero parecchi anni per essere progettati e attuati, in particolare nei paesi con minori risorse e capacità, ma che rappresentano oltre due terzi della attuale popolazione mondiale.

Di quali iniziative possiamo parlare

Vediamo ora in concreto di quali forme di transizione possiamo realisticamente parlare. In primo luogo è interessante sottolineare che di recente si stanno moltiplicando le analisi che evidenziano i limiti del sistema capitalistico in termini molto radicali, sottolineando cioè  i limiti e le carenze che mostra nel suo funzionamento (non i danni che provoca) e delineano un futuro molto limitato per la sua sopravvivenza.

Ne indichiamo solo alcune, più stimolanti e concrete. L’articolo “Karl Marx aveva ragione”, già citato,  afferma che il capitalismo ormai  funziona male e i suoi problemi peggiorano con la crisi climatica, a sua volta definita “il grande moltiplicatore di tutte le storture del sistema”. In particolare, cosa ne pensa il fondatore del più grande fondo speculativo del mondo e titolare di un patriminio stimato in 26 miliardi di dollari, Ray Dalio?:  “Esagerando con le cose buone, si  rischia di farle implodere. Se queste cose non si trasformano muoiono”, “Il capitalismo ha bisogno di riforme profonde.

Altrimenti soccomberà. E sarà giusto così” . E in effetti ci sono troppe cose che non funzionano, l’inflazione aumenta il divario tra ricchi e poveri, la quasi totalità degli obiettivi climatici non è stata raggiunta e la politica non riesce a riparare le continue crepe del sistema. E perfino i grandi gruppi discutono dell’opportunità di privilegiare finalmente gli interessi della collettività rispetto a quelli degli azionisti.

“ Ma ormai le debolezze del sistema sono così evidenti: la globalizzazione è fuori controllo, la ricchezza finsce quasi per intero in tasca al 10% più ricco della popolazione, il consumo irresponsabile delle risorse rovina il pianeta e la finanza si abbandona a eccessi continui “.

“Fino a poco tempo fa, per tutti questi problemi sarebbe stata proposta una sola soluzione: il mercato. Oggi chi ci crede più?  Inoltre di idee per un ordine economico più giusto e sostenibile ne circolano molte e arrivano dagli schieramenti ideologici più diversi. In sintesi si può dire che affermano la necessità di “meno mercato, più Stato, meno crescita”.

Il testo riporta anche  una affermazione di un economista che in passato era il capo dei consulenti economici  del presidente Bush: “Per avere successo nel lungo periodo un sistema economico deve migliorare il tenore di vita del maggior numero di persone possibile. Non mi pare che il capitalismo attuale abbia ampi margini per aumentare il benessero collettivo”. E ancora, secondo Kohei Saito, un economista giapponese, “Il collasso del pianeta potrà essere fermato solo da un sistema postcapitalistico senza più crescita, in cui la produzione rallenta e la ricchezza è redistribuita in modo mirato”.

 

“L’appello di Saito per una cultura marxista della decrescita, con orari di lavoro ridotti e più attenzione a lavori meno prientati al profitto e con maggiore utilità sociale, come l’assistenza agli anziani e ai malati, ha centrato lo spirito dei tempi “. Secondo Mariana Mazzuccato, ora all’University College di Londra, una esperta molto ricercata, “Da solo, il mercato non ha nessuna speranza di vincere le sfide del ventunesimo secolo, soprattutto quella della crisi climatica. Per arrivare a una economia a emissioni zero bisogna cambiare il sistema economico”.  “Ci si chiede perchè i soldi escano fuori di colpo solo nelle emergenze, mentre per questioni sociali importanti, come la sanità e l’ambienta, sembra sempre tutto impossibile perchè bisogna tenere sotto controllo il debito pubblico”.

Nel testo c’è anche un’altra osservazione: “Solo che, se il pianeta continua a riscaldarsi a questo ritmo, non è chiaro per quanto tempo ancora la rinuncia alla crescita possa essere considerata una scelta volontaria?” E questa è una domanda cruciale, alla quale tutti dovremmo rispondere nel giro di pochi mesi. Il testo fornisce una prima risposta, quella dei fratelli Freitag, una azienda che produce borse e portafogli in 25 paesi: “Il turbocapitalismo non riesce più a offrire le risposte giuste e  produce danni eccessivi: le cose possono funzionare anche ad un ritmo più lento, più equilibrato e più sano per tutti”.

Il testo, infine,  descrive le posizioni di due studiosi, Shafik e Redecker, che suggeriscono ulteriori percorsi alternativi. In conclusione, sembra si possa affermare che le critiche al sistema dominante si stanno moltiplicando, mentre le ipotesi di alternative radicali sono forse ancora alla stato di suggestioni, sicuramente valide ma ancora non entrate a far parte di una realtà alternativa effettiva, di cui però è sempre più elevato il grado di realismo.

Sempre al fine di inserire le ipotesi di evoluzione in un quadro di massimo realismo, sembra opportuno citare molto sinteticamente quanto riportato in due recentissimi articoli apparsi in italiano nel gennaio 2023, “Il collasso che sta per arrivare” e “Il ghiacciaio del destino”, i titoli sono impressionanti, il contenuto ancora di più.

Nel primo, apparso su “Le Scienze”, (4) si descrivono i risultati di due spedizioni di ricerca sulla piattaforma di ghiaccio Thwaites in Antartide, che hanno rivelato che potrebbe sgretolarsi in meno di un decennio. Si tratta di una massa di ghiaccio grande due terzi dell’Italia, formata da una piattaforma galleggiante, da un ghiacciaio in parte marino, in parte sulla terraferma e da una parte completamente su base terrestre. In precedenti esplorazioni si era già scoperto che l’intera area aveva uno spessore di ghiaccio di circa 4000 metri che poggiava su un antico fondo oceanico a 2500 metri sotto il livello del mare.

Nel 1978 un glaciologo aveva già lanciato un primo allarme, circa l’eventuale scioglimento dei ghiacci nella regione. Le ultime spedizioni, ancora in corso, hanno rivelato una situazione già in parte compromessa. L’articolo è molto lungo, ed è correlato da mappe, grafici, immagini e non sono sicuro di aver compreso tutto quanto vi è accuratamente analizzato. In sintesi, tutti questi ghiacciai sono in lento movimento a causa del riscaldamento globale, ma le preoccupazioni immediate riguardano la piattaforma galleggiare, che è percorsa da fratture che si stanno allargando e che quindi potrebbe sbriciolarsi in un breve volgere di anni.

Ma la sua distruzione non bloccherebbe più la parte del ghiacciaio in parte marino e in parte a base terrestre, che potrebbe accelerare il suo movimento verso il mare e non ostacolerebbe più la parte più interna del Thwaites. Secondo gli scienziati l’intero processo potrebbe svolgersi entro un decennio e non sono escluse possibili accelerazioni.

Ma la parte più proccupante riguarda lo scioglimento di ghiacciai di questo spessore nel mare: gli oceani potrebbero aumentare da un minimo di 65 centimetri fino a tre o cinque metri, con le conseguenze che possiamo solo immaginare su tutti gli insediamenti umani sulle coste, su interi paesi già oggi sotto il livello del mare, sull’intera pianura padana già oggi in difficoltà per la siccità e la ridotta portata del Po. Nel secondo articolo, apparso su “Internazionale” (5), e riferito alle stesse spedizioni, già nel titolo viene descritta la reazione a catena che  farà salire di più di tre metri il livello dei mari, anche se gli scienziati stanno cercando di capire quando tutto ciò succederà. Nel testo si forniscono elementi storici sull’intera vicenda, si descrive lo scioglimento dal basso che caratterizza i ghiacciai e li mette in movimento, si parla delle indicazioni raccolte da un robot sottomarino immerso sotto le pattaforme. Gli autori poi descivono i rapporti con l’Antartide che hanno numerosi paesi, sia in termini di ricerche che militari; descrive le esperienze di altri ricercatori nell’intera regione polare; evidenzia il riscaldamento dell’intera regione polare non dipendente dai meccanismi attuali dovuti alla anidride carbonica; indica in quali città si avranno i peggiori effetti del collasso previsto nella zona; infine intervista un esperto che afferma:

”Per quanto riguarda l’innalzamento del livello dei mari non ci sono dubbi: la situazione è fuori controllo”. I due articoli si completano a vicenda  e dovrebbero essere studiati e compresi a fondo da quanti sono realmente preoccupati dagli andamenti climatici globali e per la pratica mancanza di provvedimenti adeguati da parte della stragrande maggioranza dei governi.

E’ ancora possibile agire, quali i limiti e i vincoli

In questa situazione, è ancora possibile agire o impegnarsi per una società diversa? In effetti, diventano stimolanti e  attraenti tutti i progetti e i percorsi che abbiano come prospettiva la completa sostituzione del capitalismo con una società totalmente diversa, ma che in primo luogo si prende cura del Pianeta e della urgente necessità di ridurre tutti gli inquinamenti e di eliminare o trasformare tutte le attività produttive e tutte le forme di utilizzazione delle risorse naturali che incidono sugli equilibri del pianeta e della sua atmosfera. Se queste prospettive vengono giudicate necessarie e realizzabili, allora delineare processi  verso un assetto completamente nuovo diventa un lavoro concreto e urgente.

Naturalmente, mentre le catastrofiche prospettive dei danni climatici, che incalzano ogni mese e ogni anno più velocemente, lo richiederebbero, nel sistema dominante   non sono certo maturi i tempi per un qualche ricorso alle logiche di fondo della riduzione della crescita. Quindi la strada percorribile è quella degli specifici interventi subito utili (anche se modesti e parziali), restando però attenti a dare la precedenza a quelli che, sia pure marginalmente, in qualche modo sono diversi dalla logica della crescita illimitata. 

Cosa possiamo fare oggi: condizioni, vincoli, grado di realismo, potenzialità

Le misure finora adottate ed etichettate come interventi per l’ambiente, sono poche e poco incisive, ma soprattutto rientrano nelle norme di una maggiore “sostenibilità”. Tendono cioè a migliorare superficialmente il sistema capitalistico, senza incidere sui suoi meccanismi sostanziali. Possiamo qui ricordare i vari Green New Deal adottati da qualche organizzazione internazionale ed europea, le misure che adottano dei miglioramenti a fini ambientali (molto pubblicizzati) ma che non modificano le logiche di fondo dell’economia dominante, le poche concessioni ai risvolti ambientali concessi da enti locali e anche da alcuni governi, e tutte le iniziative di base che hanno obiettivi di tutela ambientale, ma che non hanno la portata e la forza politica di incidere sulla struttura portante del sistema economico.

Vi sono tuttavia una serie di iniziative e attività già in corso, sia decise dagli Stati, sia avviate da  iniziative di base, espresse direttamente dalle popolazioni, ovviamente con una pluralità di caratteristiche e di finalità, che  possono essere prese in considerazione e utilizzate per i nuovi obiettivi:

1.      Sono sempre più numerose le affermazioni di chi ritiene ormai impossibile intervenire sugli andamenti climatici se non per rallentare o modificare marginalmente i fenomeni in corso.

2.      L’andamento del clima è sempre più complesso, esteso e veloce; si moltiplicano gli eventi estremi, aumentano senza soste il riscaldamento dei mari e lo scioglimento dei ghiacciai, si hanno le prime indicazioni di aree di siccità in aumento e di scarsità gravi di acqua potabile, nelle zone insulari e in molte zone costiere è sensibile l’aumento del livello dei mari.                      

3.      Gli scienziati individuano sempre nuove trasformazioni in atto, come nel caso delle emissioni di metano o dell’espansione delle aree di siccità.

4.      I tempi disponibili per eventuali interventi massicci e radicali per modificare il clima si accorciano sempre più, forse sono ancora disponibili otto-dieci anni o forse meno. In ogni caso ancora non vi è traccia di svolte importanti in questo campo a livello dei governi e quindi ogni giorno che passa si riducono le opportunità di cambiamenti radicali.

5.      In altri termini, forse possiamo già parlare solo di interventi emergenziali diretti a salvaguardare il maggior numero possibile di vite umane, oppure di interventi concentrati solo nelle regioni esposte a rischi maggiori al fine di “spostare” intere popolazioni.

6.      Infine, non sono certo da escludere, anche in paesi con un certo livello di industrializzazione, il moltiplicarsi di situazioni gravi causate da meccanismi climatici, e che richiedano consistenti interventi di urgenza anche internazionali.

Se queste premesse sono valide, le pagine seguenti descrivono solo delle iniziative che possono sia incidere sul clima che salvaguardare le popolazioni, affidate al lavoro e all’impegno di chi abita determinate zone e che presentano delle caratteristiche tecniche e fisiche che le rendono realizzabili per opera delle relative popolazioni locali.  Sono anche concepite per permettere una maggiore concentrazione di interventi in tempi stretti per fronteggiare gli effetti di eventuali “eventi estremi”, qualora il clima sempre più dannoso subisse delle accelerazioni, già verificatesi negli ultimi anni e che ormai  sembrano diventare sempre più probabili.

Prime proposte di interventi settoriali a scala nazionale

In questa situazione indicare delle azioni e delle attività di contrasto degli andamenti climatici ormai indiscutibili è una operazione complessa, poiché si può essere convinti che le mutazioni in corso siano ormai inarrestabili e insieme di dover comunque avviare o moltiplicare delle attività che possono non incidere sui fenomeni negativi in corso o essere completamente assorbite dai peggioramenti in corso.

Inoltre è particolarmente difficile indicare degli obiettivi  quando di fatto non si può sperare in una inversione di tendenze ormai ben affermate. D’altra parte, a livello sociale non sono ancora emersi la molteplicità di gruppi di pressione capaci di incidere sulle attività di quasi tutti i governi e di un ristretto gruppo di potenti transnazionali.

Quanto segue, pertanto, è coscientemente un tentativo (si spera non disperato) di indicare dei campi di azione dove già esistono da tempo soggetti attivi significativi e dove potrebbero coagularsi delle forze sociali molto diffuse, non appena sarà riconosciuta in un numero sufficiente di paesi l’assoluta necessità di cercare di invertire le tendenze climatiche o almeno di ridurre i loro effetti peggiori. Infine, non si è trascurata, nella scelta dei settori prioritari d’intervento, il vantaggio che si potrebbe avere, nel caso di alcuni eventi climatici estremi particolari, – carenze di acqua potabile, incendi, alluvioni, ecc. –  una rete operativa già funzionante e collaudata, capace di realizzare interventi che vadano anche al di là delle urgenze.

A. Interventi idrogeologici e riduzione sprechi di acqua

Controllo degli argini dei principali corsi d’acqua, ripristino dei percorsi originali, verifica della importanza del “cuneo salino”, creazione di centri di controllo automatici nei punti cruciali dei percorsi, potenziare i centri di analisi dei rapporti tra scioglimento dei ghiacciai e livello della portata dei fiumi, creazione, sul modello cinese, di un gruppo di persone accuratamente formate, responsabili della sorveglianza di ogni tratto dei fiumi principali, per prevenire esondazioni e cambiamenti improvvisi di percorso.  Misure analoghe per i laghi e in genere dei bacini idrici artificiali o a monte delle dighe. Controlli sui punti di prelievo di acqua autorizzati e illegali. In caso di siccità crescente, verificare i prelievi per usi agricoli e i consumi eccessivi delle abitazioni.

Sui ghiacciai alpine e appenninici, misurare con continuità il grado di scioglimento delle nevi e dei ghiacci. Controllare rigidamente gli impianti per la produzione di neve artificiale.

Per gli acquedotti, effettuare subito tutti gli investimenti necessari per evitare perdite nella fase del trasporto dell’acqua. Controllare tutti i punti di distribuzione dell’acqua nei centri ubani di ogni dimensione. Controllare di frequente i consumi idrici negli impianti industriali e nelle abitazioni ed eventualmente introdurre misure per limitare i consumi e ridurre gli sprechi. Effettuare periodicamente campagne per ridurre gli sprechi al momento del consumo negli impianti, negli uffici e nelle abitazioni. Controllare con continuità le navi di ogni dimensione, specie se dirette all’estero, e i porti di attracco.

Sostenere e potenziare i centri per studi e ricerche riguardanti il settore idrogeologico.  

B. Riforestazione

 I processi di deforestazione sono in uno stato avanzato nella maggior parte dei paesi e il tempo di una sparizione pressochè totale delle zone coperte da alberi si riduce continuamente. Secondo il Global Forest Resouces Assessment della Fao del 2020 le foreste ricoprivano circa il 31% delle terre emerse, circa 4 miliardi di ettari. Più di metà del terreno ricoperto da foreste nel mondo appartiene a soli sei paesi, Russia, Brasile, Canada, Stati Uniti, Congo e Cina. Il 45% delle foreste è nella fascia tropicale, con le due più grandi foreste pluviali al mondo, quella dell’Amazzonia e quella della Repubblica Democratica del Congo.

Tra il 1990 e il 2020 sembra che il ritmo di deforestazione stia diminuendo: il primo decennio si deforestavano circa 8 milioni di ettari di foreste ogni anno, dal 2000 al 2010 se ne deforestavano circa 5 milioni di ettari, dal 2011 al 2020 solo 4,74 milioni. L’andamento della deforestazione è in aumento in Africa, Il Brasile guida  la classifica dei paesi che hanno registrato la più alta perdita annua netta di di superficie forestale, tra il 2010 e il 2020, seguito dalla R.D. Del Congo, Indonesia, Angola, Tanzania, paraguay, Myanmar, Bolivia e Mozambico.  Nella sola Amazzonia dall’agosto 2020 al giugno 2022 sono stati distrutti 13.000 chilometri quadrati di foresta pluviale, quella più antica e mai sfiorata da attività umane, con un aumento del 22% rispetto all’anno precedente. 

Si tratta di un ritmo di deforestazione preoccupante, oltre che in termini quantitativi anche qualitativi, per la perdita di aree tra le più ricche di biodiversità del pianeta, e che tra l’altro non prende in considerazioe lo stato di salute di foreste degradate a causa di sovrasfruttamento, inquinamento, disastri originati da  eventi climatici, incendi o conflitti.  Inoltre vi sono delle iniziative che si propongono di “riparare” le emissini eccessive di anidride carbonica: ad esempio in Nuova Zelanda il governo si è posto l’obiettivo  di piantare un miliardo di alberi entro il 2028; in Italia, in Emilia-Romagna, il progetto “Mettiamo radici per il futuro” ha portato alla piantumazione di 587.OOO nuovi alberi in aree pubbliche e private. Però si tratta purtroppo ancora di iniziative di piccole dimensioni rispetto alla necessità urgente di riostituire le foreste dell’intero pianeta.

Inoltre mentre in Europa  le foreste  erano formate in origine da faggi e querce, molti boschi sono stati ripiantati con pecci e pini. Ma l’aspetto che preoccupa di più gli esperti di foreste è la sempre crescente frequenza degli eventi meteorologici estremi, incendi, tempeste violente, infestazioni di insetti e soprattutto il caldo eccessivo e la siccità che possono peggiorare gli effetti di tutto il resto. (6)

C, Moltiplicazione delle comunità autonome

In Italia, come in numerosi altri paesi, negli ultimi anni si sono moltiplicate le comunità di base, cioè la intensificazione delle relazioni e degli scambi all’interno di gruppi di persone che decidono di modificare i loro consumi e le loro attività, economiche e culturali e di svolgerli in misura crescente al di fuori del mercato di tipo capitalistico.

Si può trattare degli abitanti di un piccolo comune, oppure di parti di quartieri di città più grandi, o ancora di una intera vallata o di un’area omogenea impoverita dalle emigrazioni. Ciò che conta è l’aumento delle persone coinvolte e delle realzioni che si stabiliscono di comune accordo, nonché la sperimentazione continua di nuove attività sempre più autonome rispetto al contesto sociale ed economico di partenza. In Italia tali comunità superano ormai le 600 e una recente ricerca le ha censite secondo alcune categorie di attività prevalente

§  Salvaguardia e valorizzazione di beni comuni

Ogni comunità locale, enti locali e associazioni di base in primo luogo, devono individuare e analizzare i beni comuni che incidono su ogni territorio. Una prima lista: mura antiche (etrusche, romane, medievali) strade romane, scavi e giacimenti, torri medievali,  cattedrali, chiese, conventi, palazzi municipali, palazzi nobiliari e storici, statue e monumenti, musei e collezioni di arte,  fontane e ville, feste, giochi e processioni tradizionali, produzione e utilizzazione di strumenti musicali, produzioni artigianali, imbarcazioni tradizionali,  strutture antiche industriali e tecnologiche, mari e isole,  valli e monti particolarmente attraenti, centri di produzione di cibi tipici ecc. (7)

L’italia è particolarmente ricca di tutto ciò, però è necessario distinguere tra beni tradizionalmente curati  e celebrati periodicamente e beni che sono in stato di abbandono o scarsamente noti. Moltissimi enti locali curano annualmente gli eventi per cui sono noti, ma nel resto dell’anno una parte delle loro ricchezze è trascurata o addirittura in via di sparizione. Inoltre in molti luoghi i giri turistici si limitano a mostrare rapidamente i monumenti più noti e trascurano completamente intere aree delle antiche culture

Considerazioni finali

Il presente articolo ha molti limiti, sia di qualità che di contenuti, ma è stato pensato come una proposta, o al massimo come una provocazione, rivolta alle organizzazioni di base che hanno ancora l’intenzione e la forza di agire in un contesto sociale e politico molto difficile, e in un’epoca foriera di  gravissime difficoltà e immani disastri. E’ forse solo una ipotesi di reazione, per evitare di seguire percorsi ormai superati dagli eventi e immaginare invece delle alternative realistiche e urgenti. In altre parole, si può dare per scontato che governi e partiti non abbiano più nemmeno il tempo di reagire alla catastrofe in corso, mentre tra le associazioni di base ne esistono un certo numero ancora capace di intuire le alternative possibili e di essere pronta a modificare i propri comportamenti per fronteggiare un futuro già gravemente compromesso. L’articolo è quindi una sollecitazione  (una provocazione, una sfida). I contenuti suggeriti possono essere completamente modificati o sostituiti, i tempi delle possibilità (delle finestre di opportunità) sono purtroppo immodificabili.

Note

1.      AA.VV. “Karl Marx aveva ragione, “Internazionale” n. 1493, del 20 gennaio 2023, pag.40-47

2.      Tim Jackson, “Prosperità senza crescita”, Edizioni Ambiente, 2017

3.      Jonathan Franzen, “E se smettessimo di fingere?” Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2020

4.      Douglas Fox, “Il collasso che sta per arrivare”. Le Scienze, gennaio 2023, pag. 42- 52

5.      AA.VV “Il ghiacciaio del destino”, “Internazionale” n. 1493, 5 gennaio 2023, pag.38-47

6.      Pievani e Varotto, “Il giro del mondo nell’Antropocene”, una mappa dell’umanità del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2022, pag. 153-163

7.      Ugo Mattei, Beni comuni, un manifesto”, Edizioni laterza, Roma-Bari, luglio 2011  

da qui

giovedì 16 marzo 2023

La dimensione surreale della politica sarda – Omar Onnis

 

Mentre il mondo va come va, la Sardegna affronta difficoltà strutturali incancrenite e sempre più gravi. Ma la nostra politica istituzionale vive in una dimensione parallela, che col nostro mondo reale ha sempre meno connessioni.

Non che i nostri mass media siano meglio. Oggi intravvedo sull’edizione online dell’Unione questo titolo:



Siccome so come funziona l’economia sarda, non ho manco bisogno di leggere quello che recita il sommario dell’articolo (la scritta subito sotto il titolo). Da anni la voce principale dell’export sardo sono i prodotti petroliferi. È un elemento della nostra debolezza economica ed è uno dei motivi dell’attribuzione alla nostra condizione storica dell’aggettivo “coloniale”.

Se pensate a come vanno le cose sul pianeta, tra crisi sempre più devastanti e di dimensioni globali, con quella ecologica-climatica in cima alla classifica, non c’è bisogno di specificare ulteriormente quanto questo dato sia ormai grottesco. Giusto i nostri mass media possono ancora presentarla come una buona notizia o come una cosa sensazionale.

Invece è una delle tante questioni aperte che bisognerebbe affrontare con spirito di urgenza, mettendo in moto le migliori energie e tutta l’intelligenza collettiva di cui disponiamo. E dovrebbe occuparsene, per definizione, la politica.

Di cosa si occupa la politica sarda, a cosa pensa, cosa fa? Ne parlo spesso, ma a volte è forse più istruttivo esporre degli esempi concreti.

Prendo da Facebook quello che scrive sul suo profilo Maurizio Onnis, sindaco di Villanovaforru:



Ora, io su quei geni del male dei Riformatori sardi penso di aver detto pressoché tutto. Non riesco nemmeno più a etichettarli dal punto di vista antropologico. Credo che meriterebbero degli studi approfonditi, di natura interdisciplinare (ivi compresa la fisica quantistica) e a livello internazionale.

Che abbiano ancora un loro residuo consenso è davvero incredibile. O lo sarebbe se non sapessimo come vanno queste cose, in Sardegna. Ma l’aspetto sorprendente è la loro faccia di bronzo, la sfacciataggine e la sicumera con cui pontificano e intervengono sulla scena pubblica. Come facciano a non scoppiare a ridere loro stessi, quando se ne escono con queste dichiarazioni, è davvero straordinario. È ingiusto che siano sistematicamente ignorati dall’Academy hollywoodiana.

La pretesa che lo Stato italiano e uno qualsiasi dei suoi governi prendano sul serio quella scempiaggine giuridica dell’insularità in costituzione è semplicemente patetica. O ridicola. Ed è patetica, come sottolinea Maurizio Onnis, la sola idea che le sorti della Sardegna e di chi la abita debbano dipendere dalla benevolenza dell’Italia. Idea condivisa da tutto l’arco politico rappresentato in Consiglio regionale, beninteso.

Perché la magagna vera è questa. Se fossero solo i mitici Riformatori, tanto quanto. La triste verità è che tutta la nostra politica ormai è costantemente in modalità “cialtronaggine” fissa sull’ON.

Sbirciamo un po’ nel campo del cosiddetto centrosinistra (quelli che si presenteranno nelle prossime tornate elettorali come la risposta intelligente alle destre conclamate; ossia, quelli che saprebbero fare meglio le porcherie che questi fanno maldestramente). Francesca Ghirra è una deputata sarda a Roma, paracadutata dal consiglio comunale di Cagliari direttamente a Montecitorio, evidentemente per meriti sul campo che però sono noti solo ai boss del PD. Tra tutti i problemi macroscopici, cronici e in via di peggioramento di cui soffre la Sardegna, la scelta era ampia. Poteva dedicare la sua attenzione a uno qualsiasi tra i più evidenti. Anche solo uno. Tanto sono enormi, uno alla volta basta e avanza.

Su cosa fa un’interrogazione alla Camera la deputata Francesca Ghirra? Su questo:




La Sardegna conosce bene il problema della siccità e, con i tempi che corrono, non è una faccenda da prendere sotto gamba. Si dà il caso, tuttavia, che oggi non sia un problema specificamente sardo. Anzi, a dirla tutta, è ormai un problema di portata ampia, soprattutto a cavallo della catena alpina e in generale in Europa. Potremmo aggiungere che proprio la Sardegna, in realtà, si trova attualmente in una condizione di relativa prosperità idrica. Con qualche problema da risolvere e diverse cose da migliorare, certamente. Ma diciamo che, sia rispetto al passato sia rispetto – soprattutto – ad altri territori dello Stato italiano, non è certo quella messa peggio.

Il Nord Italia, invece, si trova oggi in una situazione che definire drammatica non rende l’idea. La siccità invernale sta diventano un fenomeno ricorrente, il che comporta che non si rinnova stagionalmente la riserva d’acqua imprigionata dai ghiacciai (ormai in via di estinzione), né quella accumulata con le nevicate. La scarsa pioggia non arriva a rimpinguare le falde. I fiumi sono al minimo, compreso il PO. Fattore che mette a rischio sia l’approvvigionamento idrico per uso civile, sia quello per uso zootecnico e industriale. Gli allevamenti intensivi, di cui il settentrione italiano è costellato, consumano una quantità d’acqua impressionante. E così l’industria. Non c’è bisogno di precisare cosa significhi non avere più a disposizione le quantità di H2O necessarie, fino a ieri sostanzialmente illimitate.

Non esiste, nelle regioni settentrionali italiane, una cultura dell’accumulo e delle riserve idriche all’altezza del bisogno, perché non se n’è mai sentita l’esigenza. In più l’aridità crescente dei terreni, compresi quelli boschivi, rischia di diventare una sorta di bomba incendiaria innescata. In aree in cui non si è abituati a questo tipo di evenienze; in cui non c’è nemmeno la coscienza diffusa, a livello di senso comune, di cosa sia un’emergenza idrica prolungata o il pericolo dei vasti incendi boschivi. La politica e i media, in Italia del nord, per tutto l’inverno si sono occupati dell’allarme neve. è vero. Ma per gli effetti sulla stagione sciistica. Cos’altro c’è da aggiungere? Se la Sardegna non ride (se non per non piangere), l’Italia non è che si sbellichi dalle risate manco lei.

Di fronte a tutto ciò, mi chiedo che senso abbia mandare persone dall’isola a Roma se poi non hanno idea né della realtà da cui provengono né di quella in cui sono state paracadutate. Posto che abbia senso, come sottolineava Maurizio Onnis nel suo post, aspettarsi che i problemi della Sardegna, veri o presunti che siano, siano risolti oltre Tirreno. Assunto ancora ben radicato nelle mentalità autocolonizzata della nostra politica istituzionale e di molta parte della nostra classe “dirigente”, ma non per questo meno ridicolo.

Siamo in un mare di guai. E chi pretende di condurre la nave sta ascoltando tutto rapito il canto delle sirene. O, più probabilmente, ha abbandonato il timone ed è sottocoperta, intento a vuotare le tasche dei passeggeri.

da qui