Prima che il dibattito pubblico slitti via verso qualche nuovo scandalo estivo, forse è importante mettere agli atti una precisazione. Si parla di diritto alla casa e occupazioni di immobili disabitati, a partire da un’affermazione di Ilaria Salis su un canale social. Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia (la corporazione dei proprietari immobiliari), ha risposto naturalmente che quella di Salis è una “rivendicazione orgogliosa di una serie di reati”, definendo poi “eversiva” la proposta di depenalizzare le occupazioni. Simone Tulumello, geografo siciliano attivo a Lisbona, sul Manifesto ha spiegato che siccome da quarant’anni in Italia non si costruiscono case popolari, le occupazioni oggi sono l’unica politica per la casa esistente. Marco Travaglio ha risposto pubblicando l’indirizzo del giornale, per dire “andate a occupargli la sede” (come quando fai notare che il governo viola il diritto di asilo, e qualcuno ti risponde “ospitali a casa tua”). Una giurista su Domani ha ribadito che le occupazioni abitative sono sempre illegali e illegittime; su Repubblica Concita De Gregorio ha recuperato la politica delle “case minime” del sindaco democristiano di Firenze nel dopoguerra, e Luigi Manconi ha menzionato delle sentenze della Corte Costituzionale che tutelano il diritto alla casa. Un buon resoconto del dibattito lo ha fatto Isaia Invernizzi sul Post, concludendo con la domanda: occupare è “accettabile”?
Ma questi dibattiti mediatici spesso
finiscono per confondere ancora i termini della questione. Ricordiamo che ad aprile
2020, quando migliaia di persone non potevano pagare l’affitto e rischiavano di
finire per strada, Confedilizia tirò fuori una campagna per
far ripartire gli sfratti, basata sull’immagine di un povero proprietario che
si era inciso sul braccio a sangue le parole “non sulla mia pelle”. Nel 2022 la
stessa organizzazione propose al governo di legalizzare
gli sfratti extragiudiziali, cioè di permettere ai proprietari di
cacciare inquilini o occupanti con le proprie mani, senza passare per i
tribunali. Subito dopo la proposta di Confedilizia, un padrone
di casa di Castel Gandolfo aveva rapito e torturato il suo
inquilino moroso, insieme a due sgherri. Permettere ai proprietari di farsi
giustizia da soli non è ben più eversivo che lasciare in pace chi si è adattato
ad abitare in un’immobile abbandonato? Non è una “rivendicazione orgogliosa di
una serie di reati”, molto più problematica che legalizzare chi ha trasformato
in casa un immobile abbandonato? Spaziani Testa mi minacciò di querela per aver
accostato la loro proposta al caso di Castel Gandolfo. Ma non è che uno dei
continui tentativi di affossare il dibattito sulla catastrofe degli sfratti e
degli sgomberi, per portarlo al “problema delle occupazioni”.
Il problema non sono le occupazioni, bensì
sfratti e sgomberi. Non solo perché, come scrive Tulumello, in
molti paesi occupare le case non è affatto un reato (in altri lo è diventato di
recente; e
quasi ovunque chi occupa una casa abbandonata ha
dei diritti); ci
sono anche decine di risoluzioni internazionali, trattati Onu, delibere
delle commissioni sui diritti umani, che autorizzano esplicitamente le
occupazioni di immobili abbandonati, condannando invece sfratti e sgomberi
ingiustificati. L’Italia si sta discostando sempre di più dalla
legalità internazionale, che considera gli sgomberi una violazione dei diritti
umani; non l’occupazione. Le associazioni che difendono gli interessi della
grande proprietà, e delle banche che si stanno accaparrando migliaia di
immobili, sanno bene che il diritto alla proprietà è limitato dal suo valore
sociale, e che la speculazione immobiliare sta distruggendo le vite di decine
di migliaia di persone. Per questo costruiscono il panico su immaginari
“racket” o “mafie delle occupazioni”, connettendo eventi disparati o
inventandoli di sana pianta per presentarsi come vittime di occupanti violenti,
inquilini morosi o “associazioni a delinquere finalizzate all’occupazione di
immobili” (come nella sentenza
contro gli attivisti per la casa del Comitato
Giambellino-Lorenteggio di Milano).
L’obiettivo è creare l’allarme sociale
verso questo “problema”, perché diventi impossibile discutere del problema
vero, cioè la mancanza di case. Sanno bene che molti esperti di questioni
urbane considerano depenalizzare l’occupazione come uno dei modi con cui
affrontare la crisi. Decriminalizzare l’occupazione degli immobili abbandonati
(ovviamente non di quelli abitati!) da una parte aiuterebbe a mitigare la
penuria di alloggi, impedendo ai proprietari di tenere case vuote in zone ad
alta pressione immobiliare: lo ha spiegato in un podcast il geografo Manuel Aalbers, il
principale esperto europeo di finanziarizzazione dell’abitare; dall’altra,
contribuirebbe alla decrescita urbana, cioè alla riduzione del cemento, dei
consumi e della spesa pubblica, come ha scritto Claudio Cattaneo in
un libro pubblicato da Routledge, Housing
for Degrowth. L’occupazione, scrive, può “offrire alloggi dignitosi a
costo zero, fermare la speculazione immobiliare, e, come conseguenza, redistribuire
i diritti di proprietà, ottenendo la decrescita in termini monetari e
materiali”. Ma la grande proprietà vuole proprio alimentare la crescita urbana,
liberalizzare ancora il consumo di suolo e di cemento, rafforzare la
distribuzione ingiusta della proprietà, renderci
la vita impossibile, insomma, per monopolizzare la necessità vitale di
avere una casa. Per questo devono rendere più impraticabile l’occupazione, e
più facili gli sgomberi.
Una risoluzione del Parlamento europeo del
21 gennaio 2021 ha chiesto a tutti gli stati dell’Unione di porre rimedi
all’accaparramento di case da parte di banche, gruppi finanziari, speculatori,
che sta facendo crescere il numero dei senzatetto in tutta Europa. Il
parlamento Ue ha chiesto espressamente ai governi di garantire che tutte le
persone abbiano una casa dignitosa, di evitare in ogni modo possibile che le
persone rimangano senza casa, di combattere i padroni di casa che chiedono
affitti troppo alti, o che affittano case in pessimo stato, di fare in modo che
entro il 2030 non ci sia più nessuno senza casa, e soprattutto, di riconoscere
sfratti e sgomberi come “palesi violazioni dei diritti umani”. L’Ue chiede
di vietare “in ogni circostanza” gli sgomberi in cui chi viene cacciato di casa
non ottiene un appartamento alternativo (comma 29 della risoluzione). Sta
parlando di chi non riesce a pagare l’affitto, o ha smesso di pagare il mutuo,
o non ha alcun titolo di proprietà, o ha occupato le case. La risposta del
governo italiano? Un Decreto sicurezza che punisce
l’occupazione degli immobili con pene fino a sette anni di carcere,
considerando occupanti anche gli inquilini che non se ne vanno di casa quando
arriva l’ufficiale giudiziario. Eppure ce lo chiedeva l’Europa.
A febbraio 2024, inoltre, la Commissione
Onu per i diritti economici, sociali e culturali ha
pubblicato la prima risoluzione
definitiva su un
caso di occupazione a Roma (qui la traduzione
in italiano). Alla
fine degli anni Novanta cinque famiglie nordafricane avevano occupato e
ristrutturato un vecchio immobile del demanio, sui binari tra stazione Prenestina e
stazione Tiburtina. Abbandonato dopo la guerra, il manufatto
era diventato una crackhouse; gli “occupanti”
riempirono secchi e secchi di siringhe prima di iniziare i lavori per ricavarne
cinque case dignitose. Ci abitarono fino a ventiquattro persone, con una decina
di bambini; gli agenti della polizia locale si complimentarono con loro perché
li avevano aiutati a risolvere un problema del quartiere. Verso il 2009 arrivò
la notizia che Ferrovie dello Stato era entrata in possesso
dell’immobile (non è chiaro come) e ne esigeva lo sgombero. Il tribunale
stabilì che gli “occupanti” avevano più diritto di abitare nell’immobile che
Ferrovie di accamparne il possesso, poiché i primi avevano speso una gran
quantità di soldi ed energie per rimetterlo a nuovo. Più avanti un nuovo
processo diede ragione alla proprietà, che intanto era diventata Ferrovie
dello Stato Real Estate. Per quei giudici i profitti del real estate
contavano più del diritto a usare le case per la ragione per cui erano state
costruite, cioè per abitare.Per tutto il 2021, 2022 e 2023, il Movimento
per il diritto all’abitare, l’Assemblea di autodifesa dagli sfratti,
il sindacato Asia-Usb, organizzarono manifestazioni e
picchetti davanti alle cinque case, per ribadire il diritto degli occupanti a
rimanere lì, almeno fino a quando non avessero avuto un’alternativa dignitosa.
Con l’Assemblea di autodifesa dagli
sfratti aiutammo due delle cinque famiglie a inoltrare una comunicazione all’Alto
Commissariato Onu per i diritti umani, affermando che uno sgombero
senza alternative sarebbe stata una violazione del Patto internazionale sui
diritti economici, sociali e culturali. Le due famiglie furono tra le prime a
usare questo strumento, che a partire dal 2021 impiegarono
decine di altri inquilini e occupanti sotto sfratto in tutta Italia. Avevano
ragione: la Commissione dichiarò immediatamente che quegli sgomberi si
dovevano fermare e che gli autori delle comunicazioni
dovevano avere una casa. I tribunali fermarono il procedimento per poco più di
un anno; poi decisero di riprenderlo, violando la protezione internazionale
accordata dall’Onu alle famiglie e le loro case. Solo i picchetti
antisfratto continuarono a garantire il rispetto della legalità, impedendo
l’esecuzione di uno sgombero potenzialmente illegale. A febbraio 2024 è
arrivata la risoluzione
definitiva: le
famiglie non solo hanno diritto ad avere una casa dignitosa, se proprio devono
essere sgomberate; lo stato italiano deve anche compensarle economicamente,
vista la precarietà in cui le ha costrette a vivere per così tanto tempo.
La risoluzione definitiva dell’Alto
commissariato non dà alcuna importanza al fatto che queste famiglie siano
“occupanti illegali”; è lo sgombero, invece, a essere illegale. La Commissione considera
che uno Stato “commette una violazione del diritto all’alloggio, se prevede che
una persona che occupa un immobile senza titolo legale debba essere sfrattata
immediatamente, indipendentemente dalle circostanze” (par. 8.3). È vero,
riconosce l’Onu, che queste famiglie “non avevano alcun titolo legale”. Ma quello
che importa per la legge non è se o quanto punirle per questa mancanza, bensì
se il loro sfratto sia “necessario e proporzionato all’obiettivo perseguito, e
se lo Stato abbia tenuto conto delle conseguenze dello sfratto” (par. 10.1). La
Commissione prende in considerazione diversi elementi: che le famiglie hanno
chiesto la casa popolare per oltre dieci anni, senza nessun risultato; che
hanno dei bambini; che hanno fatto tutto il possibile per regolarizzare la loro
situazione; e anche, sorprendentemente, che lo sfratto non è “il risultato di
una richiesta di un individuo che aveva bisogno dell’alloggio come abitazione o
reddito vitale”, ma di una compagnia finanziaria che non ha nessuna necessità
vitale a quell’immobile. Come ogni altra cosa, sfratti e sgomberi non si
valutano sulla base di concetti astratti di legalità e illegalità, ma
soppesando attentamente le necessità e gli interessi di tutte le parti. La
conclusione è che lo sfratto di questi “occupanti” è una violazione del
“diritto a un alloggio adeguato” (par. 11.1).
Per la legge internazionale, non è
importante con quale titolo, o se c’è un titolo, per garantire il diritto
universale ad avere una casa. Quello che importa è che nessuno rimanga senza
casa. Illegali, inaccettabili, abusivi, illegittimi, sono i procedimenti di
sgombero che non tutelano questa necessità fondamentale, che non forniscono
soluzioni, e che condannano le persone a vivere senza un tetto. Nel film Il
tetto, di Vittorio De Sica, una famiglia senza
terra e senza soldi si costruisce una casa di notte, sapendo che se all’arrivo
della polizia la casa ha già un tetto costruito, non potrà cacciarli. Il
dibattito attuale sulle cosiddette “occupazioni illegali” sta cercando di
minare questo diritto consuetudinario che accompagna tutta la storia degli
insediamenti umani: ricchi e potenti possono appropriarsi delle terre, possono
recintare i pascoli e le foreste, ma chi non ha altra scelta che trasformare in
casa un pezzo di terra disabitato, deve avere il diritto di considerarlo casa
propria, indipendentemente dalla volontà del padrone, almeno fino a quando non
viene offerta un’alternativa.
Colin Ward ha ricostruito la “storia nascosta”
di questo diritto in Cotters and Squatters, un libro
del 2002. Le occupazioni di oggi, spiega, sono
eredi dirette dei cottage inglesi, costruiti “abusivamente” ma
legalmente, su terreni altrui, e che lo Stato non poteva abbattere, perché
erano a tutti gli effetti delle case abitate, anche se senza titolo. In questo
diritto hanno vissuto le baraccopoli del dopoguerra a Roma e Milano del
film di De Sica, gli asentamientos espontáneos in America
Latina, i karien in Marocco, gli ashwayat in Egitto, e
i gecekondu in Turchia, un termine che vuol
dire proprio “costruiti di notte”. È una consuetudine vitale, che precede le
normative urbanistiche, precede gli stati nazionali, precede le recinzioni
delle terre; queste istituzioni hanno il dovere di riconoscere la precedenza, e
di rispettarla.
Il “diritto di restare” che hanno gli
occupanti dei palazzi e delle case abbandonate, ha molti secoli di storia, e ha
permesso a milioni di persone in tutto il mondo di sopravvivere nonostante
l’assenza di politiche abitative statali. È il prodotto di un diritto
consuetudinario, la pratica di “abitare di notte” terreni e immobili
abbandonati, grazie al duro lavoro di trasformazione di spazi che nessuno usa
in case. È vero che chi entra in una casa popolare abbandonata deve farlo di
notte, di nascosto, come la coppietta di De Sica. È
comprensibile anche che questa azione possa destare preoccupazione o sconcerto
per chi ha la fortuna di non dovervi ricorrere. Ma quelle ormai sono case. Non
possono essere sgomberate, per legge, a meno che non venga offerta
un’alternativa. Eversivo è chi tenta di criminalizzare questo diritto per
aumentare i propri profitti.
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